giovedì 18 luglio 2013

Pienezza (Asso di Denari)


Questa figura si erge solitaria, silenziosa eppure pienamente all'erta. L'essere interiore è colmo di fiori che hanno la qualità della primavera e si rigenerano dovunque egli vada. Questa fioritura interiore e l'integrità che egli prova, gli permettono di muoversi senza alcun limite. Può muoversi in qualunque direzione - all'interno o all'esterno non fa alcuna differenza poiché la sua gioia e maturità non possono essere sminuite da fattori esterni. È arrivato a un tempo in cui si può espandere e centrare - l'alone bianco che lo circonda è insieme la sua luce e la sua protezione. Tutte le esperienze della vita l'hanno condotto a questo istante di perfezione. Quando prendi questa carta, sappi che questo momento porta con sé un dono, in compenso di un duro lavoro compiuto. Ora le tue basi sono solide e la buona sorte è tua, perché sono il risultato di ciò che hai sperimentato all'interno.

La distinzione tra l'erba e la fioritura è la stessa che esiste tra te che non sai di essere un buddha, e il momento in cui scopri di essere un buddha. Di fatto, non c'è modo di essere altrimenti. Buddha è una completa fioritura, è totalmente sbocciato. I suoi fiori di loto, i suoi petali, sono giunti a pienezza... Certo, essere tu stesso pregno di primavera è di gran lunga più bello delle gocce di rugiada autunnali che scivolano dalle foglie del loto. Questa è una delle cose più belle che si possano osservare: allorché le gocce di rugiada autunnali scivolano sulle foglie del loto, e risplendono all'alba simili a vere e proprie perle. Ovviamente, si tratta dell'esperienza di un istante. Col sorger del sole, quelle gocce evaporeranno. Questa bellezza momentanea di certo non può essere paragonata all'eterna primavera del tuo essere. Ti guardi alle spalle e, per quanto lontano possa arrivare il tuo sguardo, vedi che è sempre esistita. Guardi davanti a te e, per quanto lontano possa arrivare il tuo sguardo, resti sorpreso: è il tuo stesso essere. Ovunque ti trovi sarà con te, e i fiori continueranno a piovere su di te. Questa è la primavera spirituale!

free man in Tao


"The way I see it," he said
"You just can't win it..."
Everybody's in it for their own gain
You can't please 'em all
There's always somebody calling you down
I do my best
And I do good business
There's a lot of people asking for my time
They're trying to get ahead
They're trying to be a good friend of mine

I was a free man in Paris
I felt unfettered and alive
There was nobody calling me up for favors
And no one's future to decide
You know I'd go back there tomorrow
But for the work I've taken on
Stoking the star maker machinery
Behind the popular song

I deal in dreamers
And telephone screamers
Lately I wonder what I do it for
If l had my way
I'd just walk through those doors
And wander
Down the Champs Elysees
Going cafe to cabaret
Thinking how I'll feel when I find
That very good friend of mine

I was a free man in Paris
I felt unfettered and alive
Nobody was calling me up for favors
No one's future to decide
You know I'd go back there tomorrow
But for the work I've taken on
Stoking the star maker machinery
Behind the popular song.


mercoledì 17 luglio 2013

i grandi processi del Tao - IV


I GRANDI PROCESSI STOCASTICI.

5. NELL'EPIGENESI “DAL NULLA NASCE NULLA”.

Ho già osservato che l'epigenesi sta all'evoluzione come l'elaborazione di una tautologia sta al pensiero creativo. Nello sviluppo embriologico di una creatura non solo non vi è alcuna necessità di nuove informazioni o di cambiamenti di programma, ma l'epigenesi dev'essere in gran parte protetta dall'intrusione di nuove informazioni. Per ottenere ciò, il modo è quello di sempre. Lo sviluppo del feto dovrebbe seguire gli assiomi e i postulati depositati nel D.N.A. o altrove. Per usare i termini del capitolo 2, l'evoluzione e l'apprendimento sono necessariamente "divergenti" e imprevedibili, ma l'epigenesi dovrebbe essere convergente.
Ne segue che nel campo dell'epigenesi i casi in cui si avrà bisogno di nuove informazioni saranno rari e assai vistosi. Viceversa, vi potranno essere casi, quantunque patologici, in cui una mancanza o una perdita di informazione porta a gravi distorsioni dello sviluppo. In questo contesto, i fenomeni di simmetria e asimmetria offrono una ricca messe di esempi. Sotto questo aspetto le idee guida dell'embrione al suo primo stadio sono semplici e formali, sicch‚ la loro presenza o assenza è inconfondibile.
Gli esempi meglio conosciuti provengono dallo studio sperimentale dell'embriologia degli anfibi; qui discuterò alcuni fenomeni legati alla simmetria dell'uovo di rana. Ciò che si sa sulla rana vale probabilmente per tutti i vertebrati. Sembra che senza informazioni provenienti dal mondo esterno l'uovo di rana non fecondato non contenga le informazioni necessarie (cioè la "differenza" necessaria) per conseguire la simmetria bilaterale. L'uovo ha due poli differenziati: il polo "animale", dove predomina il protoplasma, e il polo "vegetale", dove predomina il tuorlo. Ma non vi è differenziazione tra i meridiani o linee di longitudine: in questo senso l'uovo ha una simmetria radiale.
La differenziazione dei poli animale e vegetale è stata sicuramente determinata dalla posizione dell'uovo nel tessuto follicolare o dal piano dell'ultima divisione cellulare nella produzione dei gameti; a sua volta, quel piano era stato probabilmente determinato dalla posizione occupata dalla cellula madre nel follicolo. Ma ciò non basta.
Senza una qualche differenziazione laterale tra i lati o meridiani dell'uovo non fecondato, questo non può 'sapere' o 'decidere' quale sarà il futuro piano mediano di simmetria della rana, che è dotata di simmetria bilaterale. L'epigenesi non può cominciare fino a quando un meridiano non è reso diverso da tutti gli altri. Per fortuna, sappiamo come viene fornita questa informazione cruciale: essa proviene, necessariamente, dal mondo esterno e consiste nel punto d'ingresso dello spermatozoo. Di solito lo spermatozoo entra nell'uovo un po' sotto l'equatore, e il meridiano che passa per i due poli e per il punto d'ingresso definisce il piano mediano della simmetria bilaterale della rana. La prima segmentazione dell'uovo segue questo meridiano, e il lato dell'uovo da cui entra lo spermatozoo diviene il lato ventrale della rana.
Inoltre, si sa che il messaggio occorrente non è contenuto nel D.N.A. o in altre parti complesse della struttura dello spermatozoo. Basta anche solo la puntura con una fibra di un pennello di peli di cammello: l'uovo si segmenterà e continuerà a svilupparsi, fino a diventare una rana adulta che salta e acchiappa le mosche. Naturalmente sarà aploide (cioè le mancherà metà del normale corredo cromosomico). Sarà sterile, ma per il resto sarà perfetta in tutto e per tutto.
A questo fine lo spermatozoo non è necessario: quello che serve è solo un "marcatore di differenza", quanto alla sua natura l'organismo non ha preferenze. Senza un qualche marcatore non vi sarà embrione. “Dal nulla nasce nulla”.
Ma la storia non finisce qui. La futura rana, anzi, già il giovanissimo girino, ha un'anatomia endodermica notevolmente asimmetrica. Come quasi tutti i vertebrati, la rana possiede una simmetria abbastanza precisa nell'ectoderma (pelle, cervello e occhi) e nel mesoderma (scheletro e muscoli dello scheletro), ma è fortemente asimmetrica nelle strutture endodermiche (intestino, fegato, pancreas, e così via). (Anzi, ogni creatura le cui anse intestinali si trovino in un piano diverso da quello mediano dev'essere asimmetrica sotto questo aspetto. Se osservate il ventre di un girino vedrete chiaramente, attraverso la pelle, l'intestino arrotolato su se stesso in una grande spirale).
Come è prevedibile, il "situs inversus" (cioè la condizione di simmetria inversa) si presenta nella rana, ma rarissimamente. Nella specie umana esso è ben noto e riguarda circa un individuo su un milione. Questi individui hanno lo stesso aspetto degli altri, ma all'interno essi sono alla rovescia: la parte destra del cuore alimenta l'aorta, mentre la sinistra alimenta i polmoni, e così via. Le cause di questa inversione non sono note, ma il fatto stesso che essa si presenti indica che l'asimmetria normale "non" è determinata dall'asimmetria delle molecole. Per invertire una parte qualunque dell'asimmetria chimica sarebbe necessario invertirle tutte, poichè‚ le molecole si devono adattare le une alle altre in modo corretto. L'inversione dell'intera chimica è impensabile e non potrebbe sopravvivere se non in un mondo invertito.
Resta quindi il problema della sorgente dell'informazione che determina l'asimmetria. Deve certamente esistere un'informazione che fornisce all'uovo istruzioni sull'asimmetria corretta (cioè statisticamente normale).
Per quanto ne sappiamo, dopo la fecondazione non vi è nessuna occasione in cui potrebbe essere fornita quest'informazione. L'ordine degli eventi è: primo, l'espulsione dalla madre, poi la fecondazione; dopo di che l'uovo è protetto da una massa gelatinosa per tutto il periodo della segmentazione e del primo sviluppo dell'embrione. In altre parole, l'uovo deve contenere l'informazione necessaria a determinare l'asimmetria già "prima" della fecondazione. Che forma deve avere questa informazione?
Nella discussione sulla natura della spiegazione, nel capitolo 2, ho osservato che nessun dizionario è in grado di definire le parole "destra" o "sinistra", cioè nessun sistema discreto arbitrario può risolvere la questione: l'informazione dev'essere ostensiva. Ora abbiamo la possibilità di scoprire come questo stesso problema viene risolto dall'uovo.
Credo che, in linea di principio, vi possa essere soltanto un genere di soluzione (e spero che qualcuno con un microscopio elettronico a scansione ne ricerchi le prove). La risposta deve trovarsi nell'uovo prima della fecondazione, e perciò dev'essere in forma tale da poter determinare la stessa asimmetria "qualunque sia il meridiano segnato dall'ingresso dello spermatozoo". Ne segue che ciascun meridiano, quale che sia la sua posizione, dev'essere asimmetrico e che tutti devono essere asimmetrici nello stesso senso.
Questa condizione è soddisfatta nel modo più semplice da una qualche sorta di "spirale di relazioni non quantitative o vettoriali". Tale spirale intersecherà ciascun meridiano obliquamente determinando in ciascuno la stessa differenza tra est e ovest.
Un problema simile sorge nella differenziazione degli arti bilaterali. Il mio braccio destro è un oggetto asimmetrico e un'immagine speculare formale del sinistro. Ma esistono alcuni rari individui mostruosi che hanno due braccia o un braccio biforcuto su un lato del corpo. In questi casi la coppia costituisce un sistema a simmetria bilaterale. Un componente sarà un braccio destro e l'altro un braccio sinistro ed essi saranno in posizione tale da costituire un'immagine speculare. Questa osservazione generale fu enunciata per la prima volta da mio padre intorno al 1890 e per molto tempo fu nota come "regola di Bateson". Egli riuscì a dimostrare la validità della sua regola in quasi tutti i phyla di animali attraverso una ricerca compiuta in tutti i musei e in molte collezioni private d'Europa e d'America. In particolare raccolse un centinaio di casi di siffatte aberrazioni nelle zampe dei coleotteri.
Io riesaminai questa faccenda, e dai dati originali di mio padre conclusi che egli aveva sbagliato a chiedersi: che cos'ha determinato questa ulteriore simmetria? Avrebbe dovuto chiedersi: che cos'ha determinato la "perdita" di asimmetria? Avanzai l'ipotesi che le forme mostruose fossero prodotte da una "perdita o dimenticanza" di informazione. La simmetria bilaterale richiede più informazione della simmetria radiale e l'asimmetria richiede più informazione della simmetria bilaterale. L'asimmetria di un arto laterale, per esempio di una mano, richiede un giusto orientamento in tre direzioni: la direzione verso il dorso della mano dev'essere diversa da quella verso il palmo; la direzione verso il pollice dev'essere diversa da quella verso il mignolo; la direzione verso il gomito dev'essere diversa da quella verso le dita. Queste tre direzioni devono essere combinate in modo corretto per costruire una mano "destra" invece di una mano "sinistra". Se una delle direzioni viene invertita, come quando la mano è riflessa in uno specchio, ne risulta un'immagine rovesciata. Ma se una delle tre differenziazioni è "perduta o dimenticata", l'arto potrà raggiungere solo la simmetria bilaterale.
In questo caso il postulato “dal nulla nasce nulla” diventa un po' più complesso: dall'asimmetria nasce la simmetria bilaterale quando viene perduta una discriminazione.













martedì 16 luglio 2013

Tao Paradoxico-Philosophicus 5-6



    Un dieu donne le feu     
     Pour faire l'enfer;      
      Un diable, le miel     
       Pour faire le ciel.  
   



TRACTATUS PARADOXICO-PHILOSOPHICUS

5 The logical perspective: from this perspective one or more observers distinguish an organizationally closed unity from its cognitive domain, thereby adopting the logical dichotomy: the distinguished organizationally closed unity or the distinguished cognitive domain, one or the other.
5.1 For these observers, dimensions (e.g., space, time) emerge together with this distinction.
5.11 So do a processor (the distinguished organizationally closed unity) and an environment (the distinguished cognitive domain).
5.12 For these observers, however, these distinctions appear as “discoveries” (of dimensions, processor and environment) to share with other observers adopting a logical perspective, in a world a priori “out there” and as free of paradoxes as possible.
5.2 If these observers attempt to “explain” the processor, it will appear to them as an open organization (with inputs, outputs, divisions and parts) made of processes (events in time) that produce components (objects in space), but no longer organizationally closed.
5.21 The organizations that constitute the environment of the processor also appear open, with outputs and inputs that match the inputs and outputs of the processor.



6 The paradoxical perspective: from this perspective, one or more observers do not distinguish the organizationally closed unity from its cognitive domain such that the unity and its cognitive domain appear to these observers as a paradoxical continuum or as a paradoxical context.
6.01 For these observers, dimensions, processor and the environment vanish.
6.1 Since a paradoxical perspective implies a paradoxical and logical perspective, these same observers may make tentative distinctions in this paradoxical context as attempts at distinguishing a world “in and out there” to share, at least in part, with other observers.
6.11 This world “in and out there” welcomes paradoxes.
6.12 The paradoxical context (the unity and its cognitive domain) remains untouched and ready for new attempts.
6.2 Paradoxes (paradoxical perspective): consider self-referential sets of different, even conflicting, possibilities such that they blend into each other dissolving their differences and conflicts.
6.3 Logics (logical perspective): consider non self-referential sets of conflicting possibilities that exclude each other without solving their differences and conflicts.

Tractatus Paradoxico-Philosophicus

A Philosophical Approach to Education
Un Acercamiento Filosófico a la Educación
Une Approche Philosophique à l'Education
Eine Philosophische Annäherung an Bildung

Ricardo B. Uribe

Copyright © by a collaborating group of people including the author, editing consultants, translators, and printers. All rights reserved.





Tao Paradoxico-Philosophicus 3-4

lunedì 15 luglio 2013

carattere del Tao nazionale - I


MORALE E CARATTERE NAZIONALE*

* Questo saggio apparve in Civilian Morale, a cura di Goodwin Watson, proprietà letteraria della Sodety for Psychological Study of Social Issues, 1942. Viene qui ripubblicato per concessione dell'editore. Parte del materiale introduttivo è stata espunta.

Procederemo così: l. Esamineremo le critiche che si possono fare a chi volesse proporre un qualsiasi concetto di 'carattere nazionale'. 2. Questo esame ci permetterà di stabilire certi limiti concettuali entro i quali l'espressione 'carattere nazionale' è verosimilmente valida. 3. Passeremo poi, entro questi limiti, a delineare quali ordini di differenze possiamo aspettarci di trovare tra le nazioni occidentali, cercando anche, a scopo illustrativo, di individuare più concretamente alcune di queste differenze. 4. Infine esamineremo come sui problemi del morale collettivo e sulle relazioni internazionali influiscano differenze di quest' ordine.

OSTACOLI A UN QUALSIASI CONCETTO DI 'CARATTERE NAZIONALE'

Gli scienziati sono stati dissuasi dall'indagare su questioni di questo genere da numerose riflessioni, che li hanno portati a considerarle inutili o infondate. Pertanto, prima di arrischiare una qualsiasi opinione costruttiva nei confronti dell'entità delle differenze che ci si deve aspettare di trovare tra le popolazioni europee, dobbiamo esaminare queste riflessioni dissuasive.
In primo luogo si sostiene che sono non le persone, bensì le circostanze in cui esse vivono, che differiscono da una comunità all'altra; che abbiamo inevitabilmente a che fare con differenze nei precedenti storici o nelle condizioni attuali e che questi fattori sono sufficienti a spiegare tutte le differenze di comportamento, senza che si debbano invocare differenze di carattere negli individui considerati. In sostanza questo argormento è un richiamo al rasoio di Ockham, principio secondo cui non si debbono moltiplicare gli enti più di quanto sia necessario. L'argomento consiste nell'affermare che quando esistano differenze osservabili nelle circostanze, dovremmo chiamare in causa queste, piuttosto che differenze solo inferite nel carattere, le quali non sono osservabili.
A questo ragionamento si può in parte controbattere citando dati sperimentali, come le esperienze di Lewin (materiale non pubblicato), le quali misero in luce le grandi differenze nel modo in cui i tedeschi e gli americani reagivano all'insuccesso nel corso di un'esperienza: gli americani consideravano l'insuccesso come un incitamento ad accrescere i loro sforzi; la reazione dei tedeschi allo stesso insuccesso era lo scoraggiamento. Tuttavia coloro che sostengono l'influenza delle condizioni piuttosto che del carattere possono sempre replicare che le condizioni sperimentali non sono, in realtà, le stesse per i due gruppi; che il valore di stimolo di una qualsiasi circostanza dipende da come quella circostanza si staglia sullo sfondo di altre circostanze nella vita del soggetto, e che questo contrasto non può essere lo stesso per i due gruppi.
È possibile, in effetti, sostenere che, poiché per individui di formazione culturale diversa non si presentano mai le stesse circostanze, è superfluo invocare astrazioni come il carattere nazionale. Questo argomento non tiene più, io credo, quando si osservi che, dando importanza alle circostanze piuttosto che al carattere, si verrebbe a ignorare ciò che sappiamo sull'apprendimento. Forse la generalizzazione meglio documentata nel campo della psicologia è che, ad ogni dato istante, le caratteristiche di comportamento di ogni mammifero, e specialmente dell'uomo, dipendono dall'esperienza e dal comportamento precedenti di quell'individuo. Di conseguenza, quando si presume che, oltre le circostanze, anche il carattere debba essere tenuto in considerazione, non si moltiplicano gli enti più di quanto sia necessario; sulla base di altri tipi di dati, noi conosciamo l'importanza del carattere appreso, ed è questa conoscenza che ci spinge a considerare l"ente' supplementare.
Un secondo ostacolo all'accettazione della nozione di 'carattere nazionale' sorge una volta che sia stato discusso il primo. Coloro che concedono che si possa parlare di carattere nazionale possono ancora dubitare che all'interno di quel campione di esseri umani che è una nazione possa verosimilmente vigere una qualunque uniformità o regolarità. Concediamo subito che ovviamente l'uniformità non esiste, e chiediamoci che sorta di regolarità ci si possa attendere.
La critica cui stiamo cercando di controbattere può verosimilmente assumere cinque forme. 1. Il critico può far rilevare sia la presenza di differenziazione subculturale, sia le differenze tra i sessi, o tra le classi, o tra gruppi professionali all'interno della comunità. 2. Egli può far rilevare l'estrema eterogeneità e confusione di norme culturali che si può osservare nelle' comunità-crogiolo'. 3. Può citare il caso dei devianti accidentali, cioè di quegli individui che hanno subìto qualche esperienza traumatica 'accidentale', insolita per gli appartenenti alloro ambiente sociale. 4. Può far presenti i fenomeni del cambiamento culturale, e specialmente quel genere di differenziazione che nasce quando una parte della comunità ha una velocità di cambiamento minore rispetto a un'altra. 5. Infine, il critico può far presente la natura arbitraria dei confini nazionali.
Queste obiezioni sono strettamente connesse, e le risposte a tutte derivano in ultima analisi da due postulati: primo, che dal punto di vista sia fisiologico sia psicologico l'individuo è una singola entità organizzata, tale che tutte le sue 'parti' o 'aspetti' sono reciprocamente modificabili e reciprocamente interagenti; secondo, che una comunità è del pari organizzata in questo senso.
Se consideriamo una differenziazione sociale in una qualche comunità stabile - diciamo, per esempio, la differenziazione tra i sessi in una tribù della Nuova Guinea - vediamo che non è sufficiente dire che il sistema delle abitudini o la struttura dei caratteri di un sesso sono diversi da quelli dell'altro. Il punto significativo è che il sistema delle abitudini di ciascun sesso ingrana col sistema di abitudini dell'altro; che il comportamento dell'uno promuove le abitudini dell'altro.2 Così per esempio si ritrovano tra i sessi strutture complementari, come ammirazione-esibizionismo, autorità-sottomissione e assistenza-dipendenza, o combinazioni di queste. Fra tali gruppi non è mai dato di osservare reciproca irrilevanza.
Benché sia purtroppo vero che molto poco si sa sui termini della differenziazione delle abitudini tra classi, sessi, gruppi professionali, ecc., esistenti nelle nazioni occidentali, non credo sia arrischiato applicare questa conclusione generale a tutti i casi di differenziazione stabile tra gruppi che vivono a contatto reciproco. Per me è inconcepibile che due gruppi differenti possano coesistere fianco a fianco in una comunità senza che vi sia un qualche rapporto tra le caratteristiche particolari di un gruppo e quelle dell'altro; una tale evenienza sarebbe contraria al postulato che una comunità è un'unità organizzata. Presumeremo pertanto che tale generalizzazione valga per tutte le differenziazioni stabili.
Ora, tutto ciò che sappiamo sul meccanismo della formazione del carattere - specialmente i processi di proiezione, formazione delle reazioni, compensazione e simili - ci porta a ritenere che queste strutture bipolari siano unitarie all'ìnterno dell'individuo. Se sappiamo che un individuo è abituato a esprimere palesemente metà di una di queste strutture, per esempio un comportamento autoritario, possiamo arguire con sicurezza (anche se non in termini precisi) che nella sua personalità sono allo stesso tempo contenuti i germi dell'altra metà, cioè della sottomissione. Si deve infatti ritenere che questo individuo sia abituato al binomio autorità-sottomissione, e non all'autorità o alla sottomissione soltanto. Da ciò segue che, trattando della differenziazione stabile all'interno di una comunità, siamo autorizzati ad ascrivere un carattere comune ai membri di quella comunità, purché si abbia cura di descrivere quel carattere comune nei termini dei temi di relazione tra le sezioni differenziate della comunità.
Considerazioni dello stesso tipo ci guideranno nel replicare alla seconda critica - gli estremi di eterogeneità che si manifestano nelle moderne 'comunità-crogiolo'. Supponiamo di tentare un'accurata analisi di tutti i temi di relazione tra individui e gruppi in una comunità come la città di New York; se non finissimo in manicomio assai prima di completare questo studio, dovremmo arrivare a un quadro del carattere comune che sarebbe quasi infinitamente complesso, e che comunque conterrebbe differenziazioni più sottili di quelle che la psiche umana è in grado di risolvere in se stessa. A questo punto saremmo quindi costretti, sia noi sia gli individui che stiamo studiando, a prendere una scorciatoia: a trattare cioè 1'eterogeneità come una caratteristica positiva, sui generis, dell'ambiente comune. Quando, sulla base di quest'ipotesi, cominciamo a ricercare i temi comuni del comportamento, ci accorgiamo delle chiarissime tendenze a gloriarsi dell'eterogeneità per l'eterogeneità (come nella Ballad far Amencans di Robinson-Latouche) e a ritenere il mondo costituito da un'infinità di pezzetti di indovinello slegati (come il Believe It or Not di Ripley).
La terza obiezione, il caso degli individui devianti, rientra nello stesso sistema di correlazione della differenziazione dei gruppi stabili. Il ragazzo su cui l'educazione di una scuola privata inglese non fa presa, anche se le radici prime della sua deviazione risalgono a qualche awenimento traumatico 'accidentale', reagisce proprio al sistema della scuola privata. Le abitudini di comportamento che egli acquisisce possono non seguire le norme che la scuola intende stabilire, ma sono acquisite proprio come reazione a quelle norme. Egli può acquisire (e spesso acquisisce) strutture esattamente opposte a quelle normali, ma non è concepibile che acquisisca strutture non correlate. Egli può diventare un 'cattivo' allievo di scuola privata inglese, può diventare pazzo, tuttavia le sue caratteristiche devianti saranno correlate in modo sistematico alle norme alle quali egli si ribella. In effetti si può descrivere il suo carattere dicendo che esso è correlato in modo sistematico al carattere scolastico tipo, così come il carattere degli indigeni iatmul di un sesso è correlato in modo sistematico al carattere dell'altro sesso. Il suo carattere è orientato secondo i temi e le strutture di relazione esistenti nella società in cui vive.
Lo stesso sistema di correlazione vale per la quarta osservazione, quella relativa ai cambiamenti delle comunità e al genere di differenziazione che si produce quando una parte della comunità cambia meno rapidamente di un'altra. Poiché la direzione in cui si produce un cambiamento sarà necessariamente condizionata dallo status quo ante, le nuove strutture, essendo una reazione alle vecchie, saranno correlate a quelle in modo sistematico. Finché ci limitiamo ai termini e ai temi di questa relazione sistematica, avremo quindi il diritto di aspettarci una regolarità di carattere negli individui. Inoltre l'aspettazione e l'esperienza del cambiamento possono, in alcuni casi, essere tanto importanti da divenire un fattore comune sui generis nella determinazione del carattere, allo stesso modo in cui l' "eterogeneità' può avere effetti positivi.
Infine possiamo considerare quei casi in cui i confini nazionali subiscono spostamenti, la nostra quinta critica. E ovvio che non ci si può aspettare che la firma di un diplomatico su un trattato modifichi di colpo i caratteri degli individui la cui cittadinanza viene così a cambiare. Può addirittura accadere (quando, per esempio, una popolazione indigena a livello pre-letterario venga per la prima volta portata a contatto con europei) che, per un certo tempo dopo il fatto, i due protagonisti della situazione si comportino in modo esplorativo e senza una regola, ciascuno di essi conservando le sue norme, e senza ancora manifestare alcun adattamento particolare alla situazione di contatto. Durante questo periodo non ci si devono ancora aspettare generalizzazioni che valgano per entrambi i gruppi. Assai presto, tuttavia, sappiamo che ciascuna parte manifesta strutture speciali di comportamento da impiegare nei suoi contatti con l'altra. A questo punto acquista senso chiedersi quali termini sistematici di relazione descriveranno il carattere comune dei due gruppi; e, da questo punto in poi, il livello della struttura del carattere comune aumenterà fino a che i due gruppi giungeranno a correlarsi l'uno con l'altro proprio come due classi o i due sessi in una società stabile e differenziata.
Insomma, a coloro che sostengono che le comunità umane manifestano una differenziazione interna troppo spiccata, o contengono una componente casuale troppo cospicua perché possa essere valida qualsiasi nozione di carattere comune, vorremmo rispondere che noi riteniamo invece utile tale nozione, a) purché si descriva il carattere comune in termini di relazioni tra gruppi e individui all'interno della comunità, e b) purché si conceda alla comunità abbastanza tempo perché essa possa raggiungere un certo grado di equilibrio, oppure possa accettare tanto il cambiamento quanto l'eterogeneità come una caratteristica del suo ambiente umano.

giovedì 11 luglio 2013

Tao incarnato


La ricerca di una via di mezzo per la descrizione della coscienza nella prospettiva enazionista porta a riconsiderare la prospettiva della cognizione come azione incarnata:

Enaction: Embodied Cognition

Cognition as Embodied Action

Let us begin, once again, with visual perception. Consider the question, "Which came first, the world or the image?" The answer of most vision research-both cognitivist and connectionist-is unambiguously given by the names of the tasks investigated. Thus researchers speak of "recovering shape from shading," "depth from motion," or "color from varying illuminants." We call this stance the chicken position:

Chicken position: The world out there has pregiven properties. These exist prior to the image that is cast on the cognitive system, whose task is to recover them appropriately (whether through symbols or global subsymbolic states).
Notice how very reasonable this position sounds and how difficult it is to imagine that things could be otherwise. We tend to think that the only alternative is the egg position:
Egg position: The cognitive system projects its own world, and the apparent reality of this world is merely a reflection of internal laws of the system.
Our discussion of color suggests a middle way between these two chicken and egg extremes. We have seen that colors are not "out there" independent of our perceptual and cognitive capacities. We have also seen that colors are not "in here" independent of our surrounding biological and cultural world. Contrary to the objectivist view, color categories are experiential; contrary to the subjectivist view, color categories belong to our shared biological and cultural world. Thus color as a study case enables us to appreciate the obvious point that· chicken and egg, world and perceiver, specify each other.
It is precisely this emphasis on mutual specification that enables us to negotiate a middle path between the Scylla of cognition as the recovery of a pregiven outer world (realism) and the Charybdis of cognition as the projection of a pregiven inner world (idealism). These two extremes both take representation as their central notion: in the first case representation is used to recover what is outer; in the second case it is used to project what is inner. Our intention is to bypass entirely this logical geography of inner versus outer by studying cognition not as recovery or projection but as embodied action.
Let us explain what we mean by this phrase embodied action. By using the term embodied we mean to highlight two points: first, that cognition depends upon the kinds of experience that come from having a body with various sensorimotor capacities, and second, that these individual sensorimotor capacities are themselves embedded in a more encompassing biological, psychological, and cultural context. By using the term action we mean to emphasize once again that sensory and motor processes, perception and action, are fundamentally inseparable in lived cognition. Indeed, the two are not merely contingently linked in individuals; they have also evolved together.
We can now give a preliminary formulation of what we mean by enaction. In a nutshell, the enactive approach consists of two points: (1) perception consists in perceptually guided action and (2) cognitive structures emerge from the recurrent sensorimotor patterns that enable action to be perceptually guided. These two statements will perhaps appear somewhat opaque, but their meaning will become more transparent as we proceed.
Let us begin with the notion of perceptually guided action. We have already seen that for the representationist the point of departure for understanding perception is the information-processing problem of recovering pregiven properties of the world. In contrast, the point of departure for the enactive approach is the study of how the perceiver can guide his actions in his local situation. Since these local situations constantly change as a result of the perceiver's activity, the reference point for understanding perception is no longer a pregiven, perceiver-independent world but rather the sensorimotor structure of the perceiver (the way in which the nervous system links sensory and motor surfaces). This structure-the manner in which the perceiver is embodied-rather than some pregiven world determines how the perceiver can act and be modulated by environmental events. Thus the overall concern of an enactive approach to perception is not to determine how some perceiver-independent world is to be recovered; it is, rather, to determine the common principles or lawful linkages between sensory and motor systems that explain how action can be perceptually guided in a perceiver-dependent world.

This approach to perception was in fact among the central insights of the analysis undertaken by Merleau-Ponty in his early work. It is therefore worthwhile to quote one of his more visionary passages in full:
The organism cannot properly be compared to a keyboard on which the external stimuli would play and in which their proper form would be delineated for the simple reason that the organism contributes to the constitution of that form .... "The properties of the object and the intentions of the subject . . . are not only intermingled; they also constitute a new whole." When the eye and the ear follow an animal in flight, it is impossible to say "which started first" in the exchange of stimuli and responses. Since all the movements of the organism are always conditioned by external influences, one can, if one wishes, readily treat behavior as an effect of the milieu. But in the same way, since all the stimulations which the organism receives have in tum been possible only by its preceding movements which have culminated in exposing the receptor organ to external influences, one could also say that behavior is the first cause of all the stimulations.
Thus the form of the excitant is created by the organism itself, by its proper manner of offering itself to actions from the outside. Doubtless, in order to be able to subsist, it must encounter a certain number of physical and chemical agents in its surroundings. But it is the organism itself-according to the proper nature of its receptors, the thresholds of its nerve centers and the movements of the organs-which chooses the stimuli in the physical world to which it will be sensitive. "The environment (Umwelt) emerges from the world through the actualization or the being
of the organism-[granted that] an organism can exist only if it succeeds in finding in the world an adequate environment." This would be a keyboard which moves itself in such a way as to offer-and according to variable rhythms-such or such of its keys to the in itself monotonous action of an external hammer
[italics added].
In such an approach, then, perception is not simply embedded within and constrained by the surrounding world; it also contributes to the enactment of this surrounding world. Thus as Merleau-Ponty notes, the organism both initiates and is shaped by the environment. Merleau-Ponty clearly recognized, then, that we must see the organism and environment as bound together in reciprocal specification and selection.
Let us now provide a few illustrations of the perceptual guidance of action. In a classic study, Held and Hein raised kittens in the dark and exposed them to light only under controlled conditions. A first group of animals was allowed to move around normally, but each of them was harnessed to a simple carriage and basket that contained a member of the second group of animals. The two groups therefore shared the same visual experience, but the second group was entirely passive. When the animals were released after a few weeks of this treatment, the first group of kittens behaved normally, but those who had been carried around behaved as if they were blind: they bumped into objects and fell over edges. This beautiful study supports the enactive view that objects are not seen by the visual extraction of features but rather by the visual guidance of action.

Lest the reader feel that this example is fine for cats but removed from human experience, consider another case. Bach y Rita has designed a video camera for blind persons that can stimulate multiple points in the skin by electrically activated vibration. Using this technique, images formed with the camera were made to correspond to patterns of skin stimulation, thereby substituting for the visual loss. Patterns projected on to the skin have no "visual" content unless the individual is behaviorally active by directing the video camera using head, hand, or body movements. When the blind person does actively behave in this way, after a few hours of experience a remarkable emergence takes place: the person no longer interprets the skin sensations as body related but as images projected into the space being explored by the bodily directed "gaze" of the video camera. Thus to experience "real objects out there," the person must actively direct the camera (by head or hand).
Another sensory modality where the relation between perception and action can be seen is olfaction. Over many years of research, Walter Freeman has managed to insert an array of electrodes into the olfactory bulb of a rabbit so that a small portion of the global activity can be measured while the animal behaves freely. He found that there is no clear pattern of global activity in the bulb unless the animal is exposed to one specific odor several times. Furthermore, such emergent patterns of activity seem to be created out of a background of incoherent or chaotic activity into a coherent attractor.49 As in the case of color, smell is not a passive mapping of external features but a creative form of enacting significance on the basis of the animal's embodied history.
There is in fact growing evidence that this kind of fast dynamics can underlie the configuration of neuronal ensembles. It has been reported in the visual cortex in cats and monkeys linked to visual stimulation; it has been found in radically different neural structures such as the avian brain and even the ganglia of an invertebrate, Hermissenda. This universality is important, for it indicates the fundamental nature of this kind of mechanism of sensorimotor coupling and hence enaction. Had this kind of mechanism been a more species-specific process, typical of, say, only the mammalian cortex, it would have been be far less convincing as a working hypothesis.
Let us now tum to the idea that cognitive structures emerge from the kinds of recurrent sensorimotor patterns that enable action to be perceptually guided. The pioneer and giant in this area is Jean Piaget.

Piaget laid out a program that he called genetic epistemology: he set himself the task of explaining the development of the child from an immature biological organism at birth to a being with abstract reason in adulthood. The child begins with only her sensorimotor system, and Piaget wishes to understand how sensorimotor intelligence evolves into the child's conception of an external world with permanent objects located in space and time and into the child's conception of herself as both an object among other objects and as an internal mind. Within Piaget's system, the newborn infant is neither an objectivist nor an idealist; she has only her own activity, and even the simplest act of recognition of an object can be understood only in terms of her own activity. Out of this, she must construct the entire edifice of the phenomenal world with its laws and logic. This is a clear example in which cognitive structures are shown to emerge from recurrent patterns (in Piaget's language, "circular reactions") of sensorimotor activity.
Piaget, however, as a theorist, never seems to have doubted the existence of a pregiven world and an independent knower with a pregiven logical endpoint for cognitive development. The laws of cognitive gevelopment, even at the sensorimotor stage, are an assimilation of and an accommodation to that pregiven world. We thus have an interesting tension in Piaget's work: an objectivist theorist who postulates his subject matter, the child, as an enactive agent, but an enactive agent who evolves inexorably into an objectivist theorist. Piaget's work, already influential in some domains, would bear more attention from non-Piagetians.
One of the most fundamental cognitive activities that all organisms perform is categorization. By this means the uniqueness of each experience is transformed into the more limited set of learned, meaningful categories to which humans and other organisms respond. In the behaviorist era of psychology (which was also the heyday of cultural relativism in anthropology), categories were treated as arbitrary, and categorization tasks were used in psychology only to study the laws of learning. (The sense of arbitrariness also reflects the subjectivist trends in contemporary thought that emphasize the element of interpretation in all experience.) In the enactive view, although mind and world arise together in enaction, their manner of arising in any particular situation is not arbitrary. Consider the object on which you are sitting, and ask yourself what it is. What is its name? If you are sitting on a chair, the chances are that you will have thought chair rather than furniture or armchair. Why? Rosch proposed that there was a basic level of categorization in taxonomies of concrete objects at which biology, culture, and cognitive needs for informativeness and economy all met. In a series of experiments, Rosch et al. found the basic level of categorization to be the most inclusive level at which category members (1) are used, or interacted with, by similar motor actions, (2) have similar perceived shapes and can be imaged, (3) have identifiable humanly meaningful attributes, (4) are categorized by young children, and (5) have linguistic primacy (in several senses).
The basic level of categorization, thus, appears to be the point at which cognition and environment become simultaneously enacted. The object appears to the perceiver as affording certain kinds of interactions, and the perceiver uses the objects with his body and mind in the afforded manner. Form and function, normally investigated as opposing properties, are aspects of the same process, and organisms are highly sensitive to their coordination. And the activities performed by the perceiver/actor with basic-level objects are part of the cultural, consensually validated forms of the life of the community in which the human and the object are situated-they are basic-level activities.

Mark Johnson proposed another very intriguing basic categorization process. Humans, he argues, have very general cognitive structures called kinesthetic image schemas: for example, the container schema, the part-whole schema, and the source-path-goal schema. These schemas originate in bodily experience, can be defined in terms of certain structural elements, have a basic logic, and can be metaphorically projected to give structure to a wide variety of cognitive domains. Thus, the container schema's structural elements are "interior, boundary, exterior," its basic logic is "inside or outside," and its metaphorical projection gives structure to our conceptualizations of the visual field (things go in and out of sight), personal relationships (one gets in or out of a relationship), the logic of sets (sets contain their members), and so on.
On the basis of a detailed study of these kinds of examples, Johnson argues that image schemas emerge from certain basic forms of sensorimotor activities and interactions and so provide a preconceptual structure to our experience. He argues that since our conceptual understanding is shaped by experience, we also have image-schematic concepts. These concepts have a basic logic, which imparts structure to the cognitive domains into which they are imaginatively projected. Finally, these projections are not arbitrary but are accomplished through metaphorical and metonymical mapping procedures that are themselves motivated by the structures of bodily experience.

Sweetzer provides specific case studies of this process in linguistics. She argues that historical changes of meaning of words in languages can be explained as metaphorical extensions from the concrete and bodily relevant senses of basic-level categories and image schemas to more abstract meanings--for example, "to see" comes to mean "to understand."
Focusing on categorization, Lakoff has written a compendium of the work that various people have done that can be interpreted to challenge an objectivist viewpoint.

Recently Lakoff and Johnson have produced a manifesto of what they call an experientialist approach to cognition. This is the central theme of their approach:
Meaningful conceptual structures arise from two sources: (1) from the structured nature of bodily and social experience and (2) from our innate capacity to imaginatively project from certain well-structured aspects of bodily and interactional experience to abstract conceptual structures. Rational thought is the application of very general cognitive processes-focusing, scanning, superimposition, figure-ground reversal, etc.-to such structures.
This statement would seem consonant with the view of cognition as enaction for which we are arguing.
One provocative possible extension of the view of cognition as enaction is to the domain of cultural knowledge in anthropology. Where is the locus of cultural knowledge such as folktales, names for fishes, jokes-is it in the mind of the individual? In the rules of society? In cultural artifacts? How can we account for the variation found across time and across informants? Great leverage for anthropological theory might be obtained by considering the knowledge to be found in the interface between mind, society, and culture rather than in one or even in all of them. The knowledge does not preexist in anyone place or form but is enacted in particular situations-when a folktale is told or a fish named. We leave it to anthropology to explore this possibility.
Heideggerian Psychoanalysis
A view of psychopathology fundamentally different from either the Freudian approach or object relations theory was offered by Karl Jaspers, Ludwig Binswagner, and Merleau-Ponty based on the philosophy of Heidegger.
Intended to account for psychological disorders more general, more characterological, than the hysterical and compulsive symptomatology in which Freudian analysis specializes, this account can be dubbed the ontological view to contrast with Freud's representational, cognitivist, epistemological view. In the ontological view, a character disorder can be understood only in terms of a person's entire mode of being in the world. A theme, such as inferiority and dominance, which is usually only one dimension among many used by an individual in defining his world, becomes fixated, through an early experience, such that it becomes the only mode through which the person can experience himself in the world. It becomes like the light by which objects are seen-the light itself cannot be seen as an object-and thus there is no comparison possible with other modes of being in the world. Existential psychoanalysis has extended this type of analysis to pathologies other than character disorders at the same time that it has recharacterized so-called pathologies as existential choices.
The extent to which this phenomenological portrait of pathology lacks any specific methods of its own for treatment is well known, however. The patient might attempt to recall the initial incidents that produced the totalizing of one theme, enact and work through this theme through transference with the therapist, or undergo body work to discover and alleviate the embodied stance of the theme-all, however, are equally characteristic of therapies in which the disorder is conceived in a Freudian, object relations, or other theoretical fashion.
The possibilities for total personal reembodiment inherent in the mindful, open-ended approach to experience that we have been describing may provide the needed framework and tools for implementation of an existential, embodied psychoanalysis. In fact, the relationship between meditation practice, Buddhist teachings, and therapy is a topic of great interest and great controversy among Western mind fullness/awareness practitioners.
Psychological therapy in the Western sense is a historically and culturally unique phenomenon ; there is no specific counterpart within traditional Buddhism. Many Western meditators (whether they consider themselves students of Buddhism or not) either are therapists or are considering becoming therapists, and many more have the experience of undergoing therapy. But again, we must remind the reader of our disclaimer concerning what is said in this book about psychoanalysis. An adequate discussion of this ferment would lead us too far afield at this point , but we invite the reader to consider what form a reembodying psychoanalysis might take.

martedì 9 luglio 2013

Tao italiano


In questo secolo presente, sia per l'incremento dello scambievole commercio e dell'uso de' viaggi, sia per quello della letteratura, e per l'enciclopedico che ora è d'uso, sicché ciascuna nazione vuol conoscere più a fondo che può le lingue, letterature e costumi degli altri popoli, sia per la scambievole comunione di sventure che è stata fra' popoli civili, sia perché la Francia abbassata dalle sue perdite, e l'altre nazioni parte per le vittorie, parte per l'aumento della coltura e letteratura di ciascheduna sollevandosi, si è introdotta fra le nazioni d'Europa, una specie d'uguaglianza di riputazione sì letteraria e civile che militare, laddove per lo passato da' tempi di Luigi XIV, cioè dall'epoca della diffusa e stabilita civiltà europea, tutte le nazioni avevano spontaneamente ceduto di onore alla Francia che tutte le dispregiava; per qualcuna o per tutte queste cagioni le nazioni civili d'Europa, cioè principalmente la Germania, l’Inghilterra e la Francia stessa hanno deposto (forse anche pel progresso dei lumi e dello spirito filosofico e ragionatore che accresce i lumi e calma le passioni ed introduce uno abito di moderazione; e altresì per l'affievolimento stesso dell'amore e fervor nazionale, e generalmente di tutte le passioni degli uomini hanno, dico, deposto gran parte degli antichi pregiudizi nazionali sfavorevoli ai forestieri, dell’animosità, dell’avversione verso loro, e soprattutto del disprezzo verso i medesimi e verso le loro letterature, civiltà e costumi, quantunque si voglia differenti dai propri.

E cresciuto il gusto di conoscerli insieme colla stima de’ medesimi e colla equità del giudicarli, infiniti sono i volumi pubblicati in ciascuna nazione, per informarla delle cose dell’altre. Fra’ quali sono anche infiniti quelli pubblicati dagli stranieri e che si pubblicano tutto giorno sopra le cose d’Italia fatta oggetto di curiosità universale e di viaggi, molto più che ella non fu in altro tempo, e molto più generalmente, e più ancora che alcun altro paese particolare. Nei quali libri però gli scrittori incorrono senza loro colpa e per natura del soggetto in due inconvenienti, l’uno che spesso errano, essendo impossibile a uno straniero il conoscere perfettamente un’altra nazione, massime dopo non lunga dimora, l’altro che dicendo o il falso, o anche il vero, che sia alcun poco sfavorevole a quelli di cui parlano, benché il dicano senz’animosità veruna (non essendo più mezzo di farsi grato alla propria nazione il dir male dell’altre, ed odiandosi in tali libri l’animosità, sempre che si scuopre) si concitano l’odio della nazione di cui scrivono. Il qual secondo male è più grave che mai ne’ libri che trattano degli italiani, delicatissimi sopra tutti gli altri sul conto loro: cosa veramente strana, considerando il poco o niuno amor nazionale che vive tra noi, e certo minore che non è negli altri paesi. Cagione di ciò è sicuramente in gran parte che gl’italiani misurando gli altri da se medesimi (i quali camminando sempre addietro degli altri, non sono ancora così lontani da’ pregiudizi e dall’animosità verso gli stranieri, e certo li conoscono e studiano di conoscerli cento volte meno che essi non fanno verso loro) attribuiscono sempre ad odio e malvolenza e invidia ogni parola men che vantaggiosa che sia profferita o scritta da un estero in riguardo loro. Certo è nondimeno che in questi ultimi anni si sono divulgate in Europa dalla Corinna in poi più opere favorevoli all’Italia, che non sono tutte insieme quelle pubblicate negli altri tempi, e nelle quali si dice di noi più bene che mai non fu detto appena da noi medesimi.

Alcune sono veri elogi nostri, scritti i più con entusiasmo di affezione e, in parte, di ammirazione verso le cose nostre. E generalmente parlando si vede nel mondo civile una inclinazione verso noi maggiore assai che fosse in altro tempo e che sia verso alcun altro paese, ed una opinione vantaggiosa di noi, la quale ardisco dire che supera di non poco il nostro merito, ed è in molte cose contraria alla verità. E ben si può dire che oggi, al contrario che nel passato, gli stranieri quando s’ingannano sul nostro conto, più tosto s’ingannano a favor nostro che in disfavore. Contuttociò e la Corinna e tutte le altre siffatte opere sono guardate dagl’italiani con gelosia, e molte cose vere ed utili hanno dette e scritte gli stranieri sui nostri costumi che per questa e per altre cause non ci sono di veruna utilità. Gl’italiani stessi non scrivono nè pensano sui loro costumi, come sopra niun’altra cosa che importi e giovi ad essi o agli altri: eccetto forse il solo Baretti, spirito in gran parte altrettanto falso che originale, e stemperato nel dir male, e poco intento e certo poco atto a giovare, e sì per la singolarità del suo modo di pensare e vedere, benché questa niente affettata, sì per la sua decisa inclinazione a sparlare di tutto, e il suo carattere aspro e iracondo verso tutto, il più delle volte alieno dal tutto. Oltre i costumi e lo stato d’Italia sono incredibilmente cangiati dal suo tempo, cioè da prima della rivoluzione, al tempo presente. Allora, massime l’Italia meridionale, era quasi in quello stato di opinioni e di costumi in cui si è trovata fino agli ultimi anni ed ancora in grandissima parte si trova la Spagna. Ora per l’uso e il dominio degli stranieri, massime de’ francesi, l’Italia è, quanto alle opinioni, a livello cogli altri popoli, eccetto una maggior confusione nelle idee, ed una minor diffusione di cognizioni nelle classi popolari. Queste opinioni però operano sullo stato e sulla vita degl’italiani in maniera diversa che presso gli altri, per la diversità somma delle sue circostanze, e quindi ne risulta che con opinioni appresso a poco, e massime in buona parte della nazione, conformi, essa è di costumi notabilmente diversa dagli altri popoli civili. Se io dirò alcune cose circa questi presenti costumi (tenendomi al generale) colla sincerità e libertà con cui ne potrebbe scrivere uno straniero, non dovrò esserne ripreso dagli italiani,, perché non lo potranno imputare a odio o emulazione nazionale, e forse si stimerà che le cose nostre sieno più note a un italiano che non sono e non sarebbero a uno straniero, e finalmente se questi non dee risparmiare il nostro amor proprio con danno della verità, perché dovrò io parlare in cerimonia alla mia propria nazione, cioè quasi alla mia famiglia e a’ miei fratelli?

Non è da dissimulare che considerando le opinioni e lo stato presente dei popoli, la quasi universale estinzione o indebolimento delle credenze su cui si possano fondare i principii morali, e di tutte quelle opinioni fuor delle quali è impossibile che il giusto e l’onesto paia ragionevole, e l’esercizio della virtù degno d’un savio, e da altra parte l’inutilità della virtù e la utilità decisa del vizio dipendenti dalla politica costituzionale delle presenti repubbliche; la conservazione della società sembra opera piuttosto del caso che d’altra cagione, e riesce veramente maraviglioso che ella possa aver luogo tra individui che continuamente si odiano s’insidiano e cercano in tutti i modi di muoversi gli uni agli altri. Il vincolo e il freno delle leggi e della forza pubblica, che sembra ora essere l’unico che rimanga alla società, è cosa da gran tempo riconosciuta per insufficientissima a ritenere dal male e molto più a stimolare al bene. Tutti sanno con Orazio, che le leggi senza i costumi non bastano, e da altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni. In questa universale dissoluzione dei principii sociali, in questo caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo, e lo pone in gran forse circa il futuro destino delle società civili e in grande incertezza del come elle possano durare a sussistere in avvenire, le altre nazioni civili, cioè principalmente la Francia, l’Inghilterra e la Germania, hanno un principio conservatore della morale e quindi della società, che benché paia minimo, e quasi vile rispetto ai grandi principii morali e d’illusione che si sono perduti, pure è d’un grandissimo effetto.

Questo principio è la società stessa. Le dette nazioni, oltre la società generalmente presa, cioè il convitto degli uomini per provvedere scambievolmente ai propri bisogni, e difendersi dai comuni danni e pericoli, hanno quel genere più particolare di società che suole essere chiamato con questo medesimo nome ridotto a significazione più stretta, e consiste in un commercio più intimo degl’individui fra loro, e massime di quelli, che dispensati dalla loro condizione dal provvedere coll’opera meccanica delle proprie mani alla loro e all’altrui sussistenza e forniti del necessario alla vita col mezzo delle fatiche altrui, mancando de’ bisogni primi, vengono naturalmente nel secondo bisogno, cioè di trovare qualche altra occupazione che riempia la loro vita, e alleggerisca loro il peso dell’esistenza, sempre grave e intollerabile quando è disoccupata. Questa tal società che è principalmente fra questi tali uomini, ha per fine il diletto e il riempire il vuoto della vita cagionato dalla mancanza de’ bisogni primi, e per causa ha i detti bisogni secondi, come quell’altro più largo e più comun genere di società ha per origine i primi bisogni e la naturale necessità. Per mezzo di quella società più stretta, le città e le nazioni intiere, e in questi ultimi tempi massimamente, l’aggregato eziandio di più nazioni civili, divengono quasi una famiglia, riunita insieme per trovare nelle relazioni più strette e più frequenti che nascono da tale quasi domestica unione, una occupazione, un pascolo, un trattenimento alla vita di quelli, che senza ciò menerebbero il tempo affatto vuoto, e tali sono, rigorosamente parlando, tutti gli uomini, salvo gli agricoltori e quelli che ci procurano il vestito di prima necessità. Coll’uso scambievole gli uomini naturalmente e immancabilmente prendono stima gli uni degli altri: cioè non già buona opinione, anzi questa è tanto minore in ciascuno verso gli altri generalmente, quanto il detto uso e quindi la cognizione degli uomini è maggiore; ma la stretta società fa che ciascuno fa conto degli uomini e desidera di farsene stimare (questa è propriamente la stima che si concepisce di loro) e li considera per necessarii alla propria felicità, sì quanto ad altri rispetti, sì quanto a questa soddisfazione del suo amor proprio che ciascuno in particolare attende desidera e cerca da essi, da’ quali dipende, e non si può ricever d’altronde. Questo desiderio è quello che si chiama ambizione, vincolo e sostegno potentissimo della società che non d’altronde nasce che da essa società ridotta a forma stretta, poiché fuor di essa l’ambizione non ha luogo alcuno nell’uomo, e l’amor proprio naturale non prenderebbe mai questo aspetto, che pur sembra totalmente suo proprio ed essenziale e sommamente immediato. L’ambizione può aver varie forme e vari fini.

Una volta ella era desiderio di gloria, passione che fu comunissima. Ma ora questa è cosa troppo grande, troppo nobile, troppo forte e viva perch’ella possa aver luogo nella piccolezza delle idee e delle passioni moderne, ristrette e ridotte in angustissimi termini e in bassissimo grado dalla ragione geometrica e dallo stato politico della società; perch’ella possa compatire collo stato di freddezza e mortificazione che risulta universalmente nella vita civile dalle dette cause; e la gloria è un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché possa durare dopo la strage delle illusioni, e la conoscenza della verità e realtà delle cose, e del loro peso e valore. L’amore della gloria è incompatibile colla natura de’ tempi presenti, è cosa obsoleta come le usanze e le voci antiquate, non sussiste più, o è così raro, e dove anche sussiste è così debole e inefficace che non può esser principio di grandi beni alla società e molto meno servirle di vincolo, quale egli era in gran parte una volta. A’ nostri tempi, presso quelle nazioni che hanno l’uso di quella società intima definita di sopra, l’ambizione produce un altro sentimento tutto moderno, e di natura sua, siccome di fatto e di nascita posteriore alle grandi illusioni dell’antichità. Questo sentimento è quello che si chiama onore. È un’illusione esso stesso, perché consiste nella stima che gl’individui fanno della opinione altrui verso loro, opinione che rigorosamente parlando, è cosa di niun conto; ma egli è un’illusione tanto poco alta e viva e luminosa, che facilmente nasconde anche agli occhi esercitati dalla cognizione del vero, la sua vanità, e può compatire collo stato presente e colla distruzione di quasi tutte l’altre illusioni, alla quale ella non ripugna se non mediocremente, atteso la sua natura, per così dire, fredda e rimessa. Questa illusione però è potentissima nelle nazioni e nelle classi che hanno l’uso di quella intima società da cui solo ella può nascere. E particolarmente in Francia, molti sono stati filosofi di opinione fino all’ultimo grado, e conoscitori intimi del vero in tutta la sua estensione, e il danno eziandio non piccolo in varie cose. Ma nel fatto e nella vita è certissimo che nessuno di questi, non che degli altri francesi, dal tempo della origine della società francese fino al presente, ha mai potuto impetrar da se stesso, non solo di non curar veramente l’opinione pubblica, ma neppure di non metterla quanto all’effetto e quanto al fondo del suo animo, nellaù cima de’ suoi pensieri e de’ suoi fini, e di non volgere a quella il più delle sue azioni e delle sue omissioni. Questa stima della opinione pubblica, così piccola cosa come ella è, è pur da tanto che quasi basta nelle dette nazioni (ciascuna delle quali ne partecipa a proporzione delle sue circostanze sociali) a rimpiazzare i principii morali ugualmente perduti appresso di loro, massime nelle classi non laboriose, e gli altri vincoli della società, gli altri freni del male e stimoli del bene, in luogo de’ quali resta si può dire esso solo, ed è pur sufficiente a servire alla società di legame. Piccolissima e freddissima cosa ella è, come ho detto, non v’ha dubbio. Gli uomini politi di quelle nazioni si vergognano di fare il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito o con un panno logoro o lacero; si muovono a fare il bene per la stessa causa e con niente maggiore impulso e sentimento che a studiar esattamente ed eseguir le mode, a cercar di brillare cogli abbigliamenti, cogli equipaggi, coi mobili, cogli apparati: il lusso e la virtù o la giustizia hanno tra loro lo stesso principio, non solo rimotamente parlando, il che è da per tutto e fu quasi sempre, ma parlando immediatamente e particolarmente. Qual cosa è più frivola in sé cheù il far conto di una buona azione né più né manco che di un buon motto o di un bell’abito, esser sollecito della propria probità per la sola ragione per cui si ha cura di acquistare e conservare la bella maniera, evitare una mala azione come una brutta riverenza, e il vizio come il cattivo tuono? Ma bisogna pur confessare (che giova il parlar sempre dissimulatamente, e col linguaggio antico nelle cose affatto nuove?) che effettivamente lo stato delle opinioni e delle nazioni quanto alla morale è ridotto in questa precisa miseria che il buon tuono è, non solo il più forte, ma l’unico fondamento che resti a’ buoni costumi, e che i buoni costumi non sono esercitati per altro, generalmente parlando e delle classi civili, che per le ragioni per cui si esercita il buon tuono, e che dove il buon tuono della società non v’è o non si cura, quivi la morale manca d’ogni fondamento e la società d’ogni vincolo, fuor della forza, la quale non potrà mai né produrre i buoni costumi né bandire o tener lontani i cattivi. Così nelle dette nazioni la società stessa producendo il buon tuono produce la maggiore anzi unica garanzia de’ costumi sì pubblici che privati che si possa ora avere, e quindi è causa immediata della conservazione di sé medesima.

Gl’italiani dal tempo della rivoluzione in poi, sono, quanto alla morale, così filosofi, cioè ragionevoli e geometri, quanto i francesi e quanto qualunque altra nazione, anzi il popolo, il che è degno di osservarsi, lo è forse più che non è quello d’altra nazione alcuna. Voglio dire che quanto alla cognizione del nudo vero circa i principii morali, quanto alle credenze che a questi appartengono, quanto all’abbandono delle credenze antiche, la nazione italiana presa insieme e paragonando classe a classe conforme e corrispondente tra lei e l’altre nazioni, è appresso a poco a livello con qualunque altra più civile e più istruita d’Europa o d’America. Per conseguenza da questa parte ella è priva come l’altre d’ogni fondamento di morale, e d’ogni vero vincolo e principio conservatore della società. Ma oltre di questo, a differenza delle dette nazioni, ella è priva ancora di quel genere di stretta società definito di sopra. Molte ragioni concorrono a privarnela, che ora non voglio cercare. Il clima che gl’inclina a vivere gran parte del dì allo scoperto, e quindi a’ passeggi e cose tali, la vivacità del carattere italiano che fa loro preferire i piaceri degli spettacoli e gli altri diletti de’ sensi a quelli più particolarmente propri dello spirito, e che gli spinge all’assoluto divertimento scompagnato da ogni fatica dell’animo e alla negligenza e pigrizia; queste cose non sono che le menome e le più facili a vincere tra le ragioni che producono il sopraddetto effetto. Certo è che il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese sono le principali occasioni di società che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società (parlando indipendentemente da quella che spetta ai bisogni di prima necessità), perché gl’italiani non amano la vita domestica, né gustano la conversazione o certo non l’hanno. Essi dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in Italia.

Conseguenza necessaria di questo è che gl’italiani non temono e non curano per conto alcuno di essere o parer diversi l’uno dall’altro, e ciascuno dal pubblico, in nessuna cosa e in nessun senso. Lascio stare che la nazione non avendo centro, non havvi veramente un pubblico italiano; lascio stare la mancanza di teatro nazionale, e quella della letteratura veramente nazionale moderna, la quale presso l’altre nazioni, massime in questi ultimi tempi è un grandissimo mezzo e fonte di conformità di opinioni, gusti, costumi, maniere, caratteri individuali, non solo dentro i limiti della nazione stessa, ma tra più nazioni eziandio rispettivamente. Queste seconde mancanze sono conseguenze necessarie di quella prima, cioè della mancanza di un centro, e di altre molte cagioni. Ma lasciando tutte queste e quelle, e restringendoci alla sola mancanza di società, questa opera naturalmente che in Italia non havvi una maniera, un tuono italiano determinato. Quindi non havvi assolutamente buon tuono, o egli è cosa così vaga, larga e indefinita che lascia quasi interamente in arbitrio di ciascuno il suo modo di procedere in ogni cosa. Ciascuna città italiana non solo, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé.

Non avendovi buon tuono, non possono avervi convenienza di società (bienséances). Mancando queste, e mancando la società stessa, non può avervi gran cura del proprio onore, o l’idea dell’onore e delle particolarità che l’offendono o lo mantengono e vi si conformano, è vaga e niente stringente. Ciascuno italiano è presso a poco ugualmente onorato e disonorato. Voglio dir che non è né l’uno né l’altro, perché non v’ha onore dove non v’ha società stretta, essendo esso totalmente una idea prodotta da questa, e che in questa e per questa sola può sussistere ed essere determinata.

Benché gl’italiani, come ho detto, sieno incirca a livello delle altre nazioni nella conoscenza generale della realtà delle cose relativamente ai fondamenti dei principii morali, per quanto almen basta a influire e dar norma alla condotta pubblica e privata di ciascheduno; tuttavia è ben certo e da tutti gli stranieri, non meno che da noi, conosciuto e consentito che l’Italia in fatto di scienza filosofica e di cognizione matura e profonda dell’uomo e del mondo è incomparabilmente inferiore alla Francia, all’Inghilterra, alla Germania considerando queste e quella generalmente. Ma contuttociò è anche certissimo, benché parrà un paradosso, che se le dette nazioni son più filosofe degl’italiani nell’intelletto, gl’italiani nella pratica sono mille volte più filosofi del maggior filosofo che si trovi in qualunque delle dette nazioni.

Primieramente dell’opinione pubblica gl’italiani in generale, e parlando massimamente a proporzione degli altri popoli, non ne fanno alcun conto. Corrono e si ripetono tutto giorno cento proverbi in Italia che affermano che non s’ha da por mente a quello che il mondo dice o dirà di te, che s’ha da procedere a modo suo non curandosi del giudizio degli altri, e cose tali. Lungi che gl’italiani considerino, come i francesi, per la massima delle sventure la perdita o l’alterazione dell’opinion pubblica verso loro, e sieno pronti, come i francesi ben educati, a soffrire e sacrificar qualunque cosa piuttosto che incorrere anche a torto in questo inconveniente; essi non si consolano di cosa alcuna più di leggieri che della perdita eziandio totale (giusta o ingiusta che sia) dell’opinione pubblica, e stimano ben dappoco chi pospone a questo fantasma i suoi interessi e i suoi vantaggi reali (o quelli che così si chiamano nel linguaggio della vita), e chi non si cura d’incorrere per amor di quello in danni o privazioni vere, d’astenersi da piaceri, ancorché minimi, e cose tali. Insomma niuna cosa, ancorché menomissima, è disposto un italiano di mondo a sacrificare all’opinion pubblica, e questi italiani di mondo che così pensano ed operano, sono la più gran parte, anzi tutti quelli che partecipano di quella poca vita che in Italia si trova. Non si può negare che filosoficamente e geometricamente parlando, essi non abbiano assai più ragione dei francesi e degli altri che pensano e operano diversamente, e che per conseguenza in questa parte essi non sieno, quanto alla pratica, assai più filosofi. Al che li porta lo stato delle cose loro, nel quale in realtà l’opinione pubblica, per la mancanza di società stretta, pochissimo giova favorevole e pochissimo nuoce contraria, e la gente per quanta ragione abbia di dir male o bene di uno, di pensarne bene o male, prestissimo si stanca dell’uno e dell’altro; si dimentica affatto delle ragioni che aveva di far questo o quello, benché certissime e grandissime, e torna a parlare e pensare di quella tal persona con perfetta indifferenza, e come d’una dell’altre.

Secondariamente, e questa è cosa molto osservabile, come l’opinion pubblica, così la vita non ha in Italia non solo sostanza e verità alcuna, che questa non l’ha neppure altrove, ma né anche apparenza, per cui ella possa essere considerata come importante. Lascio la totale mancanza d’industria, e d’ogni sorta di attività, e quella di carriere politiche e militari, quella d’ogni altro istituto di vita e di professione per cui l’uomo miri a uno scopo, e coll’aspettativa, coi disegni, colle speranza dell’avvenire, rilevi il pregio dell’esistenza, la quale sempre che manca di prospettiva d’un futuro migliore, sempre ch’è ristretta al solo presente, non può non parer cosa vilissima e di niun momento, perché nel presente, cioè in quello che è sottoposto agli occhi, non hanno luogo le illusioni, fuor delle quali non esiste l’importanza della vita. Or la vita degl’italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente. Ma lasciando questo e restringendoci alla sola mancanza di società, certo è che uno de’ grandissimi e principali mezzi che restano oggi agli uomini per non avvedersi affatto della nullità delle cose loro, o per non sentirla, benché conoscendola, per non essere nella pratica persuasi della total frivolezza delle loro occupazioni qualunque e della totale indegnità della vita ad esser con fatiche e con sollecitudini coltivata, studiata ed esercitata, uno, dico, de’ principali mezzi e forse il principale assolutamente, è la società. L’uomo è animale imitativo e d’esempio. Questa è cosa provata. Tale egli è sempre, anche dopo emancipato (se egli arriva mai ad esserlo) dal giogo delle credenze e del modo di pensare e di vedere altrui; anche filosofo: egli lo è men degli altri, ma pure in gran parte. Questa sua imitazione è volta principalmente a’ suoi simili, questo esempio ch’ei ne prende, da loro principalmente lo piglia. Una parte maggiore o minore, ma sempre una qualche parte, non solo della sua condotta, non solo del suo carattere, de’ suoi costumi, non solo del suo animo generalmente, ma del suo stesso intelletto, e del suo modo di pensare, dipende, imita, si regola, è modificata dall’esempio altrui, cioè precisamente e massimamente di quella parte de’ suoi simili colla quale ei convive, sia che ei conviva per mezzo della lettura, sia specialmente colla persona, sia come si voglia. Or dunque nella società stretta l’essere continuamente testimonio delle cure che gli altri si danno (perciocché essa le richiede, e ne impone una necessità, non paragonabile alle naturali, ma pur molto imperiosa ed efficace), del peso che essi annettono, o che nell’estrinseco necessariamente e per legge molto naturale di essa società, mostrano continuamente e totalmente di annettere alle bagattelle della società medesima e di tutta la vita, fa che ciascuno dal canto suo, non possa a meno, quanto alla pratica ed anche a una certa parte del suo intelletto, di non fare una tal quale stima della vita e delle cose umane, e di contarle per qualche che.

La perpetua e piena dissimulazione della vanità delle cose, dissimulazione che tutti fanno verso ciascuno nelle parole e nei fatti in una società stretta, e che ciascuno è obbligato nello stesso modo a fare continuamente con tutti gli altri, inganna in qualche guisa il pensiero, e mantiene come che sia e per quanto è possibile l’illusione dell’esistenza. In una società stretta anche l’uomo più intimamente persuaso per raziocinio, ed anche per sentimento, della vanità di se stesso, della frivolezza altrui, della inutilità della vita e delle fatiche, della niuna importanza d’essa società, anche il più perfetto filosofo in ispeculazione, non può mai fare, non solo di non contenersi in atto come se il mondo valesse pur qualche cosa, ma nemmeno che una parte del suo intelletto non combatta coll’altra, affermando che le cose umane meritano pur qualche cura, e combattendo non vinca il più del tempo, e non persuada confusamente alla persona la detta cosa in dispetto, per dir così, della sua stessa persuasione. Se non altro l’immaginativa che per natura ci porta a conceder qualche valore alla vita, ha pure un pascolo nella società stretta, e facoltà di conservar qualche parte della sua azione ed influenza sull’uomo. Tutto ciò non ha luogo nella solitudine, ma meno ancora in una dissipazione giornaliera e continua senza società. Nella solitudine anche dell’uomo il più sapiente esperimentato e disingannato, la lontananza degli oggetti giova infinitamente a ingrandirli, apre il campo all’immaginazione per l’assenza del vero e della realtà e della pratica, risveglia e risuscita sovente le illusioni in luogo di sopirle o finir di distruggerle, l’animo dell’uomo torna a creare e a formarsi il mondo a suo modo; e finalmente la mancanza di occupazioni o distrazioni vive, e il continuo e non diviso né divagato pensiero che necessariamente si pone nelle cose presenti, e l’attenzione totale dell’animo che nasce dalla mancanza di sensazioni che la trasportino qua e là, fanno che all’ultimo si dà peso a menomissimi oggetti, e molto più che non si dava e che gli altri non danno nel mondo a oggetti molto maggiori (o così detti), e vi si pone tanta cura che finalmente essi riempiono tutto il tempo, ed occupano la vita, e alcune volte eziandio d’avanzo. L’esperienza lo prova a quelli che hanno potuto farla in se o in altri. Ma la detta dissipazione continua, senza società, quella che forma la vita degl’italiani non bisognosi, è priva degli aiuti della lontananza, priva delle risorse interne dell’immaginazione e dell’animo, per esser dissipazione e per aver sempre la realtà sotto gli occhi; e priva da altra parte de’ soccorsi esterni della immaginazione, e di cose al di fuori che mantengano o rialzino le illusioni, perché come trovarle fuor della società? Per queste cagioni gl’italiani di mondo, privi come sono di società, sentono più o meno ciascuno, ma tutti generalmente parlando, più degli stranieri, la vanità reale delle cose umane e della vita, e ne sono pienamente, più efficacemente e più praticamente persuasi, benché per ragione la conoscano, in generale, molto meno. Ed ecco che gl’italiani sono dunque nella pratica, e in parte eziandio nell’intelletto, molto più filosofi di qualunque filosofo straniero, poiché essi sono tanto più addomesticati, e per dir così convivono e sono immedesimati con quella opinione e cognizione che è la somma di tutta la filosofia, cioè la cognizione della vanità d’ogni cosa, e secondo questa cognizione, che in essi è piuttosto opinione o sentimento, sono al tutto e praticamente disposti assai più dell’altre nazioni.

Or da ciò nasce ai costumi il maggior danno che mai si possa pensare. Come la disperazione, così né più né meno il disprezzo e l’intimo sentimento della vanità della vita sono i maggiori nemici del bene operare, e autori del male e della immoralità. Nasce da quelle disposizioni la indifferenza profonda, radicata ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, che è la maggior peste de’ costumi, de’ caratteri, e della morale. Non si può negare; la disposizione più ragionevole e più naturale che possa contrarre un uomo disingannato e ben istruito della realtà delle cose e degli uomini, senza però esser disperato né inclinato alle risoluzioni feroci, ma quieto e pacifico nel suo disinganno e nella sua cognizione, come son la più parte degli uomini ridotti in queste due ultime condizioni; la disposizione, dico, la più ragionevole e quella d’un pieno e continuo cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opinione, di parole e d’azioni. Conosciuta ben a fondo e continuamente sentendo la vanità e la miseria della vita e la mala natura degli uomini, non volendo o non sapendo o non avendo coraggio, o anche col coraggio, non avendo forza di disperarsene, e di venire agli estremi contro la necessità e contro se stesso, e contro gli altri che sarebbero sempre ugualmente incorreggibili; volendo o dovendo pur vivere e rassegnarsi e cedere alla natura delle cose; - continuare in una vita che si disprezza, convivere e conversar con uomini che si conoscono per tristi e da nulla – il più savio partito è quello di ridere indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e d’ognuno, incominciando da se medesimo. – Questo è certamente il più naturale e il più ragionevole. Or gl’italiani generalmente parlando, e con quella diversità di proporzioni che bisogna presupporre nelle diverse classi e individui, trattandosi di una nazione intiera, si sono onninamente appigliati a questo partito. Gl’italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione. Questo è ben naturale, perché la vita per loro val meno assai che per gli altri, e perché egli è certo che i caratteri più vivaci e caldi di natura, come è quello degl’Italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze. Così negl’individui, così è nelle nazioni. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci. Quelli che credono superiore a tutte per cinismo la nazione francese, s’ingannano. Niuna vince né uguaglia in ciò l’italiana. Essa unisce la vivacità naturale (maggiore assai di quella de’ francesi) all’indifferenza acquisita verso ogni cosa e al poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li fa curar gran fatto della stima e de’ riguardi altrui: laddove la società francese influisce tanto, com’è noto, anche nel popolo, ch’esso è pieno di riguardi sì verso i propri individui, sì verso l’altre classi, quanto comporta la sua natura. Se gli stranieri non conoscono bene il modo di trattare degl’italiani, massime tra loro, questo viene appunto dalla mancanza di società in Italia, onde è difficile a un estero il farsi una precisa idea delle nostre maniere sociali ordinarie, mancandogli l’occasione d’esserne facilmente e sovente testimonio, perocchè d’altronde non siamo soliti a risparmiare i forestieri. Ma nel nostro proprio commercio, per le dette ragioni, il cinismo è tale che supera di gran lunga quello di tutti gli altri popoli, parlando proporzionatamente di ciascuna classe. Per tutto si ride, e questa è la principale occupazione delle conversazioni, ma gli altri popoli altrettanto e più filosofi di noi, ma con più vita, e d’altronde con più società, ridono piuttosto delle cose che degli uomini, piuttosto degli assenti che dei presenti, perché una società stretta non può durare tra uomini continuamente occupati a deridersi in faccia gli uni e gli altri, e darsi continui segni di scambievole disprezzo. In Italia il più del riso è sopra gli uomini e i presenti. La raillerie il persifflage, cose sì poco proprie della buona conversazione altrove, occupano e formano tutto quel poco di vera conversazione che v’ha in Italia. Quest’è l’unico modo, l’unica arte di conversare che vi si conosca. Chi si distingue in essa è fra noi l’uomo di più mondo, e considerato per superiore agli altri nelle maniere e nella conversazione, quando altrove sarebbe considerato per il più insopportabile e il più alieno dal modo di conversare. Gl’Italiani posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente e di se pousser à bout colle parole, più che alcun’altra nazione. Il persifflage degli altri è certamente molto più fino, il nostro ha spesso e per lo più del grossolano, ed è una specie di polissonnerie, ma con tutto questo io compiangerei quello straniero che venisse a competenza e battaglia con un italiano in genere di raillerie. I colpi di questo, benché poco artificiosi, sono sicurissimi di sconcertare senza rimedio chiunque non è esercitato e avvezzo al nostro modo di combattere, e non sa combattere alla stessa guisa. Così un uomo perito della scherma è sovente sconcertato da un imperito, o uno schermitore riposato da un furioso e in istato di trasporto. Gl’Italiani non bisognosi passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue. Come altrove è il maggior pregio il rispettar gli altri, il risparmiare il loro amor proprio, senza di che non vi può aver società, il lusingarlo senza bassezza, il procurar che gli altri sieno contenti di voi, così in Italia la principale e la più necessaria dote di chi vuole conversare, è il mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi.

Sono incalcolabili i danni che nascono ai costumi da questo abito di cinismo, benché per verità il più conveniente a uno spirito al tutto disingannato e intimamente e praticamente filosofo, e da tutte le sovraespresse condizioni e maniere del nostro modo di trattarci scambievolmente. Non rispettando gli altri, non si può essere rispettato. Gli stranieri e gli uomini di buona società non rispettano altrui se non per essere ripettati e risparmiati essi stessi, e lo conseguono. Ma in Italia non si conseguirebbe, perché dove tutti sono armati e combattono contro ciascuno, è necessario che ciascuno presto o tardi si risolva e impari d’armarsi e combattere, altrimenti è oppresso dagli altri, essendo inerme e non difendendosi, in vece d’essere risparmiato. È anche necessario ch’egli impari ad offendere. Tutto ciò non si può conseguire prima che uno contragga un abito di disistima e disprezzo e indifferenza somma verso se stesso, perché non v’è cosa più nociva in questo modo di conversare che l’esser dilicato e sensibile sul proprio conto. Oltre che allora tutti i ridicoli piombano su di voi, si è sempre timido e incapace di offendere per paura di non soffrire altrettanto e provocarsi maggiormente gli altri, incapace di difendersi convenientemente perché la passione impedisce la libertà e la franchezza del pensare e dell’operare e l’aggiustatezza e disinvoltura delle difese. E basta che uno si mostri sensibile alle punture o abitualmente o attualmente perché gli altri più s’infervorino a pungerlo e annichilarlo. Oltre di ciò in qualunque modo il vedersi sempre in derisione per necessità produce una disistima di se stesso e dall’altra parte un’indifferenza a lungo andare sulla propria riputazione. La quale indifferenza chi non sa quanto noccia ai costumi? E certo che il principal fondamento della moralità di un individuo e di un popolo è la stima costante e profonda che esso fa di se stesso, la cura che ha di conservarsela (né si può conservarla vedendo che gli altri ti disprezzano), la gelosia, la delicatezza e sensibilità sul proprio onore. Un uomo senz’amor proprio, al contrario di quel che volgarmente si dice, è impossibile che sia giusto, onesto e virtuoso di carattere, d’inclinazioni, costumi e pensieri, se non d’azioni.

Di più quanto v’ha di conversazione in Italia (ch’è la più parte ne’ caffè e ridotti pubblici, piuttosto che appresso i privati, appo i quali propriamente non si conversa, ma si giuoca, o si danza, o si canta, o si suona, o si passeggia, essendo sconosciute in Italia le vere conversazioni private che s’usano altrove); quel poco, dico, che v’ha in Italia di conversazione, essendo non altro che una pura e continua guerra senza tregua, senza trattati, e senza speranza di quartiere, benché questa guerra sia di parole e di modi e sopra cose di niuna sostanza, pure è manifesto quanto ella debba disunire e alienare gli animi di ciascuno da ciascuno, sempre offesi nel loro amor proprio, e quanto per conseguenza sia pestifera ai costumi divenendo come un esercizio per una parte, e per l’altra uno sprone dell’offendere altrui e della nimicizia verso gli altri, nelle quali cose precisamente consiste il male morale e la perversità dei costumi e la malvagità morale delle azioni e de’ caratteri. Ciascuno combattuto e offeso da ciascuno dee per necessità restringere e riconcentrare ogni suo affetto ed inclinazione verso se stesso, il che si chiama appunto egoismo, ed alienarle dagli altri, e rivolgerle contro di loro, il che si chiama misantropia. L’uno e l’altra le maggiori pesti di questo secolo. Così che le conversazioni d’Italia sono un ginnasio dove colle offensioni delle parole e dei modi s’impara per una parte e si riceve stimolo dall’altra a far male a’ suoi simili co’ fatti. Nel che è riposto l’esizio e l’infelicità sociale e nazionale. E questa è la somma della pravità e corruzion de’ costumi. Ed anche all’amore e spirito nazionale è visibile quanto debbano nuocere tali modi di conversare per cui trattiamo e ci avvezziamo a trattare e considerar gli altri sì diversamente che come fratelli, ed acquistiamo o intratteniamo ed alimentiamo uno spirito ostile verso i più prossimi. Laddove presso l’altre nazioni la società e conversazione, rispettandovisi ed anche pascendovisi per parte di tutti l’amor proprio di ciascheduno, è un mezzo efficacissimo d’amore scambievole sì nazionale che generalmente sociale; in Italia per la contraria cagione la società stessa, così scarsa com’ella è, è un mezzo di odio e di disunione, accresce esercita e infiamma l’avversione e le passioni naturali degli uomini contro gli uomini, massime contro i più vicini, che più importa di amare e beneficare o risparmiare; tanto che al paragone sarebbe assai meglio che ella non vi fosse affatto, e che gli italiani non conversassero mai tra loro se non nel domestico, e per li soli bisogni, come alcune nazioni poco polite e molto bisognose, o molto occupate e industriose. Certo la società che avvi in Italia è tutta di danno ai costumi e al carattere morale, senza vantaggio alcuno.

Queste sono le conseguenze della poca società e della poca vita che avvi in Italia. Dalla poca società nasce che non v’ha buona società e che quella poca nuoce al morale. E ciò nasce ancora come s’è detto dal disprezzo della vita che naturalmente ha luogo più che negli altri in quelli che nulla vi godono, e per chi niente ella vale, sì stante le altre circostanze come atteso eziandio la mancanza di buona e non tediosissima società. La poca società e la poca vita (cioè poca azione) apparisce dalle sopraddette cose che sono naturalmente sinonimi di società e vita cattiva e scostumata e noiosa e immorale.

O tutti o gran parte degl’inconvenienti di sopra specificati hanno luogo proporzionatamente anche nelle nazioni più sociali e nelle migliori conversazioni. Da per tutto v’ha inconvenienti, da per tutto la società e l’uomo, considerato sì in se stesso e come individuo, sì come sociale, è imperfettissimo. Di più i suoi difetti e quelli della società e gl’inconvenienti di questa, presi generalmente e capo per capo all’ingrosso, sono da per tutto i medesimi, massime in questi tempi di grandissimo commercio d’ogni genere e quindi conformità fra le nazioni civili, anche le più distanti. È impossibile nominare o descrivere un difetto e un inconveniente proprio d’una nazione in generale, che non si trovi o al tutto uguale o con poca differenza e modificazione in ciascun’altra. Io non intendo dunque di attribuire all’Italia esclusivamente gl’incomodi che ho detti. Sono ben lontano dall’immaginarmi un mondo diverso e più bello del nostro né paesi remoti da’ miei occhi. In particolare poi, dovunque v’ha società, quivi l’uomo cerca sempre d’innalzarsi, in qualunque modo e con qualunque sia mezzo, colla depressione degli altri, e di far degli altri uno sgabello a se stesso (o trattisi di parole o di fatti), e l’amor proprio in nessun paese è scompagnato dall’avversione comunque sentita e dalla persecuzione comunque esercitata verso i propri simili, e massime verso quelli con cui si convive e che ci toccano più da presso o con gl’interessi o con l’uso quotidiano. E questo accade più che mai nei popoli civili, e oggi più che in qualunque altro tempo, essendo riconosciuto per caratteristico di questo secolo, e per necessaria conseguenza delle opinioni e dello stato presente dei popoli, quel genere di amor proprio che si chiama egoismo, il pessimo di tutti i generi. Ma oltre che le modificazioni dei difetti e inconvenienti umani e sociali possono essere differenti come ho detto, vi si dà anche il più e il meno, e di essi altro può esser dominante e principale in un luogo, ed altro in un altro. Quello dunque che io intendo di dire si è che gli accennati inconvenienti, per le cagioni e circostanze nostre specificate, sono maggiori qui che altrove, sono i dominanti in Italia, di peggior natura, più efficaci, più gravi, più estesi e frequenti e divulgati, più dannosi, più caratteristici e distinti nella nostra società e nella nostra vita che altrove.

Si vede dalle sopraddette cose che l’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun’altra nazione europea e civile, perocché manca di quelli che ha fatti nascere ed ora conferma ogni dì più co’ suoi progressi la civiltà medesima, ed ha perduti quelli che il progresso della civiltà e dei lumi ha distrutti. Sì per l’una parte è inferiore alle nazioni più colte o certo più istruite, più sociali, più attive e più vive di lei, per l’altra alle meno colte e istruite e men sociali di lei, come dire alla Russia, alla Polonia, al Portogallo, alla Spagna, le quali conservano ancora una gran parte de’ pregiudizi de’ passati secoli, e dalla ignoranza hanno ancor qualche garanzia della morale, benché sien prive di quella che dà alla morale la società e il sentimento delicato dell’onore. Il quale stato della Spagna in particolare, fece dire allo Chateaubriand prima della sua rivoluzione, che quando gli altri popoli rotti e invecchiati dall’eccesso della civiltà e per conseguenza dalla corruzione avrebbero perduta ogni virtù, e seco ogni forza, valore ed energia, la Spagna ancor fresca, ancor vicina alla natura, si sarebbe trovata in quello stato di vigore che nasce da’ principii e da’ costumi non corrotti di una nazione serbata lontano e illesa dal commercio cogli altri popoli; e che quello sarebbe stato il tempo in cui la Spagna sarebbe tornata a risplendere, e ricomparsa superiore all’altre nazioni in Europa, come l’unica non corrotta. Nel che lo Chateaubriand, come in molte altre cose, e per conseguenza necessaria di molti suoi falsi principii, s’ingannava grandemente. Si potrà forse disputare non poco se l’antica civiltà sia da preporre o posporre alla moderna, in ordine alla felicità sì dell’uomo sì de’ popoli ed alla virtù, valore, vita, energia ed attività delle nazioni. Ma lo stato della Spagna non ha niente a fare con l’antica civiltà. Tutto quello che la Spagna (e i popoli che se le assomigliano) si distingue dagli altri d’Europa (prescindendo dalle differenze di necessità occasionate dal clima e carattere nazionale: differenze che si trovano fra tutte l’altre nazioni anche civilissime) appartiene alla barbarie de’ tempi bassi, è una derivazione, o piuttosto una continuazione di quella. Se la Spagna differisce dalle altre europee e dalle sue vicine, più che tutte queste altre non differiscono tra loro anche tra le più lontane ciò non accade perch’ella abbia nulla d’antico o conservato o racquistato, ma perch’ella ha conservato della barbarie dell’età media assai più ella sola che tutte l’altre nazioni civili insieme. Ora i costumi, le opinioni e lo stato propriamente antico favorivano, conducevano, e generavano il grande, ma quelli del tempo basso in generale considerandoli, non hanno mai né favorito né prodotto niente di grande, né sono di natura da poterne produrre o da esser compatibili colla vera grandezza né dell’individuo né molto meno delle nazioni. È un falsissimo modo di vedere quello di considerar la civiltà moderna come liberatrice dell’Europa dallo stato antico. Questo falso concetto guasta generalissimamente il giudizio e il vero modo di pensare sulla storia e le vicende del genere umano e delle nazioni, ed è un errore o una svista sostanzialissima che turba e falsifica tutta l’idea che un filosofo può concepire in grande sulla detta storia e sui progressi o andamenti dello spirito umano. Il risorgimento è stato dalla barbarie de’ tempi bassi non dallo stato antico; la civiltà, le scienze, le arti, i lumi, rinascendo, avanzando e propagandosi non ci hanno liberato dall’antico, ma anzi dalla totale e orribile corruzione dell’antico. In somma la civiltà non nacque nel quattrocento in Europa, ma rinacque. Certo ella non fu totalmente conforme alla prima, anzi beaucoup s’en faut; le circostanze non lo consentirono allora, e ne l’hanno forse più che mai allontanata in progresso, ed allontanano ogni dì più, ma in quanto ella ci rende diversi dagli antichi, si può forse molto dubitare se ella faccia un benefizio agl’individui e alle nazioni e se giovi alla felicità, virtù e grandezza sì degli uni separatamente considerati, e sì dell’altre considerate ciascuna in corpo, e tutte insieme. Il grandissimo e incontrastabile beneficio della rinata civiltà e del risorgimento de’ lumi si è di averci liberato da quello stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura proprio de’ tempi bassi, cioè di tempi corrottissimi; da quello stato che non era né civile né naturale, cioè propriamente e semplicemente barbaro, da quella ignoranza molto peggiore e più dannosa di quella de’ fanciulli e degli uomini primitivi, dalla superstizione, dalla viltà e codardia crudele e sanguinaria, dall’inerzia e timidità ambiziosa, intrigante e oppressiva, dalla tirannide all’orientale, inquieta e micidiale, dall’abuso eccessivo del duello, dalla feudalità del Baronaggio e dal vassallaggio, dal celibato volontario o forzoso, ecclesiastico o secolare, dalla mancanza d’ogn’industria e deperimento e languore dell’agricoltura, dalla spopolazione, povertà, fame, peste che seguivano ad ogni tratto da tali cagioni, dagli odii ereditarii e di famiglia, dalle guerre continue e mortali e devastazioni e incendi di città e di campagna tra Re e Baroni, Baroni e vassalli, città e città, fazioni e fazioni, famiglie e famiglie, dallo spirito non d’eroismo ma di cavalleria e d’assassineria, dalla ferocia non mai usata per la patria né per la nazione, dalla total mancanza di nome e di amor nazionale patrio, e di nazioni, dai disordini orribili nel governo, anzi dal niun governo, niuna legge, niuna forma costante di repubblica e amministrazione, incertezza della giustizia, de’ diritti, delle leggi, degl’instituti e regolamenti, tutto in potestà e a discrezione e piacere della forza, e questa per lo più posseduta e usata senza coraggio, e il coraggio non mai per la patria e i pericoli non mai incontrati per lei, né per gloria, ma per danari, per vendetta, per odio, per basse ambizioni e passioni, o per superstizioni e pregiudizi, i vizi non coperti d’alcun colore, le colpe non curanti di giustificazione alcuna, i costumi sfacciatamente infami anche ne’ più grandi e in quelli eziandio che facean professione di vita e carattere più santo, guerre di religione, intolleranza religiosa, inquisizione, veleni, supplizi orribili verso i rei veri o pretesi, o i nemici, niun diritto delle genti, tortura, prove del fuoco, e cose tali. Da questo stato ci ha liberati la civiltà moderna; da questo, di cui sono ancora grandissime le reliquie, ci vanno liberando sempre più i suoi progressi giornalieri; da’ suoi effetti e da’ suoi avanzi e dalle opinioni che li favoriscono proccura e sforzasi di liberarci la nuova filosofia nata, si può dire, non ancor sono due secoli, e intenta propriamente a terminare e perfezionare il nostro risorgimento dagli abusi, pregiudizi (peggiori assai che l’ignoranza), depravazione e barbarie de’ tempi bassi; degna perciò solo di lode e gratitudine e gloria e favore e coltura, e perciò solo utile o almeno perciò principalmente. Questo stato e natura di cose, propriamente parlando, o gli effetti e avanzi suoi, o gli usi, le opinioni e le forme ad essa appartenenti o corrispondenti, amano, difendono, lodano, cercano di ritenere e salvare dalla distruzione a cui sono incamminate i nemici della moderna filosofia, quelli che piangono, condannano, biasimano, oppugnano, combattono la civiltà moderna o i lumi del secolo e i suoi progressi, e quelli che fecero il simile ne'’passati secoli, quelli che richiamano o richiamarono l'’ntico, e se ne chiamano difensori e conservatori e lo prendono per loro divisa, e gridano e s’indegnano contro la novità; laddove il vero antico è in gran parte quello appunto che essi combattono, e non v’è cosa più propriamente antica di moltissime di quelle che essi chiamano novità e che impugnano come tali e se ne maravigliano gravemente come cose finora ignote al genere umano, e contrarie all’esperienza, e però perniciosissime. Vedi i miei pensieri p. 162-163.

Da questa digressione tornando al proposito, dico che la Spagna in particolare, e seco le nazioni d’Europa o d’altrove che le somigliano più più o manco, benché sottoposte a infiniti inconvenienti ed a uno stato in verità non invidiabile, hanno pur qualche residuo di fondamento alla morale pubblica e privata, oltre alla forza, ne’ pregiudizi stessi e nella ignoranza di tante cose rivelate dai lumi moderni, e nell’avanzo non piccolo della barbarie dell’età media. Il qual fondamento manca all’Italia, senza che sia compensato da quello che la civiltà moderna istessa offre alle nazioni d’Europa e d’America più sociali e più vive di lei.

Gl’italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi. Poche usanze e abitudini hanno che si possano dir nazionali, ma queste poche, e l’altre assai più numerose che si possono e debbono dir provinciali e municipali, sono seguite piuttosto per sola assuefazione che per ispirito alcuno o nazionale o provinciale, per forza di natura, perché il contraffar loro o l’ometterle sia molto pericoloso dal lato dell’opinione pubblica, come è nelle altre nazioni, e perché quando pur lo fosse, questo pericolo sia molto temuto. Ma questo pericolo realmente non v’è, perché lo spirito pubblico in Italia è tale, che, salvo il prescritto dalle leggi e ordinanze de’ principi, lascia a ciascuno quasi intera libertà di di condursi in tutto il resto come gli aggrada, senza che il pubblico se ne impacci, o impacciandosene sia molto atteso, né se n’impacci mai in modo da dar molta briga e da far molto considerare il suo piacere o dispiacere, approvazione o disapprovazione. Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia. E gli usi e costumi generali e pubblici, non sono, come ho detto, se non abitudini, e non sono seguiti che per liberissima volontà, determinata quasi unicamente dalla materiale assuefazione, dall’aver sempre fatta quella tal cosa, in quel tal modo, in quel tal tempo, dall’averla veduta fare ai maggiori, dall’essere sempre stata fatta, dal vederla fare agli altri, dal non curarsi o non pensare di fare altrimenti o di non farla (al che basterebbe il volere); e facendola del resto con pienissima indifferenza, senz’attaccarvi importanza alcuna, senza che l’animo né lo spirito nazionale, o qualunque, vi prenda alcuna parte, considerando per egualmente importante il farla che il tralasciarla o il contraffarle, non tralasciandola e non contraffacendole appunto perché nulla importa, e per lo più con disprezzo, e sovente, occorrendo con riso e scherno di quel tal uso o costume.

Da tutte le cose considerate di sopra come cagioni della total mancanza o incertezza di buoni costumi in Italia, e della mancanza eziandio di costumi propriamente italiani (la qual mancanza è sempre compagna e causa di mali costumi), segue un effetto reale, che può parere un paradosso, cioè che (siccome v’ha più propriamente costumi) v’ha migliori o men cattivi costumi nelle capitali e città grandi d’Italia, che nelle provincie, e nelle città secondarie e piccole. La ragione si è che in quelle v’ha un poco più di società, quindi un poco più di cura dell’opinion pubblica, e un poco più di esistenza reale di questa opinione, quindi un poco più di studio e spirito di onore,, e gelosia della propria fama, un poco più di necessità e di cura di esser conforme agli altri, un poco più di costume, e quindi di buono o men cattivo costume. Al contrario di quello che può sembrar verisimile, le città piccole e le provincie d’Italia sono di costumi e di principii assai peggiori e più sfrenati che le capitali e città grandi, che sembrerebbero dover essere le più corrotte, e per tali sono sempre state considerate, e si considerano generalmente anche oggi, ma a torto. In generale egli è certo che dopo la distruzione o indebolimento de’ principii morali fondati sulla persuasione, distruzione causata dal progresso e diffusione dei lumi, si verifica una cosa, che spesso affermata, è stata forse falsa in ogni altro tempo; cioè che nel mondo civile le nazioni, le provincie città, le classi, gl’individui più colti, più politi, sociali, esperimentati nel mondo, istruiti, e in somma più civili, sono eziandio i meno scostumati e immorali nella condotta, e in parte ancora ne’ principii, cioè in quei principii di morale che si fondano sopra discorsi e ragioni al tutto umane. Tutto ciò è esattamente vero nell’Italia in generale, non solamente quanto alle città e provincie, ma eziandio quanto agl’individui e quanto alle classi, almeno almeno a quelle non laboriose, paragonate fra loro. E forse in alcuni luoghi le classi civili si troveranno più morali, per esempio, di più buona fede, anche paragonandole alle classi laboriose; tanta è la diffusione de’ principi distruttivi della morale in Italia come altrove. I quali principii non hanno nelle condizioni basse altra cosa che li compensi, oltre che in esse non sono accompagnati da quegli altri principii che raffreddano le passioni e i desiderii degli uomini illuminati e sperimentati sulla natura e il valore de’ beni umani. Onde la distruzione o indebolimento de’ principii morali (ch’è il più pronto e il più facile effetto della diffusione dei lumi, perché favorito sommamente dalle inclinazioni naturali, e il lume che più agevolmente penetra e si abbraccia) è accompagnato in queste tali condizioni collo stesso ardore di cupidità e di passioni che prima avevano, il quale stato è il più pernicioso,, e il più favorevole, anzi necessario compagno, alla scostumatezza, che mai possa darsi; oltre alla viltà de’ pensieri, alla bassezza d’animo, alla poca stima di se stessi, propria di tali condizioni. Così discorrasi proporzionatamente dell’altre classi, e delle provincie e popolazioni e nazioni comparativamente l’une all’altre. La società che sotto molti aspetti è chiamata e veramente è corruzione, pure infondendo lo spirito di onore mediante l’uso della società, e la stima dell’opinion pubblica che di là nasce, e la gelosia e cura di quel che gli altri pensino e dicano di te, o sieno per pensare e per dire, opera oggidì in modo, che mancando generalmente, più o meno, gli altri principii morali, e gli altri aiuti e garanti della morale, i costumi dove è minor civiltà, cioè corruzione, quivi son più corrotti o vogliamo in somma dir più cattivi. Il che negli altri tempi non poteva aver luogo, perché gli altri fondamenti della morale pubblica e privata non erano distrutti, né mai forse furono così indeboliti; e qualunque altro di tali fondamenti è molto maggiore e più desiderabile e saldo di quel che offre la civiltà /fondamento ben superficiale, nondimeno da tener carissimo perché oramai unico possibile); onde dov’era minor civiltà quivi essendo più di quegli altri fondamenti (che la civiltà ha sempre sapés), la morale doveva esservi migliore che dove era più civiltà. Del resto la civiltà ripara oggi quanto ai costumi in qualche modo i suoi propri danni, quando ella sia in un certo grado: e però non può farsi cosa più utile ai costumi oramai che il promuoverla e diffonderla più che si possa, come rimedio di se medesima da una parte, e dall’altra di ciò che avanza della corruzione estrema e barbarie de’ bassi tempi, o che a questa appartiene, e corrisponde al di lei spirito, e all’impulso espresso e ai vestigi lasciati da lei nelle nazioni civili. Parlando sommariamente e senza dissimulazione, ma chiaramente, la morale propriamente è distrutta, e non è credibile che ella possa risorgere per ora, né chia fino a quando, e non se ne vede il modo; i costumi possono in qualche guisa mantenersi e sola la civiltà può farlo ad essere instrumento a questo effetto, quando ella sia in un alto grado.

Fin qui abbiamo considerato negli italiani la mancanza di società. A questa si deve anche aggiungere come altra cagione de’ medesimi o simili effetti la natura del clima e del carattere nazionale che ne dipende e risulta. È tutto mirabile e simile a paradosso, quanto vero, che non v’ha né individuo né popolo sì vicino alla freddezza, all’indifferenza, all’insensibilità e a un grado così alto e profondo e costante di freddezza, insensibilità e indifferenza, come quelli che per natura sono più vivaci,più sensibili, più caldi. Collocati questi tali o popoli o individui in uno stato e in circostanze o politiche o qualunque, in cui niuna cosa conferisca all’immaginazione e all’illusione, anzi tutto contribuisca al disinganno, questo disinganno per la vivacità stessa della loro natura e in ragione diretta di essa vivacità è completo, totale, fortissimo, profondissimo. L’indifferenza che ne risulta è perfetta, radicatissima, costantissima; l’inattività, se si può così dire, efficacissima; la noncuranza effettivissima; la freddezza è vero ghiaccio, come accade nel gran caldo che i vapori sono da esso elevati a tanta altezza che quivi stringendosi nel più duro gelo, precipitano ridotti in gragnuola. I popoli settentrionali meno caldi nelle illusioni, sono anche meno freddi nel disinganno. Di più sono meno facili a questo disinganno. Poca cosa basta ad alimentare la loro immaginazione e conservare le loro illusioni. Così dico degl’individui poco sensibili. Ma la gran forza del sentimento e dell’immaginazione ha bisogno di molto pascolo, di aiuti vivi, di qualche sostentamento nelle cose reali. Altrimenti rivolgendo la sua forza e il suo calore in se stessa si consuma da se tanto più presto e più completamente quanto essa forza ed esso calore è più grande ed attivo. Uno spirito delicato messo a contatto della durezza delle cose reali, e confricato per così dire con essi, diviene tanto più presto e tanto maggiormente ottuso quanto era più acuto e più fino, e tanto più facilmente e profondamente incallisce, quanto era più delicato tenero e molle. Così accade nel fisico, così nel morale. Or dunque se noi consideriamo da una parte questa proprietà inseparabile dagli spiriti vivaci e sensibili, cioè di cadere tanto più facilmente e altamente nelle qualità contrarie (proprietà comune a tutti gli eccessi sempre proclivi e vicini ai loro opposti), e ciò anche in parità delle altre circostanze rispetto agli spiriti riposati e temperati o freddi e insensibili per natura; e dall’altra parte che non solo questa parità di circostanze nel nostro caso non ha luogo, ma che l’Italia è in uno stato, quanto alle cose reali che favoriscono l’immaginazione e le illusioni, molto inferiore a quello di tutte l’altre nazioni civili (parlo delle circostanze della vita e non di quelle del clima e naturali, che anzi nocciono per le dette ragioni); non ci maraviglieremo punto che gl’italiani la più vivace di tutte le nazioni colte e la più sensibile e calda per natura, sia ora per assuefazione e per carattere acquisito la più morta, la più fredda, la più filosofa in pratica, la più circospetta, indifferente, insensibile, la più difficile ad esser mossa da cose illusorie, e molto meno governata dall’immaginazione neanche per un momento, la più ragionatrice nell’operare e nella condotta, la più povera, anzi priva affatto di opere d’immaginazione (nelle quali una volta, anzi due volte, superò di gran lunga tutte le nazioni che ora ci superano), di poesia qualunque (non parlo di versificazione), di opere sentimentali, di romanzi e la più insensibile all’effetto di queste tali opere e generi (o proprie o straniere). E d’altra parte non farà maraviglia che i popoli settentrionali e massime i più settentrionali sieno oggi i più caldi di spirito, i più immaginosi in fatto, i più mobili e governabili dale illusioni, i più sentimentali e di carattere e di spirito e di costumi, i più poeti nelle azioni e nella vita, e negli scritti e letterature. Questa è una verità di fatto che salta agli occhi, sebben sembra singolare e mostruosa. E per recare un esempio, dove mai si potrebbe se non in Germania e nel fondo del settentrione, mantenere e sussistere a’ tempi nostri e in tanto dissipamento d’illusioni, la società dei Fratelli Moravi e molti altri simili stabilimenti e costumi fondati sopra la sola forza dell’opinioni? e opinioni certo non conformi all’esatta, secca e fredda filosofia geometrica-moderna. Che dirò del quakerismo che ancora dura? e di cento simili cose d’Inghilterra, Germania, e degli altri popoli del nord. Né mi si oppongano simili pratiche religiose o qualunque degl’italiani, perché queste in Italia, come ho detto, sono usi e consuetudini, non costumi, e tutti se ne ridono, né si trovano più in Italia veri fanatici di nessun genere, appena tra quelli che per istato hanno interesse alla conservazione di questa o quella specie di fanatismo e d’illusioni. Certo le dette pratiche de’ settentrionali sanno affatto di antico e niente di moderno, e paiono incompatibili co’ tempi nostri, e quasi innesti dell’antichità in essi tempi. E notisi che esse pratiche sono in gran parte, e forse le più, di origine modernissima, anzi nate dalle moderne rivoluzioni di opinioni e di politica, e giornalmente ne nascono di simili.

Tutto questo, torno a dire, sembra mostruoso e contraddittorio, se non si spiega colle considerazioni fatte sopra. Ma tant’è. I popoli meridionali superarono tutti gli altri nella immaginazione e quindi in ogni cosa, a’ tempi antichi; e i settentrionali per la stessa immaginazione superano di gran lunga i meridionali a’ tempi moderni. La ragione si è che a’ tempi antichi lo stato reale delle cose e delle opinioni ragionate favoriva tanto l’immaginazione quanto ai tempi moderni la sfavorisce. E però in pratica l’immaginazione de’ popoli meridionali era tanto più attiva di quella de’ settentrionali quanto è ora al contrario, perché la freddezza della realtà ha tanta più forza sulle immaginazioni e sui caratteri quanto essi sono più vivi e più caldi. E certo le nazioni settentrionali, e massime il popolo, sono molto più paragonabili e simili oggidì alle antiche che non sono le nazioni, e massime il popolo, del mezzogiorno, laddove è pur certo che dovendo sceglier tra i climi e tra i caratteri naturali dei popoli una immagine dell’antichità niuno dubiterebbe di scegliere i meridionali, e i settentrionali viceversa per immagini del moderno.

A proposito delle quali osservazioni, sia detto di passaggio che io non dubito di attribuire in gran parte la decisa e visibile superiorità presente delle nazioni settentrionali sulle meridionali, sì in politica, sì in letteratura, sì in ogni cosa, alla superiorità della loro immaginazione. Né questa, né quella per conseguenza sono da considerarsi per cose accidentali. Sembra che il tempo del settentrione sia venuto. Finora ha sempre brillato e potuto nel mondo il mezzogiorno. Ed esso era veramente fatto per brillare e prepotere in tempi quali furono gli antichi. E il settentrione viceversa è propriamente fatto per tenere il disopra ne’ tempi della natura de’ moderni. Ciò si vide in parte, per circostanze simili de’ popoli civili nelle età di mezzo. E come la detta natura e disposizione de’ tempi moderni non è accidentale né sembra potere essere passeggera, così la superiorità del settentrione non è da stimarsi accidentale né da aspettarsi che passi, almeno in uno spazio di tempo prevedibile. L’abbondanza e l’eccesso della vita cede alla mediocrità ed anche alla scarsezza della medesima, da poi che quella non ha più come alimentarsi nella realtà delle cose e dello stato sociale, e che le opinioni ragionate contrastano seco e l’opprimono.

Come la vita e la forza interna e dello spirito è naturalmente maggiore ne’ meridionali, e negl’individui sensibili e ne’ fini ingegni, che non è negli altri, perciò essi sono nelle loro azioni e nel loro carattere più determinati e governati, per dir così, dall’animo, e meno macchinali che gli altri popoli e individui. Quindi è che quando i principii e le persuasioni loro sono contrarie alle illusioni, fredde, conducenti all’indifferenza, all’aridità, al puro calcolo, anche i caratteri e le azioni loro sono al tutto e costantemente fredde, calcolate, indifferenti, insensibili, più assai che negli altri popoli e individui anche più istruiti, più filosofi, più fondati e provveduti di principii contrarii alle illusioni e all’immaginoso, e conducenti alla freddezza, indifferenza, insensibilità. La corrispondenza tra i principii e la pratica è molto maggiore e più costante in quelli che non è negli altri.

1824