mercoledì 13 febbraio 2013

il Tao arriva dal buio


Arrivano dal buio

Michele è sveglio fin dalle cinque del mattino. Del resto alle sei cominciano a fare chiasso e movimento. Chissà perché negli ospedali, dove si presume ci sia gente che ha bisogno di riposare e starsene un po’ tranquilla, devono pulire le stanze all’alba, servire la colazione quando ancora è troppo presto per avere lo stomaco in funzione, fare iniezioni in ore che si dovrebbero dedicare alla fase Rem del sonno.
È sveglio e agitato perché fra poco lo dimetteranno. Lascerà quella cameretta che non è certo a cinque stelle, ma nella quale si è sentito protetto per più di tre settimane.
Ventidue giorni, per l’esattezza. Ventidue giorni in cui ha potuto respingere, rimandare, oscurare ogni pensiero sul “dopo”.
Dopo quell’incidente in macchina, un’uscita di strada a cento all’ora con la mente impastata dall’alcol. Dopo la guarigione, o meglio dopo la degenza, perché di guarigione vera, purtroppo, non si potrà parlare: la gamba destra era massacrata, con le ossa che parevano passate in un tritatutto e il ginocchio a pezzi. Forse zoppicherà per tutta la vita, gli hanno detto, e addirittura dovrà aiutarsi col bastone per camminare e provare meno dolore. Quel dolore che gli è stato compagno crudele sempre, dopo l’incidente, di giorno e di notte, smorzato solo dai farmaci. Anche quelli, probabilmente, dovranno accompagnarlo a lungo.
Chiude gli occhi, sospira. Vorrebbe ancora tempo, ancora qualche giorno, anzi qualche settimana in cui rimanere lì, in una specie di limbo ovattato. Perché fuori di lì non c’è niente di buono che lo aspetti.
Il dottor Savelli entra con una cartella clinica in mano, lo saluta con un cenno della testa e legge qualcuno di quei fogli. Con lui c’è una donna di mezza età.
Chissà chi è, non l’ha mai vista. Michele la fissa per qualche secondo, poi chiude gli occhi di nuovo. Forse è dell’assicurazione, o magari della polizia. Nell’incidente non ha coinvolto nessuno, ma gli hanno ritirato la patente per guida in stato di ebbrezza e gli hanno detto che finirà sotto processo. Facciano pure: per quel che gli importa, ormai.
«Come si sente, Contini?» gli chiede il medico.
Lui si stringe nelle spalle, riapre gli occhi e guarda verso la finestra.
«Ha avuto dolore, stanotte?»
«Mi fa sempre un po’ male, ormai ci sono abituato.»
«E il morale come va?»
«Bene.»
Il dottore scambia un’occhiata con la donna, poi si rivolge di nuovo al paziente.
«Bene non direi. Lei sta camminando sull’orlo della depressione, e quella è peggio della gamba e delle costole rotte.»
Michele si stringe di nuovo nelle spalle.
Il medico chiude la cartella. «Oggi lascerà l’ospedale, per quanto mi riguarda è guarito. Le ferite sono rimarginate, le ossa saldate, la riabilitazione avviata. Però io sono solo un ortopedico. Lei di ferite e di fratture ne ha altre, che non si vedono, e bisognerà mettere a posto anche quelle, eh? Le faccio i miei auguri, di tutto cuore, e la lascio in compagnia della dottoressa Varzi: adesso le sue cure sono più importanti delle mie.»
Gli si avvicina, gli stringe la mano ed esce dalla stanza.
La dottoressa lo segue con lo sguardo, poi si gira verso Michele. «Come va?» gli chiede sorridendo.
«Come un minuto fa, quando me l’ha chiesto il dottor Savelli.»
La donna prende una sedia e si accomoda vicino al letto.
«Chi è lei?»
«Una psicologa dell’ospedale.»
Michele sorride storto, scuote la testa e si gira verso il muro.
«Non vuole che parliamo un po’?»
Lui sospira. «Fra un po’ tornerò a casa e mi troverò addosso tanti di quei problemi che... che nessuno mi potrà aiutare, né gli psicologi, né i santi del paradiso. Tutto qui. Non ci sono pillole o sedute che mi guariranno da quella roba.»
«Pillole e sedute potrebbero aiutarla, però. E i problemi che adesso le sembrano tanto grossi, forse così grossi non sono.»
«Che ne sa, lei? Non li conosce.»
«Non li conosco, in effetti. Le va di raccontarmeli?»
«Raccontarglieli? Ci vorrebbe tutto il giorno.»
«Io di fretta non ne ho.»
«Neanch’io, però non ne ho voglia.»
«Me li accenni, almeno: male non le farà.»
L’uomo sospira. «D’accordo, le faccio un riassunto.» Alza le mani e comincia con l’indice della destra a contare toccandosi le dita della sinistra: «Uno: mia moglie sei mesi fa mi ha lasciato. Due: sono un giornalista, e da quella separazione non sono più riuscito a scrivere una riga decente. Tre: mia moglie era tutta la mia famiglia: non ho figli, né fratelli o sorelle, i miei genitori sono morti in un incidente quando ero piccolo, sono cresciuto con una zia, la sorella di mio padre, che è morta da anni pure lei, e di amici veri non credo di averne. Insomma, a cinquant’anni, quando dovrei contare su una bella famiglia, sono solo come un cane. Quattro: ho cercato aiuto nel bere e mi sono ritrovato mezzo ubriaco tutti i giorni, dalla mattina alla sera. Cinque: mi sono schiantato con la macchina contro un albero e non camminerò mai più come prima. Ho finito le dita della mano, ma avrei altre cosette da elencare. Ce l’ha una cura che mi guarisca da tutto questo? Se ce l’ha, l’ascolto, altrimenti per favore mi lasci perdere, che non sono in vena.»
«La cura può esserci, ma è lunga e richiede tutto il suo impegno. Le va che ci vediamo un paio di volte la settimana?»
«No.»
«Se non collabora, io non potrò aiutarla.»
«Non ho chiesto aiuto. Comunque, grazie dell’interessamento.»
«Ne è certo?»
«Certissimo.»
La donna si alza dalla sedia, tira un sospiro profondo. «Non posso costringerla. Cerchi di aiutarsi da sé, almeno; magari si prenda un lungo periodo di riposo, se ne vada in un bel posto lontano da tutto, rifletta. Io, se vorrà, sarò qui.»
«Grazie ancora. Me la caverò.»
Michele chiude gli occhi. La dottoressa resta ancora un minuto, in silenzio, poi se ne va.

La grande sala della redazione, dove le scrivanie sono stipate e vicine come ombrelloni a Rimini, e quel brusio, quella cacofonia ininterrotta di voci rivolte a cornette di telefono, e le decine di schermi di computer accesi, e il viavai di gente che sposta fogli da una postazione all’altra lo sommergono con un impatto che gli dà la nausea. Non entrava lì da un mese, e adesso che ci si ritrova bastano dieci minuti per snervarlo, per provocargli un senso di ripulsa.
Un mese appena, e non certo di vacanza, ma è servito ad allontanarlo, a erigere un muro fra sé e la sua vita di prima, che ogni giorno si ripresentava uguale, con la levataccia del mattino, le code in macchina su strade infestate di gente frettolosa e arrabbiata, l’ingresso in quello stanzone gremito che ricorda un allevamento di polli, l’arrabattarsi a distillare righe su argomenti ripetitivi e di solito poco gratificanti.
No, pensa, non sono pronto. Non ce la faccio. Non ce la posso fare. Non è vero che tornare al lavoro mi aiuterebbe, come dice qualcuno: aggiungerebbe peso allo stress della mia mente, fatica al mio fisico provato. Non mi guarirebbe, mi ammazzerebbe e basta.
Decide così, su due piedi, per un impulso improvviso e invincibile. Quando il direttore lo chiama e lo fa accomodare davanti alla sua scrivania sommersa di carte, sa già cosa fare, cosa dire, e sa che farà e dirà quello che si sente, a costo di perdere il posto.
Così rimane spiazzato quando è proprio il capo ad anticiparlo, ad assecondare i suoi desideri prima ancora che lui li esprima.
«Prenditi un po’ di tempo, Michele» gli dice. «Non serve a nessuno che tu torni adesso, quando ancora ti zoppicano le gambe e la testa. Non li ho contati i giorni di ferie arretrati che hai, sai come vanno queste cose, qui non ci si ferma mai... però di sicuro hai diritto a una bella pausa, e se fossi in te me la godrei.»
Lui annuisce. Si era preparato a combattere e non ce n’è bisogno. Rimane quasi deluso. Forse non è un buon segno, questa generosità del capo. Forse vuole dire che non ha sentito per niente la mancanza del suo lavoro. Ma chi se ne frega. Neppure lui l’ha sentita.
«Hai ragione» risponde. «Ho da smaltire un po’ di problemi, da tirare il fiato.»
«Bravo. Facciamo un mese, che ne dici?»
«Un mese, sì. Mi farà bene.»
È solo quando esce in strada e respira l’odore di macchine, d’asfalto e di città, che  arriva quel pensiero: un mese per fare che? Un mese in casa da solo a guardare la tivù e a piangersi addosso? Un mese da trascorrere in pigiama o in mutande, con la barba lunga, peregrinando da una stanza all’altra? Per ricominciare ad annegare nella birra, magari?
Lo prende alla gola qualcosa che stringe come un cappio.
«Se ne vada in un bel posto lontano da tutto» gli ha detto la psicologa. Forse ha  ragione: via, via. Dai suoi problemi non può scappare, ma dalla routine sì. E dalla città, da quella città che mai gli è parsa così brutta e ostile.
Ma via dove?
Vedremo, si dice, qualcosa mi verrà in mente. Posso andare dove voglio, non ne devo rispondere a nessuno: essere soli dà almeno questo vantaggio. Adesso vado a casa, mi butto sul letto a occhi chiusi e ci penso, come facevo da bambino, quando con la fantasia visitavo tutti i posti del mondo.
Tutti i posti del mondo, tutti i continenti, tutte le latitudini. Là dove è già stato o dove non è stato mai.
Ci pensa, una volta che è coricato al buio, ci pensa. Ma è solo quando sta per cadere nel dormiveglia che gli si presenta un’immagine lontana: una casa di pietra col tetto di arenaria che luccica al sole, uno smisurato prato verde che finisce dove comincia la massa scura dei boschi, panni stesi ad asciugare che ballano nel vento, un cielo blu che di così blu se ne vedono di rado, e voci di bambini che corrono ubriachi di quel vento, di quel prato, di quel cielo, di quello spazio enorme.
Uno di quei bambini è lui. Papà e mamma sono ancora vivi, lei stende i panni, li prepara alla danza nel vento e nel sole, e sorride. I nonni armeggiano con grandi fasci di rami secchi e approntano un falò per la sera, quando le faville saliranno a sbuffi a rigare la notte nera e silenziosa dei monti.
Da quanto tempo non vede quella casa, quel posto? Molti anni, anzi decenni.
Chissà se esiste ancora. I nonni materni, che abitavano là, saranno morti da chissà quanto: dopo che è rimasto orfano, solo una volta l’hanno portato lassù, dove loro ancora vivevano insieme a uno stuolo di figli e nipoti. Dopo, basta. La zia e lui si trasferirono a Milano, e quel luogo sbiadì piano piano nella memoria. Non si ricorda nemmeno più come si chiamavano, i bambini con cui giocava, le zie che gli preparavano le focacce.
Ci sono pezzi del nostro mondo, della nostra anima che a un certo punto, semplicemente, spariscono, vengono rimossi, come se non fossero esistiti mai, e al massimo lasciano nei pensieri una nostalgia remota e incredula. Non si sa perché succeda, ma succede che si perdano persino pezzi della propria famiglia. Pezzi di sé.
Chissà come ci ha pensato, ai nonni e alla loro grande casa sui monti, come gli sono tornati in mente, dopo tanto tempo.
Chiude gli occhi di nuovo nel buio della stanza. Sì, se c’è un posto in cui vuole andare, è quello. Lontano da tutto, e vicino a quel bambino che è stato, una volta, molto felice.

Il vecchio Giuseppe si fa schermo con la mano e guarda in alto. Non c’è una nuvola; il giorno è nato limpido e così rimarrà. Sente gli altri darsi la voce, sente il trattore che a tratti romba e tira, salendo l’erta. Portano nel prato grande i rami che serviranno per i fuochi.
Mancano solo due notti, poi ci sarà il novilunio; il primo novilunio d’estate.
Lui di estati ne ha viste tante, ormai, passate tutte lassù, tranne quando andò in guerra. Un’assenza di tre anni, tre feste della luna perse. Ricorda ancora quanto gli mancò, in quelle occasioni, l’essere là con gli altri ad aspettare il momento più straordinario dell’anno, quello per cui la famiglia si riuniva a Ca’ Rampina.
Tornavano tutti per l’evento, anche chi aveva scelto di andarsene lontano. E ancora tornano.
Si avvia verso la casa e guarda l’altra costruzione, quella che adesso serve solo da rimessa per i trattori, le falciatrici, per tutte le nuove macchine che negli anni sono arrivate ad alleviare la fatica di coltivare campi dalle pendenze ostili. Una volta la famiglia era così grande che tutte e due le case erano piene di gente, di donne, di bambini. Quando le macchine non c’erano, servivano tante braccia, mangiavano tante bocche, e non si può dire che ci fosse abbondanza; ma si tirava avanti.
Non può certo biasimare chi se n’è andato, chi ha scelto lavori meno faticosi, luoghi meno isolati, vite diverse. Lui però la sua vita non l’ha mai cambiata, ed è contento così. È felice di essere nato lassù e di esserci restato sempre. Ed è felice soprattutto quando tutti tornano, quando la famiglia, per qualche giorno, si riscopre grande.
Dalla porta di casa esce sua moglie Lina, che si asciuga la fronte e si ravvia i capelli con la mano. Lui la guarda e le chiede: «Finito?».
«Finito? Figurati. Dobbiamo preparare cibo per un esercito, non si finisce mai. Ma è un lavoro che non mi pesa, lo sai bene.»
Giuseppe annuisce.
Torneranno, stanno per tornare. Fra un po’ si sentiranno le automobili salire verso Ca’ Rampina, si apriranno le finestre di stanze vuote nel resto dell’anno. Fra un po’ tutto sarà vivo e animato com’era un tempo.
E quando tutti saranno lì, la sera si accenderanno i fuochi per chiamarli. Per chiamare chi ogni anno arriva all’annunciarsi dell’estate, venendo da chissà dove. Dal buio, pensa lui. Arrivano dal buio, quando la luna dorme dall’altra parte del cielo. Arrivano silenziosi e puntuali, misteriosi e attesi.
Il primo novilunio d’estate è così, è sempre stato così, ed è bellissimo.

Michele conosce la strada solo fino a un certo punto, là dove la statale si stringe attraversando l’abitato di San Savino Monte, un paese che pare essere tutto addossato a quella striscia d’asfalto, come se fosse nato e cresciuto solo per definirne i bordi.
Dopo, ricorda, ci sono boschi, tornanti, saliscendi, e a un certo punto deve esserci una viuzza sterrata che si inoltra nel nulla.
A San Savino si ferma, parcheggia in una piazzola che fiancheggia un bar, spegne il motore e sospira. Gli fa male la gamba.
Il viaggio fin lì è stato migliore del previsto, quasi piacevole, con la radio sintonizzata su una stazione che diffondeva poche parole e tanta musica. Il cielo estivo, nelle prime ore del mattino, è stato terso anche in pianura; e qui, a quasi mille metri d’altezza, subito dopo il passo di Crocealta, è blu e spazzato da un vento leggero che fa muovere le cime dei faggi e degli abeti. Sarebbe tutto perfetto, se i muscoli non sembrassero presi in una morsa e il ginocchio non si fosse irrigidito,quasi bloccato.
Spegne la radio, scende gemendo, entra nel bar e chiede un caffè. Lo assapora e se lo fa durare. Poi, al ragazzo che glielo ha servito, chiede indicazioni per raggiungere Ca’ Rampina.
Il giovane mette nell’acquaio la tazza e il cucchiaino, fa una smorfia con le sopracciglia aggrottate e risponde: «Ma cos’è, un paese? Io non l’ho mai sentito nominare».
«Non è un centro abitato, è solo una località, un paio di fattorie. Non dovrebbe essere lontano da qui.»
«Io in questo bar ci lavoro da poco, abito giù a Sargano. Se vuole, chiedo al capo.»
Michele annuisce, zoppica verso un tavolino, si siede. Di colpo si sente addosso tutta la stanchezza del viaggio, e una nuvola grigia sembra oscurargli l’umore.
Adesso, pensa, verrà il proprietario e mi dirà: “Ca’ Rampina? Non la conosco”. E si renderà conto che se l’è solo sognato, quel posto, che quel bambino felice non c’è stato mai, e che un luogo dove andare non c’è, non c’è più.
Dietro il bancone compare un uomo dai capelli radi e rossicci, che si pulisce le mani in un grembiule e lo guarda. «Ca’ Rampina?» dice.
Michele, come se lo stessero interrogando su una cosa importante, si alza in piedi e mormora: «Sì».
«Vada avanti ancora un paio di chilometri; dopo avere attraversato un vecchio viadotto che passa sopra un vallone stretto, vedrà una stradina sulla sinistra. Non ci sono indicazioni ma non può sbagliare: di strade a sinistra c’è solo quella. La infila, e procede per... boh, direi altri due o tre chilometri, tutti nel bosco. Finito il bosco, ci sono i pascoli e le case che cerca lei.»
«Grazie. Grazie mille.»
Avrebbe voglia di un campari, di un martini, di un po’ d’alcol insomma, ma non beve da diverse settimane e resiste, scaccia quel desiderio. Paga il caffè, esce dal bar, e prima di rimettersi in macchina respira a pieni polmoni.
L’aria ha davvero un altro sapore, lassù.

Dietro la casa, dove il passaggio quotidiano delle mucche che vanno ai pascoli ha cancellato l’erba in una traccia antica e bruna, ci sono già, l’una di fianco all’altra, sei o sette automobili che brillano nel sole. Voci di bambini che si aggirano eccitati tra stalle e pollai, curiosi di vedere gli animali, riempiono di suoni il silenzio del monte.
Lina ha accompagnato tutti alle proprie camere, ha aiutato a riporre borse e vestiti, ha abbracciato figli, nipoti e pronipoti, senza smettere mai di dare la voce a chi, in cucina, continua a preparare sfoglia e sughi, pane e arrosti. Poi esce dalla casa e si siede finalmente su una panca di legno addossata al muro.
Giuseppe la raggiunge, si siede a sua volta. «Ecco» dice.
Lei sorride. «Sì, eccoli qua, tutti. Non vedevo l’ora.»
Il vecchio guarda lontano, verso la strada sterrata che si infila nel bosco. «Tutti no. Ne manca uno.»
«Lo so, credi che me ne sia scordata? E non verrà, purtroppo, non viene da tanto tempo. La vita è fatta così, non ci dà mai una gioia completa.»
«Verrà, invece. Quest’anno verrà.»
La donna si gira di scatto a guardarlo. «Ma che dici?»
«Ho fatto dei sogni, nelle notti scorse.»
«Non m’avevi detto niente!»
«I sogni sono solo sogni, che cosa ti dovevo dire? Magari mi sbaglio.»
Lina sorride con gli occhi. «No, tu non sbagli, in queste cose...»
«Chi lo sa.»
«Sarei la donna più felice del mondo, se arrivasse davvero. Ma... lui non sa, non sa nulla. Non può ricordare, manca da troppo tempo, ce l’hanno portato via che era così piccolo! Cosa gli diremmo?»
L’uomo scuote la testa. «Non lo so. Forse niente. Che c’è da dire, in fondo? Vedrà quello che vedremo noi, e sarà lui a chiedere.»
«Non è così semplice, Giuseppe. Gli altri sanno come comportarsi, sanno cosa dire e cosa tacere, ma lui...»
«Lui fa parte della famiglia, e se verrà, sarà un novilunio d’estate ancora più speciale. Dopo, vedremo.»
Lina annuisce, guarda anche lei verso la strada. «Sì, vedremo» dice.
E proprio in quel momento si sente un’automobile che arriva.

Michele è ancora frastornato. Sente allo stesso tempo un senso di straniamento e di appartenenza, di familiarità, di déjà vu.
Quando è arrivato e ha parcheggiato dietro la grande casa di pietra, stupendosi di vedere molte altre automobili, si è trovato nel giro di un minuto circondato da abbracci, parole, persone, facce. Facce che non conosceva e che però gli ricordavano qualcosa, nomi che gli rimbalzavano alle orecchie suonando nel contempo sconosciuti e remotamente noti.
Adesso, finiti i saluti, le presentazioni, allontanati gli sguardi curiosi e affettuosi, strette le mani che gli venivano tese, si è seduto fuori, su un ceppo di legno fresco di taglio. Guarda verso i monti che, oltre il verde chiaro dei prati, si innalzano torreggianti e massicci, scuri di alberi fitti. Ricorda il profilo di quelle cime, o almeno gli sembra di ricordarlo, ma ciò che vede gli appare anche nuovo. Ha pensato tanto a quei luoghi, nelle settimane e nei giorni scorsi, che trovarseli davanti, essere lì, fa un effetto a cui non era preparato.
Una donna lo raggiunge e si siede accanto a lui. «Michele» dice solo.
Lui sorride. La donna gli deve aver detto il proprio nome, prima, ma lui ne ha ascoltati tanti che già non se lo ricorda, già non sa più chi è, quella anziana signora dagli occhi chiari e penetranti. «Zia?» chiede incerto.
«Sono Lina.»
«Zia Lina.» Strappa un filo d’erba, se lo attorciglia a un dito. «Sai, il tuo viso non mi è nuovo, è come se un ricordo si facesse strada nei miei pensieri, ma se ti avessi incontrata per caso non ti avrei mai riconosciuta. Mi dispiace...»
Lei accarezza una spalla. «È normale, sono passati più di quarant’anni.» Poi sospira: «Quarantanni! Santo cielo! Ci sei mancato, piccolo mio».
Michele non può non sorridere. «Piccolo... sono ormai vecchio, altro che!»
«Ma figurati!»
«Mi sento vecchio dentro. La mia vita, come vi raccontavo prima, non è che stia andando per il verso giusto.»
«A tutto c’è rimedio.»
L’uomo fa un cenno d’assenso e cambia discorso. «Zia Anna mi ha cresciuto e le sarò grato per sempre, ma non capisco perché non mi abbia mai portato qua da voi, se non forse una volta. Mi ha allontanato da una parte della mia famiglia. Perché?»
«Non le piacevamo, credo. Lei era nata e cresciuta in città, era istruita, dovevamo sembrarle una tribù di pastori... E poi, forse, non avendo mai avuto figli suoi, ti ha voluto tenere tutto per sé. Comunque ti ha amato, e questo è ciò che conta. Quel che è stato è stato. L’importante è che adesso tu sia qui con noi. Una famiglia ce l’hai, l’hai sempre avuta e ora l’hai ritrovata.»
«Ne ho bisogno.»
«E chi non ne ha bisogno?»
Michele si aiuta con una mano a distendere la gamba.
«Ti fa male?» gli chiede la donna.
«Un po’.»
«Ti passerà, vedrai. Presto non avrai nemmeno più bisogno di pillole.»
«Vorrei poterti credere.»
Lei sorride guardando il sole che tramonta. «Oh, puoi credermi. Davvero.»

Dopo una cena abbondante e gustosa e le chiacchiere con i parenti, è andato all’aperto a godersi l’aria che da tiepida diveniva frizzante. Il cielo pareva di carta, come quello che da piccolo appendeva sopra il presepe: un blu scuro che si trasformava in nero e si accendeva di milioni di stelle. Non aveva mai visto uno spettacolo simile, o almeno non se lo ricordava: la traccia enorme della Via Lattea, le innumerevoli costellazioni. Sdraiato sull’erba è stato a lungo a guardare in alto, perdendosi in una vertigine smisurata e densa. La luna, quasi appoggiata sulla cresta del monte, era solo una riga curva e sottilissima, uno spiraglio, una fessura di luce.
Poi è arrivato il vecchio Giuseppe, hanno fumato un sigaro. Tra l’erba si udivano i grilli e dal fitto del bosco arrivavano mille piccoli rumori.
Si è sentito finalmente, per la prima volta da molto tempo, in pace con se stesso e col mondo. Mi fa davvero bene essere qui, ha pensato.
È andato a dormire presto. Non c’era un televisore nella casa, e poi era stanco.
L’ha svegliato il suono di voci fuori, allora è sceso a fare colazione. Dopo, nonostante i problemi alla gamba, ha provato a camminare nel bosco, inoltrandosi in un sentiero che, quasi in piano, arriva fino a una radura in mezzo alla quale troneggia, imperscrutabile monarca di pietra, un grande masso rotolato lì forse da migliaia di anni.
Si è seduto, si è tolto le scarpe, ha pensato alla sua famiglia ritrovata. Lo zio Giuseppe e la zia Lina vivono nella casa che è stata dei nonni con due figli, quattro nipoti e alcuni pronipoti; poi ci sono gli altri venuti in visita: zie, zii e tanti cugini con relativa prole. Quanti sono? Una trentina, pensa. Prima o poi imparerà a conoscerli, riuscirà a ricordarsi i loro nomi. Per fortuna la casa è grande, e stringendosi un po’ tutti hanno avuto un letto, uno spazio, usando anche un sottotetto dalle vecchie travi di legno a vista.
Pare che ogni anno si ritrovino all’inizio dell’estate, una tradizione del clan, un appuntamento che li richiama in un luogo capace di unirli ancor più dei vincoli di sangue.
Ha appoggiato la schiena al masso e si è appisolato, cullato dal ronzio ipnotico degli insetti. Quando è tornato alla casa, già si sentivano, dentro, le donne che apparecchiavano la tavola per il pranzo.
Nel pomeriggio è cominciato un fermento, un’animazione, che ha coinvolto tutti, bambini e adulti. Per ore hanno lavorato a smontare due cataste di legna e ramaglie dividendole in una ventina di ammassi più piccoli, disposti a cerchio nel prato davanti alla casa.
«Che state facendo?» ha chiesto Michele a Giuseppe.
«Prepariamo per i falò. Li accenderemo stasera. Te li ricordi, i falò?»
Se li ricorda, sì. Anzi, proprio quella è una delle immagini della sua infanzia che meglio sono sopravvissute nella memoria: le fiamme alte nella notte, le faville che salgono tra il fumo, gli schiocchi e gli sbuffi dei legni, le braci che sembrano occhi accesi nel buio.
«I fuochi...» dice. «Sì, li ho ancora in mente.»
«Li hai visti ogni anno, nella notte del primo novilunio d’estate. Quando eri piccolo e i tuoi genitori erano ancora vivi, intendo.»
«Sì, li ho visti, e credo che mi piacessero molto.»
Il vecchio annuisce, sorride, poi va ad aiutare gli altri.

Cenano presto, parlando poco, come se tutti avessero fretta di qualcosa, come se un’attesa spasmodica sovrastasse l’appetito. Quando esce dalla casa, Michele si accorge che qualcuno ha già acceso i fuochi.
Tutti vanno a sedersi nel prato. Le fiamme giocano con colori baluginanti e ombre sulle facce, sui corpi, aria calda e fumo arrivano ad accarezzare la pelle. I bambini corrono intorno a lungo, poi vengono invitati a calmarsi, a sedersi accanto ai grandi.
Qualcuno dalla casa ha portato bottiglie di vino. Parlano, ridono, bevono, guardano in alto il cielo senza luna e pieno di stelle, faville tra le faville. I cani trotterellano intorno, annusano qua e là, ogni tanto scompaiono nel buio e poi ricompaiono.
Michele si concede un bicchiere, si sdraia sull’erba, fissa incantato i bagliori che riverberano. Sente, e non sa perché, che la notte sta per portare qualcosa, qualcosa che nei suoi ricordi si è perso ma che ora sta per tornare.
Quando le fiamme hanno esaurito il loro vigore crepitante e le braci dei falò disegnano un enorme cerchio rosseggiante nel prato, il cielo oltre il monte si accende in un baleno improvviso.
Si fa subito silenzio. La vecchia Lina si alza, si spolvera la gonna e dice: «In casa, adesso. È ora».
«Arrivano» mormora un bambino a un altro. «Fra un po’ vengono.»
Michele vorrebbe chiedergli chi o cosa stanno aspettando, vorrebbe dire che si sta così bene fuori, perché rientrare tanto presto? Non pioverà, non c’è una nuvola da giorni, quel baleno è frutto solo del caldo che si annuncia, che problema c’è? Ma tutti obbediscono al comando della donna e si dirigono verso l’abitazione.

Si alza con un sospiro, li segue.
In casa, tutti si siedono intorno al tavolo, le donne portano dolci e altre bottiglie, ma nessuno li tocca. Il senso di attesa si fa ancora più forte; molti sguardi vanno alle finestre, anche se hanno le imposte chiuse. Sulle facce dei più piccoli si legge qualcosa che sta fra l’eccitazione e il turbamento, come quando ascoltano, divertiti e spaventati, vecchie fiabe di magia e di paura. Se qualcuno di loro diventa troppo irrequieto o parla a voce troppo alta, viene subito invitato a starsene buono e zitto.
Passano i minuti, nessuno si muove, si sono spenti anche gli ultimi sussurri. Poi il silenzio greve che sta impregnando la casa viene rotto all’improvviso: dalla stalla si alzano muggiti nervosi, e fuori i cani iniziano ad abbaiare furiosamente.
Pare di sentire i cavi elettrici sfrigolare, ronzare, la luce comincia a vacillare, si spegne e si riaccende, e infine muore del tutto. Nel buio pesto della stanza gremita non c’è più una voce, non c’è più un movimento.
Poi tutto tace anche fuori, gli animali si zittiscono. E dalle fessure tra le imposte arriva un pulsare prima bluastro, poi giallo e bianco, come se strani lampi accendessero la notte di un temporale silenzioso e inspiegabile.
«Ma che succede?» domanda Michele sottovoce a una cugina che gli siede accanto.
Lei per tutta risposta gli stringe un braccio, come a chiedergli di tacere.
C’è una vibrazione nell’aria; non è un vero suono, è solo una pressione che freme ai timpani, alle tempie. Poi anche quella sensazione scompare, le lampadine si riaccendono ticchettando.
È come se si sciogliesse un incantesimo, se una malia arcana e paralizzante venisse vinta, esorcizzata. Tutti si muovono, ricominciano a chiacchierare, prima mormorando, poi parlando più forte. I bambini lasciano le sedie, qualcuno si versa un bicchiere di vino.
Lina si alza, va verso la porta. «Andiamo, adesso» dice. Apre l’uscio, si affaccia: nel chiarore delle stelle e degli ultimi riverberi delle braci, è tutto tranquillo, come se nulla fosse successo.
La vecchia esce, gli altri la seguono. Michele si accoda, e quando è all’aperto, guarda nella direzione in cui vanno gli occhi di tutti.
Nel prato, all’interno di quello tracciato dai fuochi ormai spenti, c’è un altro grande cerchio, disegnato alla perfezione nell’erba e ben visibile in una luminescenza lattiginosa, la stessa delle stelle.

Hanno ravvivato i falò portando ramaglie sulle braci. Adesso il cerchio dove l’erba è appiattita è del colore delle fiamme. E nel rosseggiare si muovono ombre e figure, come in una danza tribale e antica, come in un rito arcaico e selvaggio: tutti si rotolano in terra, dentro quella circonferenza.
La vecchia Lina arriva accanto a Michele e gli dice: «Dai, fallo anche tu».
Lui la guarda e apre le braccia sbalordito. «Zia, ma da quando accade questa cosa?»
«Da sempre, credo. O almeno da quando ricordo io, e da quando ricordavano i nostri vecchi. Loro dicevano che era il ballo tondo delle fate, nel primo novilunio d’estate.»
«Un cerchio nel grano... Se non l’avessi visto, non ci avrei creduto.»
«Non è grano» dice Lina sorridendo.
Michele scuote la testa. «Non importa. Succede da tante altre parti, lo sai? Anche se non in questo modo, perché nessuno sa prima dove e quando...»
«Sì, i miei figli me l’hanno detto. Parlano di dischi volanti, di strane cose.»
«Perché, a te non pare una cosa strana?»
«No, a me no. L’ho vista ogni anno per tutta la vita. E da piccolo l’hai vista anche tu.»
«Non me lo ricordavo.»
«Lo so. Ma adesso sei qui, approfittane.»
«In che senso?»
«Fa’ come gli altri. Sdraiati e rotolati nel cerchio, ti farà bene.»
«Perché?» chiede Michele, rendendosi conto che è una domanda inutile e stupida.
Lei si stringe nelle spalle e se ne va.
Vuole assecondarla. E poi, con una consapevolezza che viene da chissà dove, sa che va fatto. Michele entra nel cerchio, si sdraia. L’erba e la terra sono calde, e trasmettono una sensazione di incredibile forza e beneficio.

Michele fa colazione in silenzio, poi sale nella propria stanza. La valigia è sul letto, finisce di riempirla con le poche cose che ha sparso in giro. Va alla finestra. La mattina è velata, qualche nuvola è giunta da ovest a rendere il cielo striato e opaco.
Il cerchio nel prato è ancora lì, ben visibile, grande ed enigmatico.
Non sa che dire. Non si è mai occupato di cose simili, non fanno parte dei suoi interessi. Al giornale ha sempre scritto solo di politica e di pubblica amministrazione.
Forse, pensa, qualcuno della grande famiglia è uscito al buio, mentre Lina aveva riunito tutti in casa, e ha creato il disegno sull’erba aiutandosi con qualche attrezzo.
L’ha visto fare una volta in tivù. Ma perché? Solo per un gioco che accomuna il parentado? Che senso avrebbe? E poi i lampi, i rumori, gli animali che urlavano inquieti. Un temporale elettrico? Una coincidenza?
Come quella che l’ha condotto a Ca’ Rampina dopo quarant’anni proprio nel momento in cui erano arrivati tutti gli altri e stava per accadere quella cosa?
Scuote la testa. Potrebbe estrarre dalla valigia la macchina fotografica, fare qualche scatto e scrivere un articolo; ma sa che non lo farà, non lo può fare. La sera prima, mentre stava per andare a letto, Giuseppe l’ha preso da parte e gli ha chiesto di tacere, di mantenere quello che per la famiglia sembra essere un antico e geloso segreto. Ma non è solo per questo, che rispetterà il silenzio: è soprattutto per ciò che nella notte è successo alla sua gamba.
Tira un sospiro profondo, finisce di sistemare le proprie cose.
Lina e Giuseppe sono fuori a salutare i parenti che, macchina dopo macchina, se ne vanno.
Michele li raggiunge con la valigia in mano.
«Potevo aiutarti a portarla giù» dice il vecchio.
«Non ce n’era bisogno. Non ho più male. Stanotte ho dormito come un sasso, anche se avevo la testa piena di pensieri, di emozioni, di domande, e quando mi sono svegliato la gamba non mi doleva più, e il ginocchio si piegava come se non avessi mai avuto l’incidente e le operazioni.»
Il vecchio annuisce, per niente meravigliato.
Lina chiede: «Perché te ne vai già? Avevi detto che saresti rimasto due o tre settimane».
Michele scuote la testa. «Non lo so, zia. Sento che devo andare a casa, ho voglia di rimettermi a lavorare, o forse voglio ricominciare da subito a riordinare la mia vita. E ho tante cose a cui pensare da solo.»
«Non scriverai sul giornale di quello che hai visto, vero? Rovineresti tutto.»
«No, ve l’ho detto, non scriverò e non ne parlerò con nessuno.»
«Giuralo.»
«Ve lo giuro.»
«E giura che tornerai.»
«Certo che tornerò. Tornerò prestissimo, magari uno dei prossimi fine settimana, e non vi perderò più. »
Abbraccia i due vecchi, raggiunge l’automobile senza zoppicare e se ne va.
Lina e Giuseppe guardano la macchina che scompare nel bosco, poi si incamminano verso casa.
«Dici che manterrà la promessa?» chiede lui.
«Sì, la manterrà. È uno di noi.»
L’uomo sospira. «Adesso ha visto, adesso sa tutto. Quasi tutto.»
«Quello che non sa, lo conoscerà la prossima volta. E poi in fondo è solo un dettaglio.»
«Un dettaglio? Crede che siamo uno zio e una zia. Non si ricordava.»
«Non me la sono sentita di dirglielo. Di confidargli che siamo i suoi nonni, che abbiamo duecentodieci anni in due, che il cerchio del novilunio è ancora più potente di quanto ha visto, di quanto crede.»
«Glielo diremo la prossima volta. E forse non si sorprenderà più di tanto.»
«Già» dice lei.
Si è alzato un po’ di vento, e i fili di fumo che si sollevano dai fuochi non ancora del tutto spenti si scompigliano e si dissolvono come nebbia al mattino.


martedì 12 febbraio 2013

fogli meta-Tao

La terza metastruttura introdotta da introdotta da Tyler Volk e Jeff Bloom sono i fogli, strutture con estensione bidimensionale nello spazio.

Background

As physical forms, sheets maximize transfer across surface areas, maximize surface area to volume ratio, and extend or grow two-dimensionally. In general terms, sheets represent capture, contact, and movement across a plane. In addition, when put together, they can form layers and can act as borders. Spheres and tubes can be made of sheets.
Two-dimensional layer crystals of carbon: structure of graphene.
Two-dimensional honeycomb hexagonal network of carbon atoms (spheres) on a plane. A monolayer of carbon atoms is called graphene, multiple layers of which form graphite.

Examples

  • In science: leaves, surface tension, membranes, individual layers of the Earth and atmosphere, fins, airplane wings, skates and rays, films, snow coverage, etc.
  • In architecture and design: walls, open areas as in large convention centers, fans and windmills, sails, turbines, etc.
  • In art: canvas, shapes, etc.
  • In social sciences: movement within a space, separation, etc.
  • In other senses: clothing, rain coming down in sheets, bed coverings, parking lots, etc.
Curvatura dello spazio-tempo in presenza di massa.
Oh Sheet! © Thomas Barbèy

Metapatterns

The Pattern Underground

Intensità (Cavaliere di Bastoni)


Questa figura ha assunto la forma di una freccia, che si muove con una messa a fuoco su un unico punto, come fa colui che sa con esattezza dove sta andando. Si muove così velocemente da essere diventato pura energia. Ma la sua intensità non deve essere confusa con l'energia folle che spinge le persone a guidare l'auto a velocità supersonica per arrivare prima. Questo tipo di intensità appartiene al mondo orizzontale dello spazio e del tempo; l'intensità raffigurata dal Cavaliere di Fuoco appartiene al mondo verticale del presente - è un segno che il presente è il solo momento che esiste, e questo spazio è il solo spazio. Quando agisci con l'intensità del Cavaliere di Fuoco, crei delle onde sulle acque che ti circondano: qualcuno si sentirà sollevato e rinfrescato dalla tua presenza, altri potrebbero sentirsi infastiditi o minacciati. Ma le opinioni altrui importano ben poco; in questo momento nulla ti può trattenere.

Lo Zen afferma: considera tutte le parole sublimi e i grandi insegnamenti quali tuoi nemici mortali. Evitali, poiché devi trovare la tua fonte. Non devi essere un seguace, un imitatore. Devi essere un individuo originale; devi trovare da solo la tua essenza più intima, senza guida, senza l'ausilio di testi sacri. È una notte oscura ma, sostenuto dall'intenso fuoco della ricerca, giungerai inevitabilmente all'alba. Chiunque abbia bruciato del fuoco intenso della ricerca, ha visto alla fine sorgere il sole. Gli altri si limitano a credere. Coloro che credono non sono religiosi, semplicemente evitano la grande avventura della religione, limitandosi a credere.

venerdì 8 febbraio 2013

il tonal del Tao


Le caratteristiche di un uccello solitario sono cinque:
la prima, che vola verso il punto più alto;
la seconda, che non sopporta compagni, neanche simili a lui;
la terza, che mira con il becco ai cieli;
la quarta, che non ha un colore definito;
la quinta, che canta molto dolcemente.
San Juan de la Cruz. Dichos de Luz y Amor
Il quarto libro di Castaneda - del 1974 - segna un forte distacco rispetto ai precedenti. Se i primi tre si potevano ancora considerare come "resoconti del lavoro sul campo" nella ricerca di un antropologo sulle tradizioni magiche della stregoneria del Messico, e non dei romanzi, quest'ultimo descrive esperienze e situazioni che, pur in continuità con i precedenti, mostrano come l'autore o sia entrato in un'opera di pura fantasia oppure sia stato completamente assorbito dalle esperienze di "magia" sperimentate dall'inizio degli anni 60, con o senza l'utilizzo di allucinogeni. L'inizio del libro fornisce alcune spiegazioni:
Nell'autunno del 1971, dopo essere stato via per parecchi mesi, mi sentii disposto a incontrare don Juan. Ero pronto a spingermi fin nel Messico centrale per raggiungerlo. Convinto che l'avrei trovato in casa di don Genaro, feci i miei preparativi per un viaggio di sei o sette giorni. Partii, ma già nel pomeriggio del secondo giorno, d'istinto, mi fermai presso l'abitazione di don Juan a Sonora. Parcheggiai la macchina e feci a piedi i pochi passi che mi separavano dalla casa. Là, con mia sorpresa, lui c'era.
"Don Juan! Non credevo di trovarvi qui."
Sorrise; sembrò che il mio stupore lo divertisse. Era seduto vicino alla porta su un bidone del latte vuoto. Pareva che fosse stato ad aspettarmi. Mi salutò come se finalmente fossi arrivato. Si tolse il cappello con un comico gesto di omaggio. Poi se lo rimise in testa e mi fece il saluto militare. Appoggiato al muro, sedeva sul bidone del latte come su una sella.

"Stavo andandomene fino al Messico centrale per nulla" dissi io. "E poi sarei dovuto tornare a Los Angeles. Trovarvi qui mi ha risparmiato giorni e giorni di viaggio."
"In qualche modo mi avreste trovato" replicò enigmatico; "Adesso mi siete debitore di questi  sei giorni che avreste impiegato per andare fin lì: giorni che dovreste usare per far qualcosa di più interessante che schiacciare l'acceleratore."
C'era qualcosa di seducente nel sorriso di don Juan. La sua cordialità era contagiosa.
"Dov'è la vostra roba per scrivere?" chiese.
Gli dissi che l'avevo lasciata nell'automobile; rispose che senza di essa non sembravo io, e volle che l' andassi a prendere.
"Ho finito di scrivere un libro" gli dissi.
Mi diede uno sguardo lungo, strano, che mi fece contrarre la bocca dello stomaco come se qualcosa di morbido mi avesse schiacciato il petto. Ebbi l'impressione di cominciare a sentirmi male; ma poi lui girò il capo e stetti bene di nuovo.
Volevo parlargli del mio libro, ma con un gesto mi fece capire che non desiderava saperne nulla. Sorrideva. Era di buon umore, accattivante, subito cominciò a farmi parlare di cose senza importanza, di gente, di quel che era successo. Finalmente riuscii a dirigere la conversazione su ciò che m'interessava davvero. Dissi che avevo ripreso in mano i primi appunti, rendendomi conto che lui, fin dall'inizio dei nostri rapporti, mi aveva fornito una descrizione particolareggiata del mondo degli stregoni. Alla luce di quanto mi aveva detto allora, io avevo cominciato a dubitare della funzione delle piante allucinogene.
"Perché mi avete fatto prendere per tanto tempo quelle piante potenti?" chiesi.
Sorrise e mormorò pianissimo: "Perché siete ottuso".
Capii subito, ma per essere più sicuro feci finta di non aver sentito bene.

"Come avete detto?"
"Lo sapete benissimo" rispose e si alzò.
Mi venne vicino e mi diede un colpetto sulla testa. "Siete piuttosto lento" disse. "E non c'era altro mezzo per scuotervi."
"Quindi nessuna di quelle piante era assolutamente necessaria?" gli chiesi.

"Nel vostro caso lo era. Ma ci sono altri tipi di persone che non sembrano averne bisogno."
 Si fermò vicino a me, fissando gli ultimi cespugli a sinistra della casa; poi si sedette di nuovo e cominciò a parlare di Eligio, l'altro suo apprendista. Disse che Eligio aveva preso delle piante psicotrope una volta sola da quando era con lui, e ora era forse ancor più avanti di me.
"Essere sensitivi, per certe persone, è una condizione naturale" disse. "Voi non lo siete. Ma neanch'io. In ultima analisi, la sensitività conta molto poco."
"Che cosa conta, allora?"

 Parve che cercasse una risposta.
"Conta che il guerriero sia senza macchia" disse alla fine. "Ma questo è solo un modo di dire, una scappatoia. Voi avete già compiuto qualche operazione di stregoneria, e credo che sia venuto il momento di nominare la fonte di tutto ciò che conta. Vi dirò quindi che ciò che conta per un guerriero è arrivare alla totalità di se stesso."
"Che cos'è la totalità di se stesso, don Juan?"

"Ho detto che l'avrei soltanto nominata. Nella vostra vita c'è ancora una quantità di fili separati che dovrete legare insieme, prima che io possa parlarvi della totalità di se stesso.
In periodi successivi Don Juan fornì a Castaneda, nei modi più disparati, diverse spiegazioni sul modello della stregoneria - la cosiddetta "spiegazione degli stregoni" - a seconda del grado di apprendimento che reputava raggiunto. Una parte essenziale della descrizione viene fornita dalla dualità tonal/nagual, corrispondente alla dualità tra il Teh del Tao, rappresentato dal simbolo dello Taijitu con tutte le sue infinite dualità, e la sua matrice, il Tao:
Don Juan e io ci incontrammo di nuovo il giorno successivo, in quello stesso parco, verso mezzogiorno. Don Juan indossava sempre il suo completo marrone. Ci sedemmo su una panchina; lui si tolse la giacca, la piegò con gran cura, ma con un'aria di suprema noncuranza, e la appoggiò sulla panchina. La sua noncuranza era studiatissima e tuttavia perfettamente naturale. Mi accorsi che lo stavo fissando.Sembrò consapevole del paradosso che offriva ai mici occhi e sorrise. Si raddrizzò la cravatta. Portava una camicia beige con le maniche lunghe. Gli stava benissimo.
"Porto ancora il mio completo perché voglio dirvi una cosa molto importante" disse, battendomi sulla spalla. "Ieri vi siete comportato bene. Ora è il momento di arrivare a qualche accordo definitivo."
Tacque per un lungo istante. Sembrava che si preparasse a una dichiarazione. Provai una strana sensazione allo stomaco. Avevo immediatamente supposto che stesse per rivelarmi la spiegazione degli stregoni. Si alzò e fece qualche passo avanti e indietro, come se gli fosse difficile esprimere quel che aveva in mente.
"Andiamo in quel ristorante dall'altra parte della strada e mangiamo qualcosa" disse alla fine.
Prese la giacca e prima di infilarla mi mostrò che era tutta foderata.
"E fatta su misura" disse e sorrise come se ne fosse orgoglioso, come se fosse stata una cosa importante.
"Devo attirare la vostra attenzione su di essa, perché altrimenti non vi badereste, ed è importantissimo che ne siate consapevole. Voi siete consapevole di ogni cosa solo quando pensate di doverlo essere; ma la condizione del guerriero è: essere consapevole di ogni cosa in ogni momento."
"Il mio completo e tutti questi ammennicoli sono importanti perché rappresentano la mia condizione nella vita. O piuttosto la condizione di una delle due parti della mia totalità. Questa discussione era in sospeso. Credo che ora sia il momento di farla. Doveva però essere fatta solo al momento giusto, altrimenti non avrebbe avuto senso. Con il mio completo volevo fornirvi un primo indizio. Penso d'esserci riuscito. Adesso è il momento di parlare, perché su questo argomento non ci può essere completa comprensione se non si parla."
"Quale argomento don Juan?"
"La totalità dell'io."
Si alzò bruscamente e mi condusse nel ristorante di un grande albergo, dall'altra parte della strada. Una donna di umore piuttosto ostile ci diede una tavola in un angolo, al fondo. Ovviamente, i posti migliori erano quelli vicini alle finestre.
Dissi a don Juan che quella donna me ne ricordava un'altra, in un ristorante dell'Arizona dove una volta eravamo andati a mangiare insieme: prima di darci il menù, ci aveva chiesto se avevamo abbastanza denaro per pagare.
"Non biasimo quella povera donna" disse don ]uan, come se simpatizzasse con lei. "Anche lei, come l'altra, ha paura dei messicani".
Rise piano. Un paio di persone alle tavole vicine girarono la testa e ci guardarono.
Don Juan disse che senza saperlo, o forse anzi in contrasto con la sua volontà, la donna ci aveva dato la tavola migliore: quella che ci avrebbe permesso di parlare, e a me avrebbe permesso di scrivere, a nostro piacimento.
Avevo appena tirato fuori di tasca il notes e l'avevo appoggiato sulla tavola, quando d'improvviso il cameriere venne verso di noi. Anche lui sembrava di cattivo umore. Stette di fronte a noi con aria di sfida.
Don Juan si mise a ordinare per sé un pranzo molto complicato. Ordinava senza guardare il menù, come se lo sapesse a memoria. Ero imbarazzato; il cameriere era comparso inatteso e non avevo avuto il tempo di leggere il menù: gli dissi quindi che prendevo anch'io lo stesso.
Don Juan mi sussurrò all'orecchio: "Scommetto che non hanno quello che ho ordinato."
Stirò braccia e gambe e mi disse di rilassarmi, di mettermi comodo, perché per preparare il nostro pranzo ci sarebbe voluta un'eternirà.
"Siete a un bivio cruciale" disse. "Forse l'ultimo, e forse anche il più difficile da capire. Alcune delle cose che vi indicherò oggi, probabilmente non saranno mai chiare. Non sono cose che possano essere chiarite, in alcun modo. Quindi non provate imbarazzo o scoraggiamento.Tutti noi siamo creature ottuse quando raggiungiamo il mondo della stregoneria, e raggiungerlo non vuol dire affatto essere certi di cambiare. Alcuni di noi restano ottusi fino all'ultimo."
Mi piaceva che comprendesse anche se stesso fra gli ottusi. Sapevo che non lo faceva per cortesia, ma come espediente didattico.
"Non inquietatevi se non caverete un significato da quanto sto per dirvi" proseguì "Considerando il vostro temperamento, ho paura che vi mettiate fuori combiamento da solo, nello sforzo di capire. Non fatelo! Quanto vi dirò deve solo servire a indicare una direzione."
Provai un improvviso senso di apprensione. Gli ammonimenti di don Juan mi cacciavano in una rifessione senza fine. Già in altre occasioni mi aveva ammonito così, proprio nello stesso modo, e ogni volta ciò da cui mi aveva messo in guardia s'era poi rivelato un'esperienza rovinosa.
"Divento molto nervoso quando mi parlate cosi" gli dissi.
"Lo so" rispose calmo. "Sto cercando deliberatamente di svegliarvi. Ho bisogno della vostra attenzione, della vostra intera attenzione."
Tacque e mi guardò: ebbi un riso nervoso e involontario. Sapevo che stava ampliando al massimo le possibilità drammatiche della situazione.
"Non vi dico tutto questo per farvi impressione" aggiunse don Juan come se avesse letto nei miei pensieri. "Vi do solo il tempo di prepararvi nel modo opportuno."
In quel momento il cameriere si fermò alla nostra tavola per annunciare che non disponevano di quel che avevamo ordinato. Don Juan rise rumorosamente e ordinò tortillas e fagioli. Il cameriere ridacchiò sprezzante, dichiarò che loro non ne servivano, e suggerì bistecca o pollo. Ci decidemmo per una zuppa.
Mangiammo in silenzio. La zuppa non mi piaceva e non riuscii a finirla, ma don Juan la divorò tutta.
"Ho messo il mio completo" disse d'un tratto "per parlarvi di qualcosa, qualcosa che già conoscete ma che bisogna chiarire perché diventi efficiente. Ho aspettato fino adesso perché Genaro ritiene che non soltanto dobbiate essere intenzionato a percorrere la strada del sapere, ma che i vostri stessi sforzi debbano essere senza macchia, tanto da rendervi degno di quel sapere. Vi siete comportato bene. Ora vi dirò la spiegazione degli stregoni."
Tacque di nuovo, si fregò le guance e fece girare la lingua nella bocca come per toccarsi i denti.
"Sto per parlarvi del tonal e del nagual" disse, e mi guardò con occhi penetranti.
Era la prima volta dall'inizio dei nostri rapporti che don Juan usava quelle due parole. Mi erano vagamente familiari: le avevo lette negli studi antropologici, sulle culture del Messico centrale. Sapevo che il "tonal" era considerato una sorta di spirito protettore, solitamente animale, che il bambino riceveva alla nascita e con il quale manteneva stretti vincoli per tutta la vita. "Nagual" era il nome attribuito all'animale in cui gli stregoni pretendevano di potersi trasformare o allo stregone che attuava tale trasformazione.
"Questo è il mio tonal" disse don Juan fregandosi le mani sul petto.
"Il vostro completo?"
"No. La mia persona."
Si batté le mani sul petto, sulle gambe e sulle costole.
"Il mio tonal è tutto questo"

Spiegò che ogni essere umano aveva due lati, due entità separate, due controparti, che divenivano operanti al momento della nascita; una era chiamata il "tonal", l'altra il "nagual".
Gli dissi ciò che gli antropologi sapevano intorno a quei due concetti. Mi lasciò parlare senza interrompermi.
"Bene, tutto quello che credete di sapere in proposito sono pure assurdità" disse poi. "Baso questa affermazione sul fatto che quanto vi sto dicendo del tonal e del nagual non può esservi già stato detto prima. Qualsiasi stupido capirebbe che non ne sapete nulla, perché per esserne informato dovreste essere uno stregone, e non lo siete. Oppure dovreste averne parlato con uno stregone, e non l'avete fatto. Quindi, lasciate perdere tutto quello che avete sentito dire prima, perché non vi servirebbe a niente."
"Era solo un commento" dissi.
Sollevò le sopracciglia con un'espressione comica.
"I vostri commenti sono fuori di posto" replicò.
"Questa volta mi occorre la vostra intera attenzione, perché sto per informarvi del tonal e del nagual. Per gli stregoni questo sapere presenta un interesse eccezionale, unico. Potrei dirvi che il tonal e il nagual sono esclusivamente di pertinenza degli uomini del sapere. Nel vostro caso, sono ciò che conclude tutto quello che vi ho, insegnato. Perciò ho aspettato fino adesso a parlarvene."
"Il tonal non è un animale che protegge una persona. Potrei dire piuttosto che è un protettore che può essere rappresentato come un animale. Ma non è un punto importante."
Sorrise e mi strizzò l'occhio.
"Adesso uso le vostre parole", disse. "Il tonal è la persona sociale."
Rise, immaginai, alla vista della mia confusione.
"Il tonal è dunque, propriamente, un protettore - un protettore che per lo più diviene una guardia."
Annaspavo con il mio notes. Cercavo di prestare attenzione a quanto don Juan stava dicendo. Lui rise e imitò i miei gesti nervosi.
"Il tonal è l'organizzazione del mondo" proseguì. "Forse il modo migliore per descrivere la sua enorme opera è dire che sulle sue spalle poggia il compito di mettere in ordine il caos del mondo. Non è esagerato affermare, con gli stregoni, che tutto quello che sappiamo e che facciamo come uomini è opera del tonal"
"In questo momento, per esempio, ciò che è impegnato nel tentativo di ricavare un senso dalla nostra conversazione è il vostro tonal: senza di esso ci sarebbero soltanto suoni misteriosi e smorfie, e non capireste nulla di quanto dico."
"Inoltre il tonal è il protettore che protegge una cosa che non ha prezzo; il nostro vero essere. Quindi una qualità specifica del tonal consiste nell'essere geloso delle sue azioni. E poiché le sue azioni sono la parte di gran lunga più importanti delle nostre vite, non c'è da meravigliarsi se alla fine il tonal si trasforma, in ciascuno di noi, da protettore in guardia."
Si fermò e mi chiese se avevo capito. Automaticamente feci di si col capo, ed egli sorrise con aria incredula.
"Un protettore è di larghe vedute e comprensivo" spiegò. "Una guardia, invece, è di mente ristretta e per lo più dispotica. Vi dirò che in tutti noi il tonal è stato trasformato in una guardia gretta e dispotica, mentre potrebbe essere un protettore di larghe vedute."
Avevo definitivamente perso il filo della sua spiegazione. Ascoltavo e annotavo ogni parola; tuttavia mi sembrava di non riuscire a liberarmi da un dialogo interiore, con me stesso.
"Per me è difficilissimo seguirvi" dissi.
"Se la smetteste di parlare con voi stesso, non avreste difficoltà" replicò tagliente.
La sua osservazione suscitò da parte mia tutta una lunga spiegazione. Finalmente mi ripresi e mi scusai dell'insistenza nel difendermi. Don Juan sorridendo fece un gesto con cui parve indicare che il mio atteggiamento non gli aveva dato veramente fastidio.
"Il tonal è tutto ciò che noi siamo" prosegui. "Dite un nome qualsiasi! Tutto ciò per cui possedete un nome è il tonal. E siccome il tonal è le sue stesse azioni, ogni cosa, ovviamente, deve ricadere nel suo ambito."
Gli ricordai che mi aveva detto che il "tonal" era la persona sociale, un'espressione che avevo usato io stesso con lui per designare un essere umano come risultato finale di processi di socializzazione. Feci notare che se il "tonal" era questo prodotto, non poteva essere ogni cosa, dato che il mondo intorno a noi non era il prodotto della socializzazione.
Don Juan a sua volta mi fece ricordare che il mio discorso non aveva fondamento per lui: già da tempo aveva precisato che non esiste il mondo, ma solo una descrizione del mondo che abbiamo imparato a vedere chiara e a prendere per certa. "Il tonal è tutto ciò che sappiamo" disse." Penso che questa sia di per sé una ragione sufficiente per  considerare il tonal una faccenda schiacciante".
Tacque per un momento. Parve che a questo punto si aspettasse domande o commenti, ma io non ne avevo alcuno. Mi sentivo però obbligato a porre comunque una domanda, e lottai per formularne una appropriata. Non ci riuscii. Capii che gli ammonimenti con cui aveva iniziato la nostra conversazione erano forse serviti a dissuadermi dall'avanzare qualsiasi interrogativo. Mi sentivo stranamente intorpidito. Non riuscivo a concentrare e ordinare i pensieri.  Sentivo e sapevo, senza ombra di dubbio, che ero incapace di pensare, e tuttavia lo sapevo senza pensare, come se fosse stato perfettamente possibile.
Guardai don ]uan. Stava fissando il centro del mio colpo. Spostò gli occhi e la chiarezza mentale mi tornò d'improvviso.
"Il tonal è tutto ciò che sappiamo" ripeté lentamente. "E questo include non solo noi, come persone, ma tutto nel nostro mondo. Si può dire che il tonal è tutto ciò che incontra l'occhio.
"Cominciamo a disporne al momento della nascita. Nell'istante in cui tiriamo il fiato per la prima volta, inspiriamo potere per il tonal. E quindi giusto dire che il tonal di un essere umano è intimamente legato alla sua nascita."
"Dovete ricordarvi questo. E molto importante per capire tutto ciò che sto dicendo. Il tonal ha inizio con la nascita e finisce con la morte."
Volevo ricapitolare tutti i punti che aveva esposto.
Aprii la bocca per chiedergli di ripetere gli elementi essenziali della nostra conversazione, ma con stupore mi accorsi di non riuscire a pronunciare le parole. Sperimentavo una stranissima incapacità: le mie parole erano pesanti e non riuscivo a dominare questa sensazione.
Guardai don Juan per fargli capire che non riuscivo a parlare. Stava di nuovo fissando la zona intorno al mio stomaco.
Distolse gli occhi e mi chiese come mi sentivo. Le parole mi corsero fuori come se fossi stato stappato. Gli dissi che avevo avuto la strana sensazione di non riuscire a parlare o a pensare, sebbene i miei pensieri fossero chiarissimi.
"I vostri pensieri erano chiarissimi?" chiese.
Allora mi resi conto che la chiarezza non era dei miei pensieri, ma della mia percezione del mondo.
Mi state facendo qualcosa, don Juan?
"Cerco di convincervi che i vostri commenti non sono necessari" mi rispose ridendo.
"Intendete dire che non volete che io ponga delle domande"
"No, no. Chiedete quel che volete ma non fate oscillare la vostra attenzione"
Dovetti riconoscere che ero stato distratto dall'immensità dell'argomento.
"Non riesco ancora a capire, don Juan, cosa volete dire quando affermate che il tonal è ogni cosa?" dissi dopo un momento di pausa.
"Il tonal è quello che fa il mondo." 

"Il tonal è il creatore del mondo?"
 Don Juan si grattò le tempie.
"Il tonal fa il mondo solo per modo di dire. Non può creare o cambiare nulla, e tuttavia fa il mondo perché ha la funzione di giudicare, di valutare, di rendere testimonianza. Dico che il tonal fa il mondo perché ne rende testimonianza e lo valuta secondo le leggi del tonal. In modo molto strano, il tonal è un creatore che non crea nulla. In altre parole, il tonal compone le leggi con le quali percepisce il mondo.  Quindi, per modo di dire, crea il mondo."
Cominciò a mormorare un motivo popolare, battendo il ritmo con le dita sul fianco della seggiola. Aveva gli occhi sfavillanti; sembravano emettere scintille. Ridacchiò scuotendo la testa.
"Non mi seguite" disse sorridendo.
"Ma no. Riesco a seguirvi" replicai in tono che però non era molto convincente.
"Il tonal è un'isola"  spiegò.  "Il modo migliore di descriverlo è dire che il tonal è questo"
Fece scorrere la mano sul piano della tavola.
"Possiamo dire che il tonal è come il piano di questa tavola. Un'isola. E su quest'isola abbiamo tutto. Quest'isola, infatti, è il mondo."
"C'è un tonal personale per ciascuno di noi, e ce n'è uno collettivo per tutti noi in ogni momento, che possiamo chiamare il tonal del tempo"
Indicò le file di tavole nel ristorante.
"Guardate! Ogni tavola ha la stessa conformazione.  Certi elementi si trovano in tutte. Sono però individualmente diverse le une dalle altre; ad alcune c'è più gente; su ciascuna di esse ci sono cibi diversi, piatti diversi, intorno a ciascuna di esse c'è un'atmosfera diversa; però dobbiamo riconoscere che tutte le tavole in questo ristorante sono molto simili. Lo stesso succede con il tonal. Possiamo dire che il tonal del tempo è ciò che ci rende simili, così come rende simili tutte le tavole in questo ristorante. Tuttavia ogni tavola, presa singolarmente, è un caso individuale, proprio come il tonal personale di ciascuno di noi. Ma la cosa importante da tenere a mente è che tutto ciò che sappiamo di noi e del nostro mondo è sull'isola del tonal. Capite quel che voglio dire?"
"Se il tonal è tutto ciò che sappiamo di noi e del nostro mondo, che cos'è allora il nagual?"
"ll nagual è la parte di noi con cui non abbiamo assolutamente a che fare."
" Come dite?"
"Il nagual è la parte di noi per la quale non c'è descrizione - non parole, non nomi, non sensazioni, non sapere."
"E' una contraddizione, don Juan. A mio parere, se non può essere né sentito né descritto, né  nominato, non può esistere."
"E' una contraddizione soltanto nel vostro parere. Vi avevo avvertito; non mettetevi fuori gioco da solo, cercando di capirlo."
"Potreste dire che il nagual è la mente?"
"No. La mente è un elemento della tavola. La mente è parte del tonal. Ecco: la mente è la chili sauce."
Prese una bottiglia di salsa e la collocò di fronte a me.
"Il nagual è l'anima?"
"No. Anche l'anima sta sulla tavola. Diciamo che è il portacenere."
"E i pensieri degli uomini?"

No. Anche i pensieri stanno sulla tavola. I pensieri sono come le posate."
Prese una forchetta e la mise vicino alla chili sauce e al portacenere.
"E' uno stato di grazia? Il paradiso?"
"Né l'uno né l'altro. Qualunque cosa possano essere, sono anch'essi parte del tonal. Diciamo che sono: il tovagliolo."
Continuai a sottoporgli tutti i modi possibili per descrivere ciò cui alludeva: intelletto puro, psiche, energia, forza vitale, immortalità, principio di vita. Per ogni mia parola scopriva un corrispettivo sulla tavola e me lo metteva davanti: alla fine tutto quel che si trovava sulla tavola era ammucchiato davanti a me.
Don Juan sembrava divertirsi enormemente. Aveva un breve scoppio di risa e si fregava le mani ogni volta che menzionavo un'altra possibilità.
"Il nagual è l'Essere Supremo, l'Onnipotente, Dio?" chiesi.
"No. Anche Dio sta sulla tavola. Diciamo che Dio è la tovaglia."
Fece un buffo gesto, come per ammucchiare la tovaglia con tutto il resto.
"Ma, state dicendo che Dio non esiste?"
"No. Non ho detto questo. Ho detto soltanto che il nagual non è Dio, perché Dio è un elemento del nostro tonal personale e del tonal del tempo. Il tonal, vi ho già detto, è tutto ciò di cui pensiamo sia costituito il mondo, compreso Dio, naturalmente. Dio non ha importanza che nella misura in cui fa parte del tonal del nostro tempo."
"Come io lo intendo, don Juan, Dio è ogni cosa. Non stiamo parlando della stessi cosa?"

"No. Dio è soltanto ogni cosa di cui potete pensare: dunque, propriamente, è solo un altro elemento sull'isola. Non si può essere a piacimento testimoni di Dio; di lui si può solo parlare. Il nagual invece è al servizio del guerriero. Se ne può essere testimoni, ma non se ne parlare."
"Se il nagual non è alcuna delle cose che ho nominato"  dissi "forse potete dirmi dov'è collocato. Dove si trova?"
Don Juan fece un gesto come per scopar via e indicò lo spazio di là dai limiti della tavola. Mosse la mano come per ripulire con il dorso un'immaginaria superficie oltre il piano della tavola.
"Il nagual è lì" disse. "Lì, tutt'intorno all'isola. Il nagual è lì, dove il potere si libra."
"Dal momento in cui siamo nati, intuiamo che per noi ci sono due parti. All'istante della nascita, e ancora per un po' di tempo dopo, siamo soltanto nagual. Poi intuiamo che, per funzionare, abbiamo bisogno di una controparte a ciò che abbiamo. Il tonal ci manca, e questo ci imprime, fin dall'inizio della vita, un senso di incompletezza. Poi il tonal comincia a svilupparsi e diviene enormemente importante per il nostro funzionamento, tanto importante che offusca la lucentezza del nagual, la sopraffà. Dal momento in cui diventiamo soltanto tonal, non facciamo che accresce il nostro iniziale senso di incompletezza che ci accompagna dalla nascita e che continuamente ci dice: ci vuole un'altra parte per essere completi."
"Dal momento in cui diventiamo soltanto tonal, cominciamo a formare delle coppie. Intuiamo i nostri due lati, ma li rappresentiamo sempre con gli elementi del tonal. Diciamo che le nostre due parti sono l'anima e il corpo. O pensiero e materia. O bene e male. O Dio e Satana. E non ci rendiamo conto che continuiamo soltanto a comporre coppie con ciò che sta sull'isola, come se mettessimo di fianco caffè e tè, oppure pane e tortillas, chili e senape. Siamo animali strani, ve lo dico io. Ci lasciamo trasportare fuori strada, e nella nostra follia crediamo di aver trovato la soluzione giusta."

Don Juan si alzò e si rivolse a me come un oratore.
Mi puntò l'indice contro, tremolando la testa.

"L'uomo non muove tra bene e male" disse in comico tono retorico, afferrando con entrambe le mani i vasetti del pepe e del sale. "Il suo vero moto è tra negativo e positivo."
Lasciò cadere il sale e il pepe e prese un coltello e una forchetta.
"Vi sbagliate! Non c'è movimento" prosegui, come se rispondesse a se stesso. "L'uomo è soltanto mente!"
Prese la bottiglia della salsa e la sollevò. Poi la rimise giù.
"Come vedete," disse piano "possiamo benissimo sostituire alla mente la chili sauce e concludere: L'uomo è soltanto chili sauce!, senza andare incontro per questo a una smentita peggiore."

"Ho paura di non aver posto la domanda giusta" dissi. "Forse ci capiremmo meglio se vi chiedessi che cosa propriamente si può trovare in quest'area, di là dall'isola?"
"Non è possibile rispondere. Se dicessi "Nulla", indicherei solo la parte nagual del tonal. Tutto ciò che posso dire è che lì, di là dall'isola, si trova il nagual."
"Ma, se lo chiamate il nagual, non finite per collocarlo sull'isola?"
"No. Gli do nome solo perché voglio che ne siate consapevole"
"Benissimo! Ma divenirne consapevole è il passo che ha trasformato il nagual in un nuovo elemento del mio tonal."
"Temo che non capiate. Ho menzionato il tonal e il nagual come una vera coppia. Ho fatto solo questo."
Mi ricordò che una volta, cercando di spiegargli la mia insistenza sul significato, avevo discusso l'idea che i bambini non siano in grado di distinguere tra "padre" e "madre" finché i due concetti non si sviluppino in termini tangibili, e che per essi il "padre" sia quello che porta i calzoni e la "madre" quella che porta la sottana, o comunque che la differenza stia nella capigliatura, nella forma del corpo, nei vestiti.
"Certamente non ci comportiamo allo stesso modo con le due parti di noi"; egli disse. "Noi intuiamo che c'è un altro lato di noi. Ma quando cerchiamo di afferrare quell'altro lato, il tonal prende il comando e diventa gretto e geloso. Ci abbaglia con le  sue astuzie e ci costringe a cancellare il minimo indizio dell'altra componente della coppia, il nagual."

lunedì 4 febbraio 2013

Tao in metró

Sia come sia. Stamattina hai subito aggiornato il tuo status su Facebook: SBIGOTTITA. Twittando a ruota: OH MIO DIO QUANTO SONO SBIGOTTITA .

Nel mio specchietto Chanel verifico che i capelli e il resto siano a posto. Poi ricontrollo per l’ennesima volta l’iPhone, ma Niccolò non si è ancora fatto vivo. In compenso mia madre mi ha già chiamata tre volte, anche se sa perfettamente che io non le rispondo, e ho ricevuto tutta una serie di sms di solidarietà.

Tra l’altro: che sia il caso di aggiornare il mio profilo su Facebook? Dopotutto non credo che SPOSATA abbia ancora senso. E poi oggi non ho ancora dato un’occhiata né ai tweet di Francesca Versace né agli outfit consigliati dal blog The Blonde Salad, il mio punto di riferimento in questo mondo così confuso dopo la caduta del Muro di Berlino, l’11 settembre e le ricorrenti voci sull’omosessualità di George Clooney. Tisana drenante, penso. Devo bere una tisana drenante.
Biancolatte, penso. Devo provare Biancolatte in via Turati. Pilates, penso. Devo ricominciare a fare pilates.
SHOPPING FOR BOOKS IS BETTER THAN PSYCHIATRY

venerdì 1 febbraio 2013

Tao discreto


In questa parte specifica Tart definisce e descrive in modo più particolareggiato gli stati di coscienza discreti:

Discrete States of Consciousness

The terms state of consciousness and altered state of consciousness have become very popular. As a consequence of popularization, however, the terms are frequently used in such a loose fashion as to mean almost nothing in particular. Many people now use the phrase state of consciousness, for example, to mean simply whatever is one one's mind. So if I pick up a water tumbler and look at it, I am in "water tumbler state of consciousness," and if I now touch my typewriter, I am in "typewriter state of consciousness." Then an altered state of consciousness simply means that what one is thinking about or experiencing now is different from what it was a moment ago.
To rescue the concepts of state of consciousness and altered state of consciousness for more precise scientific use, I introduce the terms and abbreviation discrete state of consciousness (d-SoC) and discrete state of consciousness (d-ASC). I discussed the basic theoretical concepts for defining these crucial terms. Here, I first describe certain kinds of experiential data that led to the concepts of discrete states and then go on to a formal definition of d-SoC and d-ASC.

Mapping Experience

Suppose that an individual's experience (and/or behavior and/or physiology) can be adequately described at any given moment if we know all the important dimensions along which experience varies and can assess the exact point along each dimension that an individual occupies or experiences at a given moment. Each dimension may be the level of functioning of a psychological structure or process. We presume that we have a multidimensional map of psychological space and that by knowing exactly where the individual is in that psychological space we have adequately described his experiential reality for that given time. This is generally accepted theoretical idea, but it is very difficult to apply in practice because many psychological dimensions may be important for understanding an individual's experience at any given moment. We may be able to assess only a small number of them, and/or an individual's position on some of these dimensions may change even as we are assessing the value of others. Nevertheless, the theory is an ideal to be worked toward, and we can assume for purposes of discussion that we can adequately map experience.
To simplify further, let us assume that what is important about an individual's experiences can be mapped on only two dimensions. We can thus draw a graph, like Figure 5-1:
Each small circle represents an observation at a single point in time of where a particular individual is in this two-dimensional psychological space. In this example, we have taken a total of twenty-two binary measures at various times.
The first thing that strikes us about this individual is that his experiences seem to fall in three distinct clusters and that there are large gaps between these three distinct clusters. Within each cluster this individual shows a certain amount of variability, but he has not had any experiences at all at points outside the defined clusters. This kind of clustering in the plot of an individual's locations at various times in experiential space is what I mean by discrete states of consciousness. Put another way, it means that you can be in a certain region of experiential space and show some degree of movement or variation within that space, but to transit out of that space you have to cross a "forbidden zone" where you cannot function and/or cannot have experiences and/or cannot be conscious of having experiences; then you find yourself in a discretely different experiential space. It is the quantum principle of physics applied to psychology. You can be either here or there, but not in between.
There are transitional periods between some d-SoCs; they are dealt with in more detail later. For now, being in a d-SoC means that you are in one of the three distinct regions of psychological space shown in Figure 5-1.
Now let us concretize this example. Let us call the vertical dimension ability to image or hallucinate, varying from a low of imaging something outside yourself but with nothing corresponding in intensity to a sensory perception, to a high or imagining something with all the qualities of reality, of actual sensory perception. Let us call the horizontal dimension ability to be rational, to think in accordance with the rules of some logic. We are not now concerned with the cultural arbitrariness of logic, but simply take it as a given set of rules. This dimension varies from a low of making many mistakes in the application of this logic, as on days when you feel rather stupid and have a hard time expressing yourself, to a high of following the rules of the logic perfectly, when you feel sharp and your mind works like a precision computer.
We can assign names of known d-SoCs to the three clusters of data points in the graph. Ordinary consciousness (for our culture) is shown in the lower right-hand corner. It is characterized by a high degree of rationality and a relatively/ low degree of imaging ability. We can usually think without making many mistakes in logic, and our imaginings usually contain mild sensory qualities, but they are far less intense than sensory perceptions. Notice again that there is variability within the state we call ordinary consciousness. Logic may be more or less accurate, ability to image may vary somewhat, but this all stays in a range that we recognize as ordinary, habitual, or normal.
At the opposite extreme, we have all experienced a region of psychological space where rationality is usually very low indeed, while ability to image is quite high. This is ordinary nocturnal dreaming, where we create (image) the entire dream world. It seems sensorily real. Yet we often take considerable liberties with rationality.
The third cluster of data points defines a particularly interesting d-SoC, lucid dreaming. This is the special kind of dream named by the Dutch physician Frederick Van Eeden, in which you feel as if you have awakened in terms of mental functioning within the dream world: you feel as rational and in control of your mental state as in your ordinary d-SoC, but you are still experientially located within the dream world. Here both range of rationality and range of ability to image are at a very high level.
Figure 5-1 deliberately depicts rationality in ordinary nocturnal dreaming as lower than rationality in the ordinary d-SoC. But some nocturnal dreams seem very rational for prolonged periods, not only at the time but by retrospectively applied waking state standards. So the cluster shown for nocturnal dreaming should perhaps be oval and extend into the upper right region of the graph, overlapping with the lucid dreaming cluster. This would have blurred the argument about distinct regions of experiential space, so the graph was not drawn that way. The point is not that there is never any overlap in functioning for a particular psychological dimension between two d-SoCs (to the contrary, all the ones we know much about do share many features in common), but that a complete multidimensional mapping of the important dimensions of experiential space shows this distinct clustering. While a two-dimensional plot may show apparent identity or overlap between two d-SoCs, a three-dimensional or N-dimensional map would show their discreteness. this is important, for d-SoCs are not just quantitative variation on one or more continua (as Figure 5-1 implies), but qualitative, pattern-changing, system-functioning differences.
A d-SoC, then, refers to a particular region of experiential space, as shown in Figure 5-1, and adding the descriptive adjective altered simply means that with respect to some state of consciousness (usually the ordinary state) as a baseline, we have made the quantum jump to another region of experiential space, the d-ASC.The quantum jump may be both quantitative, in the sense that structures function at higher or lower levels of intensity, and qualitative, in the sense that structures in the baseline state may cease to function, previously latent structures may begin to function, and the system pattern may change. To use a computer analogy, going from one d-SoC to a d-ASC is like putting a radically different program into the computer, the mind. The graphic presentation of Figure 5-1 cannot express qualitative changes, but they are at least as important or more important than the quantitative changes.
Figures 5-2 and 5-3 illustrate the qualitative pattern difference between two d-SoCs. Various psychological structures are show connected information and energy flows into a pattern in different ways. The latent pattern, the discrete altered state of consciousness with respect to the other, is shown in lighter lines on each figure. The two states share some structures/functions in common, yet, their organization are distinctly different.
Figure 5-2. Representation of a d-SoC as a pattern of energy/awareness flow interrelating various human potentials. Lighter lines show a possible d-ASC pattern.
Figure 5-3. Representation of a d-ASC as a reorganization of information and energy flow pattern and an altered selection of potentials. The b-SoC is shown in lighter lines.
Figures 5-2 and 5-3 express what William James meant when he wrote:

Our ordinary waking consciousness...is but one special type of consciousness, whilst all about it, parted from it by the filmiest of screens, there lie potential forms of consciousness entirely different. We may go through life without suspecting their existence; but apply the requisite stimulus, and at a touch they are all there in all their completeness, definite types of mentality which probably somewhere have their field of application and adaptation. No account of the universe in its totality can be final which leaves these other forms of consciousness quite disregarded. How to regard them is the question—for they are so discontinuous with ordinary consciousness.
It is important to stress that the pattern differences are the essential defining element of different d-SoCs. Particular psychological functions may be identical to several d-SoCs, but the overall system functioning is quite different. People still speak English whether they are in their ordinary waking state, drunk with alcohol, stoned on marijuana, or dreaming; yet, we would hardly call these states identical because the same language is spoken in all.

Definition of a Discrete State of Consciousness

We can define a d-SoC for a given individual as a unique configuration or system of psychological structures or subsystems. The structures vary in the way they process information, or cope, or affect experiences within varying environments. The structures operative within a d-SoC make up a system where the operation of the parts, the psychological structures, interact with each other and stabilize each other's functioning by means of feedback control, so that the system, the d-SoC, maintains its overall pattern of functioning in spite of changes in the environment. Thus, the individual parts of the system may vary, but the overall, general configuration of the system remains recognizably the same.
To understand a d-SoC, we must grasp the nature of the parts, the psychological structures/subsystems that compose it, and we must take into account the gestalt properties that arise from the overall system — properties that are not an obvious result of the functioning of the parts. For example, the parts of a car laid out singly on a bench tell me only a little about the nature of the functioning system we call an automobile. Similarly, a list of an individual's traits and skills may tell me little about the pattern that emerges from their organization into a personality, into a "normal" state of consciousness. But understand adequately either the car or the individual, I have to study the whole functioning system itself. To illustrate this, let us go back to the question about whether you are dreaming you are reading this book rather than actually reading it in your ordinary d-SoC. To conclude that what was happening was real (I hope you concluded that!) you may have looked at the functioning of your component structures (my reasoning seems sound, sensory qualities are in the usual range, body image seems right) and decided that since these component structures were operating in the range you associate with your ordinary d-SoC, that was the condition you were in. Or you may have simply felt the gestalt pattern of your functioning, without bothering to check component functions, and instantly recognized it as your ordinary pattern. Either way, you scanned data on the functioning of yourself as a system and categorized the system's mode of functioning as its ordinary one.

Discreteness of States of Consciousness

Let me make a few further points about the discreteness of different states consciousness, the quantum gap between them.
First, the concept of d-SoCs, in its commonsense form, did not come from the kind of precise mapping along psychological dimensions that is sketched in Figure 5-1. Rather, its immediate experiential basis is usually gestalt pattern recognition, the feeling that "this condition of my mind feels radically different from some other condition, rather than just an extension of it." The experiential mapping is a more precise way of saying this.
Second, for most of the d-SoCs we know something about, there has been little or no mapping of the transition from the baseline state of consciousness (b-SoC) to the altered state. Little has been done, for example, in examining the process by which a person passes from an ordinary d-SoC into the hypnotic state, although for most subjects the distinction between the well-developed hypnotic state and their ordinary state is marked. Similarly, when a person begins to smoke marijuana, there is a period during which he is in an ordinary d-SoC and smoking marijuana; only later is he clearly stoned, in the d-ASC we call marijuana intoxication. Joseph Fridgen and I carried out a preliminary survey asking experienced marijuana users about the transition from one state to the other. We found that users almost never bothered to look at the transition: they were either in a hurry to enter the intoxicated state or in a social situation that did not encourage them to observe what was going on in their minds. Similarly, Berke and Hernton reported that the "buzz" that seems to mark this transitional period is easily overlooked by marijuana users.
So, in general for d-SoCs, we do not know the size and exact nature of the quantum jump, or indeed, whether it is possible to effect a continuous transition between two regions of experiential space, thus making them extremes of one state of consciousness rather than two discrete states.
Because the science of consciousness is in its infancy, I am forced to mention too frequently those things we do not know. Let me balance that a little by describing a study that has mapped the transition between two d-SoCs—ordinary waking consciousness and stage 2 sleep. Vogel et al, using electroencephalographic (EEG) indices of the transition from full awakeness (alpha EEG pattern with occasional rapid eye movement, REMs) to full sleep (stage 2 EEG, no eye movements), awoke subjects at various points in the transition process, asked for reports of mental activity just prior to awakening, and asked routine questions about the degree of contact with the environment the subjects felt they had just before awakening. They classified this experiential data into three ego states. In the intact ego state, the content of experience was plausible, fitted consensus reality well, and there was little or no feeling of loss of reality contact. In the destructuralized ego state, content was bizarre and reality contact was impaired or lost. In the restructuralized ego state, contact with reality was lost but the content was plausible by consensus reality standards.
Figure 5-4
Figure 5-4 (from G. Vogel, D. Foulkes, and H. Trosman, Arch. Gen. Psychiat., 1966, 14, 238-248) shows the frequency of these three ego states or states of consciousness with respect to psychophysiological criteria. The psychophysiological criteria are arranged on the horizontal axis in the order in which transition into sleep ordinarily takes place. You can see that the intact ego state is associated with alpha and REM or alpha and SEM (slow eye movement), the destructuralized ego state mainly with stage 1 EEG, and the restructuralized ego state mainly with stage 2 EEG. But there are exceptions in each case. Indeed, a finer analysis of the data shows that the psychological sequence of intact ego — destructuralized ego — restructuralized ego almost always holds in the experiential reports. It is more solid finding than the association of these ego states with particular physiological stage. Some subjects start the intact — destructuralized — restructuralized sequence earlier in the EEG sequence than others. This is a timely reminder that the results of equating psychological states with physiological indicators can be fallacious. But the main thing to note here is the orderliness of the transition sequence from one discrete state to another. This kind of measurement is crude compared with what we need to know, but it is a good start.
The intact ego state and the restructuralized ego state seem to correspond to bounded regions of experiential space, d-SoCs, but it is not clear whether the destructuralized ego state represents a d-SoC or merely a period of unstable transition between the b-SoC of the intact state (ordinary consciousness) and the d-ASC of the restructuralized state (a sleep state). We need more data about the condition they have labeled destructuralized before we can decide whether it meets our criteria for a d-SoC. The later discussions of induction of a d-ASC, transitional phenomena, and the observation of internal states clarify the question we are considering here.
We have now defined a d-SoC for a given individual as a unique configuration of system of psychological structures or subsystems a configuration that maintains its integrity or identity as a recognizable system in spite of variations in input from the environment and in spite of various (small) change in the subsystems. The system, the d-SoC, maintains its identity because various stabilization processes modify subsystem variations so that they do not destroy the integrity of the system.
In closing, I want to add a warning about the finality of the discreteness of any particular d-SoC. Stated that the particular nature of the basic structures underlying the human mind limits their possible interactions and so forms the basis of d-SoCs. Note carefully, however, that many of the structures we deal with in our consciousness, as constructed in our personal growth, are not ultimate structures but compound ones peculiar to our culture, personality, and belief system. I want to emphasize the pragmatic usefulness of a maxim of John Lilly's as a guide to personal and scientific work in this area: "In the province of the mind, what one believe to be true either is true or becomes true within certain limits, to be found experientially and experimentally. These limits are beliefs to be transcended."


Lilly's work comparing the mind to a human biocomputer, as well as his autobiographical accounts of his explorations in consciousness, are essential reading in this area.