giovedì 8 maggio 2014

vedi cara, è difficile capire il Tao se non hai capito già il Tao



Vedi cara, è difficile a spiegare,
è difficile parlare dei fantasmi di una mente.
Vedi cara, tutto quel che posso dire
è che cambio un po' ogni giorno, è che sono differente.
Vedi cara, certe volte sono in cielo
come un aquilone al vento che poi a terra ricadrà.
Vedi cara, è difficile a spiegare,
è difficile capire se non hai capito già...

Vedi cara, certe crisi son soltanto
segno di qualcosa dentro che sta urlando per uscire.
Vedi cara certi giorni sono un anno,
certe frasi sono un niente che non serve più sentire.
Vedi cara le stagioni ed i sorrisi
son denari che van spesi con dovuta proprietà.
Vedi cara è difficile a spiegare,
è difficile capire se non hai capito già...

Non capisci quando cerco in una sera
un mistero d' atmosfera che è difficile afferrare,
quando rido senza muovere il mio viso,
quando piango senza un grido, quando invece vorrei urlare,
quando sogno dietro a frasi di canzoni,
dietro a libri e ad aquiloni, dietro a ciò che non sarà...
Vedi cara è difficile a spiegare,
è difficile capire se non hai capito già...

Non rimpiango tutto quello che mi hai dato
che son io che l'ho creato e potrei rifarlo ora,
anche se tutto il mio tempo con te non dimentico perchè
questo tempo dura ancora.
Non cercare in un viso la ragione,
in un nome la passione che lontano ora mi fa.
Vedi cara è difficile a spiegare,
è difficile capire se non hai capito già...

Tu sei molto, anche se non sei abbastanza,
e non vedi la distanza che è fra i miei pensieri e i tuoi,
tu sei tutto, ma quel tutto è ancora poco,
tu sei paga del tuo gioco ed hai già quello che vuoi.
Io cerco ancora e così non spaventarti
quando senti allontanarmi: fugge il sogno, io resto qua!
Sii contenta della parte che tu hai,
ti do quello che mi dai, chi ha la colpa non si sa.
Cerca dentro per capir quello che sento,
per sentir che ciò che cerco non è il nuovo o libertà...
Vedi cara è difficile a spiegare,
è difficile capire se non hai capito già...

mercoledì 7 maggio 2014

l'Outsider (5 di Denari)


Il bambino raffigurato in questa carta è fermo da un lato del cancello, e guarda dall'altra parte. È molto piccolo, ed è fermamente convinto di non poter passare: non riesce a vedere che la catena che tiene chiuso il cancello è priva di lucchetto. La sola cosa che deve fare è aprirlo. Ogni volta che ci sentiamo "tagliati fuori" o esclusi, in noi insorge la sensazione di essere un bambino piccolo e inerme, impotente. Non deve sorprendere, in quanto questa sensazione è profondamente radicata nelle esperienze della prima infanzia. Il problema è questo: poiché è una sensazione tanto profondamente radicata in noi, continua a girare e girare nell'arco della nostra esistenza, come un nastro registrato. In questo momento, hai l'opportunità di fermare il nastro, di smettere di tormentarti con l'idea di non essere "abbastanza" per essere accettato e incluso. Riconosci che le radici di queste sensazioni sono nel passato, e lascia andare quella vecchia sofferenza. Ciò ti darà la chiarezza di vedere in che modo puoi aprire il cancello ed essere ciò che da lungo tempo aspiri a diventare.

Dunque ti senti un outsider. È un bene! È solo un periodo di transizione. Ora devi stare attento a non imbottirti di dolore e miserie. Ora che Dio non c'è più, chi potrà consolarti? Ma non hai bisogno di alcuna consolazione. L'umanità è maturata. Sii un uomo, sii una donna, e reggiti sulle tue gambe... Il solo modo per essere connessi all'esistenza è scendere in se stessi, poiché lì, al centro, sei ancora connesso. Dal punto di vista fisico, sei stato staccato da tua madre; quello stacco era assolutamente necessario per fare di te un individuo, con un proprio diritto a esistere. Tuttavia, non sei slegato dall'universo, il tuo legame con l'universo si fonda sulla consapevolezza. Non lo puoi vedere, pertanto devi scendere nel profondo, con immensa attenzione, con piena coscienza, con una presenza attenta, osservando come un testimone distaccato - allora scoprirai quel vincolo. Il buddha è quella connessione!

un americano nel Tao



Westchester Hills Cemetery, Hastings-on-Hudson, Westchester County, New York, USA

martedì 6 maggio 2014

dalla classificazione del Tao al processo del Tao - I

M.C. Escher, Whirlpools, 1957
wood engraving and woodcut, second state, in red, grey and black, printed from 2 blocks
DALLA CLASSIFICAZIONE AL PROCESSO.

In principio era il Verbo e il Verbo era con Dio e il Verbo era Dio.
Giovanni, 1, 1.

Show me.
Canzone dalla commedia musicale "My Fair Lady".


Nel capitolo 3 il lettore è stato invitato a meditare su un gruppo eterogeneo di casi illustranti la verità quasi lapalissiana che due descrizioni sono meglio di una. Questa serie di casi finiva con la mia descrizione di ciò che considero "spiegazione". Affermavo che almeno un genere di spiegazione consiste nell'integrare la descrizione di un processo o di un insieme di fenomeni con una tautologia astratta su cui sia possibile proiettare la descrizione. Possono esistere altri generi di spiegazione, oppure è possibile che ogni spiegazione, ridotta all'osso, sia qualcosa di simile alla mia definizione.
Sta di fatto che il cervello non contiene altri oggetti materiali che non siano i suoi canali e circuiti e scambi e le sue riserve metaboliche e sta di fatto che tutto questo "hardware" non ha mai accesso alle storie raccontate dalla mente. Il pensiero può riguardare porci o noci di cocco, ma nel cervello non ci sono né porci né noci di cocco; e nella mente non ci sono neuroni, ma solo "idee" di porci e di noci di cocco. Esiste quindi sempre una certa complementarità fra la mente e gli oggetti della sua attività. Il processo di codificazione o rappresentazione che sostituisce ai porci e alle noci di cocco le idee corrispondenti è già un passo, anzi un salto notevole, nella gerarchia dei tipi logici. Il nome di una cosa non è la cosa e l'idea di porco non è il porco.
Anche se pensiamo a sistemi circuitali più ampi estendentisi oltre i limiti dell'individuo, e li chiamiamo "mente", includendo nella mente l'uomo, l'ascia, l'albero che viene abbattuto e la tacca sul tronco; anche se tutto ciò viene visto come un unico sistema di circuiti che soddisfano i criteri di mente avanzati nel capitolo 4, anche in questo caso, nella mente non ci sono né l'albero, né l'uomo né l'ascia. Tutti questi 'oggetti' sono soltanto rappresentati nella mente più vasta sotto forma di immagini e di notizie su di essi. Possiamo dire che propongono se stessi, o propongono le loro caratteristiche.
Mi sembra comunque profondamente vero che in tutto il campo della nostra indagine vale qualcosa di simile alla relazione che ho suggerito fra la tautologia e le cose da spiegare. Già il primo passo, dai porci e dalle noci di cocco al mondo delle versioni codificate, immette l'individuo pensante in un universo astratto e, a mio parere, tautologico. Va benissimo definire la spiegazione come un “mettere la tautologia e la descrizione una accanto all'altra”. Ma questo è solo l'inizio della faccenda, e limiterebbe la spiegazione alla specie umana. Però, si potrebbe obiettare, i cani e i gatti accettano le cose così come sono, senza tutto questo raziocinare. E invece no: la forza del mio argomento è che il processo stesso di percezione è un atto di assegnazione a tipi logici. Ciascuna immagine è un complesso di codificazioni e proiezioni a molti livelli; e i cani e i gatti hanno certo anch'essi le loro immagini visive. Quando vi guardano, essi vedono certamente 'voi'. Il cane morsicato da una pulce ha certo l'immagine di un 'prurito' localizzato 'lì'.
Naturalmente resta ancora da applicare quest'asserzione generale al regno dell'evoluzione biologica. Prima di accingerci a questa impresa, tuttavia, è necessario soffermarci sulla relazione tra forma e processo, trattando la nozione di "forma" come l'analogo di ciò che ho chiamato "tautologia" e la nozione di "processo" come l'analogo dell'aggregato dei fenomeni da spiegare. La forma sta al processo come la tautologia sta alla descrizione.
Questa dicotomia, presente nelle nostre menti scientifiche quando 'ci affacciamo' su un mondo di fenomeni, caratterizza anche le relazioni tra i fenomeni stessi che cerchiamo di analizzare. La dicotomia esiste al di qua e al di là della barriera che c'è tra noi e gli oggetti del nostro discorso. Le cose-in-sé (le "Dinge an sich"), inaccessibili all'indagine diretta, stanno tra loro in relazioni paragonabili alle relazioni esistenti tra loro e noi. Anch'esse (persino quelle viventi) non possono avere alcuna esperienza diretta l'una dell'altra questione di grandissima importanza e primo postulato indispensabile per qualsiasi intelligenza del mondo vivente. Ciò che è essenziale è il presupposto che le idee (in un senso molto lato del termine) abbiano una loro forza e realtà. Esse sono ciò che noi possiamo conoscere, e al di fuori di esse non possiamo conoscere nulla. Le regolarità o 'leggi' che legano insieme le idee: ecco le 'verità'. Esse sono la nostra massima approssimazione alla verità ultima. Per rendere comprensibile questa tesi, descriverò in primo luogo il processo dell'analisia me compiuta su una cultura della Nuova Guinea.
Il mio lavoro sul campo fu influenzato in misura notevole dall'arrivo in Nuova Guinea di una copia del manoscritto di "Patterns of Culture" di Ruth Benedict e dalla mia collaborazione diretta con Margaret Mead e Reo Fortune. Le conclusioni teoriche che Margaret aveva tratto dal suo lavoro sul campo furono pubblicate in "Sex and Temperament in Three Primitive Societies". Il lettore che voglia approfondire la storia di queste idee teoriche può vedere il mio "Naven" e "Sex and Temperament" della Mead, oltre naturalmente all'influente lavoro della Benedict "Patterns of Culture”.

La Benedict aveva tentato di costruire una tipologia delle culture impiegando termini come "apollineo", "dionisiaco" e "paranoide". In "Sex and Temperament" e in "Naven" l'accento è spostato dalla caratterizzazione delle configurazioni culturali al tentativo di caratterizzare le persone, i membri delle culture che avevamo studiato. Tuttavia, usammo ancora termini legati a quelli usati dalla Benedict. In realtà, i suoi tipi erano stati presi dal linguaggio usato per descrivere le persone. Dedicai tutto un capitolo di "Naven" al tentativo di servirmi della vecchia classificazione di Kretschmer che aveva suddiviso le persone in temperamenti “ciclotimici” e “schizotimici”. Io usai questa tipologia come una mappa astratta sulla quale analizzare le mie descrizioni degli uomini e delle donne Iatmul.
Questa analisi, e specialmente il fatto di differenziare i tipi dei sessi (il che sarebbe stato estraneo alle idee di "Patterns of Culture"), mi allontanò dalla tipologia e mi condusse a questioni di processo. Diventò naturale considerare i dati sugli Iatmul come paradigmatici delle interazioni tra uomini e donne destinate a creare nei due sessi quella differenziazione di ethos che stava alla base della mia tipologia delle persone. Cercai di vedere come il comportamento degli uomini potesse stimolare e determinare quello delle donne e viceversa. In altre parole, passai da una classificazione o tipologia a uno studio dei processi che generavano le differenze riassunte nella tipologia.
Ma il passo successivo fu dal processo a una "tipologia del processo". Indicai i processi col termine generale di "schismogenesi" e, dopo aver dato loro un nome, passai alla loro "classificazione". Mi fu chiaro che era possibile stabilire una dicotomia fondamentale. I processi di interazione che avevano in comune la potenzialità generale di provocare la schismogenesi (dapprima, cioè, di determinare il carattere negli individui e poi di creare una tensione intollerabile) erano in realtà classificabili in due grandi generi: quelli simmetrici e quelli complementari. Applicai il termine "simmetrico" a tutte quelle forme di interazione che potevano essere descritte in termini di competizione, rivalità, emulazione reciproca e così via (cioè quelle in cui determinate azioni di A spingevano B ad azioni dello stesso genere, le quali a loro volta spingevano A a nuove azioni simili, e così via. Se A cominciava a vantarsi, questo stimolava B a vantarsi ancora di più, e viceversa).
Applicai invece il termine "complementare" alle sequenze interattive in cui le azioni di A e di B erano diverse ma si combinavano l'una con l'altra (ad esempio: autorità-sottomissione, esibizionismo-ammirazione, dipendenza-assistenza). Notai che queste coppie di relazioni potevano anch'esse risultare schismogeniche (ad esempio, la dipendenza poteva stimolare l'assistenza e viceversa).
A questo punto possedevo una classificazione o tipologia non delle persone ma dei "processi", e mi fu facile e naturale passare da questa classificazione a pormi il problema di che cosa sarebbe potuto scaturire dall'interazione fra i processi suddetti. Che cosa sarebbe accaduto se la rivalità simmetrica (che di per sé dava luogo a una schismogenesi "simmetrica" da eccessiva competizione) si fosse mescolata con la dipendenza-assistenza "complementare"?
E difatti tra i processi così definiti vi erano interazioni interessantissime. Risultò che i temi di interazione simmetrici e complementari si negano a vicenda (cioè hanno effetti opposti sulla relazione), sicché quando la schismogenesi complementare (ad esempio autorità-sottomissione) diventa troppo sgradevole, un po' di competizione allenta la tensione; viceversa, quando la competizione va troppo in là, un po' di dipendenza risulta gradita.
In seguito, sotto la voce "estremi legati" ["end-linkage"], studiai alcune delle permutazioni possibili dei temi complementari combinati. Ne venne fuori che una differenza di premesse, di coreografia, quasi, tra la cultura inglese delle classi medie e quella americana è legata al fatto che in Inghilterra l'ammirazione è una funzione eminentemente filiale (cioè è legata alla dipendenza e alla sottomissione), mentre in America è una funzione eminentemente parentale (cioè è legata all'assistenza e all'autorità).
Tutto ciò è stato esposto nei dettagli altrove. Ciò che importa osservare in questo contesto è che i miei procedimenti di indagine erano scanditi da un'alternanza tra la classificazione e la descrizione dei processi. Senza alcun disegno consapevole, ero salito su per una scala che toccava alternativamente la descrizione e il vocabolario della tipologia. Ma questa classificazione in tipi delle persone mi ricondusse allo studio dei processi attraverso i quali le persone arrivavano a essere così com'erano. Questi processi vennero quindi classificati in "tipi" di processi, e anche a questi assegnai un nome. Il passo successivo mi portò dalla classificazione in tipi dei processi allo studio delle interazioni tra i processi così classificati. Questa scala a zigzag fra la tipologia da una parte e lo studio dei processi dall'altra è illustrata nella figura:

Ora intendo dimostrare come le relazioni implicite o immanenti negli eventi della mia esperienza personale che ho appena raccontato (cioè la linea spezzata dei passaggi dalla forma al processo e di qui alla forma) offrono un paradigma suggestivo per la rappresentazione di molti fenomeni, alcuni dei quali già menzionati.
Intendo dimostrare che questo paradigma non è limitato al resoconto personale di come venne costruita una teoria particolare, ma ricorre ripetutamente ovunque vi sia, nell'organizzazione dei fenomeni, un predominio del processo mentale, così com'è definito nel capitolo 4. In altre parole, quando estrapoliamo la nozione di tipo logico dall'ambito della logica astratta, e sulle gerarchie di questo paradigma cominciamo a proiettare gli eventi biologici reali, ci troviamo subito di fronte al fatto che nel mondo dei sistemi mentali e biologici la gerarchia non è soltanto un elenco di classi, classi di classi e classi di classi di classi, ma è diventata anche una "scala a zigzag dialettica tra forma e processo".
Direi che la natura stessa della percezione segue questo paradigma; che l'apprendimento deve essere modellato secondo lo stesso genere di paradigma a zigzag; che nel mondo sociale la relazione tra amore e matrimonio o tra educazione e posizione sociale segue necessariamente un paradigma simile; che nell'evoluzione la relazione tra cambiamento somatico e cambiamento filogenetico e la relazione tra prodotto del caso e risultato della selezione hanno questa forma a zigzag. Esistono, direi, relazioni simili a un livello più astratto, tra speciazione e variazione, tra continuità e discontinuità, tra numero e quantità.
In altre parole, io ritengo che la relazione, tratteggiata in modo piuttosto ambiguo nella storia della mia analisi di una cultura della Nuova Guinea, sia in realtà una relazione che risolverà un grandissimo numero di antichi enigmi e controversie nel campo dell'etica, dell'educazione e della teoria dell'evoluzione.
Comincerò da una distinzione di cui sono debitore a Horst Mittelstaedt, il quale osservò che vi sono due "generi" di metodi di perfezionamento di un'azione adattativa. Supponiamo che l'azione sia di sparare a un uccello, e supponiamo dapprima che si debba usare una carabina. Il tiratore guarderà nel mirino e noterà un errore di mira; correggerà l'errore creandone forse un altro, che a sua volta correggerà, e così via, finché sarà soddisfatto. Allora premerà il grilletto e sparerà. Ciò che è importante è il fatto che l'azione autocorrettiva viene compiuta "all'interno" della singola azione di sparare. Per caratterizzare nel suo complesso questo genere di metodi di perfezionamento di un'azione adattativa, Mittelstaedt usa il termine "feedback" ["retroazione"].
Si consideri invece il caso di un uomo che spara a un uccello in volo con uno schioppo o che usa una pistola tenendola sotto un tavolo, sicché non può correggere la mira. In questi casi deve necessariamente accadere quanto segue: attraverso gli organi di senso viene introdotto un aggregato di informazioni; sulla base di queste informazioni si compie il calcolo; sulla base del risultato (approssimativo) di tale calcolo viene premuto il grilletto. Non vi è alcuna possibilità di correggere gli errori all'interno della singola azione. Per conseguire un qualunque miglioramento, la correzione dev'essere eseguita su un'ampia "classe" di azioni. Se si vuole diventare abili nell'arte del tiro con lo schioppo o con una pistola tenuta sotto un tavolo bisogna esercitarvisi a lungo, usando un piattello o qualche bersaglio fittizio. La lunga pratica serve a imparare a correggere l'"assetto" dei propri nervi e muscoli in modo da fornire 'automaticamente' una prestazione ottimale al momento critico. Questo genere di metodi è detto da Mittelstaedt "calibrazione". Sembra che in questi casi la “calibrazione” stia alla “retroazione” come il tipo logico superiore sta a quello inferiore. Questa relazione è indicata dal fatto che l'autocorrezione nell'uso dello schioppo è possibile solo sulla base di informazioni derivanti dalla pratica (cioè sulla base di una "classe" di azioni passate e compiute). Naturalmente è vero che anche l'abilità nell'uso della carabina può essere accresciuta con l'esercizio. Le componenti dell'azione che vengono così migliorate sono comuni all'uso sia della carabina sia dello schioppo. Con l'esercizio, il tiratore migliorerà il proprio assetto di tiro, imparerà a premere il grilletto senza alterare la mira, imparerà a sincronizzare l'istante dello sparo con l'istante dell'aggiustamento della mira, in modo da non correggere troppo, e così via. Il miglioramento di queste componenti del tiro con la carabina dipende dall'esercizio e da quella calibrazione di nervi, muscoli e respirazione che viene fornita dalle informazioni derivanti da una classe di azioni compiute.
Rispetto alla mira, tuttavia, dalla differenza tra il singolo esempio e la classe di esempi segue la differenza di tipo logico. E' anche evidente che ciò che Mittelstaedt chiama "calibrazione" è un caso particolare di ciò che io chiamo "forma" o "classificazione", e che la sua "retroazione" è paragonabile al mio "processo".
La domanda successiva concerne ovviamente la relazione tra le tre dicotomie: forma/processo, calibrazione/retroazione e tipi logici superiori/inferiori. Si tratta di sinonimi? Cercherò di dimostrare che forma/processo e calibrazione/retroazione sono effettivamente sinonimi, mentre la relazione fra tipi logici superiori e inferiori è più complessa. Da quanto detto risulta chiaro sia che la struttura può determinare il processo, sia che, per converso, il processo può determinare la struttura. Ne segue che deve esistere una relazione tra due livelli di struttura mediati da un'interposta descrizione del processo. Credo che questo sia l'analogo, nel mondo reale, del passaggio astratto che Russell compie dalla "classe" alla "classe di classi".
Consideriamo la relazione fra retroazione e calibrazione in un esempio gerarchico quale è quello della regolazione della temperatura in un'abitazione dotata di caldaia e termostato e con un abitante:

Al livello più basso c'è la temperatura. Questa temperatura effettiva agisce istante per istante (è un "processo") su un termometro (una sorta di organo di senso), che è collegato con l'intero sistema in modo tale che la temperatura, espressa dalla curvatura di una lamina bimetallica, apra o chiuda un circuito elettrico (un interruttore, un calibratore) che comanda la caldaia. Quando la temperatura sale sopra un certo livello, l'interruttore viene commutato su “SPENTO”; quando la temperatura scende sotto un certo altro livello inferiore, l'interruttore viene commutato su “ACCESO”. La temperatura della casa fluttuerà quindi intorno a un certo valore compreso fra i due punti di soglia. A questo livello il sistema è un semplice servocircuito...
Tuttavia, questo semplice circuito con retroazione è regolato da un calibratore posto nella stessa cassetta che contiene il termometro. Su questa cassetta c'è una manopola che il padrone di casa può girare per cambiare l'assetto, o regolazione, del termostato e far così fluttuare la temperatura della casa intorno a un valore diverso. Si noti che nella cassetta si trovano "due" calibratori: il regolatore dello stato ACCESO/SPENTO, e il regolatore della temperatura ALTA/BASSA, intorno alla quale funzionerà il sistema. Se la temperatura media è stata fino a quel momento di 18 gradi, il padrone di casa potrà dire: “Ho avuto un po' freddo ultimamente”. Egli giudicherà in base a un "campione" della propria esperienza e poi cambierà la regolazione, portandola a una temperatura che gli sembri più confortevole. Il valore della regolazione (cioè la calibrazione corrente della retroazione) è a sua volta regolato da una retroazione, il cui organo di senso è situato non sulla parete del soggiorno bensì nella pelle dell'uomo.
Ma la regolazione dell'uomo - detta di solito la sua "soglia" - è a sua volta stabilita da un sistema a retroazione. L'uomo può diventare capace di tollerare meglio il freddo se conduce una vita dura o viene esposto al gelo, e può diventare meno tollerante in seguito a un lungo soggiorno ai tropici. Può anche darsi che egli si dica: “Mi sto rammollendo”, e che cominci a fare dello sport all'aria aperta, il che finirà per modificare la sua calibrazione. Inoltre, l'uomo potrebbe essere spinto a sottoporsi a un addestramento particolare o a esporsi al freddo in seguito a un cambiamento di posizione sociale: potrebbe farsi monaco o entrare nell'esercito, e acquistare così una calibrazione conforme a una precisa posizione sociale.
In altre parole, le retroazioni e le calibrazioni si alternano in una successione gerarchica. Si osservi che ad ogni alternanza completa (da calibrazione a calibrazione o da retroazione a retroazione) la sfera di pertinenza che stiamo analizzando si allarga. All'estremità più semplice e più bassa della scala a zigzag, la sfera di pertinenza era una caldaia, accesa o spenta; al livello successivo, era una casa la cui temperatura fluttuava intorno a certi valori. Al livello successivo, tale temperatura poteva essere cambiata entro una sfera di pertinenza ora comprendente la casa "più" il suo abitante per un intervallo di tempo molto più lungo, durante il quale l'uomo compiva varie attività esterne.
A ciascuno zig-zag della scala la sfera di pertinenza aumenta. In altre parole, vi è un cambiamento di tipo logico dell'informazione raccolta a ciascun livello dall'organo di senso.
Consideriamo un altro esempio: un tale viaggia in automobile a 100 chilometri all'ora e mette così in allarme l'organo di senso (per esempio il radar) di un agente della stradale. La regolazione o soglia dell'agente gli impone di reagire a qualunque differenza che superi i 15 chilometri all'ora sopra o sotto il limite di velocità.
La soglia dell'agente è stata stabilita dal capo del comando di polizia locale, che ha agito in modo autocorrettivo tenendo conto degli ordini (cioè della calibrazione) ricevuti dalla capitale dello Stato. La capitale dello Stato ha agito in modo autocorrettivo, poiché‚ i legislatori hanno tenuto conto dei loro elettori. Gli elettori, a loro volta, avevano fissato una calibrazione all'interno del potere legislativo a favore della linea politica democratica o di quella repubblicana. Notiamo anche qui una scala alternata di calibrazioni e retroazioni che sale verso sfere di pertinenza sempre più ampie e verso informazioni sempre più astratte e decisioni sempre più vaste.
Si osservi che all'interno del sistema di polizia e di applicazione delle leggi, anzi, in tutte le gerarchie, è assolutamente sconsigliabile che vi siano contatti diretti tra livelli non consecutivi. Per il complesso dell'organizzazione non è bene che esista un canale di comunicazione tra il guidatore dell'automobile e il capo della polizia statale. Questa comunicazione nuoce al morale delle forze di polizia. E neppure è bene che il poliziotto abbia accesso diretto al potere legislativo, poichè‚ ciò danneggerebbe l'autorità del capo della polizia. Analogamente, è altrettanto sconsigliabile scendere di due o più gradini nella gerarchia. Il poliziotto non deve esercitare un controllo diretto sull'acceleratore o sul sistema frenante dell'automobile.
L'effetto di un tale salto di livelli, verso l'alto o verso il basso, è che le informazioni che costituiscono una base di decisione adeguata a un livello saranno invece usate come base per prendere decisioni a qualche altro livello, una comune confusione di tipi logici.
Nei sistemi legali e amministrativi questo salto di livelli logici si chiama legislazione "ex post facto". In una situazione familiare errori analoghi si chiamano "doppi vincoli". In genetica, la barriera di Weissmann, che impedisce l'ereditarietà dei caratteri acquisiti, sembra evitare disastri di questa natura. Permettere un'influenza diretta dello stato somatico sulla struttura genetica potrebbe distruggere la gerarchia dell'organizzazione interna della creatura.

Tao miracoloso per due piani e percussioni

Farkasreti Cemetery, Budapest, Budapest Capital District, Hungary


lunedì 5 maggio 2014

compassione del Tao

La ricerca del Sé e della Coscienza nella prospettiva enazionista, considerando mondi di coscienza ed esperienza senza fondamento analizzato secondo la tradizione del Buddhismo Abhidharma, implica diverse considerazioni etiche, tra le quali la principale è la compassione (con - passione) che nella tradizione Buddhista è, insieme alla saggezza (prajñā), una delle due basi di fondamento:

WORLDS WITHOUT GROUND

Laying Down a Path in Walking

Ethics and Human Transformation

Compassion: Worlds without Ground

If planetary thinking requires that we embody the realization of groundlessness in a scientific culture, planetary building requires the embodiment of concern for the other with whom we enact a world. The tradition of mindfulness/awareness offers a path by which this may actually be brought about.
The mindfulness/awareness student first begins to see in a precise fashion what the mind is doing, its restless, perpetual grasping, moment to moment. This enables the student to cut some of the automaticity of his habitual patterns, which leads to further mindfulness, and he begins to realize that there is no self in any of his actual experience. This can be disturbing and offers the temptation to swing to the other extreme, producing moments of loss of heart. The philosophical flight into nihilism that we saw earlier in this chapter mirrors a psychological process: the reflex to grasp is so strong and deep seated that we reify the absence of a solid foundation into a solid absence or abyss.
As the student goes on, however, and his mind relaxes further into awareness, a sense of warmth and inclusiveness dawns. The street fighter mentality of watchful self-interest can be let go somewhat to be replaced by interest in others. We are already other-directed even at our most negative, and we already feel warmth toward some people, such as family and friends. The conscious realization of the sense of relatedness and the development of a more impartial sense of warmth are encouraged in the mindfulness/awareness tradition by various contemplative practices such as the generation of loving-kindness. It is said that the full realization of groundlessness (sunyata) cannot occur if there is no warmth.
For this reason, in the Mahayana tradition, which we have so far presented as being centrally concerned with groundlessness as sunyata, there is an equally central and complementary concern with groundlessness as compassion.ll In fact, most of the traditional Mahayana presentations do not begin with groundlessness but rather with the cultivation of compassion for all sentient beings. Nagarjuna, for example, states in one of his works that the Mahayana teaching has "an essence of emptiness and compassion." This statement is sometimes paraphrased by saying that emptiness (sunyata) is full of compassion (karuna).
Thus sunyata, the loss of a fixed reference point or ground in either self, other, or a relationship between them, is said to be inseparable from compassion like the two sides of a coin or the two wings of a bird. Our natural impulse, in this view, is one of compassion, but it has been obscured by habits of ego-clinging like the sun obscured by a passing cloud.
This is by no means the end of the path, however. For some traditions, there is a further step to be made in understanding beyond the sunyata of codependent origination-that is, the sunyata of naturalness. Up to now, we have been talking about the contents of realization in primarily negative terms: no-self, egolessness, no world, nonduality, emptiness, groundlessness. In actual fact, the majority of the world's Buddhists do not speak of their deepest concerns in negative terms; these negatives are preliminaries-necessary to remove habitual patterns of grasping, unsurpassably important and precious, but nonetheless preliminaries-that are pointing toward the realization of a positively conceived state. The Western world-for example, Christianity-although pleased to engage in dialogue with the negating aspects of Buddhism (perhaps as a way of speaking to the nihilism in our own tradition), steadfastly (at times even self-consciously) tends to ignore the Buddhist positive.
To be sure, the Buddhist positive is threatening. It is no ground whatsoever; it cannot be grasped as ground, reference point, or nest for a sense of ego. It does not exist-nor does it not exist. It cannot be an object of mind or of the conceptualizing process; it cannot be seen, heard, or thought-thus the many traditional images for it: the sight of a blind man, a flower blooming in the sky. When the conceptual mind tries to grasp it, it finds nothing, and so it experiences it as emptiness. It can be known (and can only be known) directly. It is called Buddha nature, no mind, primordial mind, absolute bodhicitta, wisdom mind, warrior's mind, all goodness, great perfection, that which cannot be fabricated by mind, naturalness. It is not a hair's breadth different from the ordinary world; it is that very same ordinary, conditional, impermanent, painful, groundless world experienced (known) as the unconditional, supreme state. And the natural manifestation, the embodiment, of this state is compassion-unconditional, fearless, ruthless, spontaneous compassion.

"When the reasoning mind no longer clings and grasps, ... one awakens into the wisdom with which one was born, and compassionate energy arises without pretense."
Chögyam Trungpa Rinpoche
What do we mean by unconditional compassion? We need to backtrack and consider the development of compassion from the more mundane point of view of the student. The possibility for compassionate concern for others, which is present in all humans, is usually mixed with the sense of ego and so becomes confused with the need to satisfy one's own cravings for recognition and self-evaluation. The spontaneous compassion that arises when one is not caught in the habitual patterns-when one is not performing volitional actions out of karmic cause and effect-is not done with a sense of need for feedback from its recipient. It is the anxiety about feedback-the response of the other-that causes us tension and inhibition in our action. When action is done without the business-deal mentality, there can be relaxation. This is called supreme (or transcendental) generosity.
If this seems abstract, the reader might try a brief exercise. We usually read books like this with some heavy-handed sense of purpose. Imagine for a moment that you are reading this solely in order to benefit others. Does that change the feeling tone of the task?
When discussing wisdom from the point of view of compassion, the Sanskrit term often used is bodhicitta, which has been variously translated as "enlightened mind," "the heart of the enlightened state of mind," or simply "awakened heart." Bodhicitta is said to have two aspects, one absolute and one relative. Absolute bodhicitta is the term applied to whatever state is considered ultimate or fundamental in a given Buddhist tradition-the experience of the groundlessness of sunyata or the (positively defined) sudden glimpse of the natural, awake state itself. Relative bodhicitta is that fundamental warmth toward the phenomenal world that practitioners report arises from absolute experience and that manifests itself as concern for the welfare of others beyond merely naive compassion. As opposed to the order in which we have previously described these experiences, it is said that the development of a sense of unproblematical warmth toward the world leads to the experience of the flash of absolute bodhicitta.
Buddhist practitioners obviously do not realize any of these things (even mindfulness) all at once. They report that they catch glimpses that encourage them to make further efforts. One of the most important steps consists in developing compassion toward one's own grasping fixation on ego-self. The idea behind this attitude is that confronting one's own grasping tendencies is a friendly act toward oneself. As this friendliness develops, one's awareness and concern for those around one enlarges as well. It is at this point that one can begin to envision a more open-ended and nonegocentric compassion.
Another characteristic of the spontaneous compassion that does not arise out of the volitional action of habitual patterns is that it follows no rules. It is not derived from an axiomatic ethical system nor even from pragmatic moral injunctions. It is completely responsive to the needs of the particular situation. Nagarjuna conveys this attitude of responsiveness:

Just as the grammarian makes one study grammar,
A Buddha teaches according to the tolerance of his students;
Some he urges to refrain from sins, others to do good,
Some to rely on dualism, others on non-dualism;
And to some he teaches the profound,
The terrifying, the practice of enlightenment,
Whose essence is emptiness that is compassion.
Unrealized practioners, of course, cannot dispense with rules and moral injunctions. There are many ethical rules in Buddhism whose aim is to put the body and mind into a form that imitates as nearly as possible how genuine compassion might become manifest in that situation (just as the meditative sitting posture is said to be an imitation of enlightenment).
With respect to its situational specificity and its responsiveness, this view of nonegocentric compassion might seem similar to what has been discussed in certain recent psychoanalytic writings as "ethical know-how." In the case of compassionate concern as generated in the context of mindfulness/awareness, this know-how could be said to be based in responsiveness to oneself and others as sentient beings without ego-selves who suffer because they grasp after ego-selves. And this attitude of responsiveness is in tum rooted in an ongoing concern: How can groundlessness be revealed ethically as nonegocentric compassion?
Compassionate action is also called skillful means (upaya) in Buddhism. Skillful means are inseparable from wisdom. It is interesting to consider the relationship of skillful means to ordinary skills such as learning to drive a car or learning to play the violin. Is ethical action (compassionate action) in Buddhism to be considered a skill-perhaps analogous to the Heidegger/Dreyfus account of ethical action as a non-rule-based, developed skill? As we discussed at some length with respect to meditation practice, in some ways skillful means in Buddhism could be seen as similar to our notion of a skill: the student practices ("plants good seeds")-that is, avoids harmful actions, performs beneficial ones, meditates. Unlike an ordinary skill, however, in skillful means the ultimate effect of these practices is to remove all egocentric habits so that the practitioner can realize the wisdom state, and compassionate action can arise directly and spontaneously out of wisdom. It is as if one were born already knowing how to play the violin and had to practice with great exertion only to remove the habits that prevented one from displaying that virtuosity.
It should by now be obvious that the ethics of compassion has nothing to do with satisfying some pleasure principle. From the standpoint of mindfulness/awareness, it is fundamentally impossible to satisfy desires that are born within the grasping mind. A sense of unconditional well-being arises only through letting go of the grasping mind. There is, however, no reason for ascetism. Material and social goods are to be employed however the situation warrants. (The middle way between the extremes of ascetism and indulgence is actually the historically earIiest sense in which the term middle way was employed in Buddhism.)
The results of the path of mindful, open-ended learning are profoundly transformative. Instead of being embodied (more accurately, reembodied moment after moment) out of struggle, habit, and sense of self, the goal is to become embodied out of compassion for the world. The Tibetan tradition even talks about the five aggregates being transformed into the five wisdoms. Notice that this sense of transformation does not mean going away from the world-getting out of the five aggregates. The aggregates may be the constituents on which the inaccurate sense of self and world are based, but (more properly and) they are also the basis of wisdom. The means of transforming the aggregates into wisdom is knowledge, realizing the aggregates accurately-empty of any egoistic ground whatsoever yet filled with unconditional goodness (Buddha nature, etc.), intrinsically just as they are in themselves.
How can such an attitude of all encompassing, decentered, responsive, compassionate concern be fostered and embodied in our culture? It obviously cannot be created merely through norms and rationalistic injunctions. It must be developed and embodied through a discipline that facilitates letting go of ego-centered habits and enables compassion to become spontaneous and self-sustaining. The point is not that there is no need for normative rules in the relative world---clearly such rules are a necessity in any society. It is that unless such rules are informed by the wisdom that enables them to be dissolved in the demands of responsivity to the particularity and immediacy of lived situations, the rules will become sterile, scholastic hindrances to compassionate action rather than conduits for its manifestation.
Perhaps less obvious but even more strongly enjoined by the mindfulness/awareness tradition is that meditations and practices undertaken simply as self-improvement schemes will foster only egohood. Because of the strength of egocentric habitual conditioning, there is a constant tendency, as practitioners in all contemplative traditions are aware, to try to grasp, possess, and become proud of the slightest insight, glimpse of openness, or understanding. Unless such tendencies become part of the path of letting go that leads to compassion, then insights can actually do more harm than good. Buddhist teachers have often written that it is far better to remain as an ordinary person and believe in ultimate foundations than to cling to some remembered experience of groundlessnes without manifesting compassion.
Finally, talk alone will certainly not suffice to engender spontaneous nonegocentric concern. Even more than experiences of insight, words and concepts can be easily grasped at, taken as ground, and woven into a cloak of egohood. Teachers in all contemplative traditions warn against fixated views and concepts taken as reality. Indeed, our promulgations of the concept of enactive cognitive science give us some pause. We would surely not want to trade the relative humility of objectivism for the hubris of thinking that we construct our world. Better by far a straightforward cognitivist than a bloated and solipsistic enactivist.
We simply cannot overlook the need for some form of sustained, disciplined practice. This is not something that one can make up for oneself-any more than one can make up the history of Western science for oneself. Nothing will take its place; one cannot just do one form of science rather than another and think that one is gaining wisdom or becoming ethical. Individuals must personally discover and admit their own sense of ego in order to go beyond it. Although this happens at the individual level, it has implications for science and for society.

vide cor Tao

Composed by Patrick Cassidy, based on Dante's "La Vita Nuova", specifically on the sonnet "A ciascun'alma presa", in chapter 3 of the Vita Nuova. Produced by Patrick Cassidy and Hans Zimmer; performed by Libera/Lyndhurst Orchestrathe, conducted by Gavin Greenaway. Singers Danielle de Niese and Bruno Lazzaretti.

«A ciascun'alma presa e gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente,
salute in lor segnor, cioè Amore.
Già eran quasi che atterzate l'ore
del tempo che onne stella n'è lucente,
quando m'apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia ave a
madonna involta in una drappo dormendo.
Poi la svegliava, e d'esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo.»