mercoledì 30 ottobre 2013

i grandi processi del Tao - VI


I GRANDI PROCESSI STOCASTICI.

7. ADATTAMENTO E ASSUEFAZIONE.

“Adattamento”, nel linguaggio degli evoluzionisti, è più o meno sinonimo del termine “disegno” nel linguaggio di teologi come William Paley, il cui "Evidences" è una voluminosa raccolta di esempi ragguardevoli di eleganti modifiche speciali di adattamento degli animali al loro modo di vita.
Ma io sospetto che tanto “adattamento” quanto “disegno” siano concetti fuorvianti. Se consideriamo la produzione di particolari casi di adattamento - la chela del granchio, la mano e l'occhio dell'uomo e così via - come il problema al centro di tutto il vasto insieme di problemi che l'evoluzionista deve risolvere, distorciamo e limitiamo la visione totale dell'evoluzione. Si direbbe che, forse come conseguenza delle sciocche battaglie tra i primi evoluzionisti e la Chiesa, di tutto l'ampio flusso eracliteo del processo evolutivo ci si sia soffermati a esaminare solo certi vortici e ristagni di corrente. Di conseguenza, i due grandi processi stocastici sono stati in parte ignorati. Perfino i biologi professionisti non hanno visto che, nella prospettiva più ampia, l'evoluzione è altrettanto scevra di valori e bella quanto la danza di Shiva, dove tutto, bellezza e bruttezza, creazione e distruzione, è espresso o concentrato in un unico percorso simmetrico complesso.
Mettendo l'uno accanto all'altro i termini "adattamento" e "assuefazione" nel titolo di questo paragrafo, ho cercato di correggere questa visione sentimentale, o per lo meno troppo ottimistica, dell'evoluzione nel suo complesso. Gli affascinanti casi di adattamento che fanno apparire la natura così intelligente e ingegnosa possono anche essere i primi passi verso la patologia e l'eccessiva specializzazione. Eppure è difficile vedere la chela del granchio e la retina umana come primi passi verso la patologia.
Si direbbe che la domanda da porre è: che cosa caratterizza gli adattamenti che si rivelano disastrosi, e in che cosa differiscono da quelli che sembrano essere benefici e che, come la chela del granchio, restano benefici nel corso delle ere geologiche?
La domanda è pressante e tocca da vicino gli attuali dilemmi della nostra civiltà. Ai tempi di Darwin ogni invenzione appariva benefica; oggi non è così. Agli occhi più acuti del Novecento ogni invenzione apparirà sospetta, e si dubiterà che i ciechi processi stocastici cooperino sempre a fin di bene.
Abbiamo un assoluto bisogno di una scienza che analizzi l'intera questione dell'adattamento e della assuefazione a tutti i livelli. Forse l'ecologia è l'inizio di una simile scienza, benché‚ gli ecologi siano ancora ben lungi dallo spiegarci come sfuggire alla corsa agli armamenti atomici.
In linea di principio, il cambiamento genetico casuale accompagnato dalla selezione naturale, per quanto riguarda il pensiero, i processi casuali di tentativi ed errori accompagnati dal rinforzo selettivo agiranno necessariamente per il bene della specie o dell'individuo. E a livello sociale non è ancora sicuro che le invenzioni e gli stratagemmi che vengono premiati nell'individuo siano necessariamente vantaggiosi per la sopravvivenza della società; e, per converso, le linee politiche scelte dai rappresentanti della società non sono necessariamente vantaggiose per la sopravvivenza degli individui.
Si possono addurre un gran numero di modelli che indicano come la fiducia nella selezione naturale o nel "laissez faire" sia chiaramente ingenua:
a) Il resto del sistema cambia fino ad accerchiare l'innovazione per renderla irreversibile.
b) L'interazione con altre specie o altri individui porta a un cambiamento del contesto, sicché‚ diventa necessaria un'ulteriore innovazione dello stesso genere e il sistema subisce un'amplificazione sempre più forte o va in fuga.
c) L'innovazione provoca altri cambiamenti entro il sistema, rendendo necessario rinunciare ad altri adattamenti.
d) La flessibilità (cioè l'entropia positiva) del sistema si esaurisce.
e) La specie adattata è talmente favorita che distruggerà la propria nicchia ecologica per eccesso di sfruttamento.
f) Ciò che in una prospettiva a breve termine pareva desiderabile diventa disastroso nei tempi più lunghi.
g) La specie o l'individuo innovatore arriva ad agire come se non fosse più parzialmente dipendente dalle specie e dagli individui limitrofi.
h) Con un processo di assuefazione l'innovatore si trova costretto a perpetuare lo sforzo di mantenere costante un certo ritmo di cambiamento. L'assuefazione sociale alla corsa agli armamenti non è fondamentalmente diversa dall'assuefazione individuale agli stupefacenti. Il buon senso spinge sempre il drogato a procurarsi un'altra dose. E così via.
Insomma, si scoprirà che ciascuna di queste situazioni disastrose contiene un errore di 'tipo logico'. Nonostante il guadagno immediato a un livello logico, in qualche altro contesto, più ampio o più esteso nel tempo, il segno cambia e il vantaggio diventa calamità.
Non possediamo alcuna conoscenza sistematica della dinamica di questi processi.












venerdì 25 ottobre 2013

Tao Paradoxico-Philosophicus 9-10



    Un dieu donne le feu     
     Pour faire l'enfer;      
      Un diable, le miel     
       Pour faire le ciel.  
   



TRACTATUS PARADOXICO-PHILOSOPHICUS

9 Nervous system: consider one or more closed organizations that intersect with a living organism and its cognitive domain, expanding it.
9.1 A logical observer distinguishes the nervous system only within the living organism and interprets sensory surfaces and effector surfaces as “inputs” to and “outputs” from the nervous system that match “outputs” from and “inputs” to a world “out there”.
9.2 A paradoxical observer interacts with and tentatively distinguishes the activity of the nervous system as “nerve” impulses that encode only “how much” not “what” the living organism “perceives”.
9.21 Since everything “perceived” translates into nerve impulses, the nervous system does not discriminate (distinguish) between impulses coming from an “outside” world and those originated “within” the nervous system (“inside” or “outside” blend into “inside and outside”).
9.22 For this same observer, the encounter with other observers triggers the invention of a tentative world “in and out there”.
9.23 While some of these observers adjust, share, and thus “confirm”, tentatively the invention, others do not.



10 Environment: logical observers distinguish the intersection of their cognitive domains as a common dwelling and call it their environment.
10.1 The distinction of an environment appears to these observers as an invitation to extract or deduce further distinctions.
10.12 These further distinctions appear to these observers as processes (events in time) that produce components (objects in space) forming open networks of processes and components that exclude these and other observers.
10.2 Language and communication emerge in this way from the activity (of processes) in the nervous system and thus, the logical observer invents a world “out there” independent of the observers.
10.3 Since processes, components, open networks of processes and components, and an environment neither define nor maintain themselves, logical observers may only distinguish (extricate or deduce) them from organizationally closed unities (paradoxical context), which will appear open and no longer organizationally closed (nor paradoxical) for these observers.
10.4 Paradoxical observers interact with and tentatively distinguish an environment as a world “in and out there”, through which they may, with some difficulty, relate to logical observers.

Tractatus Paradoxico-Philosophicus

A Philosophical Approach to Education
Un Acercamiento Filosófico a la Educación
Une Approche Philosophique à l'Education
Eine Philosophische Annäherung an Bildung

Ricardo B. Uribe

Copyright © by a collaborating group of people including the author, editing consultants, translators, and printers. All rights reserved.





Tao Paradoxico-Philosophicus 7-8

quartetto Tao







Zentralfriedhof, Vienna (Wien), Austria

mercoledì 23 ottobre 2013

il Tao di Nagarjuna

Golden statue of Nagarjuna at Samye Ling Monastery.
La ricerca del Sé e della Coscienza nella prospettiva enazionista considerando mondi di coscienza ed esperienza senza fondamento ha la sua radice nell'insegnamento di Nāgārjuna (circa 150-250 dC), fondatore della tradizione Madhyamika del buddhismo Mahāyāna, il primo assertore e veggente del sorgere della coscienza come co-dipendenza/co-produzione/co-emergenza  tra soggetto cosciente e il suo mondo:

WORLDS WITHOUT GROUND

The Middle Way

Nāgārjuna and the Madhyamika Tradition


Hitherto we have spoken of the Buddhist tradition of mindfulness/awareness as though it were all one unified tradition. And in fact, the teachings of no-self-the five aggregates, some form of mental factor analysis, and karma and the wheel of conditioned origination-are common to all of the major Buddhist traditions. At this point, however, we come to a split. The teaching of emptiness (sunyata), which we are about to explore, according to the Buddhist tradition itself as well as to scholarship, did not become apparent until approximately 500 years after the Buddha's death, at which time the Prajñāpāramitā and other texts that expound this doctrine began to appear. During those 500 years, the Abhidharma tradition had become elaborated into eighteen different schools that debated each other about various subtle points and debated the many non-Buddhist schools within Hinduism and Jainism. Those who adopted the newer teachings called themselves the Great Vehicle (Mahāyāna) and designated those who continued to adhere to the earlier teachings the Lesser Vehicle Hīnayāna)-an epithet to this day widely loathed by non-Mahayanists. One of the eighteen original schools, the Theravāda (the speech of the elders) has survived with great vigor in the modem world; it is the undisputed form of Buddhism in the countries of Southeast Asia-Burma, Sri Lanka, Cambodia, Laos, and Thailand. Theravada Buddhism does not teach sunyata. Sunyata is, however, the foundation of Mahayana Buddhism (the form that spread to China, Korea, and Japan) and of the Vajrayana, the Buddhism of Tibet.
In approximately the first half of the second century CE, the Prajñāpāramitā teachings were put into a form of philosophical argument by Nagarjuna (according to some Mahayana schools and many, but not all, Western scholars). Nagarjuna's stature in Mahayana and Varjayana Buddhism is enormous. His method was to work solely by means of refutation of the positions and assertions of others. His followers soon split into those who continued this method, which is very demanding for the listener as well as for the speaker (the Prasangikas) and those who made positive arguments about emptiness (Svatantrikas).
The Madhyamika tradition, although it delighted in debate and logical argument, is not to be taken as abstract philosophy in the modem sense. For one thing, the debate was considered so meaningful in the social context of the courts and universities of early India that the losing side in a debate was expected to convert. More important, the philosophy was never to be divorced from meditation practice or from the daily activities of life. The point was to realize egolessness in one's own experience and manifest it in action to others. Texts discussing the philosophy included meditation manuals for how to contemplate, meditate, and act on the topic.
In exposition of Nagarjuna in the present day, there is a split between Buddhist practitioners (including traditionally trained practitioner scholars) and Western academic scholars. Practitioners say that Western scholars are making up issues, interpretations, and confusions that have nothing to do with the texts or with Buddhism.
Western scholars feel that the opinions (and teachings) of "believers" are not an appropriate source for textual exegesis. Since in this book we wish to bring into contact the living tradition of mindfulness/awareness meditation with the living tradition of phenomenology and of cognitive science, for our exposition of the Madhyamika we will draw from the practitioner as well as from the scholarly side of this interesting sociological detente.
Śūnyatā literally means "emptiness" (sometimes misleadingly translated as "the void" or "voidness"). In the Tibetan tradition, it is said that sunyata may be expounded from three perspectives--sunyata with respect to codependent arising, sunyata with respect to compassion, and sunyata with respect to naturalness. It is the first of these, sunyata with respect to codependent arising, that most naturally fits with the logic we have been exploring in the discovery of groundlessness and its relationship to cognitive science and the concept of enaction.

Nagarjuna's most well known work is the Stanzas of the Middle Way (Mulamadhyamikakarikas). From the perspective that we will now examine, it carries through the logic of codependent arising to its logical conclusion.
In the Abhidharma analysis of consciousness, each moment of experience takes the form of a particular consciousness that has a particular object to which it is tied by particular relations. For example, a moment of seeing consciousness is composed of a seer (the subject) who sees (the relation) a sight (the object); in a moment of anger consciousness, the one who is angry (the subject) experiences (the relation) anger (the object). (This is what we have called protointentionality.) The force of the analysis was to show that there was no truly existing subject (a self) continuing unchangingly through a series of moments. But what of the objects of consciousness? And what of the relations? The Abhidharma schools had assumed that there were material properties that were taken as objects by five of the senses-seeing, hearing, smelling, tasting, and touching-and that there were thoughts that were taken as an object by the mind consciousness. Such an analysis is still partially subjectivist/objectivist because (1) many schools, such as the basic element analysis discussed in chapters 4 and 6, took moments of consciousness as ultimate realities, and (2) the external world had been left in a relatively unproblematic, objectivist, independent state.
The Mahayana tradition talks about not just one but two senses of ego-self: ego of self and ego of phenomena (dharmas). Ego of self is the habitual grasping after a self that we have been discussing. Mahayanists claim that the earlier traditions attacked this sense of self but did not challenge the reliance on an independently existing world or the mind's (momentary) relations to that world. Nagarjuna attacks the independent existence of all three terms-the subject, the relation, and the object. What follows will be a (synthetically constructed)example of the kind of argument that Nagarjuna makes. What is it that we mean when we say that the one who sees exists independently or when we say that that which is seen exists independently? Surely we mean that the one who sees exists even when she is not seeing the sight; she exists prior to and/or after seeing the sight. And likewise we mean that the sight exists prior to and/or after it is seen by the seer. That is, if I am the seer of a sight and I truly exist, it means that I can walk away and not see that sight-I can go hear something or think something instead. And if the sight truly exists, it should be able to stay there even when I am not seeing it-for example, it could have someone else see it at a future moment.
Upon closer examination, however, Nagarjuna points out that this makes little sense. How can we talk about the seer of a sight who is not seeing its sight? Conversely how can we speak of a sight that is not being seen by its seer? Nor does it make any sense to say that there is an independently existing seeing going on somewhere without any seer and without any sight being seen. The very position of a seer, the very idea of a seer, cannot be separated from the sights it sees. And vice versa, how can the sight that is being seen be separated from the seer that sees it?
We might try a negative tack and reply that all this is true and that the seer does not exist prior to the sight and the seeing of it. But then how can a nonexistent seer give rise to an existing seeing and an existing sight? Or if we try to argue the other way round and say that the sight didn't exist until the seer saw it, the reply is, How can a nonexistent sight be seen by a seer?
Let us try the argument that the seer and the sight arise simultaneously. In that case, they are either one and the same thing, or they are different things. If they are one and the same thing, then this cannot be a case of seeing, since seeing requires that there be one who sees, a sight, and the seeing of the sight. We do not say that the eye sees it~elf. Then they must be two separate, independent things. But in that case, if they are truly independent things, each existing in its own right independently of the relations in which it happens to figure, then there could be many relations beside seeing between them. But it makes no sense to say that a seer hears a sight; only a hearer can hear a sound.
We might give in and agree that there is no truly existent independent seer, sight, or seeing but claim that all three put together form a truly existent moment of consciousness that is the ultimate reality. But if you add one nonexistent thing to another nonexistent thing, how can you say that that makes a truly existent thing? Indeed, how can you say that a moment of time is a truly existent thing when to be truly existent, it would have to exist independently- of other moments in the past and future? Furthermore, since one moment is but an aspect of time itself, that moment would have to exist independently of time itself (this is an argument about the codependence of things and their attributes); and time itself would have to exist independently of that one moment.
At this point, we might be seized with the terrible feeling that indeed these things do not exist. But surely it makes even less sense to assert that a nonexistent seer either sees or does not see a nonexistent sight at a nonexistent moment than to make these claims about an existent seer. (That this argument has actual psychological force is illustrated by an Israeli joke: Man 1 says, "Things are getting worse and worse; better never to have existed at all." Man 2 says, "How true. But who should be so lucky?--one in ten thousand!") Nagarjuna's point is not to say that things are nonexistent in an absolute way any more than to say that they are existent. Things are codependently originated; they are completely groundless.
Nagarjuna's arguments for complete codependence (or more properly his arguments against any other conceivable view than codependence) are applied to three main classes of topics: subjects and their objects, things and their attributes, and causes and their effects. By these means, he disposes of the idea of noncodependent existence for virtually everything-subject and object for each of the senses; material objects; the primal elements (earth, water, fire, air, and space); passion, aggression, and ignorance; space, time, and motion; the agent, his doing, and what he does; conditions and outcomes; the self as perceiver, doer, or anything else; suffering; the causes of suffering, cessation of suffering, and the path to cessation (known as the Four Noble Truths); the Buddha; and nirvana. Nagarjuna finally concludes, "Nothing is found that is not dependently arisen. For that reason, nothing is found that is not empty."
It is important to remember the context within which these arguments are employed. Nagarjuna's arguments fasten on psychologically real habits of mind and demonstrate their groundlessness within the context of mindfulness/awareness meditation and Abhidharma psychology. A modem philosopher might believe himself able to find faults with Nagarjuna's logic. Even if this were the case, however, it would not overturn the epistemological and psychological force of Nagarjuna's argumentation within the context of his concerns. In fact, Nagarjuna's arguments can be summarized in a way that makes this point apparent:

1. If subjects and their objects, things and their attributes, and causes and their effects exist independently as we habitually take them to, or exist intrinsically and absolutely as basic element analysis holds, then they must not depend on any kind of condition or relation. This point basically amounts to a philosophical insistence on the meanings of independent, intrinsic, and absolute. By definition, something is independent, intrinsic, or absolute only if it does not depend on anything else; it must have an identity that transcends its relations.
2. Nothing in our experience can be found that satisfies this criterion of independence or ultimacy. The earlier Abhidharma tradition had expressed this insight as dependent coarising: nothing can be found apart from its conditions of arising, formation, and decay. In our modem context this point is rather obvious when considering the causes and conditions of the material world and is expressed in our scientific tradition. Nagarjuna took the understanding of codependence considerably further. Causes and their effects, things and their attributes, and the very mind of the inquiring subject and the objects of mind are each equally codependent on the other. Nagarjuna's logic addresses itself penetratingly to the mind of the inquiring subject (recall our fundamental circularity), to the ways in which what are actually codependent factors are taken by that subject to be the ultimate founding blocks of a supposed objective and a supposed subjective reality.
3. Therefore, nothing can be found that has an ultimate or independent existence. Or to use Buddhist language, everything is "empty" of an independent existence, for it is codependently originated.
We now have a context for understanding emptiness with respect to codependent origination: all things are empty of any independent intrinsic nature. This may sound like an abstract statement, but it has far-ranging implications for experience. We explained in chapter 4 how the categories of the Abhidharma were both descriptions and contemplative directives for the way the mind is actually experienced when one is mindful. It is important to realize that Nagarjuna is not rejecting the Abhidharma, as he is sometimes interpreted as doing in Western scholarship. His entire analysis is based on the categories of the Abhidharma: what sense would arguments such as that of the seer, the sight, and the seeing have except in that context? (If the reader thinks that Nagarjuna's argument is a linguistic one, that is because he has not seen the force of the Abhidharma.) It is a very precise argument, not just a general handwaving that everything is dependent on everything. Nagarjuna is extending the Abhidharma, but that extension makes an incisive difference to experience.
Why should it make any difference at all to experience? One might say, So what if the world and the self change moment to moment whoever thought that they were permanent? And so what if they are mutually dependent on each other-whoever thought they were isolated? The answer (as we have seen throughout the book) is that as one becomes mindful of one's own experience, one realizes the power of the urge to grasp after foundations-to grasp the sense of foundation of a real, separate self, the sense of foundation of a real, separate world, and the sense of foundation of an actual relation between self and world.
It is said that emptiness is a natural discovery that one would make by oneself with sufficient mindfulness/awareness-natural but shocking. Previously we have been talking about examining the mind with meditation. There may not have been a self, but there was still a mind to examine itself, even if a momentary one. But now we discover that we have no mind; after all, a mind must be something that is separate from and knows the world. We also don't have a world. There is neither an objective nor subjective pole. Nor is there any knowing because there is nothing hidden. Knowing sunyata (more accurately knowing the world as sunyata) is surely not an intentional act. Rather (to use traditional imagery), it is like a reflection in a mirror-pure, brilliant, but with no additional reality apart from itself. As mind/world keeps happening in its interdependent continuity, there is nothing extra on the side of mind or on the side of world to know or be known further. Whatever experience happens is open (Buddhist teachers use the word exposed), perfectly revealed just as it is.
We can now see why Madhyamika is called the middle way. It avoids the extreme of either objectivism or subjectivism, of absolutism or nihilism. As is said by the Tibetan commentators, "Through ascertaining the reason - that all phenomena are dependent arisings - the extreme of annihilation (nihilism) is avoided, and realization of dependent-arising of causes and effects is gained. Through ascertaining the thesis-that all phenomena do not inherently exist-the extreme of permanence (absolutism) is avoided, and realization of the emptiness of all phenomena is gained. " But what does all this mean for the everyday world? I still have a name, a job, memories, and plans. The sun still rises in the morning, and scientists still work to explain that. What of all this?

Tao solare



Sonne (Sun)

Lyrics ©2001 Rammstein.

Eins, zwei, drei, vier, fünf, sechs, sieben, acht, neun, aus
Alle warten auf das Licht
fürchtet euch fürchtet euch nicht
die Sonne scheint mir aus den Augen
sie wird heut Nacht nicht untergehen
und die Welt zählt laut bis zehn
Eins
Hier kommt die Sonne
Zwei
Hier kommt die Sonne
Drei
Sie ist der hellste Stern von allen
Vier
Hier kommt die Sonne
Die Sonne scheint mir aus den Händen
kann verbrennen, kann euch blenden
wenn sie aus den Fäusten bricht
legt sich heiß auf das Gesicht
sie wird heut Nacht nicht untergehen
und die Welt zählt laut bis zehn
Eins
Hier kommt die Sonne
Zwei
Hier kommt die Sonne
Drei
Sie ist der hellste Stern von allen
Vier
Hier kommt die Sonne
Fünf
Hier kommt die Sonne
Sechs
Hier kommt die Sonne
Sieben
Sie ist der hellste Stern von allen
Acht, neun
Hier kommt die Sonne
Die Sonne scheint mir aus den Händen
kann verbrennen, kann dich blenden
wenn sie aus den Fäusten bricht
legt sich heiß auf dein Gesicht
legt sich schmerzend auf die Brust
das Gleichgewicht wird zum Verlust
lässt dich hart zu Boden gehen
und die Welt zählt laut bis zehn
Eins
Hier kommt die Sonne
Zwei
Hier kommt die Sonne
Drei
Sie ist der hellste Stern von allen
Vier
Und wird nie vom Himmel fallen
Fünf
Hier kommt die Sonne
Sechs
Hier kommt die Sonne
Sieben
Sie ist der hellste Stern von allen
Acht , neun
Hier kommt die Sonne
Unofficial Translation ©2003 Jeremy Williams.

One, two, three, four, five, six, seven, eight, nine, out
Everyone is waiting for the light
be afraid, don't be afraid
the sun is shining out of my eyes
it will not set tonight
and the world counts loudly to ten
One
Here comes the sun
Two
Here comes the sun
Three
It is the brightest star of them all
Four
Here comes the sun
The sun is shining out of my hands
it can burn, it can blind you all
when it breaks out of the fists
it lays down hotly on the face
it will not set tonight
and the world counts loudly to ten
One
Here comes the sun
Two
Here comes the sun
Three
It is the brightest star of them all
Four
Here comes the sun
Five
Here comes the sun
Six
Here comes the sun
Seven
It is the brightest star of them all
Eight, nine
Here comes the sun
The sun is shining out of my hands
it can burn, it can blind you
when it breaks out of the fists
it lays down hotly on your face
it lays down painfully on your chest
balance is lost
it lets you go hard to the floor
and the world counts loudly to ten
One
Here comes the sun
Two
Here comes the sun
Three
It is the brightest star of them all
Four
And it will never fall from the sky
Five
Here comes the sun
Six
Here comes the sun
Seven
It is the brightest star of them all
Eight, nine
Here comes the sun

il Te del Tao: LXII - PRATICARE IL TAO


LXII - PRATICARE IL TAO

Ecco che cosa è il Tao:
il rifugio delle creature,
tesoro per il buono,
protezione per il malvagio.
A parlarne con elogio si può tener mercato,
a seguirlo con rispetto si può emergere sugli altri.
Degli uomini malvagi quale può essere respinto?
Per questo si pone sul trono il Figlio del Cielo
e si nominano i tre gran ministri.
Anche se costoro hanno il gran pi (*)
per ottenere precedenza alla loro quadriga,
è meglio che se ne stiano seduti
ad avanzare in questo Tao.
Quale era la ragione per cui gli antichi
apprezzavano questo Tao?
Non dicevano forse: ottiene chi con esso cerca,
con esso sfugge chi è in colpa?
Per questo è ciò che v'è di più prezioso al mondo.

(*) disco di giada

martedì 22 ottobre 2013

carattere del Tao nazionale - III


MORALE E CARATTERE NAZIONALE (1942)

CARATTERE NAZIONALE E MORALE AMERICANO

Usando i temi delle relazioni tra persone e tra gruppi come chiavi interpretative del carattere nazionale, siamo stati in grado di indicare certi ordini di differenze regolari che ci si può aspettare di trovare tra i popoli che appartengono alla nostra civiltà occidentale. Le nostre enunciazioni sono state, di necessità, teoriche piuttosto che empiriche; eppure dalla struttura teorica così delineata è possibile ricavare certe formule che possono tornare utili a chi deve plasmare il morale.
Tutte queste formule sono basate sull'ipotesi generale che gli uomini reagiscano più energicamente quando il contesto abbia una struttura tale da elicitare i loro abituali modi di reazione. Non è sensato offrire carne cruda a un asino per spingerlo a salire un pendio e un leone non reagirà davanti a un po' d'erba.
l. Poiché tutte le nazioni occidentali tendono a pensare e a comportarsi in termini bipolari, nel sostenere il morale americano faremo bene a considerare i nostri vari nemici come una singola entità ostile. Le distinzioni e le radazioni che gli intellettuali potrebbero preferire sarebbero probabilmente d'intralcio.
2. Poiché è agli stimoli simmetrici che gli americani e gl'inglesi reagiscono più energicamente, saremmo assai malaccorti se sminuissimo i disastri bellici. Se i nostri nemici c'infliggono una qualunque sconfitta, questa deve venire adoperata come incitamento e sprone a perseverare nello sforzo. Quando le nostre forze hanno subìto qualche rovescio, i giornali non devono affrettarsi a comunicarci che «l'avanzata del nemico è sotto controllo ». In guerra i progressi sono sempre intermittenti, e il momento di colpire, il momento in cui occorre che il morale sia alle stelle è quando il nemico sta consolidando la sua posizione e preparandosi a sferrare il colpo successivo; in tali momenti non è sensato ridurre l'energia aggressiva dei nostri capi e della popolazione mediante assicurazioni tranquillizzanti.
3. C'è tuttavia una discrepanza superficiale tra l'abitudine all'incentivo simmetrico e il bisogno di mostrare autosufficienza. Abbiamo avanzato l'ipotesi che il ragazzo americano apprenda a reggersi sulle sue gambe mediante le occasioni che gli si presentano nell'infanzia, quando i genitori sono spettatori compiaciuti della sua autosufficienza. Se questa interpretazione è corretta, ne segue che un certo prorompere di presunzione è normale e salutare negli americani, ed è forse un ingrediente essenziale della loro indipendenza e forza.
Pertanto, un'applicazione troppo letterale della formula suddetta, cioè un' eccessiva insistenza sui disastri e sulle difficoltà, potrebbe portare a una certa perdita di energia, imbrigliando quest'esuberanza spontanea. Una dieta concentrata di «sangue, sudore e lacrime» può andar bene per gli inglesi; ma gli americani, benché non meno dipendenti da motivazioni simmetriche, non possono sentirsi in forma se sono nutriti soltanto di disastri. I nostri portavoce pubblici e i nostri giornalisti non dovrebbero mai attenuare il fatto che si è in presenza di situazioni che esigono un comportamento da veri uomini, anzi faranno bene a mettere in evidenza che l'America è una nazione di uomini veri. Qualsiasi tentativo di rassicurare gli americani sminuendo la forza del nemico dev' essere evitato, ma una franca affermazione dei successi reali è positiva.
4. Poiché la nostra visione della pace è un fattore del nostro morale bellico. è opportuno chiedersi subito quali chiarimenti potrebbe portare sui problemi dei negoziati di pace lo studio delle differenze nazionali.
Dobbiamo cercare di formulare un trattato di pace a) tale che gli americani e gl'inglesi vogliano combattere per attuarlo, e b) tale che da esso emergano le caratteristiche migliori dei nostri nemici e non quelle peggiori. Se viene impostato scientificamente, questo problema non supera affatto le nostre capacità.
L'ostacolo psicologico più cospicuo da superare in questo immaginario trattato di pace è il contrasto tra gli schemi simmetrici di inglesi e americani e lo schema complementare dei tedeschi, con il suo tabù verso il comportamento apertamente sottomesso. Gli alleati non hanno l'impalcatura psicologica per imporre l'applicazione di un trattato duro; potrebbero redigerlo, ma dopo sei mesi sarebbero già stanchi di tenere i vinti in soggezione. I tedeschi, d'altro canto, qualora considerino 'sottomessa' la loro posizione, non l'accetteranno se non saranno trattati con durezza. Si è visto che queste considerazioni erano valide anche per un trattato così moderatamente punitivo come quello stipulato a Versailles. Gli alleati non ne imposero l'applicazione e i tedeschi si rifiutarono di accettarlo. Pertanto è inutile sognare un trattato simile, e peggio che inutile è ripetere tali sogni allo scopo di sollevare il nostro morale ora che siamo infiammati di collera verso la Germania. Far questo potrebbe solo rendere oscuri gli esiti di una soluzione definitiva.
Questa incompatibilità tra la motivazione complementare e quella simmetrica significa in realtà che il trattato non può essere organizzato intorno a semplici temi di autorità-sottomissione; siamo perciò costretti a cercare soluzioni alternative. Dobbiamo per esempio esaminare il tema dell'esibizionismo-ammirazione (quale parte è più adatta a interpretare con decoro ciascuna delle diverse nazioni?) e quello dell'assistenza-dipendenza (nel mondo affamato del dopoguerra quali strutture motivazionali evocheremo tra quelli che distribuiranno il cibo e quelli che lo riceveranno?). Inoltre, in alternativa a queste soluzioni, c'è la possibilità di qualche struttura tripolare, nella quale sia gli alleati sia i tedeschi si sottomettano non gli uni agli altri, ma a qualche principio astratto.


carattere del Tao nazionale - II

Senso di colpa (8 di Spade)


Il senso di colpa è una delle emozioni più distruttive in cui si possa restare intrappolati. Se abbiamo fatto un torto a qualcuno oppure siamo andati contro la nostra verità, ovviamente ci sentiremo male. Ma lasciare che il senso di colpa ci travolga, vuol dire dare il benvenuto a un bel mal di testa. Finiamo per essere circondati e perseguitati da nuvole di dubbi su noi stessi e dalla sensazione di essere indegni, al punto da non riuscire più a vedere la bellezza e la gioia che la vita sta cercando di offrirci. Tutti aspiriamo a essere persone migliori: più amorevoli, più consapevoli, più aderenti alla nostra verità. Ma quando ci puniamo per i nostri fallimenti, sentendoci in colpa, possiamo restare intrappolati in un ciclo di disperazione e di impotenza che ci sottrae ogni chiarezza su di noi e sulle situazioni che stiamo affrontando. Così come sei, sei perfetto, ed è assolutamente naturale smarrirsi, una volta ogni tanto. Devi solo imparare da queste esperienze, andare oltre, e usare la lezione appresa per non rifare più lo stesso errore.

Questo momento, questo "qui e ora" è dimenticato, allorché inizi a pensare in termini di conseguire qualcosa. Quando arriva in primo piano la mente tesa alla conquista, perdi contatto col paradiso in cui ti trovi. Questo è uno degli approcci più liberatori: ti libera in questo preciso istante! Dimentica totalmente il peccato e scordati la santità - entrambe le cose sono stupide. Entrambe, unite insieme, hanno distrutto tutte le gioie dell'umanità. Il peccatore si sente in colpa, per cui ogni sua gioia va perduta. Come puoi goderti la vita, se ti senti sempre in colpa? Se continui ad andare e venire dalla chiesa per confessare errori e mancanze? E errore su errore su errore, tutta la tua vita sembra essere formata da peccati. Come puoi vivere con gioia? Diventa impossibile godersi la vita. Diventi greve, oberato da pesi: la colpa siede sul tuo petto, simile a una roccia, e ti schiaccia; non ti permette di danzare. Come potresti? Come può il senso di colpa danzare? Come può cantare? Come può la colpa amare? Come può vivere? Pertanto, colui che pensa di fare qualcosa di sbagliato è colpevole, è gravato dalla colpa, è morto prima del tempo: ha già fatto un passo nella tomba!

lunedì 21 ottobre 2013

la freccia del Tao

La freccia del tempo


«Sino all'inizio di questo secolo si credette in un tempo assoluto. In altri termini, ogni evento poteva essere etichettato da un numero chiamato «tempo» ad esso associato in un modo unico, e ogni buon orologio avrebbe concordato con ogni altro nel misurare l'intervallo di tempo compreso fra due eventi. La scoperta che la velocità della luce appare la stessa a ogni osservatore, in qualsiasi modo si stia muovendo, condusse però alla teoria della relatività, nella quale si dovette abbandonare l'idea che esista un tempo unico assoluto. Ogni osservatore avrebbe invece la sua propria misura del tempo quale viene misurato da un orologio che egli porta con sé: orologi portati da differenti osservatori non concorderebbero necessariamente fra loro. Il tempo diventò così un concetto più personale, relativo all'osservatore che lo misurava.
Quando si tentò di unificare la gravità con la meccanica quantistica, si dovette introdurre l'idea del tempo "immaginario". Il tempo immaginario è indistinguibile dalle direzioni nello spazio. Se si può andare verso nord, si può fare dietro-front e dirigersi verso sud; nello stesso modo, se si può procedere in avanti nel tempo immaginario, si dovrebbe poter fare dietro-front e procedere a ritroso. Ciò significa che non può esserci alcuna differenza importante fra le direzioni in avanti e all'indietro del tempo immaginario. D'altra parte, quando si considera il tempo "reale", si trova una differenza grandissima fra le direzioni in avanti e all'indietro, come ognuno di noi sa anche troppo bene. Da dove ha avuto origine questa differenza fra il passato e il futuro? Perché ricordiamo il passato ma non il futuro?


Le leggi della scienza non distinguono fra passato e futuro. Più precisamente, le leggi della scienza sono invarianti sotto la combinazione di operazioni (o simmetrie) note come C, P e T. (C significa lo scambio fra particelle e antiparticelle; P significa l'assunzione dell'immagine speculare, con inversione di destra e sinistra; T significa, infine, l'inversione del moto di tutte le particelle, ossia l'esecuzione del moto all'indietro.) Le leggi della scienza che governano il comportamento della materia in tutte le situazioni normali rimangono immutate sotto la combinazione delle due operazioni C e P prese a sé. In altri termini, la vita sarebbe esattamente identica alla nostra per gli abitanti di un altro pianeta che fossero una nostra immagine speculare e che fossero composti di antimateria anziché di materia.
Se le leggi della scienza rimangono immutate sotto la combinazione delle operazioni C e P, e anche sotto la combinazione C, P e T, devono rimanere immutate anche sotto la sola operazione T. Eppure c'è una grande differenza fra le operazioni in avanti e all'indietro del tempo reale nella vita comune. Immaginiamo una tazza d'acqua che cada da un tavolo e vada a frantumarsi sul pavimento. Se filmiamo questo fatto, potremo dire facilmente, osservandone la proiezione, se la scena che vediamo si stia svolgendo in avanti o all'indietro. Se la scena è proiettata all'indietro, vedremo i cocci riunirsi rapidamente e ricomporsi in una tazza intera che balza sul tavolo. Possiamo dire che la scena che vediamo è proiettata all'indietro perché questo tipo di comportamento non viene mai osservato nella vita comune. Se lo fosse, i produttori di stoviglie farebbero fallimento.
La spiegazione che si dà di solito del perché non vediamo mai i cocci di una tazza riunirsi assieme a ricostituire l'oggetto integro è che questo fatto è proibito dal secondo principio della termodinamica. Questo dice che in ogni sistema chiuso il disordine, o l'entropia, aumenta sempre col tempo. In altri termini, questa è una forma della legge di Murphy: le cose tendono sempre ad andare storte! Una tazza integra sul tavolo è in uno stato di alto ordine, mentre una tazza rotta sul pavimento è in uno stato di disordine. Si può passare facilmente dalla tazza sul tavolo nel passato alla tazza rotta sul pavimento nel futuro, ma non viceversa.
L'aumento col tempo del disordine o dell'entropia è un esempio della cosiddetta freccia del tempo, qualcosa che distingue il passato dal futuro, dando al tempo una direzione ben precisa. Esistono almeno tre frecce del tempo diverse. Innanzitutto c'è la freccia del tempo termodinamica: la direzione del tempo in cui aumenta il disordine o l'entropia. Poi c'è la freccia del tempo psicologica: la direzione in cui noi sentiamo che passa il tempo, la direzione in cui ricordiamo il passato ma non il futuro. Infine c'è la freccia del tempo cosmologica: la direzione del tempo in cui l'universo si sta espandendo anziché contraendo.
Orbene, nessuna condizione al contorno per l'universo può spiegare perché tutt'e tre le frecce puntino nella stessa direzione, e inoltre perché debba esistere in generale una freccia del tempo ben definita. La freccia psicologica è determinata dalla freccia termodinamica, e queste due frecce puntano sempre necessariamente nella stessa direzione. Se si suppone la condizione dell'inesistenza di confini per l'universo, devono esistere una freccia del tempo termodinamica e una cosmologica ben definite, ma esse non punteranno nella stessa direzione per l'intera storia dell'universo. Solo però quando esse puntano nella stessa direzione le condizioni sono idonee allo sviluppo di esseri intelligenti in grado di porsi la domanda: Perché il disordine aumenta nella stessa direzione del tempo in cui l'universo si espande?.
Esaminerò dapprima la freccia del tempo termodinamica. La seconda legge della termodinamica risulta dal fatto che gli stati disordinati sono sempre molti di più di quelli ordinati. Per esempio, consideriamo i pezzi di un puzzle in una scatola. Esiste uno, e un solo, ordinamento in cui tutti i pezzi formano una figura completa. Di contro esiste un numero grandissimo di disposizioni in cui i pezzi sono disordinati e non compongono un'immagine.
Supponiamo che un sistema prenda l'avvio in uno del piccolo numero di stati ordinati. Al passare del tempo il sistema si evolverà secondo le leggi della scienza e il suo stato si modificherà. In seguito è più probabile che il sistema si trovi in uno stato disordinato piuttosto che in uno ordinato, dato che gli stati disordinati sono in numero molto maggiore. Il disordine aumenterà quindi probabilmente col tempo se il sistema obbedisce alla condizione iniziale di grande ordine.
Supponiamo che nello stato iniziale i pezzi siano raccolti nella scatola nella disposizione ordinata in cui formano un'immagine. Se scuotiamo la scatola i pezzi assumeranno un'altra disposizione. Questa sarà probabilmente una disposizione disordinata in cui i pezzi non formeranno un'immagine appropriata, semplicemente perché le disposizioni disordinate sono in numero molto maggiore di quelle ordinate. Alcuni gruppi di pezzi potranno formare ancora parti della figura, ma quanto più scuotiamo la scatola tanto più aumenta la probabilità che anche questi gruppi si rompano e che i pezzi vengano a trovarsi in uno stato completamente mischiato, nel quale non formeranno più alcuna sorta di immagine. Così il disordine dei pezzi aumenterà probabilmente col tempo se i pezzi obbediscono alla condizione iniziale che si prenda l'avvio da uno stato altamente ordinato.
Supponiamo, però, che Dio abbia deciso che l'universo debba finire in uno stato di alto ordine, ma che non abbia alcuna importanza in quale stato sia iniziato. In principio l'universo sarebbe probabilmente in uno stato molto disordinato. Ciò significherebbe che il disordine è destinato a diminuire col tempo. Vedremmo allora i cocci di tazze rotte riunirsi assieme e le tazze intere saltare dal pavimento sul tavolo. Gli esseri umani che si trovassero a osservare queste scene vivrebbero però in un universo in cui il disordine diminuisce col tempo. Ebbene, tali esseri avrebbero una freccia del tempo psicologica orientata all'indietro. In altri termini, essi ricorderebbero gli eventi del futuro e non del passato. Quando la tazza è rotta, essi ricorderebbero di averla vista integra sul tavolo, ma vedendola sul tavolo non ricorderebbero di averla vista in pezzi sul pavimento.
È piuttosto difficile parlare della memoria umana perché non sappiamo nei particolari in che modo funzioni il cervello. Però sappiamo tutto su come funzionano le memorie dei computer. Esaminerò perciò la freccia del tempo psicologica per i computer. Io penso che sia ragionevole supporre che la freccia del tempo psicologica per i computer sia la stessa che per gli esseri umani. Se così non fosse, si potrebbe fare una strage sul mercato azionario avendo un computer che ricordasse le quotazioni di domani!
Una memoria di un computer è fondamentalmente un dispositivo contenente elementi che possono esistere in uno di due stati diversi. Un esempio semplice è un abaco. Nella sua forma più semplice, esso consiste in un certo numero di bacchette su ciascuna delle quali può scorrere una pallina forata, che può essere messa in una di due posizioni. Prima che un'informazione venga registrata in una memoria di computer, la memoria si trova in uno stato disordinato, con probabilità uguali per ciascuno dei due stati possibili. (Le palline dell'abaco sono distribuite in modo casuale sulle bacchette.) Dopo avere interagito col sistema che dev'essere ricordato, la memoria si troverà decisamente nell'uno o nell'altro stato, a seconda dello stato del sistema. (Ogni pallina dell'abaco si troverà o nella parte destra o nella parte sinistra di ogni bacchetta.) La memoria sarà quindi passata da uno stato disordinato a uno stato ordinato. Per essere certi, però, che la memoria si trovi nello stato giusto, è necessario usare una certa quantità di energia (per spostare le palline o per fornire energia al computer, per esempio). Quest'energia viene dissipata sotto forma di calore, e contribuisce ad aumentare la quantità di disordine nell'universo. Si può mostrare che quest'aumento del disordine è sempre maggiore dell'aumento dell'ordine nella memoria stessa. Così, il calore espulso dal ventilatore del computer significa che, quando un computer registra un'informazione nella sua memoria, la quantità totale di disordine nell'universo aumenta ancora. La direzione del tempo in cui un computer ricorda il passato è la stessa in cui aumenta il disordine.
Il nostro senso soggettivo della direzione del tempo, la freccia del tempo psicologica, è perciò determinato nel nostro cervello dalla freccia del tempo termodinamica. Esattamente come un computer, anche noi dobbiamo ricordare le cose nell'ordine in cui aumenta l'entropia. Questo fatto rende la seconda legge della termodinamica quasi banale. Il disordine aumenta col tempo perché noi misuriamo il tempo nella direzione in cui il disordine aumenta. Non c'è una cosa di cui possiamo essere più sicuri di questa!
Ma per quale ragione deve esistere la freccia del tempo termodinamica? O, in altri termini, perché l'universo dovrebbe essere in uno stato di grande ordine a un estremo del tempo, l'estremo che chiamiamo passato? Perché non si trova sempre in uno stato di completo disordine? Dopo tutto, questa cosa potrebbe sembrare più probabile. E perché la direzione del tempo in cui aumenta il disordine e la stessa in cui l'universo si espande?
Nella teoria classica della relatività generale non si può predire in che modo l'universo sia cominciato perché tutte le leggi note della scienza verrebbero meno in presenza della "singolarità" del Big Bang. L'universo potrebbe avere avuto inizio in un modo molto omogeneo e ordinato. Questo fatto avrebbe condotto a frecce del tempo termodinamica e cosmologica ben definite, come quelle che osserviamo. Esso avrebbe però potuto avere origine altrettanto bene in uno stato molto grumoso e disordinato. In questo caso l'universo si sarebbe trovato già in uno stato di completo disordine, cosicché il disordine non avrebbe potuto aumentare col tempo. Esso sarebbe stato destinato o a restare costante, nel qual caso non ci sarebbe stata una freccia del tempo termodinamica ben definita, o a diminuire, nel qual caso la freccia del tempo termodinamica avrebbe puntato nella direzione opposta a quella della freccia cosmologica. Nessuna di queste due possibilità e in accordo con ciò che osserviamo. Ma la teoria classica della relatività generale predice il suo stesso venir meno. Quando ci si avvicina alla singolarità del Big Bang, gli effetti gravitazionali quantistici diventeranno importanti e la teoria classica cesserà di essere una buona descrizione dell'universo. Si deve usare una teoria quantistica della gravità per capire in che modo abbia avuto inizio l'universo.
In una teoria quantistica della gravità per specificare lo stato dell'universo si dovrebbe ancora dire in che modo le possibili storie dell'universo si comporterebbero all'èstremo confine dello spazio-tempo in passato. Si potrebbe evitare questa difficoltà di dover descrivere quel che non sappiamo e non possiamo sapere solo se le storie soddisfano la condizione dell'inesistenza di ogni confine: se hanno un'estensione finita, ma non hanno confini, margini o singolarità. In questo caso l'inizio del mondo sarebbe un punto regolare, omogeneo, dello spazio-tempo e l'universo avrebbe cominciato la sua espansione in un modo molto regolare e ordinato. Esso non potrebbe essere stato completamente uniforme, poiché in tal caso avrebbe violato il principio di indeterminazione della teoria quantistica. Dovettero esserci piccole fluttuazioni nella densità e nelle velocità delle particelle. La condizione dell'assenza di confine implicava però che queste fluttuazioni fossero il più possibile piccole, in accordo col principio di indeterminazione di Heisenberg.
L'universo avrebbe avuto inizio con un periodo di espansione esponenziale o "inflazionaria" in cui le sue dimensioni sarebbero aumentate di un fattore molto grande.
Nel corso di tale espansione le fluttuazioni di densità sarebbero rimaste dapprima piccole, ma in seguito avrebbero cominciato a crescere. Nelle regioni in cui la densità era leggermente maggiore della media si sarebbe avuto un rallentamento dell'espansione per opera dell'attrazione gravitazionale della massa extra. Infine,- tali regioni avrebbero cessato di espandersi e si sarebbero contratte a formare galassie, stelle ed esseri come noi. L'universo sarebbe iniziato in uno stato omogeneo e ordinato e sarebbe diventato grumoso e disordinato al passare del tempo. Ciò spiegherebbe l'esistenza della freccia del tempo termodinamica.
Ma che cosa accadrebbe se l'universo cessasse di espandersi e cominciasse a contrarsi? La freccia del tempo termodinamica si rovescerebbe e il disordine comincerebbe a diminuire col tempo? Questo fatto condurrebbe a ogni sorta di possibilità fantascientifiche per coloro che fossero riusciti a sopravvivere dalla fase di espansione a quella di contrazione. Quei nostri lontani pronipoti vedrebbero i cocci di tazze ridotte in frammenti ricomporsi in tazze integre, e vedrebbero queste volare dal pavimento sul tavolo? Sarebbero in grado di ricordare le quotazioni di domani e guadagnare una fortuna sul mercato azionario? Potrebbe sembrare un po' accademico preoccuparsi di che cosa accadrebbe se l'universo tornasse a contrarsi, giacché questa contrazione non avrà inizio in ogni caso se non fra altri dieci miliardi di anni almeno. C'è però un modo più rapido per sapere che cosa accadrebbe: saltare in un buco nero. Il collasso di una stella a formare un buco nero è molto simile alle ultime fasi del collasso dell'intero universo. Se nella fase di contrazione dell'universo il disordine dovesse diminuire, potremmo quindi attenderci che esso diminuisca anche all'interno di un buco nero. Così, un astronauta che cadesse in un buco nero sarebbe forse in grado di vincere alla roulette ricordando in quale scomparto si trovava la pallina prima della sua puntata. (Purtroppo, però, non potrebbe giocare a lungo prima di essere trasformato in una fettuccina. Né sarebbe in grado di fornirci informazioni sull'inversione della freccia del tempo termodinamica, o neppure di versare in banca i suoi guadagni, giacché sarebbe intrappolato dietro l'orizzonte degli eventi del buco nero.)
In principio credevo che nella fase di collasso dell'universo il disordine sarebbe diminuito. Questo perché pensavo che nel corso della contrazione l'universo dovesse tornare a uno stato omogeneo e ordinato. Ciò avrebbe significato che la fase di contrazione sarebbe stata simile all'inversione temporale della fase di espansione. Le persone nella fase di contrazione avrebbero vissuto la loro vita a ritroso: sarebbero morte prima di nascere e sarebbero diventate più giovani al procedere della contrazione dell'universo.
Quest'idea è attraente perché comporterebbe una bella simmetria fra le fasi di espansione e di contrazione. Non è però possibile adottarla a se, indipendentemente da altre idee sull'universo. La domanda è: essa è implicita nella condizione che l'universo sia illimitato o è in contraddizione con tale condizione? In principio pensavo che la condizione che l'universo non avesse alcun limite implicasse effettivamente che nella fase di contrazione il disordine sarebbe diminuito. Fui sviato in parte dall'analogia con la superficie terrestre. Se si supponeva che l'inizio dell'universo corrispondesse al Polo Nord, la fine dell'universo doveva essere simile al principio, esattamente come il Polo Sud è simile al Polo Nord. I poli Nord e Sud corrispondono però all'inizio e alla fine dell'universo nel tempo immaginario. L'inizio e la fine nel tempo reale possono essere molto diversi l'uno dall'altro. Fui tratto in inganno anche da una ricerca che avevo fatto su un modello semplice dell'universo in cui la fase di contrazione assomigliava all'inversione del tempo della fase di espansione. Un mio collega, Don Page, della Penn State University, sottolineò però che la condizione dell'assenza di ogni confine non richiedeva che la fase di contrazione dovesse essere necessariamente l'inversione temporale della fase di espansione. Inoltre un mio allievo, Raymond Laflamme, trovò che, in un modello leggermente più complicato, il collasso dell'universo era molto diverso dall'espansione. Mi resi conto di aver commesso un errore: la condizione dell'assenza di ogni limite implicava che il disordine sarebbe in effetti continuato ad aumentare anche durante la contrazione. Le frecce del tempo termodinamica e psicologica non si sarebbero rovesciate quando l'universo avesse cominciato a contrarsi, e neppure all'interno dei buchi neri.
Che cosa si deve fare quando si scopre di aver commesso un errore come questo? Alcuni non ammettono mai di avere sbagliato e continuano a trovare argomenti nuovi, a volte contraddittori fra loro, per sostenere la loro causa, come fece Eddington nella sua opposizione alla teoria dei buchi neri. Altri affermano di non avere mai sostenuto realmente la teoria sbagliata o, se lo hanno fatto, pretendono di averlo fatto solo per dimostrare che era contraddittoria. A me pare molto meglio e molto più chiaro ammettere in una pubblicazione di avere sbagliato. Un buon esempio in proposito fu quello di Einstein, che definì la costante cosmologica, da lui introdotta nel tentativo di costruire un modello statico dell'universo, l'errore più grave di tutta la sua vita. Per tornare alla freccia del tempo, rimane l'interrogativo: perché osserviamo che le frecce termodinamica e cosmologica puntano nella stessa direzione? O, in altri termini, perché il disordine aumenta nella stessa direzione del tempo in cui si espande l'universo? Se si crede che l'universo passi prima per una fase di espansione per tornare poi a contrarsi, come sembra implicare la proposta dell'inesistenza di confini, la domanda si trasforma nell'altra del perché dovremmo trovarci nella fase di espansione e non in quella della contrazione.
Si può rispondere a questa domanda sulla base del "principio antropico debole". Le condizioni nella fase di contrazione non sarebbero idonee all'esistenza di esseri intelligenti in grado di porsi la domanda: perché il disordine cresce nella stessa direzione del tempo in cui si sta espandendo l'universo? L'inflazione nel primissimo periodo di esistenza dell'universo, predetta dalla condizione dell'inesistenza di alcun confine, significa che l'universo deve espandersi con una velocità molto vicina al valore critico in corrispondenza del quale riuscirebbe a evitare di strettissima misura il collasso, e quindi che non invertirà comunque la direzione del suo movimento per moltissimo tempo. A quell'epoca tutte le stelle avranno esaurito il loro combustibile, e i protoni e i neutroni in esse contenuti saranno probabilmente decaduti in particelle di luce e radiazione. L'universo si troverebbe allora in uno stato di disordine quasi completo. Non ci sarebbe una freccia del tempo termodinamica forte. Il disordine non potrebbe aumentare di molto perché l'universo sarebbe già in uno stato di disordine quasi completo. Una freccia del tempo termodinamica forte è però necessaria per l'operare della vita intelligente. Per sopravvivere, gli esseri umani devono consumare cibo, che è una forma ordinata di energia, e convertirlo in calore, che è una forma di energia disordinata. Perciò nella fase di contrazione dell'universo non potrebbero esistere forme di vita intelligente. Questa è la spiegazione del perché osserviamo che le frecce del tempo termodinamica e cosmologica sono puntate nella stessa direzione. Non che l'espansione dell'universo causi un aumento del disordine. A causare l'aumento del disordine, e a far sì che le condizioni siano favorevoli alla vita intelligente soltanto nella fase di espansione, è piuttosto la condizione dell'assenza di confini dell'universo.
Per compendiare, le leggi della scienza non distinguono fra le direzioni del tempo in avanti e all'indietro. Ci sono però almeno tre frecce del tempo che distinguono il passato dal futuro. Esse sono la freccia termodinamica: la direzione del tempo in cui aumenta il disordine; la freccia psicologica: la direzione del tempo in cui ricordiamo il passato e non il futuro; e la freccia cosmologica: la direzione del tempo in cui l'universo si espande anziché contrarsi. Ho mostrato che la freccia psicologica è essenzialmente identica con la freccia termodinamica, cosicché le due puntano sempre nella stessa direzione. La proposta dell'assenza di un confine per l'universo predice l'esistenza di una freccia del tempo termodinamica ben definita perché l'universo deve cominciare in uno stato omogeneo e ordinato. È la ragione per cui noi vediamo questa freccia termodinamica accordarsi con la freccia cosmologica e che forme di vita intelligente possono esistere soltanto nella fase dell'espansione. La fase della contrazione non sarà adatta perché non ha una freccia del tempo termodinamica forte.
Il progresso del genere umano nella comprensione dell'universo ha stabilito un cantuccio d'ordine in un universo sempre più disordinato. Se il lettore ricordasse ogni parola di questo libro, la sua memoria avrebbe registrato circa due milioni di elementi di informazione: l'ordine nel suo cervello sarebbe aumentato di circa due milioni di unità. Leggendo il libro, però, egli avrà convertito almeno un migliaio di calorie di energia ordinata, sotto forma di cibo, in energia disordinata sotto forma di calore, che viene dissipato nell'aria per convezione e sotto forma di sudore. Il disordine dell'universo risulterà in tal modo accresciuto di circa venti milioni di milioni di milioni di milioni di unità - ossia di quasi dieci milioni di milioni di milioni di volte più dell'aumento dell'ordine nel suo cervello - e questo nell'ipotesi che ricordasse perfettamente l'intero contenuto di questo libro!!!»















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