mercoledì 11 luglio 2012

l'eleganza del Tao


Marx 
(Preambolo)

Capitolo primo
Chi semina desiderio

«Marx cambia completamente la mia visione del mondo» mi ha dichiarato questa mattina il giovane Pallières che di solito non mi rivolge nemmeno la parola. 
Antoine Pallières, prospero erede di un'antica dinastia industriale, è il figlio di uno dei miei otto datori di lavoro. Ultimo ruttino dell'alta borghesia degli affari - la quale si riproduce unicamente per singulti decorosi e senza vizi -, era tuttavia raggiante per la sua scoperta e me la narrava di riflesso, senza sognarsi neppure che io potessi capirci qualcosa. Che cosa possono mai comprendere le masse lavoratrici dell'opera di Marx? La lettura è ardua, la lingua forbita, la prosa raffinata, la tesi complessa.
A questo punto, per poco non mi tradisco stupidamente.
«Dovrebbe leggere L'ideologia tedesca» gli dico a quel cretino in montgomery verde bottiglia.
Per capire Marx, e per capire perché ha torto, bisogna leggere L'ideologia tedesca. È lo zoccolo antropologico sul quale si erigeranno tutte le esortazioni per un mondo migliore e sul quale è imperniata una certezza capitale: gli uomini, che si dannano dietro ai desideri, dovrebbero attenersi invece ai propri bisogni. In un mondo in cui la hybris del desiderio verrà imbavagliata potrà nascere un'organizzazione sociale nuova, purificata dalle lotte, dalle oppressioni e dalle gerarchie deleterie.
"Chi semina desiderio raccoglie oppressione" sono sul punto di mormorare, come se mi ascoltasse solo il mio gatto.
Ma Antoine Pallières, a cui un ripugnante aborto di baffi non conferisce invece niente di felino, mi guarda, confuso dalle mie strane parole. Come sempre, mi salva l'incapacità del genere umano di credere a ciò che manda in frantumi gli schemi di abitudini mentali meschine. Una portinaia non legge L'ideologia tedesca e di conseguenza non sarebbe affatto in grado di citare l'undicesima tesi su Feuerbach. Per giunta, una portinaia che legge Marx ha necessariamente mire sovversive ed è venduta a un diavolo chiamato sindacato. Che possa leggerlo per elevare il proprio spirito, poi, è un'assurdità che nessun borghese può concepire.
«Mi saluti tanto la sua mamma» borbotto chiudendogli la porta in faccia e sperando che la disfonia delle due frasi venga coperta dalla forza di pregiudizi millenari.

Capitolo secondo
I miracoli dell'Arte

Mi chiamo Renée. Ho cinquantaquattro anni. Da ventisette sono la portinaia al numero 7 di rue de Grenelle, un bel palazzo privato con cortile e giardino interni, suddiviso in otto appartamenti di gran lusso, tutti abitati, tutti enormi. Sono vedova, bassa, brutta, grassottella, ho i calli ai piedi e, se penso a certe mattine autolesionistiche, l'alito di un mammut. Non ho studiato, sono sempre stata povera, discreta e insignificante.
Vivo sola con il mio gatto, un micione pigro che, come unica particolarità degna di nota, quando si indispettisce ha le zampe puzzolenti. Né lui né io facciamo molti sforzi per integrarci nella cerchia dei nostri simili. Siccome, pur essendo sempre educata, raramente sono gentile, non mi amano; tuttavia mi tollerano perché corrispondo fedelmente al paradigma della portinaia forgiato dal comune sentire. Di conseguenza, rappresento uno dei molteplici ingranaggi che permettono il funzionamento di quella grande illusione universale secondo cui la vita ha un senso facile da decifrare. E se da qualche parte sta scritto che le portinaie sono vecchie, brutte e bisbetiche, così, sullo stesso firmamento imbecille, è solennemente inciso a lettere di fuoco che le suddette portinaie hanno gattoni accidiosi che sonnecchiano tutto il giorno su cuscini rivestiti di federe fatte all'uncinetto.
In proposito si aggiunga che le portinaie guardano ininterrottamente la televisione mentre i loro gatti grassi sonnecchiano, e che l'atrio del palazzo deve olezzare di bollito, di zuppa di cavolo o di cassoulet fatto in casa. Io ho l'inaudita fortuna di fare la portinaia in una residenza di gran classe. Dover cucinare quei piatti ignobili mi sembrava così umiliante che l'intervento di monsieur de Broglie, il consigliere di Stato del primo piano, intervento che lui deve aver descritto alla moglie come cortese ma fermo, fatto allo scopo di eliminare dalla convivenza quotidiana quei miasmi plebei, fu per me un immenso sollievo che tuttavia dissimulai come meglio potei, fingendo doverosa obbedienza.
Sono passati ventisette anni. Da allora, ogni giorno, vado dal macellaio a comprare una fetta di prosciutto o di fegato di vitello, che infilo nella mia sporta a rete tra il pacchetto di pasta e il mazzo di carote. Esibisco compiacente queste vettovaglie da povera, impreziosite dalla pregevole caratteristica di non emettere cattivi odori, perché io sono povera in una casa di ricchi. In questo modo alimento congiuntamente lo stereotipo comune e anche il mio gatto, Lev, che ingrassa solo grazie ai pasti in teoria a me destinati e si rimpinza di insaccati e maccheroni al burro, mentre io posso appagare le mie inclinazioni culinarie senza perturbazioni olfattive e senza che nessuno sospetti niente.
Più ardua fu la faccenda della televisione. Eppure quando mio marito era ancora in vita, mi ci ero abituata, perché la costanza con cui lui la guardava me ne risparmiava l'incombenza. Nell'atrio del palazzo giungevano i rumori dell'aggeggio, e questo bastava a rendere eterno il gioco delle gerarchie sociali, per mantenere le cui apparenze, in seguito alla morte di Lucien, dovetti scervellarmi ben bene. Se da vivo, infatti, mi sollevava dall'iniquo obbligo, da morto mi privava della sua incultura, baluardo indispensabile contro il sospetto altrui.
Trovai la soluzione grazie a un non-pulsante. Un campanello collegato a un meccanismo a infrarossi ormai mi avverte dell'andirivieni nell'atrio, sollevando tutti quelli che passano dall'obbligo di suonare un qualche pulsante affinché io, anche da lontano, possa sapere della loro presenza. In queste occasioni, difatti, me ne sto nella stanza in fondo, quella in cui trascorro i momenti più sereni del tempo libero e in cui, protetta dai rumori e dagli odori che la mia condizione mi impone, posso vivere a mio piacimento senza essere privata delle informazioni vitali per ogni sentinella che si rispetti: chi entra, chi esce, con chi e a che ora.
Così, mentre attraversano l'atrio, i condomini sentono quei suoni soffusi che segnalano la presenza di una televisione accesa e, non brillando certo per fantasia, si figurano la portinaia stravaccata davanti all'apparecchio. Io, rintanata nel mio antro, non sento niente, ma so quando passa qualcuno. Quindi, nella stanza accanto, nascosta dietro la mussola bianca, attraverso un occhio di bue situato di fronte alle scale, mi informo con discrezione dell'identità di chi passa.
La comparsa delle videocassette e poi, più tardi, del dio DVD ha cambiato le cose ancora più radicalmente a favore della mia felicità. Siccome non è molto frequente che una portinaia vada in estasi davanti a Morte a Venezia e che dalla sua guardiola escano le note di Mahler, ho attinto dai risparmi coniugali, così faticosamente messi da parte, e ho acquistato un altro apparecchio, che ho sistemato nel mio nascondiglio. Mentre la televisione della guardiola, garante della mia clandestinità, bercia sciocchezze per teste di rapa senza che sia costretta a sentirla, con le lacrime agli occhi, gioisco dei miracoli dell'Arte.

martedì 10 luglio 2012

il magico Tao 7 ± 2

Copyright mariarita.g
Gli uccelli nel cielo sanno volare
i pesci nel mare sanno nuotare
i serpenti sulla terra sanno strisciare
e tu - uomo - cosa sai fare?

Nel 1956 George Miller, tra gli autori di un testo classico di psicologia cognitiva, pubblicò uno degli articoli più celebri e citati nella storia della psicologia cognitiva sperimentale. La sua fortuna è in parte anche dovuta alla felice formulazione del titolo; il numero 7 è in effetti considerato da molte tradizioni che utilizzano la numerologia come uno tra i numeri più "magici".
La tesi del lavoro di Miller era che il numero di informazioni, o di pezzi/aggregati (chuncks) di informazione, che la memoria a breve termine ( STM o working memory) del cervello può "gestire" va da un minimo di cinque ad un massimo di nove.
Nella metafora informatica del "il cervello è come un computer" il modello della memoria umana è comunemente diviso in due unità: una a breve termine (STM), assimilata ad una cache di limitata capacità utilizzata per l'immagazzinamento temporaneo di dati, l'altra a lungo termine (LTM), assimilata ad una memoria di massa di capacità infinita in grado di mantenere le informazioni per tutta la vita di una persona.
Il successo dell'articolo è dovuto al fatto che l'affermazione di Miller, ottenuta da un best fit dei dati sperimentali allora disponibili,  fu estesa dalla capacità della STM a tutto il cervello, assumendo la legge del  7 ± 2 come la massima complessità gestibile di costrutti codificati nel cervello o di attività cerebrali mentali-motorie contemporaneamente eseguibili; in ultima analisi la legge di Miller del magico numero sette è stata assimilata come un'indicazione dei limiti del cervello umano. Un esempio del tipo di esperimenti utilizzati da Miller nel suo lavoro, che chiunque può utilizzare per "misurare" la capacità della propria memoria a breve termine, è quella di prendere la seguente lista di numeri:

8704
2193
3172
57301
02943
73619
659420
402586
542173
6849173
7931684
3617458
27631508
81042963
07239861
578149306
293486701
721540683
5762083941
4093067215
9261835740

e leggerne riga per riga il numero, pronunciarlo ad alta voce, chiudere gli occhi e provare a ripeterlo con le cifre in ordine inverso, e passare al numero nella riga successiva anche se si è commesso un errore. Il punto in cui non si è più in grado di ricordare le cifre dei numeri di due delle tre righe della stessa lunghezza indica il limite di capacità: il numero di cifre del numero della riga precedente.

La tesi di Miller è stata ampiamente criticata nel corso degli anni con l'ampliarsi dei dati disponibili, e ad oggi ha un'importanza quasi esclusivamente storica; ad esempio:

Derek M. Jones, 2002
Knowledge of the workings of the human mind has moved on since Miller published his famous paper in 1956. However, perception of the 7+-2 urban legend as being a scientifically proved fact remains and it continues to be used to inform decisions on the maximum complexity of coding constructs. The purpose of this paper is to dispell the urban legend that has grown up around 7+-2. While no other rules, based on the workings of human memory, are yet available to replace it, people should at least stop taking false comfort from this bogus model.

che conclude:
The value 7±2 as a measure of short term memory is an urban legend. It only applies to speakers of English attempting to remember a sequence of digits. Actual human memory performance depends on many factors and cannot be approximated by a numeric value.
La critica è fondata sul fatto che il risultato dell'esperimento dell'esercizio precedente sul numero massimo di cifre ricordabile e ripetibile all'inverso dipende dalla lingua nativa del soggetto; ad esempio se il soggetto usa il cinese il limite viene incrementato mentre se usa il gallese viene diminuito. Questo è dovuto al fatto che il tipo di STM che le persone utilizzano in questo caso è basato sul suono delle cifre. Una persona ha, approssimativamente, due secondi come limite di capacità di immagazzinamento di un suono nella STM. In Inglese circa 7 ± 2 cifre possono essere pronunciate in due secondi, mentre in cinese le parole per le cifre sono più corte, mentre in gallese sono più lunghe dell'Inglese. La differenza dei suoni delle parole delle cifre tra le varie lingue modifica quindi i risultati sui limiti di capacità della STM.


Le varie critiche dal 1956 ad oggi al lavoro di Miller non hanno tuttavia portato ad una nuova teoria sulla capacità della memoria e - più in generale - sui limiti delle capacità cerebrali. La questione generale alla base del suo lavoro però rimane, ed è generalizzabile nel senso:
come si definisce un'attività del cervello?
se definita, il cervello ha dei limiti di attività?
e, se si, come si possono "misurare"?
attività svolte contemporaneamente o disgiuntamente hanno limiti diversi?
Da diversi anni è possibile ottenere informazioni sull'attività cerebrale sotto forma di bioimmagini in tempo reale dei processi cerebrali a livello anatomico-fisiologico attraverso la Tomografia a Emissione di Positroni (PET), spesso associata con la Tomografia Computerizzata (CT) e la Risonanza Magnetica Nucleare (NMR) - per migliorare la risoluzione anatomica-, una tecnica sviluppata principalmente per la diagnostica ma ampiamente utilizzata - date le sue caratteristiche uniche - anche per la ricerca sul cervello. Una scansione PET fornisce informazioni, anche dinamiche in tempo reale, sulle aree sede di attività cerebrale e una stima della sua intensità mentre il soggetto effettua attività mentali e/o motorie o è sottoposto a stimoli esterni.
Un'analisi tomografica PET inizia stabilendo una baseline in cui il soggetto è a riposo, ovvero non effettua movimenti e non ha intenzionalmente attività mentale conscia. L'immagine ottenuta è del tipo:


Immagini tomografiche PET su diverse sezioni del cervello di un soggetto a riposo.
La scala dei colori dal blu al rosso corrisponde a crescente attività cerebrale.
Naturalmente, anche se il soggetto è a riposo, nel cervello operano diverse centinaia - forse migliaia - di processi inconsci legati al controllo del corpo e - anche se non intenzionalmente - dei processi mentali più o meno consci, che sono sempre presenti
Nelle immagini seguenti il soggetto è sottoposto ad uno stimolo esterno di tipo auditivo, ascoltando della musica:


Si nota un incremento dell'attività nella corteccia auditiva, indicata dalla freccia. Gli stimoli non-verbali come questo attivano principalmente l'emisfero destro, considerato non-dominante. La stimolazione contemporanea di musica e linguaggio causa una attivazione più bilaterale nella corteccia auditiva.
Nelle immagini seguenti lo stimolo è di tipo visivo consistente in vari motivi e colori:


La freccia indica l'incremento di attività nella corteccia visuale primaria.
Nelle immagini seguenti non vi sono stimoli esterni, il soggetto elabora un pensiero conscio mentale ("pensa"):


L'incremento di attività indicato dalla freccia è nella corteccia frontale.
Nelle seguenti il soggetto riporta alla coscienza dalla memoria un'immagine:


La freccia indica l'incremento di attività nella struttura dell'ippocampo, una regione associata con l'apprendimento e la memoria.
Nelle immagini seguenti viene esaminata la stimolazione motoria, il soggetto muove su e giù il suo piede destro:


Il compito motorio del movimento del piede destro causa un'attivazione metabolica nella corteccia sulla striscia motoria sinistra, indicata dalla freccia orrizontale, e nella corteccia motoria supplementare, freccia verticale in cima.


I vari casi sono riassunti nelle seguenti immagini:
 
 
Un caso interessante e apparentemente paradossale è l'analisi PET di soggetti immersi nello stato di coscienza definito "meditativo", in questo caso dei monaci tibetani esperti in questa pratica. Comunemente in Occidente lo stato meditativo viene ritenuto uno stato dove l'attività conscia della mente viene ridotta, fino ad essa "priva di pensieri" consci o subconsci, cosa impossibile perché la mente conscia è sempre attiva - anche in totale assenza di stimoli esterni -  e produce sempre dei pensieri. Lo stato di coscienza meditativo è piuttosto il cercare di pervenire, attraverso pratiche definite da molti secoli in diverse tradizioni, ad uno stato di "non-mente" o di "meta-mente". Una classica metafora per illustrarla è quella di assumere i pensieri come nuvole che vagano, si producono e si dissolvono contro lo sfondo del cielo. Nello stato di coscienza "normale" non-meditativo la mente conscia è identificata con le nuvole, nella pratica meditativa si tende a portare la mente ad uno stato di quiete come il cielo blu di sfondo, uno stato definito "L'Osservatore", lasciando vagare le onnipresenti nuvole - i pensieri. Lo stato di "Osservatore" ha un livello logico di mente che osserva la mente ed entrando profondamente, con la pratica, in questo stato scaturiscono nuove percezioni o visioni mentali.
Le scansioni PET su soggetti in questo stato:

Immagini tomografiche PET di un soggetto a riposo (sinistra) e in meditazione (destra).
mostrano un incremento di attività cerebrale rispetto alla baseline, in particolare nei lobi frontali, ritenuti sede di attività quali l'attenzione e la concentrazione.

Naturalmente le immagini PET sono in grado di indicare dove e quanto sono le attività cerebrali, mentre nulla possono dire su che cosa quelle attività fanno. Ad esempio le immagini PET di una casalinga che sta elaborando la ricetta della cena (che risulterà magari immangiabile) e quella di un Einstein mentre sta elaborando una qualche teoria sono - di fatto - identiche. L'idea prosaica che portò il patologo Thomas Stoltz Harvey la mattina del 18 aprile 1955 a Princeton a trafugare, poche ore dopo la morte, il cervello di Einstein per poterlo analizzare e gli studi che negli anni seguenti furono fatti su diversi suoi campioni, spesso esibiti come feticci in vari laboratori e mostre, era già evidentemente ridicola al tempo, e ancor di più oggi con le recenti ricerche sul cervello, dato che i cervelli umani - a meno di malformazioni specifiche congenite o patologiche - sono anatomicamente e fisiologicamente identici: il livello di differenza qualitativo delle sue attività non risiede a livello fisico ma a livello di processi.

Un caso particolarmente interessante di analisi PET è quella su musicisti di buon livello mentre eseguono una composizione. In questo caso per realizzare l'attività complessa di "suonare" il soggetto deve compierne almeno altre tre si tre diversi sistemi rappresentazionali: a livello cenestesico suonare lo strumento, a livello visivo leggere la partitura e a livello auditivo ascoltare la musica generata; a questi si può sommare un'attività mentale di supervisione-valutazione-correzzione su quanto si sta eseguendo. In generale questi soggetti sono quelli che più impegnano, per estensione e attività delle aree cerebrali coinvolte, il cervello:
Ref.: Bangert, M., Peschel, T., Schlaug, G., Rotte, M., Drescher, D., Hinrichs, H, Heinze, H.J., Altenmüllera, E. (2006) "Shared networks for auditory and motor processing in professional pianists: Evidence from fMRI conjunction." NeuroImage, 30, 917-926.
Gazzola, V., Aziz-Zadeh, L., Keysers, C. (2006). "Empathy and the somatotopic auditory mirror system in humans."

Current Biology, 16, 1824-1829.
Per stimare quali possano essere ragionevolmente i limiti inferiore e superiore di attività complesse ben eseguite contemporaneamente si può partire dal fatto che il limite inferiore, per la maggior parte delle persone è almeno 1. Per trovare quello superiore si è visto che per buoni musicisti si hanno almeno 4 attività contemporanee. Immaginiamo ora che un buon musicista, mentre suona, sia anche impegnato a risolvere un problema mentale, ad esempio un problema aritmetico o di scacchi di cui dispone delle competenze per risolverlo. E' immaginabile che, pur rallentando il tempo di soluzione, molti musicisti siano in grado di svolgere queste 5 attività contemporaneamente; una stima grossolano del numero di attività complesse eseguibili discretamente e contemporaneamente può essere allora 3±2, con 3±3 come casi estremi. E' da notare che i limiti maggiori possono essere influenzati oltre che dall'apprendimento dell'attività specifica anche da un meta-apprendimento, ovvero alcune persone possono aver imparato ad imparare a fare più attività insieme, in particolare ad elaborare più stimoli sullo stesso canale d'ingresso.

Il caso di attività complesse ben eseguite ma disgiuntamente - in tempi diversi- è più variabile. In generale un buon musicista può anche essere un buon giocatore a scacchi e un buon orticultore e anche un buon cuoco, ma è chiaro che i limiti sono dettati dall'apprendimento e, oltre una certa soglia, anche dal meta-apprendimento. Ragionevolmente si può ritenere che i limiti siano come quelli delle attività contemporanee, 3±2, con 3±3 come casi estremi con un limite superiore di tipo leonardesco, che sfiora un processo di meta-meta-apprendimento.

Sembra quindi che il passaggio sia dal numero magico 7 ad un'altro numero magico per eccellenza, il 3. Ma, a parte la trattazione accademica e di ricerca, valgono sempre i "saggi consigli della nonna":
"Se vuoi fare le cose bene fanne una alla volta."
"Nessuno può saper fare tutto."
Nella metafora informatica del "il cervello è come un computer" e in quella minskiana di "la mente è ciò che fà il cervello" l'analogo dell'analisi PET è la tecnica Electron Probing (EP) Voltage-Constrast (VC) applicata ai microscopi a scansione elettronica (SEM), sviluppata per la diagnostica dei microcircuiti. Questa tecnica, sia statica che dinamica, permette di rilevare in qualsiasi microcircuito elettronico, alle risoluzioni tipiche dei SEM (decine di nm), le zone dove vi è presenza (bit "1") o assenza di tensione (bit "0"). Ad esempio un'immagine statica VC-SEM di un ASIC appare come:


Le zone in chiaro sono quelle dove vi è presenza di tensione, quelle scure dove vi è assenza.
Una clip di un'analisi VC-SEM dinamica su un microprocessore appare come:


Video clip of a microchip in dynamic Voltage Contrast mode in "real" time while in the SEM

Dal rapporto tra la frequenza di scansione del SEM e la frequenza osservata dalla VC-SEM dinamica è possibile ricavare, ad esempio, il tempo di clock del circuito.
Una analisi VC-SEM è - potenzialmente - in grado di indicare tutte le funzioni del sistema: velocità, impegno della memoria, utilizzo della CPU etc. mentre il sistema sta eseguendo una o più applicazioni; quello che non è in grado di fare è capire cosa quelle applicazioni fanno. Immaginiamo ad esempio due PC identici che elaborano due applicazioni con lo stesso scopo - ad esempio il calcolo dell'orbita lunare intorno alla Terra - ma mentre una delle applicazioni è malscritta, compie frequenti errori di over e underflow e utilizza calcoli e formule errate l'altra è ben strutturata e compie calcoli corretti. Una analisi VC-SEM mostrerà che l'utilizzo del sistema da parte delle due applicazioni sarà simile, ma i risultati ottenuti saranno in un caso dati errati o privi di senso mentre nell'altro dati corretti ed efficaci.
Anche il caso di attività cerebrali contemporanee ha una storica analogia nel multitasking, la possibilità di eseguire più applicazioni o processi (tasks) contemporaneamente. Il limite di tasks eseguibili contemporaneamente senza ridurre la velocità di esecuzione è un dato di performance rilevante per il sistema hardware-sistema operativo.

Un corollario applicativo di queste considerazioni è nelle organizzazioni a struttura gerarchica, la più antica e diffusa struttura organizzativa del tipo:


nel caso specifico di un'azienda esistente:


Questa struttura organizzativa risolve in modo diretto due processi fondamentali per ogni organizzazione: il flusso delle informazioni e dei processi decisionali, risolta dalla struttura verticale gerarchica, e quello della ripartizione del lavoro, risolto dalla struttura orizzontale laterale, detta anche "a bandiera".
In una struttura ben progettata si nota che ogni compartimento ha al massimo 4-5 relazioni dirette, tipicamente 2 con i compartimenti gerarchici superiore e inferiore e 2 con i compartimenti laterali, che portano a 5 le attività del compartimento, inclusa la propria.
Una conseguenza non evidente al senso comune è che:
La quantità di complessità sperimentata ed eseguibile-gestibile in qualsiasi punto della struttura è indipendente dal livello gerarchico.
Ad esempio un generale di corpo d'armata che - in linea di principio - comanda diverse decine se non centinaia di migliaia di uomini, sperimenta e gestisce la stessa complessità di un soldato semplice, anche se - evidentemente -, con competenze e responsabilità diverse. Un top-manager di un'azienda di qualsiasi dimensioni sperimenta e gestisce la stessa complessità di uno qualsiasi dei suoi dipendenti.

from:Yaneer Bar-Yam, Introducing Complex Systems
Nel senso comune spesso si elabora una equivalenza complessa per cui si lega la capacità di gestione-informazione al livello gerarchico, per cui un top-manager ai vertici dell'organigramma avrebbe capacità superiori di gestire la complessità pari al numero  o al rapporto di emolumenti con le persone ai livelli inferiori, spesso superiore di decine se non centinaia se non migliaia di volte. Questo è impossibile dato che le capacità cerebrali di gestione delle informazioni-complessità sono identiche in ogni punto della struttura, ed è appunto la presenza della struttura organizzata che regola e sintetizza verso l'alto i flussi di informazione e di complessità.

giovedì 5 luglio 2012

Tao boson

Observation of a New Particle with a Mass of 125 GeV

CMS Experiment, CERN
4 July 2012

CMS observes an excess of events at a mass of approximately 125 GeV with a statistical significance of five standard deviations (5 sigma) above background expectations. The probability of the background alone fluctuating up by this amount or more is about one in three million. The evidence is strongest in the two final states with the best mass resolution: first the two-photon final state and second the final state with two pairs of charged leptons (electrons or muons). We interpret this to be due to the production of a previously unobserved particle with a mass of around 125 GeV.

Mass distribution for the two-photon channel. The strongest evidence for this new particle comes from analysis of events containing two photons. The smooth dotted line traces the measured background from known processes. The solid line traces a statistical fit to the signal plus background. The new particle appears as the excess around 126.5 GeV. The full analysis concludes that the probability of such a peak is three chances in a million.





martedì 3 luglio 2012

del Tao dei giochi e della serietà - II


P. A che cosa stai pensando?
F. No ... è che ci sono tante di quelle domande.
P. Per esempio?
F. Be', capisco che cosa vuoi dire a proposito di cacciarci nei pasticci, che questo ci fa dire cose di tipo nuovo. Ma sto pensando al tipografo. Lui deve tenere tutte le sue lettere in ordine anche se disfa tutte le frasi bell'e fatte. E poi penso ai nostri pasticci: dobbiamo tenere i pezzetti dei nostri pensieri in ordine, ma come? ... per non diventare matti?
P. Penso di si ... si ... ma non so quale tipo di ordine. Questa è una domanda veramente difficile. Non credo che riusciremmo a ottenere oggi una risposta a questa domanda.


P. Hai detto che c'erano «tante di quelle domande". Ne hai qualche altra?
F. Sì ... sui giochi e le cose serie. Siamo partiti da lì e poi non so come o perché questo ci ha portati a parlare dei pasticci. Tu confondi sempre ogni cosa ... è una specie d'imbroglio.
P. Ma no, assolutamente no.


P. Tu hai sollevato due problemi. Ma in realtà ce n'è ancora un sacco ... Abbiamo cominciato da una domanda su queste conversazioni: sono serie? Oppure sono una specie di gioco? E ti sentivi offesa dall'idea che io potessi farne un gioco, mentre tu le prendevi sul serio. È come se una conversazione fosse un gioco se una persona vi partecipasse con certe emozioni o idee, ma non fosse un gioco se le sue idee o emozioni fossero diverse.
F. Sì, è che se le tue idee sulla conversazione sono diverse dalle mie ...
P. Se tutti e due avessimo l'idea di giocare, andrebbe bene?
F. Sì ... certo.
P. Allora sembra che dipenda da me chiarire che cosa intendo con l'idea di gioco. lo so di essere serio (qualunque ne sia il significato) nelle cose di cui parliamo. Noi  parliamo di idee. E io so di giocare con le idee allo scopo di comprenderle e metterle insieme. È un 'divertimento' nello stesso senso in cui un bambino 'si diverte' coi cubi ... E un bambino con i cubi per lo più si comporta in maniera molto seria col suo 'divertimento',
F. Ma, papà, è un gioco nel senso che tu giochi contro di me?
P. No. La mia idea è che tu e io stiamo giocando insieme contro i cubi - le idee. A volte siamo un tantino in competizione, ma in competizione su chi dei due riesce a sistemare l'idea successiva. E talvolta uno di noi aggredisce il pezzettino di costruzione dell'altro, oppure io cerco di difendere le idee che ho costruito dalle tue critiche. Ma alla fin fine lavoriamo sempre insieme per tirar su le idee in modo che si reggano in piedi.


F. Papà, i nostri discorsi hanno regole? La differenza tra un gioco e il divertirsi puro e semplice è che il gioco ha delle regole.
P. Sì. Lasciami pensare. Credo che abbiamo certe regole ... e credo che un bambino che gioca coi cubi abbia anche lui le sue regole. I cubi stessi costituiscono una specie di regola. In certe posizioni stanno su e in altre posizioni non stanno su. E sarebbe una specie d'imbroglio se il bambino usasse la colla per far star su i cubi in certe posizioni in cui altrimenti cadrebbero.
F. Ma che regole abbiamo noi?
P. Be', le idee con cui giochiamo comportano certe regole. Vi sono regole su come le idee si possono reggere e sostenere a vicenda. E se sono messe insieme in modo sbagliato, tutta la costruzione crollerà.
F. Niente colla, papà?
P. No ... niente colla. Soltanto logica.


F. Ma tu hai detto che se parlassimo sempre in modo logico e non incappassimo in pasticci, non potremmo dire mai niente di nuovo. Potremmo dir solo cose bell'e fatte. Come le hai chiamate quelle cose?
P. Clichés. Sì. La colla è ciò che tiene insieme i clichés.
F. Ma tu hai detto 'logica', papà.
P. Sì, lo so. Siamo di nuovo in un pasticcio. Solo che non vedo come faremo a uscire, da questo pasticcio.
F. Come ci siamo capitati, papà?
P. Giusto, vediamo se riusciamo a ricostruire i nostri passi. Stavamo parlando delle 'regole' di queste conversazioni, E io ho detto che le idee con cui giochiamo hanno regole di "logica".
F. Papà! Non sarebbe meglio avere un po' più di regole e seguirle più attentamente? Così non potremmo finire in questi terribili pasticci.
P. Sì, ma aspetta. Tu vuoi dire che io porto la conversazione in questi pasticci perché non rispetto certe regole che non abbiamo. Oppure, diciamo così: che potremmo farci delle regole che c'impedirebbero di finire nei pasticci - se noi le rispettassimo.
F. Sì, papà, le regole di un gioco servono proprio a questo.
P. Sì, ma tu vuoi che queste conversazioni diventino un gioco di quel tipo? lo preferirei giocare a canasta, che è anche divertente.
F. Sì, è vero. Possiamo giocare a canasta ogni volta che ne abbiamo voglia. Ma adesso preferirei giocare a questo gioco. Solo che non so che tipo di gioco sia. E neppure che tipo di regole abbia.
P. Eppure è già da un po' che stiamo giocando.
F. Sì, ed è stato divertente.
P. Vero.


P. Torniamo alla domanda che hai fatto, e io ho detto che era troppo difficile per potervi rispondere oggi, Stavamo parlando del tipografo che disfa i suoi clichés, e tu hai detto che deve lo stesso mantenere qualche ordine tra le sue lettere, per non diventare matto. E poi hai chiesto: «Che razza di ordine dovremmo mantenere per non diventare matti quando finiamo in un pasticcio?", A me sembra che le regole del gioco siano solo un nome diverso per quel tipo di ordine.
F. Sì ... e l'imbrogliare è ciò che ci caccia nei pasticci.
P. In un certo senso sì. È vero. Solo che tutto il sugo del gioco è che noi finiamo nei pasticci, e poi ne veniamo fuori dall'altra parte, e se non ci fossero pasticci il nostro 'gioco' sarebbe come la canasta o gli scacchi ... e noi non vogliamo che sia così.
F. Papà, ma sei tu che fai le regole?
P. Questo, figlia mia, è un tiro mancino. E probabilmente anche disonesto. Ma lo accetto per quello che è. Sì, sono io che faccio le regole ... dopo tutto non voglio che diventiamo matti.
F. D'accordo. Ma, papà, tu cambi anche le regole? Qualche volta?
P. Uhm, un altro tiro mancino. Sì, figliola mia, le cambio continuamente. Ma non tutte, solo qualcuna.
F. Mi piacerebbe che tu mi dicessi quando stai per cambiarle!
P. Uhm ... sì ... già. Vorrei poterlo fare. Ma non è così semplice. Se si trattasse degli scacchi o della canasta, potrei dirti le regole, e volendo potremmo smettere di giocare e metterei a discutere le regole. E potremmo poi cominciare una nuova partita con le nuove regole. Ma a quali regole dovremmo obbedire tra le due partite? Proprio mentre stiamo discutendo le regole?
F. Non capisco.
P. Sì, il fatto è che lo scopo di queste conversazioni è quello di scoprire le 'regole'. È come la vita: un gioco il cui scopo è di scoprire le regole, regole che cambiano sempre e non si possono mai scoprire.
F. Ma quello io non lo chiamo un gioco, papà.
P. Forse no. lo però lo chiamerei un gioco, o comunque un 'giocare'. Ma certo non è come gli scacchi o la canasta; è più simile a quello che fanno i gattini o i cuccioli.
Forse. Non lo so.


F. Papà, perché i gattini e i cuccioli giocano?
P. Non lo so ... non lo so ...

Metalogue: About Games and Being Serious; from ETC: A Review of General Semantics, Vol. X, 1953.

 del Tao dei giochi e della serietà - I

martedì 26 giugno 2012

la complessità dal KaliYuga al Tao - III

Bruce Torrence, Lisbon Oriente Station, Panoramic Photograph, 2011


5. L'emergere del concetto di complessità
Tuttavia, la complessità è rimasta sempre sconosciuta nella fisica, in biologia, nelle scienze sociali. Certo, dopo più di mezzo secolo, la parola complessità irruppe, ma in un dominio che rimase impermeabile alle scienze umane e sociali, nonché alle stesse scienze naturali. E' al centro di una sorta di spirale nebulosa di matematici e ingegneri in cui emerse circa allo stesso tempo, e divenne connessa contemporaneamente, negli anni quaranta e cinquanta, con la Teoria dell'Informazione, la Cibernetica e la Teoria Generale dei Sistemi. All'interno di questa nebulosa, la complessità apparirà con Ashby per definire il grado di varietà in un dato sistema. La parola compare, ma non contamina, in quanto il nuovo modo di pensare rimane abbastanza limitato: i contributi di Von Neumann, di Von Foerster rimarranno completamente ignorati, e ancora rimangono nel campo delle scienze disciplinari chiuse su se stesse. Si può anche dire che la definizione di Chaitin di casualità come incomprimibilità algoritmica diventa applicabile alla complessità. Di conseguenza, i termini caso, disordine, complessità tendono a sovrapporsi tra loro e talvolta essere confusi.
Ci sono state crepe, ma non ancora un'apertura.
Ciò sarebbe venuto dal Santa Fe Institute (1984) in cui la parola sarà fondamentale per definire i sistemi dinamici con un gran numero di interazioni e retroazioni, all'interno dei quali avvengono processi molto difficili da prevedere e controllare, come "sistemi complessi", dove la concezione classica non ha potuto essere considerata.
Così, i dogmi o i paradigmi della scienza classica hanno cominciato ad essere in discussione.
La nozione di emergenza è apparsa. In "Il Caso e la Necessità”, Jacques Monod crea un grande stato di emergenza, vale a dire qualità e proprietà che compaiono una volta che l'organizzazione di un sistema vivente è costituita, qualità che evidentemente non esistono quando si presentano isolatamente. Questa nozione è presa, qua e là, sempre di più, ma come semplice constatazione, senza mai essere indagata (mentre è una bomba concettuale).
E' così che si arrivò alla complessità che io chiamo "ristretta": la parola complessità è introdotta nella "teoria dei sistemi complessi"; in aggiunta, qua e là l'idea di "scienze della complessità" fu introdotta, comprendente la concezione frattalista e la teoria del caos.
La complessità ristretta si diffuse piuttosto recentemente, e dopo un decennio in Francia, molte barriere sono state superate. Perché? Perché sempre di più un vuoto teorico è stato affrontato, perché le idee del caos, dei frattali, del disordine e dell'incertezza sono apparse, ed è stato necessario in questo momento che la parola complessità dovesse comprenderle tutte. Solo che questa complessità è limitata ai sistemi che possono essere considerati complessi perché empiricamente sono presentati in una molteplicità di processi interconnessi, interdipendenti e associati retroattivamente. In realtà, la complessità non è mai in discussione né pensata epistemologicamente.
Qui il taglio epistemologico tra complessità ristrette e generalizzate appare perché penso che qualsiasi sistema, qualunque esso sia, è complesso per sua stessa natura.
La complessità ristretta ha reso possibili importanti progressi nella formalizzazione, nelle possibilità di modellamento, che essi stessi favoriscono le potenzialità interdisciplinari. Ma si rimane ancora all'interno dell’epistemologia della scienza classica. Quando uno cerca le "leggi della complessità", ancora affronta la complessità come una sorta di carro dietro la locomotiva della verità, quella che produce le leggi. Un ibrido è stato costituito tra i principi della scienza tradizionale e i progressi verso il suo seguito. In realtà, si evita il problema fondamentale della complessità che è epistemologico, cognitivo, paradigmatico. In una certa misura, si riconosce la complessità, ma decomplessificandola. In questo modo, la breccia è aperta, quindi si cerca di intasarla: il paradigma della scienza classica rimane, solo fessurato.

6. Complessità generalizzata
Ma allora, che cos’è la complessità "generalizzata"? Essa richiede, ripeto, un ripensamento epistemologico, vale a dire, influenzando l'organizzazione della conoscenza stessa.
Ed è un problema paradigmatico nel senso in cui ho definito "paradigma". Dal momento che un paradigma di semplificazione controlla la scienza classica, imponendo un principio di riduzione e un principio di disgiunzione ad ogni conoscenza, vi dovrebbe essere un paradigma della complessità che imporrebbe un principio di distinzione e un principio di congiunzione.
In opposizione alla riduzione, la complessità richiede che si cerchi di comprendere le relazioni tra il tutto e le parti. La conoscenza delle parti non è sufficiente, la conoscenza del tutto nel suo complesso non è sufficiente, se si ignorano sue parti; si è quindi portati a fare un andare e venire in un ciclo per raccogliere la conoscenza del tutto e delle sue parti. Pertanto, il principio di riduzione è sostituito da un principio che concepisce il rapporto di tutto-parte come una reciproca implicazione.
Il principio di disgiunzione, di separazione (tra gli oggetti, tra discipline, tra le nozioni, tra soggetto e oggetto della conoscenza), dovrebbe essere sostituito da un principio che mantiene la distinzione, ma che tenta di stabilire la relazione.
Il principio del determinismo generalizzato dovrebbe essere sostituito da un principio che concepisce un rapporto tra ordine, disordine e organizzazione. Essendo naturalmente che l'ordine non vuol dire solo leggi, ma anche stabilità, regolarità, l'organizzazione di cicli, e che il disordine non è solo dispersione, disgregazione, può anche essere il blocco, collisioni, le irregolarità.
Prendiamo ora ancora una volta la parola di Weaver, da un testo del 1948, a cui spesso ci riferiamo, che dice: il XIX secolo fu il secolo della complessità disorganizzata e il XX secolo deve essere quello della complessità organizzata.
Quando disse "complessità disorganizzata", pensò all'irruzione della seconda legge della termodinamica e delle sue conseguenze. Complessità organizzata significa per i nostri occhi che i sistemi stessi sono complessi perché la loro organizzazione presuppone, comprende, o produce complessità.
Di conseguenza, un problema principale è la relazione, inseparabile (mostrato in La Methode 1), tra la complessità disorganizzata e la complessità organizzata.
Parliamo ora circa le tre nozioni che sono presenti, ma a mio parere non proprio effetivamente pensate, nella complessità ristretta: le nozioni di sistema, emergenza, e organizzazione.

7. Sistema: Si dovrebbe concepire che "ogni sistema è complesso"
Che cos'è un sistema? Si tratta di un rapporto tra le parti che possono essere molto diverse l'una dall'altra e che costituiscono un tutto al tempo stesso organizzato, organizzante e organizzatore.
A questo proposito, la vecchia formula è conosciuta come che il tutto è maggiore della somma delle sue parti, perché l'aggiunta di caratteristiche o proprietà delle parti non è sufficiente per conoscere quelle del tutto: nuove qualità o proprietà appaiono, grazie alla organizzazione di queste parti in un tutto, sono emergenti.
Ma c'è anche un sottrattività che voglio sottolineare, notando che il tutto non è solo più della somma delle sue parti, ma è anche inferiore alla somma delle sue parti.
Perché?
Poiché un certo numero di caratteristiche e proprietà presenti nelle parti può essere inibita dall’organizzazione del tutto. Così, anche quando ciascuna delle nostre cellule contiene la totalità del nostro patrimonio genetico, solo una piccola parte di esso è attiva, il resto essendo inibita. Nei rapporti umani della società individuale, le possibilità di libertà (delinquente o criminale al limite) inerente a ciascun individuo, sarà inibita dall'organizzazione della polizia, dalle leggi e dall'ordine sociale.
Di conseguenza, come diceva Pascal, dovremmo concepire il rapporto circolare: 'non si possono conoscere le parti, se il tutto non è noto, ma non si può conoscere il tutto se le parti non sono note'.
Così, la nozione di organizzazione diventa capitale, dal momento che è attraverso l'organizzazione delle parti in un tutto che appaiono le qualità emergenti e le qualità inibite scompaiono.

8. Emergenza della nozione di emergenza
Ciò che è importante nell’emergenza è il fatto che è indeducibile dalle qualità delle parti, e quindi irriducibile; appare soltanto dividendo l'organizzazione dell'insieme. Questa complessità è presente in qualsiasi sistema, partendo da H2O, la molecola d'acqua che ha un certo numero di caratteristiche o proprietà che l'idrogeno o l’ossigeno separati non hanno, i quali hanno qualità che la molecola d'acqua non ha.
C'è un numero recente della rivista Science et Avenir dedicata all’emergenza; al mettere in relazione l'emergenza e l’organizzazione, ci si chiede se sia una forza nascosta nella natura, una virtù intrinseca.
Dalla scoperta della struttura dell’eredità genetica nel DNA, dove è apparso che la vita era costituita da ingredienti fisico-chimici presenti nel mondo materiale, quindi dal momento che è evidente che non c’è una specifica meteria vivente, una specifica sostanza vivente , che non vi è un élan vital nel senso di Bergson, ma solo la materia fisico-chimica che con un certo grado di complessità organizzata produce le qualità della vita – tra le quali l’auto-riproduzione, l’auto-riparazione, nonché un certo numero di attitudini cognitive o informative, a partire da questo momento, il vitalismo è respinto, il riduzionismo dovrebbe essere respinto, ed è la nozione di emergenza che richiede una capitale importanza, dal momento che un certo tipo di complessità organizzata produce qualità specifiche di autoorganizzazione.
Lo spirito (mens, mente) è un’emergenza. E' il rapporto cervello-cultura che produce come emergenti  qualità mentali psichiche, con tutto ciò che coinvolge il linguaggio, la coscienza, ecc.
I riduzionisti non sono in grado di concepire la realtà dello spirito e vogliono spiegare tutto a partire dai neuroni. Gli spiritualisti, incapaci di concepire l'emergere dello spirito a partire dalla relazione cervello-cultura, fanno del cervello al massimo un tipo di televisore.

a volte il Tao ritorna a nuoto


Tutti gli uomini vissuti sulla Terra, circa 100 miliardi, rinascono e ritornano a ondate...

«I primi tornarono a nuoto la notte del secondo giorno. A sciami, nelle ore disabitate, entrarono in acqua dai porti addormentati, dai moli senza nome, dalle anonime rive di melma ed erba dimenticate sulla terraferma, e nuotarono lenti in mezzo alla laguna illuminata e oscurata a intermittenza dalla luna e dalle nuvole, uscirono dal mare come granchi o come rane, arrampicandosi sui pali, sulle barche ormeggiate, sulle scale intagliate nella pietra e invasero le isole.
Per molte ore nessuno li vide».