lunedì 15 ottobre 2012

primo incontro con il Tao

© Philip Hyde
Dopo l'accettazione di Don Juan nel fargli conoscere il peyote, da lui denominato Mescalito, Castaneda per la prima volta ne assume i boccioli essiccati e con essi uno tra i più potenti allucinogeni - la mescalina; l'esperienza che ne risulta nella terminologia di Tart inizia con il passaggio dallo stato di coscienza ordinario di base b-SoC ad un profondo stato alterato d-ASC per poi tornare, con una difficile transizione, al b-SoC:
Lunedì, 7 agosto, 1961
Arrivai alla casa di don Juan in Arizona venerdì, verso le sette di sera.
Altri cinque indiani sedevano con lui sotto il portico della casa. Lo salutai e aspettai che gli altri dicessero qualcosa. Dopo un silenzio formale uno degli uomini si alzò, venne verso di me e disse: "Buenas noches". Mi alzai in piedi e risposi "Buenas noches". Quindi tutti gli altri si alzarono e vennero verso di me e mormorammo tutti "buenas noches" e ci stringemmo la mano o toccandoci semplicemente a vicenda la punta delle dita o tenendo la mano per un istante e lasciandola quindi cadere improvvisamente.
Ci rimettemmo tutti a sedere. Sembravano piuttosto impacciati, senza parole, sebbene parlassero tutti spagnolo.
Dovevano essere state circa le sette e mezzo quando improvvisamente si alzarono tutti e si incamminarono verso il retro della casa. Per un lungo tempo nessuno aveva detto una parola. Don Juan mi fece segno di seguirli e tutti entrammo in un vecchio furgoncino che era parcheggiato là dietro. Sedetti dietro con don Juan e due giovani. Non c'erano né cuscini né panche, e il pavimento di metallo era dolorosamente scomodo, specialmente quando lasciammo la strada asfaltata e ci inoltrammo in una strada bianca. Don Juan mi sussurrò che stavamo andando alla casa di un suo amico che aveva sette mescalito per me.
Gli chiesi: "Non ne avete voi stesso, don Juan?".
"Ne ho, ma non potrei offrirteli. Vedi, questo deve essere fatto da qualcun altro".
"Potete dirmi perché?".
"Forse tu non 'gli' vai a genio e non 'gli' piaceresti, e allora non sarai mai in grado di conoscerlo con affetto, come si dovrebbe; e la nostra amicizia sarebbe rotta".
"Perché potrei non piacergli? Non gli ho mai fatto nulla".
"Non devi fare nulla per piacergli o non piacergli. O ti prende o ti scaccia".
"Ma se non mi prende, c'è qualcosa che io possa fare per far sì che io gli piaccia?".
Gli altri due uomini sembrarono aver udito per caso la mia domanda e risero.
"No!"Non riesco a immaginare nulla che si possa fare", disse don Juan.
Mi volse le spalle e non potei più parlargli.
Dovevamo aver viaggiato per almeno un'ora quando ci fermammo davanti a una piccola casa. Era completamente buio, e dopo che il guidatore ebbe spento i fari potei distinguere soltanto il vago contorno dell'edificio.
Una giovane donna, una messicana, a giudicare dal suo accento, dava di voce a un cane per farlo smettere di abbaiare. Scendemmo dal camioncino ed entrammo nella casa. Gli uomini mormorarono "Buenas noches" mentre le passavano accanto. La donna ricambiò e continuò a gridare al cane.
La stanza era ampia e affollata da una moltitudine di oggetti. Una tenue luce proveniente da una piccolissima lampadina elettrica dava un tono lugubre alla scena. Contro il muro c'erano alcune sedie sfondate e con le gambe rotte. Tre degli uomini si misero a sedere su un divano che era il mobile più grande della stanza. Era vecchissimo e tutto sfondato fino a toccare il pavimento; alla tenue luce della lampadina sembrava rosso e sporco. Gli altri si misero a sedere sulle sedie. Rimanemmo a lungo seduti in silenzio.
Improvvisamente uno degli uomini si alzò e andò in un'altra stanza. Aveva forse cinquant'anni, era alto, di carnagione scura, e robusto. Ritornò un momento dopo con un vaso da caffè. Aprì il coperchio e me lo porse. Dentro c'erano sette cose di strano aspetto. Variavano per dimensioni e consistenza. Alcune erano quasi tonde, altre allungate. Al tatto assomigliavano al gheriglio delle noci, o alla superficie di un sughero. Il loro colore marrone le faceva assomigliare a dei gusci di noce duri e secchi. Li presi in mano, accarezzandone la superficie per un certo tempo.
"Sono da masticare (esto se masca)", disse don Juan in un bisbiglio.
Fino a quando non parlò non mi ero reso conto che si era seduto accanto a me. Guardai gli altri uomini, ma nessuno mi stava guardando; stavano parlando tra loro a voce bassissima. Fu un momento di acuta indecisione e di paura. Mi sentivo quasi incapace di controllarmi.
"Devo andare in bagno", gli dissi. "Vado fuori a fare due passi".
Mi porse il vaso da caffè e ci rimisi dentro i boccioli di peyote. Stavo uscendo dalla stanza quando l'uomo che mi aveva dato il vaso si alzò, venne verso di me, e disse di avere un w.c. nell'altra camera.
Il w.c. era quasi contro la porta. Accanto alla porta, quasi a contatto con il w.c., c'era un ampio letto che occupava più della metà della stanza. Sopra c'era la donna che dormiva. Restai per un poco immobile accanto alla porta, quindi ritornai nella camera in cui erano gli altri uomini.
Il proprietario della casa mi parlò in inglese: "Don Juan dice che voi venite dal Sud America. C'è peyote nel vostro paese?". Risposi che non ne avevo mai sentito parlare.
Sembrarono interessati al Sud America e parlammo degli indiani per un po' di tempo. Quindi uno degli uomini mi chiese perché volessi provare il peyote. Risposi che volevo sapere a cosa assomigliava. Risero tutti timidamente.
Don Juan mi esortò dolcemente, "Masticalo, masticalo (Masca, masca)".
Avevo le mani bagnate e lo stomaco contratto. Il vaso con i boccioli di peyote era sul pavimento accanto alla sedia. Mi piegai, ne presi uno a caso, e me lo misi in bocca. Aveva un sapore stantio. Lo spezzai in due con un morso e cominciai a masticare uno dei pezzi. Sentii un forte sapore amaro e piccante; subito la mia bocca fu tutta intorpidita. Il sapore amaro aumentava man mano che continuavo a masticare, costringendomi a secernere un'incredibile quantità di saliva. Mi sentivo le gengive e l'interno della bocca come se avessi mangiato carne secca o pesce secco salatissimi, che sembrano obbligare a masticare di più. Dopo un po' masticai l'altro pezzo e la mia bocca fu così intorpidita che non potei più sentire il sapore amaro. Il bocciolo di peyote era un fascio di filamenti, come la parte fibrosa di un'arancia o come canna da zucchero, e non sapevo se inghiottirlo o sputarlo. In quel momento il proprietario della casa si alzò e invitò tutti a uscire nel portico.
Uscimmo e sedemmo al buio. Fuori si stava piuttosto comodi, e l'ospite tirò fuori una bottiglia di tequila.
Gli uomini erano seduti in fila con la schiena appoggiata al muro. Io stavo all'estrema destra della fila. Don Juan, che sedeva accanto a me, mise il vaso con i boccioli di peyote tra le mie gambe. Poi mi porse la bottiglia, che veniva fatta passare dall'uno all'altro, e mi disse di bere un poco di tequila per sciacquare dalla bocca il gusto di amaro.
Don Juan mi diede quindi un pezzo di albicocca secca, o forse era un fico secco — al buio non potei vederlo, né potei sentirne il sapore — e mi disse di masticarlo accuratamente e lentamente, senza fretta. Trovai delle difficoltà a inghiottirlo; sembrava come se non andasse giù.
Dopo una breve pausa la bottiglia fece un altro giro. Don Juan mi porse un pezzo di carne secca croccante. Gli dissi che non mi sentivo di mangiare.
"Questo non è mangiare", disse con fermezza.
Tutto questo fu ripetuto sei volte. Ricordo di aver masticato sei boccioli di peyote quando la conversazione divenne molto animata; sebbene non riuscissi a capire in che lingua parlassero, l'argomento della conversazione, a cui tutti partecipavano, era molto interessante, e cercai di ascoltare attentamente così da potervi prender parte. Ma quando cercai di parlare mi resi conto di non poterlo fare; le parole si muovevano continuamente senza scopo nella mia mente.
Sedetti con la schiena appoggiata al muro e ascoltai quello che stavano dicendo gli uomini. Parlavano in italiano e ripetevano in continuazione una stessa frase sulla stupidità dei pescecani. Pensai che fosse un argomento logico e coerente. Avevo raccontato in precedenza a don Juan che il fiume Colorado in Arizona era chiamato dagli antichi spagnoli "el rio de los tizones" (il fiume dei tronchi carbonizzati); ma qualcuno aveva pronunciato o compreso male 'tizones', e il fiume fu battezzato "el rio de los tiburones" (il fiume dei pescecani). Ero certo che stessero parlando di quello, tuttavia non mi venne mai in mente che nessuno di essi sapeva parlare italiano.
Avevo un fortissimo desiderio di dar di stomaco, ma non ricordo di averlo effettivamente fatto. Chiesi che qualcuno mi desse un po' d'acqua. Sentivo una sete insopportabile.
Don Juan mi portò una grossa pentola. La mise sul pavimento accanto al muro. Portò una tazzina o un barattolo. La tuffò nella casseruola e me la porse, e disse che non potevo bere ma solo rinfrescarmici la bocca.
L'acqua sembrava stranamente lucida, scintillante, simile a una spessa lacca. Volli chiedere spiegazioni a don Juan e cercai faticosamente di esprimere i miei pensieri in inglese, ma subito mi ricordai che lui non parlava inglese. Provai un momento di grande confusione, e mi, resi conto del fatto che sebbene avessi nella mente un pensiero chiaro, non potevo parlare. Volli commentare la strana qualità dell'acqua, ma quello che seguì non assomigliava a una lingua; era un sentire i miei pensieri non espressi uscire dalla mia bocca in una specie di forma liquida. Era una sensazione passiva di vomitare senza le contrazioni del diaframma. Era un gradevole scorrere di parole liquide.
Bevvi. E la sensazione di star vomitando scomparve. A quel punto tutti i rumori erano svaniti e trovai che avevo delle difficoltà nel mettere a fuoco gli occhi. Cercai don Juan e quando ebbi girato la testa scoprii che il mio campo visivo si era ridotto a un'area circolare davanti ai miei occhi. Questa sensazione non dava spavento né disagio, ma tutto il contrario, costituiva una novità; potevo letteralmente spazzare il pavimento mettendo a fuoco su un solo punto e poi muovendo lentamente la testa in qualsiasi direzione. Quando ero uscito la prima volta sul portico avevo notato che era tutto buio tranne che per il lontano alone delle luci della città. Ma entro l'area circolare della mia visione tutto era chiaro. Dimenticai tutto quel che riguardava don Juan e gli altri uomini, e mi dedicai interamente all'esplorazione del terreno nell'ambito della mia visione ristretta a una punta di spillo.
Vidi la congiunzione del pavimento del portico con il muro. Voltai lentamente la testa a destra, seguendo il muro, e vidi don Juan che sedeva appoggiandovi le spalle. Spostai la testa a sinistra per mettere a fuoco l'acqua. Trovai il fondo della casseruola; sollevai il capo lentamente e vidi avvicinarsi un cane di media taglia. Lo vidi venire verso l'acqua. Il cane cominciò a bere. Alzai la mano per scacciarlo dalla mia acqua; per eseguire il movimento misi a fuoco sul cane la mia visione puntiforme, e improvvisamente lo vidi diventare trasparente. L'acqua era un liquido scintillante e vischioso. La vidi scendere nella gola del cane ed entrare nel suo corpo. La vidi scorrere uniformemente per tutta la sua lunghezza e quindi uscire fuori attraverso ciascuno dei peli. Vidi il fluido iridescente percorrere tutta la lunghezza di ciascun singolo pelo e quindi proiettarsi fuori dei peli per formare una lunga criniera bianca e setosa. In quel momento ebbi una sensazione di intense convulsioni, e in pochi istanti intorno a me si formò una galleria, molto bassa e stretta, dura e stranamente fredda. Al tatto sembrava un muro di lamiera compatta.
Scoprii di essere seduto sul pavimento della galleria. Cercai di alzarmi in piedi, ma battei il capo contro il tetto metallico, e la galleria si compresse fino a soffocarmi. Ricordo di aver dovuto strisciare verso una specie di punto rotondo laddove terminava la galleria; quando alla fine arrivai, se pure arrivai, avevo completamente dimenticato il cane, don Juan, e me stesso. Ero spossato. I miei abiti erano imbevuti di un liquido freddo e appiccicoso. Rotolai avanti e indietro per trovare una posizione in cui riposare, una posizione in cui il cuore non mi battesse così forte. In uno di questi spostamenti vidi di nuovo il cane.
Improvvisamente mi tornò il ricordo di tutto, e subito tutto fu chiaro nella mia mente. Mi girai intorno per cercare don Juan, ma non potei vedere nulla o nessuno. Tutto quello che fui in grado di vedere fu il cane che diventava iridescente: una luce intensa emanava dal suo corpo. Vidi di nuovo l'acqua che scorreva attraverso il suo corpo, accendendolo come un falò. Mi accostai all'acqua, immersi il viso nella casseruola, e bevvi con lui. Avevo le mani davanti a me sul pavimento e, mentre bevevo, vidi il liquido scorrere attraverso le mie vene formando colori rossi, gialli, e verdi. Bevetti sempre di più. Bevvi finché non fui tutto in fiamme; ero tutto ardente. Bevvi finché il liquido usci dal mio corpo attraverso tutti i pori, e si proiettò fuori simile a fibre di seta, e anch'io acquistai una lunga criniera, luminosa e iridescente. Guardai il cane, e la sua criniera era come la mia. Una suprema felicità riempiva tutto il mie corpo, e corremmo insieme verso una specie di calore giallo che veniva da un qualche luogo indefinito. E qui giocammo. Giocammo e lottammo finché non conobbi i suoi desideri ed egli conobbe i miei. Ci alternammo a manovrarci a vicenda alla maniera di un teatro di burattini. Potevo fargli muovere le gambe torcendo le dita dei piedi, e ogni volta che abbassava la testa sentivo un irresistibile impulso a saltare. Ma il suo atto più birichino fu farmi grattare la testa col piede mentre ero seduto; lo fece facendo ondeggiare le orecchie da una parte all'altra. Questa azione fu per me totalmente, insopportabilmente divertente. Che tocco di grazia e di ironia; che maestria, pensavo. L'euforia che mi possedeva era indescrivibile. Risi finché non mi fu quasi impossibile respirare.
Ebbi la chiara sensazione di non essere capace di aprire gli occhi; stavo guardando attraverso un serbatoio d'acqua. Fu uno stato lungo e assai penoso, pieno dell'angoscia del non essere capace di svegliarmi e tuttavia essere sveglio. Quindi lentamente il mondo diventò chiaro e a fuoco. Il mio campo visivo ridivenne molto rotondo e ampio, e con esso venne un atto conscio ordinario, che era girarsi intorno e cercare quel meraviglioso essere. A questo punto incontrai la transizione più difficile. Il passaggio al mio stato normale era avvenuto quasi senza che me ne rendessi conto: ero consapevole; i miei pensieri e le mie sensazioni erano un corollario di questa consapevolezza; e il passaggio era stato armonioso e chiaro. Ma questo secondo cambiamento, il risvegliarsi a una coscienza seria e sobria, fu autenticamente sconvolgente. Avevo dimenticato di essere un uomo. L'amarezza di una situazione talmente irreconciliabile fu così intensa che piansi.

martedì 9 ottobre 2012

venerdì 5 ottobre 2012

il cerchio del Tao cognitivo

M.C. Escher, Dragon, 1952
Definiti i principali approcci delle scienze della cognizione Varela, Thompson e Rosch introducono la caratteristica principale e specifica dello studio della mente: la circolarità ricorsiva della chiusura operazionale dei sistemi viventi autopoietici caratterizzati dalla loro autonomia e cognizione diventa massima e paradossale quando con la mente si cerca di indagare la mente; il risultato è una ricursione senza fine tra la mente che descrive e la mente descritta, in cui la distinzione tra soggetto e oggetto scompare. La prospettiva enazionista proposta dagli autori pone questa circolarità al centro e la integra con l'esperienza:

Cognitive Science within the Circle
We began this chapter with a reflection on the fundamental circularity in scientific method that would be noted by a philosophically inclined cognitive scientist. From the standpoint of enactive cognitive science, this Circularity is central; it is an epistemological necessity. In contrast, the other, more extant forms of cognitive science start from the view that cognition and mind are entirely due to the particular structures of cognitive systems. The most obvious expression of this view is found in neuroscience, where cognition is investigated by looking at the properties of the brain . One can associate these biologically based properties with cognition only through behavior. It is only because this structure, the brain, undergoes interactions in an environment that we can label the ensuing behavior as cognitive . The basic assumption, then, is that to every form of behavior and experience we can ascribe specific brain structures (however roughly). And, conversely, changes in brain structure manifest themselves in behavioral and experiential alterations. We may diagram this view as in figure: (In this diagram and those that follow, the double arrows express interdependence or mutual specification.)
Interdependence or mutual specification of structure and behavior/experience.
Yet upon reflection we cannot avoid as a matter of consistency the logical implication that by this same view any such scientific description, either of biological or mental phenomena, must itself be a product of the structure of our own cognitive system. We may diagram this further understanding as in figure:
Interdependency of scientific description and our own cognitive structure.
Furthermore , the act of reflection that tells us this does not come from nowhere; we find ourselves performing that act of reflection out of a given background (in the Heideggerian sense) of biological, social, and cultural beliefs and practices. We portray this further step as in figure:
Interdependency of reflection and the background of biological, social, and cultural beliefs and practices.
But then yet again, our very postulation of such a background is something that we are doing : we are here, living embodied beings, sitting and thinking of this entire scheme, including what we call a background.
Plainly, this kind of layering could go on indefinitely, as in an Escher drawing . This last move makes it evident that, rather than adding layers of continued abstraction, we should go back where we started, to the concreteness and particularity of our own experience - even in the endeavor of reflection . The fundamental insight of the enactive approach as explored in this book is to be able to see our activities as reflections of a structure without losing sight of the directness of our own experience.


The Theme
This book is devoted to the exploration of this deep circularity . We will endeavor throughout to keep in mind our theoretical constructs about structure without losing sight of the immediacy of our experience.
Some aspects of the basic circularity of our condition have been discussed by philosophers in various ways at least since Hegel. The contemporary philosopher Charles Taylor refers to it when he says that we are " self-interpreting animals" and so wonders "whether features which are crucial to our self-understanding as agents can be accorded no place in our explanatory theory " The usual response on the part of cognitive scientists is well put by Daniel Dennett when he writes that "every cognitivist theory currently defended or envisaged . . . is a theory of the sub-personal level . It is not at all clear to me, indeed, how a psychological theory - as distinct from a philosophical theory - could fail to be a sub-personal theory." For Dennett, our self-understanding presupposes cognitive notions such as believing, desiring , and knowing but does not explain them. Therefore, if the study of mind is to be rigorous and scientific, it cannot be bound to explanations in terms of features essential to our self-understanding.
For the moment we wish simply to emphasize the deep tension in our present world between science and experience. In our present world science is so dominant that we give it the authority to explain even when it denies what is most immediate and direct- our everyday, immediate experience. Thus most people would hold as a fundamental truth the scientific account of matter/space as collections of atomic particles, while treating what is given in their immediate experience, with all of its richness, as less profound and true. Yet when we relax into the immediate bodily well-being of a sunny day or of the bodily tension of anxiously running to catch a bus, such accounts of space/matter fade into the background as abstract and secondary.
When it is cognition or mind that is being examined, the dismissal of experience becomes untenable, even paradoxical. The tension comes to the surface especially in cognitive science because cognitive science stands at the crossroads where the natural sciences and the human sciences meet. Cognitive science is therefore Janus-faced, for it looks down both roads at once: One of its faces is turned toward nature and sees cognitive processes as behavior. The other is turned toward the human world (or what phenomenologists call the "lifeworld") and sees cgnition as experience.
When we ignore the fundamental circularity of our situation, this double face of cognitive science gives rise to two extremes: we suppose either that our human self-understanding is simply false and hence will eventually be replaced by a mature cognitive science, or we suppose that there can be no science of the human life-world because science must always presuppose it.
These two extremes'summarize much of the general philosophical debate surrounding cognitive science. At one end stand philosophers such as Stephen Stich and Paul and Patricia Churchland who argue that our self-understanding is simply false. (Note the Churchlands'suggestion that we might come to refer to brain states instead of experiences in actual daily discourse.) At the other end stand philosophers such as Hubert Dreyfus and Charles Taylor who seriously doubt the very possibility of cognitive science (perhaps because they often seem to accept the equation of cognitive science with cognitivism).
The debate thus recapitulates - though with new twiststhe typical oppositions within the human sciences. If, in the midst of this confusion, the fate of human experience has been left to the philosophers, their lack of agreement does not bode well.
Unless we move beyond these oppositions, the rift between science and experience in our society will deepen. Neither extreme is workable for a pluralistic society that must embrace both science and the actuality of human experience. To deny the truth of our own experience in the scientific study of ourselves is not only unsatisfactory; it is to render the scientific study of ourselves without a subject matter.
But to suppose that science cannot contribute to an understanding of our experience may be to abandon, within the modem context, the task of self-understanding. Experience and scientific understanding are like two legs without which we cannot walk.
We can phrase this very same idea in positive terms: it is only by having a sense of common ground between cognitive science and human experience that our understanding of cognition can be more complete and reach a satisfying level. We thus propose a constructive task: to enlarge the horizon of cognitive science to include the broader panorama of human, lived experience in a disciplined, transformative analysis. As a constructive task, the search for this expansion becomes motivated by scientific research itself, as we will see throughout this work.

l'ultimo Tao del piano

giovedì 4 ottobre 2012

riformulazione del Tao

René Magritte, La Clairvoyance, 1936
La strega, il sapta, il mistico, lo schizofrenico, il folle, il profeta, l’imbroglione, e il poeta sono tutte varianti dello stesso tema. (La strega tradizionalmente ha libertà in tre dimensioni. Lui o lei è forse meglio simbolizzato con un qualche veicolo volante e oscillante come un elicottero.) Tutti condividono una libertà parziale che li mette in contrasto con il mondo convenzionale.

Tempo fa, nel 1949, quando gli psichiatri ancora credevano nella lobotomia, ero un nuovo membro dello staff del Veterans Administration Mental Hospital in Palo Alto. Un giorno uno dei residenti mi chiamò da parte per vedere la lavagna nella nostra classe più grande. Un incontro per una lobotomia era stato tenuto lì nel pomeriggio e la lavagna non era stata ancora cancellata.

Questa avveniva trent’anni fa, naturalmente, e niente del genere potrebbe avvenire oggi, ma in quei giorni gli incontri per la lobotomia erano una grande occasione sociale. Tutti quelli che avevano a che fare con il caso partecipavano – dottori, infermiere, assistenti sociali, psicologi e così via. Forse trenta o quaranta persone erano li, inclusi i cinque uomini del Lobotomy Committee, sotto la presidenza di un esaminatore esterno, un distinto psichiatra da un’altro ospedale.

Quando tutti i test e gli esami erano stati presentati, il paziente era introdotto per un’intervista da parte dell’esaminatore esterno.

L’esaminatore dava un pezzo di gesso al paziente e gli diceva, “Disegna la figura di un uomo.” Il paziente andava obbediente alla lavagna e scriveva: DISEGNA LA FIGURA DI UN UOMO.

L’esaminatore diceva, “Non scriverlo, disegnalo.” E di nuovo il paziente scriveva: Non scriverlo, disegnalo. L’esaminatore diceva, “Oh, lasciamo perdere.” Questa volta il paziente riformulò la definizione di contesto, che aveva già usato per asserire una sorta di libertà, e scrisse in grandi lettere maiuscole su tutta la lavagna:

VITTORIA

Innocence and Experience

mercoledì 3 ottobre 2012

Tao e motociclette: Chautauqua

1

Senza togliere la mano dalla manopola sinistra vedo dal mio orologio che sono le otto e mezza. Il vento, anche a cento all'ora, è caldo e umido. Chissà come sarà nel pomeriggio, se già alle otto e mezza c'è tanta afa.
Nel vento ci sono gli odori pungenti degli acquitrini ai margini della strada. Ci troviamo nella zona delle Pianure Centrali, piena di pantani, ideali per la caccia alle anitre; veniamo da Minneapolis e andiamo a nord-ovest, verso i due Dakota. Questa è una vecchia strada di cemento a due corsie dove non c'è molto traffico, perché parecchi anni fa ne è stata costruita un'altra, parallela, a quattro corsie. Quando passiamo accanto a un acquitrino l'aria si fa all'improvviso più fresca; poi, appena oltre, si riscalda bruscamente.
Sono felice di ripercorrere questa regione. È un posto che non è un posto, senza nulla che lo renda famoso, ed è proprio questo il suo fascino. Lungo le vecchie strade così, la tensione scompare. Corriamo sobbalzando sul cemento eroso tra tife e distese di pascoli, poi ancora tife e erbe palustri. Qua e là c'è uno specchio d'acqua, e ai margini delle tife, guardando bene, si vedono le anitre selvatiche. E le tartarughe... C'è un merlo. Do una pacca sul ginocchio di Chris e glielo indico.
«Cosa?» mi urla.
«Merlo!».
Dice qualcosa che non riesco a sentire. «Cosa?» urlo a mia volta.
Mi solleva il casco da dietro e mi urla nelle orecchie: «Ma ne ho visti un sacco, papà!».
«Ah!» grido di nuovo. Poi annuisco. A undici anni un merlo non fa un grande effetto.
Bisogna diventare più vecchi per cose del genere. Per me tutto questo si confonde con ricordi che lui non ha. Fredde mattinate di tanto tempo fa, quando l'erba palustre si era fatta marrone e le tife ondeggiavano al vento di nord-ovest. Allora l'odore pungente veniva dalla melma: i nostri stivaloni da palude la rimescolavano mentre ci appostavamo in attesa dell'alba. Era l'apertura della caccia alle anitre. Oppure d'inverno, quando i pantani erano gelati e morti, e potevo camminare sul ghiaccio e la neve tra le tife morte senza vedere altro che cieli grigi e cose morte e fredde. I merli non c'erano più. Ma adesso, in luglio, sono tornati; tutto è al culmine della vitalità, ogni centimetro di questi pantani ronza e stride e cinguetta in un unico brusio, un'intera comunità che trascorre la propria vita in una specie di benigna continuità.
Se fai le vacanze in motocicletta le cose assumono un aspetto completamente diverso. In macchina sei sempre in un abitacolo; ci sei abituato e non ti rendi conto che tutto quello che vedi da quel finestrino non è che una dose supplementare di tv. Sei un osservatore passivo e il paesaggio ti scorre accanto noiosissimo dentro una cornice.
In moto la cornice non c'è più. Hai un contatto completo con ogni cosa. Non sei più uno spettatore, sei nella scena, e la sensazione di presenza è travolgente. È incredibile quel cemento che sibila a dieci centimetri dal tuo piede, lo stesso su cui cammini, ed è proprio lì, così sfuocato eppure così vicino che col piede puoi toccarlo quando vuoi — un'esperienza che non si allontana mai dalla coscienza immediata.
Chris e io stiamo andando nel Montana con due amici; forse ci spingeremo ancora più lontano. I programmi sono volutamente vaghi, abbiamo più voglia di viaggiare che non di arrivare in un posto prestabilito. Siamo in vacanza. Diamo la preferenza alle strade secondarie: il meglio sono le strade provinciali asfaltate, poi le statali, e ultime le autostrade. Ci preoccupiamo più di come passiamo il tempo che non di quanto ne impieghiamo per arrivare: l'approccio cambia completamente. Le strade che serpeggiano su per le colline sono lunghe, ma in moto sono molto più belle, in curva ti inclini senza andare a sbattere contro le pareti di un abitacolo. Le strade con poco traffico sono più gradevoli, oltre che più sicure, e anche quelle senza autogrill e cartelloni, strade dove boschetti e pascoli e frutteti si possono quasi toccare, dove i bambini ti fanno ciao con la mano e la gente guarda dalla veranda per vedere chi arriva; quando ti fermi per chiedere informazioni la risposta tende a essere più lunga del dovuto invece che più corta, e tutti ti domandano da dove vieni e da quanto tempo sei in viaggio.
È da qualche anno che mia moglie, io e i nostri amici abbiamo incominciato a entrare nello spirito di queste strade. Le imboccavamo ogni tanto per cambiare un po' o per tagliare da un'autostrada all'altra, e ogni volta il panorama era talmente bello che ne uscivamo rilassati e contenti. Ci è voluto un po' per capire una cosa che sarebbe dovuta essere evidente: e cioè che queste strade sono davvero diverse da quelle principali. Sono diversi il ritmo di vita e la personalità della gente, gente che non sta andando da nessuna parte e non è troppo indaffarata per essere cortese. Gente che sa tutto sul «qui» e sull'«ora» delle cose. Sono gli altri, quelli che si sono trasferiti nelle città anni fa, è la loro prole perduta che l'ha dimenticato. Questa scoperta fu una vera rivelazione.
Mi sono chiesto come mai abbiamo avuto per tanto tempo la verità sotto gli occhi senza vederla. Forse eravamo allenati a non vederla, a pensare che il cuore dell'azione e dei fatti fosse la città e che altrove non ci fosse che noioso retroterra. Era una cosa sconcertante.
Ma naturalmente, quando capimmo, niente riuscì più a tenerci lontano da queste strade: fine settimana, serate, vacanze. Siamo diventati dei veri patiti di strade secondarie e abbiamo scoperto che si imparano mille cose, viaggiando.
Per esempio, abbiamo imparato a individuare sulla carta le strade buone. Se la linea è molto mossa, è un buon segno. Vuoi dire che ci sono le colline. Se invece sembra la strada principale tra un piccolo centro e uno grosso, non va. Le strade migliori non collegano mai niente con nient'altro e c'è sempre un'altra strada che ti ci porta più in fretta. Se devi andare a nord-est partendo da un grosso centro non prosegui mai dritto per molto: esci dalla città e poi pigli lemme lemme una strada che va a nord, poi una che va a est, poi un'altra che va a nord, e ben presto ti trovi su una strada secondaria che solo la gente del posto usa. L'abilità principale è non perdersi. Dal momento che le strade vengono usate solo da persone che le conoscono a memoria, nessuno si lamenta se le deviazioni non sono segnalate. E spesso non lo sono. Oppure non c'è che un piccolo cartello nascosto discretamente tra le erbacce. Gli addetti alla segnaletica delle strade provinciali si ripetono raramente. Se ti lasci sfuggire quel cartello sono fatti tuoi, non loro. Oltretutto, scopri che le carte autostradali sono spesso imprecise sulle strade provinciali. E qualche volta la ' strada provinciale ' va a finire in una carrareccia a due solchi, poi in un solo solco, e quindi in un pascolo, oppure nel cortile di una fattoria.
Così andiamo per lo più a naso, sulla base dei pochi indizi a nostra disposizione. Ho in tasca una bussola per i giorni in cui il cielo è coperto e non ci si può basare sul sole, e ho la carta montata su un sostegno speciale sopra il serbatoio per controllare i chilometri percorsi dall'ultimo incrocio, in modo da sapere cosa cercare.
Durante i fine settimana del Labor Day e del Memorial Day facciamo dei chilometri senza vedere nessun altro veicolo, poi, attraversando una strada federale, vediamo una fila di macchine a perdita d'occhio, l'una appiccicata all'altra. E dentro facce accigliate. Bambini che piangono sui sedili posteriori. Vorrei tanto trovare il modo di dir loro qualcosa, ma sono accigliati e sembra che abbiano fretta, non si può...
Ho visto questi acquitrini mille volte, eppure ogni volta mi sono nuovi. Definirli benigni è sbagliato, come lo è definirli crudeli e insensibili; sono tutte queste cose insieme, ma la loro realtà esclude qualsiasi definizione a metà. Ecco! Un grande stormo di merli si alza dai nidi tra le tife, spaventato dal rumore della moto. Do una pacca sul ginocchio di Chris per la seconda volta... Poi mi ricordo che li ha già visti.
«Cosa?» mi urla di nuovo.
«Niente».
«Eh, cosai».
«Stavo solo controllando che ci fossi ancora» urlo, e non se ne parla più.
Se non ti diverti a urlare, su una moto in corsa non fai grandi conversazioni. Invece passi il tempo a percepire le cose e a meditarci sopra. Su quello che vedi, su quello che senti, sull'umore del tempo e i ricordi, sulla macchina che cavalchi e la campagna che ti circonda, pensando a tuo piacimento, senza nulla che t'incalzi, senza l'impressione di perdere tempo.
Mi piacerebbe usare il tempo che ho a disposizione per parlare di alcune cose che mi sono venute in mente, il più delle volte abbiamo tanta fretta che le occasioni per parlare sono ben poche. Il risultato è una specie di superficialità quotidiana senza fine, una monotonia che anni dopo ti porta a chiederti che ne è stato del tuo tempo e a rimpiangere che sia trascorso. Ora, invece, vorrei usare il mio per parlare un po' a fondo di cose che sembrano importanti.
Quel che ho in mente è una specie di Chautauqua — non riesco a definirlo altrimenti —, come i Chautauqua ambulanti che si rappresentavano sotto un tendone e si spostavano da un capo all'altro dell'America, l'America in cui siamo noi adesso, una serie di conversazioni popolari intese a edificare e divertire, a migliorare l'intelletto e a portare cultura e illuminazione alle orecchie e ai pensieri degli ascoltatori. I Chautauqua furono soppiantati dal ritmo più serrato della radio, del cinema e della televisione, e non mi pare che sia stato in assoluto un progresso. Forse grazie a questi cambiamenti il torrente della coscienza nazionale è più rapido e copioso, ma mi pare che scorra meno in profondità. I vecchi canali non riescono a contenerlo, e si direbbe che nella sua ricerca di sbocchi nuovi esso semini lungo le sue sponde rovina e distruzione. Con questo Chautauqua non mi propongo di aprire qualche nuovo canale di coscienza, ma semplicemente di scavare più a fondo in quelli vecchi, ormai ostruiti dalle macerie di pensieri divenuti stantii e di ovvietà troppo spesso ripetute. L'eterno «Che c'è di nuovo?» allarga gli orizzonti, ma se diventa l'unica domanda rischia di produrre solo i detriti che causeranno l'ostruzione di domani. Mi piacerebbe, invece, interessarmi alla domanda «Che c'è di meglio?», che scava in profondità invece che in ampiezza. Nella storia dell'umanità ci sono state epoche in cui i canali di pensiero avevano un corso talmente determinato che nessun cambiamento era possibile; non succedeva mai niente di nuovo, e 'il meglio' era una questione di dogma, ma non è il nostro caso.

il Te del Tao: XLIV - IL FERMO AMMONIMENTO


XLIV - IL FERMO AMMONIMENTO

Tra fama e persona che è più caro?
Tra persona e beni che è più importante?
Tra acquistare e perdere che è più penoso?
Per questo
chi ardentemente brama certo assai sperpera,
chi molto accumula certo assai perde.
Chi sa accontentarsi non subisce oltraggio,
chi sa contenersi non corre pericolo
e può durare a lungo.