lunedì 5 novembre 2012

la sentinella del Tao



Arthur C. Clarke

La prossima volta che vi capiterà di vedere la luna piena, alta, a meridione, osservatene attentamente il contorno sulla destra e lasciate correre l'occhio in su, lungo la curva del disco. A sessanta gradi dalla sommità, noterete un piccolo ovale scuro: chiunque, dotato di vista normale, è in grado di trovarlo facilmente. È la grande pianura circondata da monti,una delle più belle della Luna, conosciuta con il nome di Mare Crisium, il Mare delle Crisi.
Con un diametro di cinquecento chilometri e circondato da un anello di montagne imponenti, non era mai stato esplorato finché non lo raggiungemmo alla fine dell'estate del 1996.
La nostra era una spedizione su vasta scala. Due navi da carico avevano trasportato i rifornimenti e le attrezzature dalla principale base lunare del Mare Serenitatis, lontana ottocento chilometri. C'erano poi tre piccoli razzi che dovevano servire al trasporto su distanze brevi in regioni nelle quali era impossibile servirsi dei veicoli di superficie. Ma, per fortuna, per quasi tutta la sua estensione, il Mare Crisium è pianeggiante. Non ci sono quei grandi crepacci così frequenti e pericolosi altrove, e si incontrano raramente crateri o alture di notevoli dimensioni. Secondo le previsioni, i nostri potenti trattori cingolati non avrebbero avuto difficoltà a portarci ovunque volessimo.
Io ero il geologo - o il selenologo, se si vuole essere pignoli - che comandava il gruppo destinato all'esplorazione della parte meridionale del Mare. Ne avevamo attraversato più di centocinquanta chilometri in una settimana, procedendo ai piedi delle montagne, sulla spiaggia di quello che, milioni di anni fa, era stato un mare vero. Quando la vita si affacciava sulla Terra, quel mare era già moribondo. Le acque si ritiravano dai fianchi di quelle scogliere meravigliose e defluivano nel cuore vuoto della Luna. Sul suolo che percorrevamo, l'oceano senza maree era stato un tempo profondo ottocento metri e ora l'unica traccia di acqua era data dalla brina che si trovava a volte nel cuore di caverne in cui non penetrava mai la bruciante luce del sole.
Eravamo partiti in esplorazione molto presto, nella torpida alba lunare, e disponevamo ancora di quasi tutta una settimana terrestre prima che facesse notte. Varie volte al giorno scendevamo dal nostro trattore, rivestiti dalle tute spaziali, alla ricerca di minerali interessanti, oppure per piantare nel terreno contrassegni utili ai viaggiatori futuri. Si trattava di compiti noiosi, abitudinari. L'esplorazione lunare è del tutto priva di rischio, e anche di emozioni. Potevamo vivere comodamente per un mese nei nostri trattori pressurizzati, e se ci fosse capitato qualche guaio, potevamo sempre chiedere soccorso per radio e starcene seduti ad aspettare che una delle astronavi venisse a prelevarci.
Ho appena finito di dire che non c'era niente di emozionante nell'esplorazione lunare, ma naturalmente non è vero. Non ci si stancava mai della vista di quelle montagne incredibili, tanto più aspre delle dolci alture della Terra. Aggirando i capi e i promontori di quel mare fantasma non si poteva mai sapere quali nuovi splendori sarebbero apparsi ai nostri occhi.
L'intera curva meridionale del Mare Crisium è un ampio delta dove un tempo avevano scavato il loro letto alcuni fiumi, alimentati probabilmente dalle piogge torrenziali che avevano sferzato le montagne durante la breve era vulcanica, quando la Luna era giovane.
Ognuna di quelle antiche valli fluviali era un invito, una sfida a inerpicarsi sulle sconosciute alture sovrastanti. Ma dovevamo percorrere ancora centocinquanta chilometri circa, e dovevamo limitarci a guardare con desiderio le cime che altri avrebbero scalato.
A bordo del trattore seguivamo l'orario terrestre. Ogni sera, alle ventidue esatte, inviavamo l'ultimo messaggio della giornata alla base, e per quel giorno il lavoro era finito. Fuori, le rocce continuavano a bruciare sotto il sole a picco, ma per noi era notte, finché non ci svegliavamo otto ore più tardi. Allora uno di noi preparava la colazione, si levava un gran ronzio di rasoi elettrici, e qualcuno sintonizzava la radio sulle trasmissioni a onde corte della Terra. In effetti, quando il profumo delle salsicce fritte cominciava a invadere la cabina, era difficile credere di non essere già tornati sul nostro vecchio pianeta, tanto ogni cosa pareva normale e casalinga, a parte la sensazione di pesare meno e la lentezza innaturale con cui cadevano gli oggetti.
Era il mio turno di preparare la colazione nell'angolo della cabina principale che serviva come cambusa.
Nonostante siano passati tanti anni, ricordo con estrema chiarezza quel momento, perché la radio aveva appena finito di trasmettere una delle mie canzoni preferite, la vecchia aria gallese David delle Rocce Bianche. Il nostro conducente era già fuori, in tuta, a controllare i cingoli. Il mio assistente, Louis Garnett, seduto al posto di guida, soprelevato rispetto alla cabina, stava scrivendo sul libro di bordo alcune note relative al lavoro del giorno precedente.
Mentre aspettavo, come qualsiasi brava massaia terrestre, che le salsicce rosolassero in padella, lasciai scorrere pigramente lo sguardo sulle pareti montuose che chiudevano tutto l'orizzonte verso sud e che proseguivano a perdita d'occhio verso est e ovest oltre la curvatura della Luna. Pareva che distassero solo un paio di chilometri dal trattore, ma io sapevo che, invece, la più vicina era a trenta chilometri di distanza o qualcosa di più. Sulla Luna, è ovvio, i particolari non perdono in nitidezza per la lontananza, mancando l'atmosfera che, sulla Terra, attenua, offusca e a volte trasfigura tutti gli oggetti lontani.
Quelle montagne erano alte tremila metri, e si innalzavano a perpendicolo rispetto alla pianura, come se in ere lontane un'eruzione sotterranea le avesse spinte verso il cielo attraverso la crosta fusa. La base, anche di quelle più vicine, restava nascosta dalla forte curvatura della superficie pianeggiante, perché la Luna è un mondo piccolo, e l'orizzonte distava solo tre chilometri dal punto in cui io mi trovavo.
Alzai gli occhi sui picchi che nessun uomo aveva mai scalato, quei picchi che, prima della comparsa della vita terrestre, avevano visto l'oceano lunare ritirarsi nella sua tomba e portare via con sé la speranza e la promessa di un mondo. La luce del sole batteva su quei grandi bastioni con un bagliore che feriva gli occhi, eppure, sopra le loro vette, le stelle brillavano ferme e vivide in un cielo più nero di quello di una notte invernale sulla Terra.
Stavo voltandomi, quando il mio sguardo fu attratto da uno scintillio metallico quasi sulla cresta di un grande promontorio che si protendeva nel Mare, cinquanta chilometri a ovest della mia posizione. Era un punto luminoso piccolissimo, come se uno di quei picchi crudeli fosse riuscito a strappare dal cielo una stella, e io pensai che fosse il riverbero della luce del sole, riflesso direttamente nei miei occhi dalla superficie particolarmente levigata di una roccia.
Era una cosa che capitava spesso. Quando la Luna è nel secondo quarto, gli osservatori terrestri riescono a volte a vedere le grandi catene dell'Oceanus Procellarum ardere con un'iridescenza biancazzurra, causata dai raggi di luce solare che, riflessi dai loro pendii, rimbalzano da mondo a mondo. Ma io ero curioso di sapere che specie di roccia potesse mai brillare a quel modo lassù, perciò mi arrampicai nella torretta di osservazione e puntai verso ovest il nostro telescopio da cento millimetri.
Non riuscii a vedere molto, ma quello che scorsi fu sufficiente a suscitare i miei desideri. Chiara e nitida nel mio campo visivo, la massa del promontorio pareva lontana meno di un chilometro, ma l'oggetto che aveva attirato la mia attenzione era troppo piccolo perché potessi capirne la natura. Eppure, sebbene non riuscissi a riconoscerlo, vedevo che possedeva una certa simmetria e che era posato su una zona della sommità stranamente piatta. Fissai a lungo il misterioso scintillio, aguzzando gli occhi nello spazio, finché una forte puzza di bruciato proveniente dalla cambusa non mi informò che le salsicce della colazione avevano fatto invano il loro viaggio di quattrocentomila chilometri.
Mentre quella mattina avanzavamo attraverso il Mare Crisium, con le montagne a occidente che si elevavano sempre più, continuammo a discutere. Anche quando uscimmo per le consuete ricerche minerarie, le discussioni proseguirono per radio. I miei compagni sostenevano che era assolutamente certo che sulla Luna non fosse mai esistita una forma di vita intelligente. I soli esseri viventi che avessero mai abitato il nostro satellite erano gli esemplari molto primitivi di vita vegetale che conoscevamo, e i loro antenati meno degeneri.
Questo lo sapevo anch'io, ma a volte nella vita si presentano occasioni in cui uno scienziato non deve temere di farsi ridere dietro.
- Sentite -dissi alla fine - voglio salire lassù, se non altro per mettermi il cuore in pace. Quella montagna è alta meno di tremila cinquecento metri, il che equivale a meno di seicento metri a gravità terrestre, e io posso andare e tornare in venti ore al massimo. Ho sempre desiderato scalare una di quelle cime, e adesso ho un eccellente pretesto per farlo.
- Se non ti romperai l'osso del collo - disse Louis Garnett - diventerai lo zimbello della spedizione, quando torneremo alla base. D'ora in avanti, quella montagna verrà probabilmente chiamata la "Follia di Wilson".
- Non mi romperò l'osso del collo - dissi con fermezza. - Chi si è arrampicato per primo su Pico ed Elicona?
-Ma non eri un po' più giovane, allora? - chiese gentilmente Garnett.
-Questa è una ragione di più per andare - risposi, con grande dignità.
Quella sera ci coricammo presto, dopo essere arrivati con il trattore a meno di mezzo chilometro dal promontorio. Garnett sarebbe uscito con me, la mattina dopo: era un ottimo scalatore, e aveva partecipato ad altre imprese del genere in mia compagnia. Il nostro conducente, invece, fu lieto di restare a guardia della macchina e di non dover fare altro per tutta la giornata.
A prima vista, pareva che fosse assolutamente impossibile arrampicarsi su quelle pareti, ma chiunque ha un po' d'esperienza alpinistica sa che le scalate non presentano difficoltà, in un mondo dove il peso è ridotto a un sesto del normale. Il vero pericolo, nell'alpinismo lunare, sta nella temerarietà. Una caduta di duecento metri, sulla Luna, può uccidere esattamente come una di trenta metri sulla Terra.
Facemmo la prima sosta su un cornicione abbastanza ampio a circa milleduecento metri di altitudine sulla pianura. Arrampicarsi non era stato difficile, ma lo sforzo a cui non ero più abituato mi aveva irrigidito i muscoli delle gambe, ed ero felice di potermi riposare un po'. Visto di lì, il trattore pareva un minuscolo insetto di metallo ai piedi della parete. Prima di riprendere la scalata, comunicammo via radio i nostri progressi al conducente.
Dentro la tuta, la temperatura era gradevolmente fresca, perché il sistema di refrigerazione annullava gli effetti del sole ardente ed eliminava il calore prodotto dai nostri sforzi muscolari. Ci scambiavamo raramente qualche parola, e solo per darci l'un l'altro un consiglio sul modo di proseguire e per discutere sulla via migliore da prendere. Non so cosa pensasse Garnett, forse che quella era la più assurda caccia alla balena bianca in cui si fosse imbarcato. Io non potevo che dargli ragione, almeno in parte, ma - se non altri per me - il piacere della scalata, la consapevolezza che nessun uomo era salito su quella parete prima di noi e il gran respiro del panorama che andava sempre più ampliandosi, erano di per se stessi una ricompensa.
Non ricordo di avere provato un'emozione particolare quando ci trovammo davanti all'ultimo tratto di roccia, quello che avevo esaminato al telescopio il giorno prima, da cinquanta chilometri di distanza. A una ventina di metri sopra le nostre teste la parete terminava bruscamente, e là, sullo spiazzo così formato, c'era l'oggetto che mi aveva spinto ad attraversare la distesa deserta. Quasi certamente era solo uno spuntone di roccia, scheggiato in altre ere dall'urto di una meteorite, con i piani di sfaldatura ancora lisci e rilucenti in quel silenzio incorruttibile ed eterno.
La roccia non aveva appigli e dovemmo servirci di un rampino. Le mie braccia stanche riacquistarono forza mentre lanciavo l’àncora a tre punte dopo averla fatta roteare sopra la testa. La prima volta mancò la presa e ricadde lentamente, mentre noi riavvolgevamo la corda. Al terzo tentativo le punte s'incastrarono saldamente, e nemmeno il peso dei nostri due corpi insieme le smosse più.
Garnett mi lanciò un'occhiata piena d'ansia. Capivo che voleva salire per primo, ma gli sorrisi da dietro il visore del casco e scossi la testa. Poi, senza fretta, mi accinsi all'ultimo tratto della scalata.
Anche con la tuta addosso, pesavo solo una ventina di chili, perciò mi tirai su a forza di braccia, senza prendermi la briga di aiutarmi con i piedi. Mi fermai sull'orlo a salutare con la mano il mio compagno, poi mi issai e, drizzatomi in piedi, guardai davanti a me.
Dovete tenere presente che fino a quel momento ero quasi del tutto convinto che lassù non avrei scoperto niente di strano o d'insolito. Quasi, ma non completamente; ed era stato quel dubbio ossessionante a spingermi fin lì. Be', il dubbio ormai era svanito, ma l'ossessione era appena al principio.
Mi trovavo su un piccolo plateau, largo circa una trentina di metri. Una volta era levigato troppo levigato per essere naturale -ma le meteoriti cadute nel corso di innumerevoli millenni ne avevano bucherellato e sconvolto la superficie. Era stato livellato perché potesse reggere una struttura scintillante, di forma quasi piramidale, alta il doppio di un uomo, incastonata nella roccia come una gigantesca gemma dalle mille sfaccettature.
Probabilmente, in quei primi attimi non provai nulla. Poi sentii un enorme sollievo, una strana gioia inesprimibile. Perché io amavo la Luna, e ora sapevo che il muschio abbarbicato sui pendii di Aristarco ed Eratostene non era l'unica forma di vita da lei prodotta quando era giovane. Il vecchio, assurdo sogno dei primi esploratori era vero. Dopotutto, era davvero esistita una civiltà lunare, ed ero stato io il primo a trovarla. Il fatto che fossi arrivato con cento milioni di anni di ritardo non mi preoccupava, mi bastava essere arrivato.
Il mio cervello riprese a funzionare in modo normale, ad analizzare, a porsi interrogativi. Che cos'era quella struttura? Un'abitazione? Un santuario? O qualcosa che nella mia lingua non aveva nome? Se era un'abitazione, perché l'avevano costruita in quel punto pressoché inaccessibile?
Mi chiesi se non fosse stato un tempio, e immaginai gli adepti di qualche strano culto invocare le loro divinità perché li salvassero mentre la vita sulla Luna declinava con la morte degli oceani, e invocarle invano.
Feci qualche passo per esaminare la piramide più da vicino, ma la cautela m'impedì di accostarmi troppo.
Mi intendevo un poco di archeologia, e cercai di stabilire il livello della civiltà che aveva spianato la cima di quella montagna ed eretto le superfici della piramide, scintillanti come specchi, che mi abbagliavano ancora.
Gli antichi egizi sarebbero stati in grado di farlo, posto che i loro operai disponessero dello strano materiale che gli architetti lunari, molto più antichi di loro, avevano adoperato.
Poiché l'oggetto era relativamente piccolo, non pensai che poteva anche essere il prodotto di una specie più progredita della mia. L'idea che sulla Luna fossero esistiti esseri intelligenti era già di per sé talmente difficile da ammettere, che il mio orgoglìo si rifiutava di fare l'ultimo e più umiliante passo. E poi notai qualcosa che mi fece rizzare i capelli sulla nuca, una cosa così trascurabile e innocua che forse molti non ci avrebbero neppure fatto caso. Ho già detto che la spianata era crivellata dalla caduta di meteoriti, ma era anche ricoperta da uno spesso strato di polvere cosmica, quella polvere che si stende sulla superficie di tutti i mondi privi di atmosfera. E, tuttavia, sia la polvere sia i segni lasciati dalle meteore, terminavano bruscamente in corrispondenza di un ampio cerchio sgombro, che circondava completamente la piccola piramide, come se un muro invisibile la proteggesse, dalle ingiurie del tempo e dal lento ma incessante bombardamento dallo spazio.
C’era qualcuno che mi gridava negli auricolari, e finalmente mi resi conto che Garnett mi stava chiamando già da molti minuti. Mi avvia con passo incerto verso l’orlo del plateau, e gli feci cenno di raggiungermi, perché non ero sicuro di riuscire a parlare. Poi tornai verso il cerchio nella polvere. Mi chinai ad afferrare un frammento di roccia e lo scagliai, senza troppa forza, verso l’enigma scintillante. Se il sasso, nell’incontrare la barriera invisibile, fosse sparito, non me ne sarei meravigliato; invece, scivolò lentamente a terra, come se avesse urtato contro una superficie emisferica.
Ora sapevo che l'oggetto davanti a me non si poteva paragonare a nessun reperto archeologico della mia specie. Non era un edificio, ma una macchina, che si proteggeva da sola mediante forze che avevano sfidato l'eternità. Queste forze, di qualunque natura fossero, erano tuttora attive, e forse io mi ero già avvicinato troppo. Pensai a tutte le radiazioni che l'uomo aveva catturato e domato nel corso dell'ultimo secolo. Per quel che ne sapevo, potevo anche essere ormai condannato, come se fossi penetrato nell'atmosfera silenziosa e letale di una pila atomica non schermata.
Ricordo che mi voltai verso Garnett, il quale, alla fine, mi aveva raggiunto e se ne stava immobile al mio fianco. Mi parve talmente assorto che non volli disturbarlo, ma mi diressi verso l'orlo del dirupo sforzandomi di riordinare i miei pensieri. In basso davanti a me si stendeva il Mare Crisium -davvero Mare delle Crisi, adesso -strano e minaccioso per quasi tutta l'umanità, ma ormai familiare e rassicurante per me. Alzai gli occhi verso la falce di Terra nella sua culla di stelle, e mi chiesi che cosa ci fosse, sotto le sue nuvole, quando gli sconosciuti costruttori lunari avevano terminato la loro opera. Era la giungla fumante del Carbonifero, la spoglia riva degli oceani su cui strisciavano i primi anfibi alla conquista della terraferma, oppure, ancora prima, il lunghissimo periodo di solitudine, che precedette lo sbocciare della vita?
Non chiedetemi come mai non abbia intuito subito la verità, che adesso sembra così ovvia. Nel tumulto emotivo della scoperta, mi ero convinto che l'apparizione di cristallo doveva essere stata costruita da una specie vissuta nel remoto passato della Luna, ma d'improvviso, come una rivelazione, mi balenò la certezza che quell'oggetto fosse estraneo alla Luna quanto lo ero io.
Nel corso di vent'anni d'esplorazioni non avevamo trovato tracce di vita, tolte alcune piante degenerate. Nessuna civiltà lunare, per quanto moribonda, avrebbe potuto lasciare soltanto una, e una sola, prova della sua esistenza.
Tornai a guardare la piramide scintillante, e mi parve più estranea che mai alla Luna. E allora, d'un tratto, fui scosso da una rìsata isterica causata dall'emozione e dallo sforzo eccessivi. Perché mi pareva che la piccola piramide mi avesse rivolto la parola per dirmi: "Spiacente, caro, ma anch'io vengo da fuori".
Ci sono voluti vent'anni per infrangere quello scudo invisibile e arrivare alla macchina racchiusa fra le pareti di cristallo. Quello che non riuscimmo a capire lo spezzammo, alla fine, con la brutale potenza dell'energia atomica. Io stesso ho visto i frammenti di quella cosa bella e scintillante che trovai un giorno, lassù fra le montagne.
Non significano assolutamente niente. I meccanismi - posto poi che fossero meccanismi della piramide sono il frutto di una tecnologia molto al di là del nostro orizzonte, forse di una tecnologia delle forze fisico-mentali. Il mistero continua a tormentarci ogni giorno di più, ora che, dopo avere raggiunto gli altri pianeti, sappiamo che solo la Terra, nel nostro piccolo angolo di universo, ha dato origine a vita intelligente. Né quella macchina può essere stata costruita da qualche antichissima civiltà sconosciuta sorta sul nostro pianeta, perché lo spessore della polvere meteorica sulla spianata ci ha permesso facilmente di calcolarne l'età. Quella polvere cominciò a posarsi sulla montagna lunare ancor prima che la vita emergesse dai mari della Terra.
Quando il nostro pianeta aveva la metà dei suoi anni attuali, qualcosa che veniva dalle stelle attraversò il sistema solare, lasciò quella prova del suo passaggio, e proseguì per la sua strada. Finché noi non la distruggemmo, quella macchina svolse il compito assegnatole dai suoi costruttori. E quale fosse quel compito credo dì intuirlo.
Nella spirale della Via Lattea ruotano cento miliardi di stelle; molto tempo fa, altre specie, sui pianeti di altri soli, devono avere raggiunto e superato il livello a cui noi siamo oggi arrivati.
Pensiamo a simili civiltà tanto lontane nel tempo, nate in un'epoca in cui si potevano ancora scorgere gli ultimi bagliori della creazione: razze padrone di un universo talmente giovane che la vita era sorta solo su un infinitesimo numero di mondi. Quelle razze dovevano essere isolate fra loro: un isolamento era impossibile da immaginare, l'isolamento di dèi che puntano lo sguardo sull'infinito e non trovano nessuno con cui condividere i propri pensieri.
Devono aver esplorato gli ammassi stellari come noi esploriamo i pianeti del nostro sistema. Dovunque c'erano mondi, ma erano deserti, o popolati di creature striscianti, incapaci di pensare. Così era la nostra Terra, col fumo dei vulcani che offuscava ancora il cielo, quando la prima nave delle razze dell'alba giunse dagli abissi oltre Plutone. Sorpassò i pianeti esterni chiusi nella morsa del gelo, sapendo che la vita non poteva far parte del loro destino. Giunse, e si fermò, sui pianeti interni, che si scaldavano al fuoco del Sole in attesa che la loro storia avesse inizio.
Quegli esploratori devono avere studiato la Terra, che orbita nella stretta fascia fra i pianeti del ghiaccio eterno e quelli perpetuamente arroventati, e devono avere concluso che era la figlia prediletta del Sole.
Su di essa, nel lontano futuro, era destinata a sbocciare l'intelligenza. Ma sul loro cammino c'erano ancora innumerevoli stelle, e poteva darsi che nessuno di loro ripassasse di lì.
E così lasciarono una sentinella, una dei milioni di sentinelle che devono avere sparso nell'universo per sorvegliare tutti i mondi in cui respirava la promessa della vita. Era un faro che nel corso delle ere avrebbe pazientemente segnalato che nessuno l'aveva ancora scoperto.
Forse ora capite perché la piramide di cristallo fu collocata sulla Luna e non sulla Terra. Ai suoi creatori non importavano le specie ancora in lotta per uscire dalla barbarie. La nostra civiltà poteva interessarli unicamente se avessimo dato prova delle nostre capacità di sopravvivenza, valicando lo spazio e staccandoci dalla Terra, la nostra culla. Questa è la sfida che, prima o poi, si presenta a tutte le specie intelligenti. È una sfida duplice, perché dipende prima dalla conquista dell'energia atomica, e poi dall'esito della scelta finale fra la vita e la morte nell'olocausto nucleare.
Una volta che noi avessimo superato il punto critico, era solo questione di tempo scoprire la piramide e forzarla, per vedere cosa ci fosse dentro. Adesso non emette più segnali, e chi di dovere avrà ormai rivolto la propria attenzione alla Terra. Forse vogliono aiutare la nostra civiltà in fasce. Ma devono essere vecchi, molto vecchi, e spesso i vecchi sono follemente gelosi dei giovani.
Ora non posso più guardare la Via Lattea senza chiedermi da quale di quelle fitte nebulose stellari stiano arrivando gli emissari. Se mi concedete un'analogia molto semplice, noi abbiamo tirato il segnale d'allarme, e adesso non possiamo fare altro che aspettare.
Non credo che l'attesa sarà lunga.

il Te del Tao: XLVI - ESSER PARCO NELLE BRAME


XLVI - ESSER PARCO NELLE BRAME

Quando nel mondo vige il Tao
i cavalli veloci sono mandati a concimare i campi,
quando nel mondo non vige il Tao
i cavalli da battaglia vivono ai confini.
Colpa non v'è più grande
che secondar le brame,
sventura non v'è più grande
che non saper accontentarsi,
difetto non v'è più grande
che bramar d'acquistare.
Quei che conosce la contentezza dell'accontentarsi
sempre è contento.

norwegian Tao, Tokyo blues


1.
Avevo trentasette anni, ed ero seduto a bordo di un Boeing 747. Il gigantesco velivolo aveva cominciato la discesa attraverso densi strati di nubi piovose, e dopo poco sarebbe atterrato all'aeroporto di Amburgo. La fredda pioggia di novembre tingeva di scuro la terra trasformando tutta la scena, con i meccanici negli impermeabili, le bandiere issate sugli anonimi edifici dell'aeroporto e l'insegna pubblicitaria della Bmw, in un tetro paesaggio di scuola fiamminga. È proprio vero: sono di nuovo in Germania, pensai.
Quando l'aereo ebbe completato l'attcrraggio, la scritta "Vietato fumare" si spense e dagli altoparlanti sul soffitto cominciò a diffondersi a basso volume una musica di sottofondo.
Era Norwegian Wood dei Beatles in una annacquata versione orchestrale. E come sempre mi bastò riconoscerne la melodia per sentirmi turbato.
Anzi, questa volta ne fui agitato e sconvolto come non mi era mai accaduto.
Nel tentativo di calmarmi, mi piegai coprendomi la faccia con le mani e restai assolutamente immobile. Dopo qualche istante la hostess tedesca si avvicinò e mi chiese in inglese se mi sentissi male.
Non è nulla, risposi, solo un giramento di testa.
"Davvero non posso fare niente per lei?"
"Davvero, non è nulla. Grazie," dissi.
La hostess mi sorrise e si allontanò. La musica di sottofondo era adesso un pezzo di Billy Joel. Sollevai il viso, e mentre guardavo le nuvole scure sospese sopra il Mare del Nord, la mia mente andò a tutte le cose che avevo perduto nel corso della vita. Il tempo passato, le persone morte o mai più riviste, le emozioni che non possono rivivere.
Fino a quando l'aereo non si fu completamente arrestato e i passeggeri non si slacciarono le cinture e cominciarono a prendere borse e soprabiti dai portabagagli, rimasi tutto il tempo in quel prato. Assaporavo il profumo dell'erba, sentivo il vento sulla pelle e i gridi degli uccelli. Era l'autunno del 1969, e di lì a poco avrei compiuto vent'anni.
La hostess di prima tornò, si sedette nel posto accanto al mio e mi chiese: "Tutto bene?".
"Sto bene adesso, grazie. All'improvviso mi era venuta un po' di malinconia," dissi sorridendo. "Tutto qui."
"Capisco. Succede anche a me qualche volta," rispose lei.
Scosse un po' la testa, si alzò e con un sorriso molto carino mi disse:
"Le auguro buon viaggio. Auf Wiederseben".

Anche adesso che sono passati diciott'anni, riesco ancora a ricordare chiaramente quel prato e il paesaggio intorno. Le montagne, che una dolce pioggia interminabile aveva lavato dalla polvere di tutta un'estate, si erano ricoperte di un verde profondo e smagliante, il vento di ottobre faceva fremere qui e là le piume dei susuki e nuvole lunghe e sottili aderivano perfettamente alla sommità del cielo, azzurro e trasparente come una lastra di ghiaccio. Il cielo era così infinito che a guardarlo fisso dava le vertigini. Il vento attraversava il prato facendo ondeggiare leggermente i capelli di lei prima di perdersi nel bosco. Sulle cime degli alberi le foglie frusciavano e in lontananza si sentiva un cane abbaiare. Era un abbaiare così lontano e fioco che sembrava provenire dai confini di un altro mondo. Ma per il resto il silenzio era assoluto. Nessun altro suono arrivava alle nostre orecchie, e non incontrammo anima viva. Vedemmo solo due uccelli di un rosso fiammante alzarsi in volo come se qualcosa li avesse spaventati, e allontanarsi in direzione del bosco. Mentre camminavamo, Naoko mi raccontava del pozzo.
Strana cosa la memoria. Nel momento in cui mi trovavo realmente lì, non mi rendevo nemmeno conto del paesaggio. Non mi sembrava che avesse niente di particolare, e non immaginavo neanche lontanamente che diciott'anni dopo avrei potuto ricordarmelo fin nei minimi dettagli. A dire la verità, in quel periodo non avrebbe potuto importarmene meno del paesaggio. Pensavo solo a me stesso, alla ragazza così bella che camminava al mio fianco, alla nostra storia, e poi ancora a me. Era un'età in cui qualunque cosa io potessi vedere, sentire, pensare, mi tornava sempre nelle mani come un boomerang. Per giunta ero innamorato, e quell'amore mi aveva portato in una situazione terribilmente complicata. Non c'era nessuno spazio per accorgersi del paesaggio.
Eppure adesso la prima cosa che affiora nella mia mente è proprio quel prato tra le montagne. L'odore dell'erba, il vento che portava dentro sé un gelo sottile, il profilo dei monti, l'abbaiare di un cane: sono queste le cose che per prime mi si affacciano alla mente. Chiarissime. Talmente chiare che ho quasi l'impressione, se allungo la mano, di poterne seguire i contorni con le dita ad una ad una. Ma in questo paesaggio non ci sono figure umane. Non c'è nessuno. Naoko non appare, io nemmeno. E mi chiedo dove siamo andati a finire noi due. Come è potuto succedere? Dove è andato a finire tutto quello che ci sembrava così prezioso, dov'è lei e dov'è la persona che ero allora, il mio mondo? Ma è inutile, ormai non riesco nemmeno a ricordare facilmente il viso di Naoko. Quello che mi resta è solo lo sfondo: un paesaggio senza figure.
Naturalmente, con un po' di tempo riesco a richiamare alla mente il suo viso. Ma prima appaiono le sue piccole mani fredde, quei bei capelli lisci così leggeri al tocco, i lobi delle orecchie morbidi e rotondi con sotto un piccolo neo, l'elegante cappotto di cammello che portava spesso d'inverno, quel suo modo di fare una domanda guardando sempre l'altro dritto negli occhi, la voce che a volte tremava per qualche ragione (era come se parlasse su una collina dove soffiava un vento fortissimo). E solo se metto insieme tutte queste immagini, ad una ad una, allora il suo viso mi  appare naturalmente, in un soffio. Prima riaffiora il suo profilo. Sarà forse perché io e Naoko camminavamo sempre fianco a fianco. Sì, dev'essere per questo che è sempre la cosa che ricordo per prima. Poi lei si volta verso di me, mi sorride dolcemente con il collo un po' inclinato e comincia a parlare, frugando nei miei occhi. Come se cercasse l'ombra di un pesciolino che guizza sul fondo di una chiara fontana.

Ricettività (Regina di Coppe)


La ricettività è il femminile, la qualità ricettiva dell'acqua e delle emozioni. Le braccia della figura si levano verso l'alto per ricevere, e la donna è completamente immersa nell'acqua. Non ha testa - nessuna mente frenetica e aggressiva che ostacoli la pura ricettività. Man mano che viene colmata, essa si svuota, straripando e ricevendo ancor di più. Lo schema, o matrice, del loto che emerge da lei, rappresenta la perfetta armonia dell'universo, che diviene evidente allorché siamo in sintonia con esso. La Regina d'Acqua apre un tempo di gratitudine e di assenza di limiti e confini rispetto a qualsiasi cosa la vita porti, senza che ci siano aspettative o pretese. Né il senso del dovere, né valutazioni di merito o di ricompense sono importanti. Sensibilità, intuizione e compassione sono le qualità che risplendono in questo momento, dissolvendo ogni ostacolo che ci tiene separati gli uni dagli altri e dal Tutto.

Ascoltare è uno dei segreti chiave per entrare nel tempio di Dio. Ascoltare implica passività. Ascoltare vuol dire dimenticare se stessi completamente - solo in questo caso puoi ascoltare. Quando ascolti qualcuno attentamente, dimentichi te stesso. Se non riesci a dimenticare te stesso, non stai ascoltando. Se hai un'eccessiva consapevolezza di ciò che sei, fingi semplicemente di ascoltare, non ascolti. Puoi fare dei cenni col capo; a volte puoi dire di sì o di no, ma non stai ascoltando. Quando ascolti, diventi un semplice passaggio, una passività, una ricettività, un ventre: diventi femminile. E per arrivare a Dio si deve diventare femminili. Non puoi raggiungerlo da conquistatore, con l'aggressività di un invasore. Puoi raggiungere Dio solo... oppure sarebbe meglio dire che Dio ti può raggiungere solo quando sei ricettivo - una ricettività femminile. Quando diventi yin, una ricettività, la soglia si schiude. E tu aspetti. Ascoltare è l'arte di diventare passivi.

Tao ethico

"Se mi si chiede: che cosa é bene?, la mia risposta é che bene é bene e null'altro. O se mi si domanda: come si deve definire il bene? la mia risposta é che esso non si può definire, e questo é tutto quel che ho da dire sull'argomento"
I, §§ 6-7

mercoledì 31 ottobre 2012

non sappia il tuo Tao sinistro cosa fa il Tao destro - I

René Magritte, La Corde Sensible, (1960)
Let Not Thy Left Hand Know

Let not thy left hand know what thy right hand doeth. – Matt 6:3

In the processes we call perceiving, knowing, and acting, a certain decorum must be followed, and when these quite obscure rules are not observed, the validity of our mental processes is jeopardized. Above all, these rules concern the preservation of the fine lines dividing the sacred from the secular, the aesthetic from the appetitive, the deliberate from the unconscious, and thought from feeling. I do not know whether abstract philosophy will support the necessity of these dividing lines, but I am sure that these divisions are a usual feature of human epistemologies and that they are component in the natural history of human knowledge and action. Similar dividing lines are surely to be found in all human cultures, though surely each culture will have its unique ways of handling the resulting paradoxes. I introduce the fact of these divisions, then, as evidence that the domain of Epistemology – of mental explanation – is ordered, real, and must be examined. In the present chapter I shall illustrate, with a series of narratives, what happens when these lines are breached or threatened.
Back in 1960, I was acting as a guinea pig for a psychologist, Joe Adams, who was studying psychedelic phenomena. He gave me a hundred grams of LSD, and as the drug began to take effect, I started to tell him what I wanted to get from the experience – that I wanted insight into the aesthetic organization of behavior. Joe said, “Wait a minute! Wait while I get the tape recorder going.” When he finally got the machine going, he asked me to repeat what I had been saying. Anybody who has had LSD will know that the flow of ideas is such that to “repeat” any piece is almost impossible. I did the best I could but this clumsiness on Joe‘s part established a certain struggle between us.
Interestingly enough, our roles in that struggle were reversed, so that later on he was scolding me for thinking too much instead of being spontaneous when it was my spontaneity that he had attacked with his machine. In reply, I defended the intellectual position. At a certain point, he said, “Gregory, you think too much.” “Thinking is my job in life,” I said. Later he went off and brought back a rosebud from the garden. A beautiful and fresh bud, which he gave me, saying, “Stop thinking. Take a look at that.” I held the bud and looked at it, and it was complex and beautiful. So, equating the process of evolution with the process of thought, I said “Gee, Joe, think of all the thought that went into that!” Evidently there is a problem, not simply to avoid thought and the use of the intellect because it is sometimes bad for spontaneity of feeling, but to map out what sorts of thought are bad for spontaneity, and what sorts of thought are the very stuff of which spontaneity is made. Later in the same LSD session I remarked to Joe, “This stuff is all very well. It‘s very pretty but it‘s trivial.” Joe said, “What do you mean, trivial?” I had been watching endless shapes and colors collapsing and breaking and reforming, and I said, “Yes, it‘s trivial. It‘s like the patterns of breaking waves or glass. What I see is only the planes of fracture, not the stuff itself.” I mean that Prospero was wrong when he said, “We are such stuff as dreams are made on.” What he should have said is, “Dreams are bits and pieces of the stuff of which we are made, and what that stuff is, Joe, is quite another question.” Even though we can discuss the ideas which we “have” and what we perceive through our senses, and so on, the enveloping question, the question of the nature of the envelope in which all that “experience” is contained, is a very different and much more profound question, which approaches matters that are part of religion. I come with two sorts of questions posed by these stories: What is the nature of the continuum or matrix of which or in which “ideas” are made? And what sorts of ideas create distraction or confusion in the operation of that matrix so that creativity is destroyed?

martedì 30 ottobre 2012

Tao e motociclette: a priori

I. Della differenza tra la ragione pura e l’empirica.
Non vi è neppur dubbio che ogni nostro sapere incominci colla sperienza. Da che altro infatti potrebb’essere al proprio esercizio eccitata la facoltà di conoscere, ove non lo fosse dagli oggetti che i nostri sensi affettano, e parte producano rappresentazioni per se stessi, parte mettono in azione l’attitudine del nostro intendimento a confrontare, accoppiare o dividere quelle rappresentazioni, e così lavorare la materia bruta delle impressioni sensitive, e ridurle a quella tal cognizione degli oggetti, che si chiama sperienza? Niuna cognizione adunque precede in noi, risguardo al tempo, la sperienza, ed ogni cognizione incomincia colla medesima.
Ciò non di meno, e quantunque sorga ed incominci ogni nostra cognizione colla sperienza, non perciò ne viene che tutta sorga e nasca dalla sperienza. Perciocché potrebbe darsi, per avventura, che la stessa nostra cognizione sperimentale fosse un composto di ciò che noi riceviamo per mezzo d’impressioni, e di ciò ci somministra da se stessa la nostra propria facoltà di conoscere (data e mediante l’occasione delle impressioni dei sensi); nel qual caso non distingueressimo quanto è fornito in qualità di materia prima dai sensi, da quanto vi aggiungesse del suo la detta facoltà, prima che un lungo esercizio non ce ne avesse fatti scorti, e resi capaci della relativa separazione (distinzione).
É dunque dimanda che ha per lo meno di necessità onde venga più davvicino esaminata, e cui non si potrà di primo aspetto e sì tosto rispondere: se tale specie di cognizione si dia, la quale sia indipendente dalla sperienza ed anche da tutte impressioni dei sensi. Questa cognizione chiamo intanto a priori e dall’empiriche le distinguo, in quanto hanno esse le fonti loro a posteriori, vale a dire dalla sperienza.
Ma non è ancora ben determinata, la detta espressione, perché valga indicarne tutto il senso, coerentemente al proposto quesito. Perciocché gli è già stile il dire che siamo resi capaci o partecipi a priori di parecchie nozioni, che tuttavia emergono dalle sorgenti della sperienza: e si dice, atteso che non le deriviamo immediatamente da essolei, bensì da una regola generale, che abbiamo tolta ciò non pertanto in prestito dalla speriena medesima. Così di un tale, che abbia scavate le fondamenta della propria casa, diciamo che egli poteva saperlo a priori qualmente la sarebbe caduta, vale a dire che non gli era mestieri aspettarli dalla sperienza perché la casa di fatto cadesse. Eppure non poteva quel tale saper questo affatto a priori; ché doveva egli essere già consapevole per isperienza, che i corpi sono gravi, e quindi cadono se vien loro tolto ciò che li sostiene.
D’ora innanzi pertanto sotto nome di cognizioni a priori intenderemo quelle, che hanno luogo indipendentemente non già da quella o da questa soltanto, ma da ogni e qualunque sperienza assolutamente. Come contrarie a siffatte cognizioni risguarderemo l’empiriche, o quelle che sono solamente possibili a posteriori, per mezzo cioè dell’esperienza. Quelle poi, fra le cognizioni a priori, alle quali non è frammesso assolutamente nulla di empirico, diconsi pure. Così la proposizione, a cagion d’esempio: ogni cambiamento ha la propria causa, è proposizione a priori, non però pura, perciocché l’idea del cambiamento non può essere dedotta che dalla sperienza.
Fedro come studioso era abominevole: dava giudizi avventati su ogni filosofo, aveva da sindacare su qualsiasi testo, era sempre parziale. Voleva che i filosofi seguissero una certa strada e s'infuriava quando non lo facevano. Ho ancora un frammento di ricordo di lui seduto in una stanza alle tre del mattino, davanti alla famosa Critica della ragion pura di Immanuel Kant. La studiava come un giocatore di scacchi avrebbe studiato una partita, vagliandone la linea di sviluppo, cercando le contraddizioni e le incongruenze.
Fedro era un personaggio bizzarro rispetto agli americani del Midwest che lo circondavano, ma quando studiava Kant lo era meno. Per Kant provava un grande rispetto, non perché condividesse il suo pensiero, ma perché ammirava l'eccezionale fortificazione logica che Kant aveva costruito intorno alle sue posizioni. Kant è sempre superbamente metodico, perseverante, regolare e meticoloso mentre si inerpica sulle vette nevose di un pensiero volto a stabilire che cosa è nella mente e che cosa ne è fuori. E fu proprio su queste vette che a Fedro si presentò per la prima volta la soluzione complessiva del problema dell'intelligenza classica e dell'intelligenza romantica.
Per seguire Kant bisogna aver capito anche il pensiero di Hume. Hume aveva affermato questo: se, per determinare la vera natura del mondo, ci si attiene strettamente alle regole logiche dell'induzione e della deduzione, fondate sull'esperienza, si deve giungere a determinate conclusioni. Il suo ragionamento si sviluppava secondo le traiettorie che risulterebbero dalla risposta a questa domanda: prendiamo un bambino privo dalla nascita di tutte e cinque le facoltà sensoriali, e supponiamo che venga nutrito per via endovenosa e mantenuto in vita in questo stato fino a diciotto anni. Ci si può allora chiedere: questa persona di diciotto anni ha un pensiero in testa? E se sì, da dove gli arriva?
Hume avrebbe risposto che il diciottenne non aveva pensieri di sorta, e dando questa risposta si sarebbe definito un empirista, uno che crede che tutta la conoscenza derivi esclusivamente dai sensi. Il metodo scientifico della sperimentazione è empirismo attentamente controllato. Il buon senso odierno è empirismo, dato che la stragrande maggioranza concorderebbe con Hume, benché in altre culture e in altri tempi la maggioranza avrebbe potuto non essere d'accordo.
Il primo problema dell'empirismo, se nell'empirismo si crede, riguarda la natura della «sostanza». Se tutta la nostra conoscenza ci deriva dai dati sensoriali, che cos'è esattamente questa sostanza che dovrebbe generarli? Se cercate di immaginare che cos'è questa sostanza a prescindere da quello che percepite non riuscirete a pensare a un bel niente.
Dato che tutta la conoscenza deriva da impressioni sensoriali e dato che non esiste un'impressione sensoriale della sostanza stessa, ne segue logicamente che della sostanza non abbiamo nessuna conoscenza. È tutta nella nostra mente.
In secondo luogo, se si parte dalla premessa che tutta la conoscenza ci viene dai sensi, bisogna chiedersi: da quali dati sensoriali ci deriva la nostra consapevolezza del rapporto tra causa e effetto? In altre parole, qual è la base empirica e scientifica della causalità?
La risposta di Hume è: «Nessuna». Nelle nostre sensazioni non c'è nessuna prova della causalità. È un rapporto che immaginiamo quando a un fenomeno ne segue con una certa regolarità un altro. Non ha un'esistenza reale nel mondo che osserviamo. Se si accetta la premessa che tutta la conoscenza ci deriva dai sensi, dice Hume, allora bisogna concludere logicamente che sia la «natura» sia «le leggi della natura» sono creazioni della nostra immaginazione.
Quest'idea che il mondo intero è contenuto nella nostra mente potrebbe essere scartata come un'assurdità se Hume si fosse limitato a proporla come base di discussione. Invece lui faceva di essa un argomento irrefutabile.
Bocciare le conclusioni di Hume era necessario, ma sfortunatamente il modo in cui egli ci era arrivato rendeva apparentemente impossibile farlo senza abbandonare l'empirismo scientifico per ritornare a barricarsi dietro a sistemi di pensiero medioevali. E questo Kant non poteva accettarlo. Così fu Hume, disse Kant, a «risvegliarlo dai suoi sonni dogmatici» e a indurlo a scrivere la Critica della ragion pura.
Kant cerca di salvare l'empirismo scientifico dalle conseguenze della sua stessa logica autodistruttiva. Segue dapprima il sentiero lungo il quale si era avviato Hume. «Che tutta la nostra conoscenza inizi con l'esperienza è indubbio» egli dice, ma presto si allontana da quel sentiero per negare che tutte le componenti della conoscenza provengano dai sensi al momento della percezione dei dati sensoriali. «Benché tutta la conoscenza inizi con l'esperienza, non ne segue necessariamente che essa derivi dall'esperienza». Sulle prime potrebbe sembrare che Kant stia menando il can per l'aia, ma non è vero. Grazie a questa differenza, egli aggira l'abisso del solipsismo al quale conduceva la via di Hume e procede su una strada propria, completamente nuova e diversa.
Kant dice che ci sono aspetti della realtà che non sono forniti immediatamente dai sensi e questi aspetti li chiama a priori.
Il «tempo» , per esempio, è un a priori. Non si vede, non si sente, non si odora, non si gusta, non si tocca. Il tempo è quello che Kant chiama un'«intuizione» , che la mente fornisce quando riceve il dato sensoriale.
La stessa cosa vale per lo spazio. A meno che non applichiamo i concetti di spazio e tempo alle impressioni che riceviamo, il mondo è incomprensibile, non è che un guazzabuglio caleidoscopico di colori, forme, rumori, odori, dolori e sapori senza significato. Pertanto, noi percepiamo gli oggetti in un certo modo grazie alla nostra applicazione di intuizioni a priori quali spazio e tempo, ma questi oggetti non sono creazioni della nostra immaginazione come vorrebbero gli idealisti puri. Lo spazio e il tempo sono forme che applichiamo ai dati nel momento in cui li riceviamo dall'oggetto che li produce. I concetti a priori hanno la loro origine nella natura umana, per cui non sono causati dall'oggetto percepito né gli conferiscono la sua esistenza, ma forniscono una specie di vaglio per i dati sensoriali che accetteremo. Per esempio, quando chiudiamo gli occhi, i nostri dati sensoriali ci dicono che il mondo è scomparso. Ma questa idea viene eliminata e non arriva mai alla nostra coscienza perché abbiamo in mente un concetto a priori della continuità del mondo. Quella che noi consideriamo realtà è una sintesi continua tra gli elementi di una gerarchia  fissa di concetti a priori e i dati sempre mutevoli dei nostri sensi.
Adesso cerchiamo di applicare alcuni dei concetti espressi da Kant a questa strana macchina, a questa creazione che ci ha trasportato attraverso lo spazio e il tempo.
Hume, in pratica, diceva che tutto quello che so di questa motocicletta proviene dai miei sensi. Dev'essere così. Non c'è altra possibilità. Se dico che è fatta di metallo e altre sostanze, lui domanda: «Che cos'è il metallo?». Se rispondo che il metallo è duro, lucido e freddo al tatto e cambia forma senza rompersi sotto i colpi di un materiale più duro, Hume dice che ho espresso soltanto dei dati sensoriali legati alla vista, all'udito, al tatto. Non c'è sostanza. Dimmi cos'è il metallo a prescindere da queste sensazioni. E allora, ovviamente, sono fritto.
Ma se non c'è sostanza, cosa possiamo dire dei dati sensoriali che riceviamo? Se giro la testa a sinistra e guardo il manubrio, la ruota anteriore, il portacarte e il serbatoio, ho un tipo di disposizione dei dati sensoriali. Se giro la testa a destra ho una disposizione di dati sensoriali leggermente diversa. Se non c'è una base logica per la sostanza, non c'è neanche una base logica per concludere che quel che ha prodotto queste due visioni è la medesima motocicletta.
Siamo a un punto morto. La nostra ragione, che dovrebbe renderci le cose più comprensibili, fa esattamente il contrario, e quando la ragione viene meno ai suoi scopi in questo modo, vuoi dire che qualcosa nella sua struttura deve essere cambiato.
Kant ci viene in aiuto dicendo che il fatto di non poter percepire immediatamente una «motocicletta» come qualcosa di distinto dai suoi colori e dalle sue forme non è affatto una prova che la motocicletta non ci sia. Noi abbiamo in mente una motocicletta a priori che ha una continuità nel tempo e nello spazio e può cambiare aspetto a seconda della nostra posizione, e pertanto non viene contraddetta dai dati sensoriali che riceviamo.
La motocicletta di Hume, quella che non ha nessun senso, salterà fuori se il nostro ipotetico paziente di prima, quello sprovvisto delle facoltà sensoriali, le riacquistasse all'improvviso per una frazione di secondo e ricevesse il dato sensoriale di una motocicletta per poi esserne di nuovo privato. A questo punto credo che egli avrebbe nella mente una motocicletta alla Hume, che non gli fornirebbe alcuna prova dell'esistenza di concetti quali la causalità.
Ma, come dice Kant, noi non siamo quel ragazzo. Nella nostra mente abbiamo un motocicletta a priori molto reale della cui esistenza non abbiamo motivo di dubitare, la cui realtà può essere confermata in qualsiasi momento.
Questa motocicletta a priori si è formata nella nostra mente, nel corso di molti anni, grazie a un numero enorme di dati sensoriali e cambia costantemente con l'immissione di dati sensoriali nuovi. Alcuni dei cambiamenti nella specifica motocicletta a priori che sto guidando sono molto rapidi e transitori, come per esempio la sua posizione rispetto alla strada. Quando un'informazione non è più utile la dimentico, perché ne arrivano di nuove a sostituirla. Altri cambiamenti in questo a priori sono più lenti: il calo della benzina nel serbatoio. L'usura delle gomme. L'allentarsi di viti e bulloni. La variazione del gioco tra ganasce e tamburi dei freni. Altri aspetti cambiano così lentamente da sembrare immutabili — la cromatura, i cuscinetti delle ruote, i cavi di comando —, ma anch'essi cambiano costantemente. E per finire, alla lunga anche il telaio si modifica leggermente in seguito ai colpi e agli sbalzi di temperatura e alle sollecitazioni di fatica interna comuni a tutti i metalli.
Che razza di macchina, questa motocicletta a priori! I dati sensoriali la confermano, ma i dati sensoriali non sono lei. La motocicletta che io credo esista aprioristicamente fuori di me è come i soldi che credo di avere in banca. Se andassi in banca e chiedessi di vedere i miei soldi, i cassieri rimarrebbero piuttosto sorpresi. Io mi accontento di sapere che il sistema bancario mi fornisce i mezzi per averli sottomano quando ne ho bisogno. Così, anche se i miei dati sensoriali non hanno mai prodotto nulla che si possa chiamare «sostanza» , mi accontento del fatto che in questi dati sensoriali è insita la capacità di ottenere dei risultati con ciò che la sostanza genera, e che questi dati sensoriali continuano a concordare con la motocicletta a priori che ho in mente. Per comodità dico che ho i soldi in banca e per lo stesso motivo dico che la moto che sto guidando è composta di una sostanza. La Critica della ragion pura si occupa essenzialmente delle modalità di acquisizione di questa conoscenza a priori e del suo impiego.
La tesi di Kant che i nostri concetti a priori sono indipendenti dai dati sensoriali e passano al vaglio quello che vediamo, Kant la chiama una «rivoluzione copernicana». In seguito a questa rivoluzione non cambiò nulla, e tuttavia cambiò tutto. O, per metterla in termini kantiani, il mondo oggettivo, fonte dei nostri dati sensoriali, non cambiò, ma venne rovesciato il concetto a priori che di esso avevamo. L'effetto fu travolgente. Fu proprio l'accettazione della rivoluzione copernicana a distinguere l'uomo moderno dai suoi predecessori medievali.
Copernico non fece altro che prendere il concetto a priori del mondo universalmente riconosciuto nel suo tempo — e cioè che la terra fosse piatta e ferma nello spazio —, proporre un concetto a priori alternativo, secondo il quale la terra sarebbe sferica e girerebbe intorno al sole, e dimostrare che entrambi i concetti a priori quadravano con i dati sensoriali a disposizione.
Kant sentì di aver fatto la stessa operazione in metafisica. Supponiamo che i concetti a priori nella nostra testa siano indipendenti da quello che vediamo e facciano da vaglio tra noi e la realtà. Questo equivale a prendere il vecchio concetto aristotelico dello scienziato come osservatore passivo, una «tabula rasa» , e rivoltarlo. Kant e i suoi milioni di seguaci hanno sostenuto che grazie a questo capovolgimento si ottiene una comprensione più soddisfacente del nostro modo di arrivare alla conoscenza.