martedì 7 dicembre 2010

la Rete del Tao


Questo sappiamo.
Che tutte le cose sono legate
come il sangue
che unisce una famiglia...
Tutto ciò che accade alla Terra,
accade ai figli e alle figlie della Terra.
L'uomo non tesse la trama della vita;
in essa egli è soltanto un filo.
Qualsiasi cosa fa alla trama,
l'uomo la fa a se stesso.

Ted Perry, ispirandosi al capo indiano Seattle

lunedì 6 dicembre 2010

RICERCAR il Tao



Musica Antiqua Köln
J.S. Bach, Musicalisches Opfer: il Tema Regio

Thomaskirche,Leipzig, Saxony (Sachsen), Germany

Divisione e Totalità del Tao


LA DIVISIONE INPARTI E IN TOTALITA' DELL'UNIVERSO PERCEPITO E' VANTAGGIOSA E FORSE NECESSARIA, MA NESSUNA NECESSITA' DETERMINA COME CIO' DEBBA ESSERE FATTO.

Ho tentato molte volte di insegnare questo concetto generale a varie classi di studenti, e a questo fine mi sono servito della figura 1.

 
Per la presentazione, la figura viene tracciata sulla lavagna con una certa cura, ma senza le lettere che contrassegnano i vari vertici. Si chiede alla classe di dare della 'cosa' una descrizione scritta lunga circa una pagina. Quando tutti hanno finito, si confrontano i risultati. Essi si suddividono in diverse categorie: a) Circa il dieci per cento o meno degli studenti afferma, ad esempio, che l'oggetto è uno stivale, o, più pittorescamente, lo stivale di un gottoso, o addirittura un cesso. E' evidente che chi ascoltasse queste o simili descrizioni analogiche o iconiche troverebbe difficile riprodurre l'oggetto.
b) Un numero molto più elevato di studenti vede che l'oggetto contiene la maggior parte di un rettangolo e di un esagono, e dopo averlo diviso in parti a questo modo, passa a cercare di descrivere le relazioni tra il rettangolo e l'esagono incompleti. Solo alcuni di loro (ma di solito, e sorprendentemente, uno o due in ogni classe) scoprono che è possibile tracciare un segmento BH e prolungarlo fino a toccare la base DC in un punto I, tale che il segmento HI completi un esagono regolare (figura 2). 


Questo segmento immaginario definirà le proporzioni del rettangolo ma, naturalmente, non le lunghezze assolute. Di solito mi congratulo con questi studenti per la loro capacità di creare ciò che somiglia a molte ipotesi scientifiche che 'spiegano' una regolarità percettibile in termini di qualche entità creata dall'immaginazione.
c) Molti studenti preparati ricorrono a un metodo di descrizione operativo: partono da un qualche punto del perimetro (sempre un vertice, si noti) e di lì procedono, solitamente in senso orario, a dare le istruzioni per disegnare l'oggetto.
d) Esistono anche altri metodi di descrizione ben conosciuti che nessuno studente ha finora seguito. Nessuno è partito dall'asserzione:  “E' fatto di gesso e lavagna”. Nessuno ha mai usato il metodo del cliché a mezzatinta, suddividendo la superficie della lavagna con un reticolo (di rettangoli arbitrari) e assegnando a ogni casella del reticolo un  “sì” o un  “no” a seconda che contenga o non contenga una parte dell'oggetto. Naturalmente, se il reticolo è rado e l'oggetto è piccolo, andrà persa una quantità molto rilevante d'informazione. (Si pensi al caso in cui tutto l'oggetto è più piccolo di una casella del reticolo: la descrizione consisterà allora in un numero di  “sì” compreso tra uno e quattro, secondo come cadono le divisioni del reticolo rispetto all'oggetto). Si tratta comunque, in linea di principio, del modo in cui vengono trasmessi, con impulsi elettrici, i cliché delle illustrazioni dei giornali, e anzi, del modo in cui funziona la televisione.
Si noti che nessuno di questi metodi di descrizione dà alcun contributo alla "spiegazione" di questo oggetto, l'esarettangolo. La spiegazione deve sempre scaturire dalla descrizione, ma la descrizione da cui essa scaturisce conterrà sempre di necessità caratteristiche arbitrarie, come quelle esemplificate qui.


 













METALOGO: PERCHÉ LE COSE HANNO CONTORNI? (1953)

Figlia Papà, perché le cose hanno contorni?
Padre Davvero? Non so. Di quali cose parli?
F. Sì, quando disegno delle cose, perché hanno i contorni?
P. Be', e le cose di altro tipo ... un gregge di pecore? O una conversazione? Queste cose hanno contorni?
F. Non dire sciocchezze. Non si può disegnare una conversazione. Dico le cose.
P. Sì ... stavo solo cercando di capire che cosa volevi dire. Vuoi dire: «Perché quando disegniamo le cose diamo loro dei contorni?», oppure vuoi dire che le cose hanno dei contorni, che noi le disegniamo oppure no?
F. Non lo so, papà, devi dirmelo tu. Che cosa voglio chiederti?
P. Non lo so, tesoro. C'era una volta un artista molto arrabbiato che scribacchiava cose di ogni genere, e dopo la sua morte guardarono nei suoi quaderni e videro che in un posto aveva scritto: «1 savi vedono i contorni e perciò li disegnano», ma in un altro posto aveva scritto: «I pazzi vedono i contorni e perciò li disegnano ».
F. Ma che cosa voleva dire? Non capisco.
P. Be', William Blake - questo era il suo nome - era un grande artista e un uomo molto arrabbiato. E a volte arrotolava le sue idee, facendone palline di carta che poi gettava alla gente.
F. Ma perché era tanto arrabbiato, papà?
P. Perché era tanto arrabbiato? Be' ... molta gente pensava che lui fosse matto - proprio matto - pazzo, quando era arrabbiato. E questa era una delle cose che lo facevano arrabbiare da matti. E poi si arrabbiava con certi artisti che dipingevano le figure come se le cose non avessero contorni. Li chiamava "la scuola sbavacchiante".
F. Non era molto tollerante, vero, papà?
P. Tollerante? Dio santo ... Sì, lo so ... questo è quello che ti ficcano in testa a scuola. No, Blake non era molto tollerante. Non pensava neppure che la tolleranza fosse una buona cosa. Pensava che confondesse tutti i contorni e impantanasse tutto ... che rendesse tutti i gatti grigi. Così che nessuno fosse più in grado di vedere nulla in modo chiaro e netto.
F. Sì, papà.
P. No, questa non è una risposta. Cioè, 'Sì, papà' non è una risposta. Quello che mi fa capire questa risposta è solo che tu non sai qual è la tua opinione ... e quello che dico io o che dice Blake non vale un fico secco per te e che la scuola ti ha così rintontito coi discorsi sulla tolleranza che non sai più vedere la differenza tra una cosa e l'altra.
F. (Piange).
P. Santo cielo, scusami, ma mi sono arrabbiato. Ma non proprio con te. Mi sono arrabbiato per l'approssimazione con cui la gente pensa e agisce ... e poi predicano la confusione e la chiamano tolleranza.
F. Ma, papà ...
P. Sì?
F. Non so. Mi pare di non essere capace di pensare molto bene. È tutto così confuso.
P. Mi spiace. Credo di essere stato io a confonderti quando ho cominciato a sfogarmi.

...

F. Che cosa vuoi dire per te che una conversazione ha un contorno? Questa conversazione ha avuto un contorno?
P. Oh, certamente sì. Ma ancora non possiamo vederlo, perché la conversazione non è ancora finita. Non si può vederlo mai, quando ci si è in mezzo. Perché se tu potessi vederlo, saresti prevedibile - come una macchina. E io sarei prevedibile, e noi due insieme saremmo prevedibili...
F. Ma io non ti capisco. Prima dici che è importante essere chiari nelle cose. E ti arrabbi con le persone che confondono i contorni. E poi pensiamo che è meglio essere imprevedibili e non essere come macchine. E tu dici che non possiamo vedere i contorni della nostra conversazione finché non è finita. Allora non ha importanza se siamo chiari o no. Perché tanto non possiamo farci niente.
P. Sì, lo so ... e io stesso non capisco ... Ma, comunque, chi ha voglia di farci niente?

Tras-Formazione (La Morte) - XIII Major


La figura centrale di questa carta siede sopra il vasto fiore del vuoto, e tiene in mano i simboli della trasformazione - la spada che spezza l'illusione, il serpente che si rinnova cambiando la propria pelle, la catena spezzata delle illusioni e il simbolo yin/yang della dualità trascesa. Una delle mani è posata in grembo, aperta e ricettiva. L'altra è protesa verso il basso, e tocca la bocca di un volto addormentato, a simbolizzare il silenzio che insorge quando ci riposiamo. E' tempo per un profondo abbandono. Permetti a qualsiasi dolore, tristezza o difficoltà di esistere, semplicemente, accettandone la "fattualità". La situazione è molto simile all'esperienza di Gautama il Buddha allorché, dopo anni di ricerca, finalmente rinunciò, sapendo che non c'era null'altro che potesse fare. Quella stessa notte si illuminò. La trasformazione, come la morte, giunge a tempo debito. E, come la morte, ti trasporta da una dimensione all'altra.

Nello Zen un Maestro non è un semplice insegnante. In tutte le religioni ci sono solo insegnanti. Ti insegnano materie che non conosci, e ti chiedono di credere, poiché non c'è modo di portare quelle esperienze nella sfera oggettiva: neppure l'insegnante le ha conosciute - ci ha creduto, e ora trasmette a qualcun altro il proprio credo. Lo Zen non è un mondo di credenti; non si addice a coloro che hanno fede, bensì a quelle anime audaci in grado di lasciar cadere ogni fede, ogni mancanza di fede, dubbi, ragione, mente, ed entrare semplicemente nella loro pura esistenza, priva di qualsiasi confine. Ciò porta con sé un'incredibile trasformazione. Pertanto, lasciatemi dire che, mentre gli altri sono impegnati in filosofie, lo Zen si coinvolge in una metamorfosi, in una trasformazione. È una vera e propria alchimia: ti trasforma da vile metallo in oro. Ma il suo linguaggio dev'essere compreso non con la ragione, né con la mente intellettuale, ma con il tuo cuore amorevole. Oppure limitandosi semplicemente ad ascoltare, senza preoccuparsi del fatto che si tratti o meno di verità. All'improvviso viene un momento in cui vedi ciò che in tutta la tua vita è sempre stato inafferrabile. All'improvviso si aprono quelle che Buddha chiama "le ottantaquattromila porte".

immagini del Tao

 
I PROCESSI DI FORMAZIONE DELLE IMMAGINI SONO INCONSCI.

Questa asserzione generale sembra sia vera per tutto ciò che accade tra la mia azione a volte conscia di rivolgere un organo di senso verso una sorgente di informazione e l'azione conscia di ricavare informazioni da un'immagine che 'io' credo di vedere, udire, sentire, gustare o odorare. Anche un dolore è sicuramente un'immagine creata.
Gli uomini, gli asini e i cani indubbiamente sono tutti consci di ascoltare e addirittura di drizzare le orecchie nella direzione del suono. Quanto alla vista, un oggetto che si muova alla periferia del mio campo visivo richiamerà la mia 'attenzione' (qualunque cosa voglia dire), sicch‚ volgerò gli occhi e anche il capo per guardare. E' un atto spesso conscio, ma a volte quasi automatico, al punto che passa inosservato. Spesso sono conscio di girare il capo, ma ignoro quale oggetto periferico mi abbia spinto a farlo. La retina periferica riceve moltissime informazioni che rimangono fuori della coscienza - forse, ma non sicuramente, sotto forma d'immagine.
I "processi" della percezione sono inaccessibili; solo i "prodotti" sono consci e, ovviamente, sono i prodotti ad essere necessari. I due fatti generali - primo, che non sono conscio del processo di formazione delle immagini che vedo consciamente, e, secondo, che in questi processi inconsci io uso tutta una gamma di presupposti che vanno a integrarsi nell'immagine compiuta - sono, per me, il principio dell'epistemologia empirica.
Tutti, ovviamente, sappiamo che le immagini che 'vediamo' sono in realtà fabbricate dal cervello o dalla mente; ma saperlo con l'intelletto è molto diverso dal rendersi conto che è davvero così.
...
Siamo d'accordo che sotto il profilo dell'adattamento ha senso presentare alla coscienza soltanto le immagini, senza spreco di attività psicologica per rendere cosciente la loro formazione. Ma non esiste alcuna chiara ragione fondamentale per cui si debbano usare proprio le immagini, o anzi si debba essere "consapevoli" delle fasi dei nostri processi mentali.
Il ragionamento suggerisce che la formazione delle immagini è forse un metodo vantaggioso o economico per far passare informazioni attraverso un qualche genere di "interfaccia". In particolare, quando un essere umano deve operare in un contesto tra due macchine, è vantaggioso che esse gli forniscano le loro informazioni sotto forma di immagini.
Un caso che è stato studiato sistematicamente è quello di un artigliere addetto a un pezzo antiaereo su una nave. Le informazioni provenienti da una serie di dispositivi di puntamento orientati su un bersaglio in volo vengono riassunte all'artigliere sotto forma di un punto mobile su uno schermo (cioè di un'immagine). Sullo stesso schermo vi è un altro punto, la cui posizione riassume la direzione in cui è puntato il cannone antiaereo. L'uomo può spostare questo secondo punto girando certe manopole del dispositivo. Queste manopole modificano anche il puntamento del cannone. L'uomo deve manovrare le manopole finch‚ i due punti sullo schermo non coincidono: allora spara.
Il sistema contiene due interfacce: sistema sensore-uomo e uomo-sistema effettore. Naturalmente, è possibile immaginare in questo caso che le informazioni tanto in entrata quanto in uscita possano essere trattate facendo uso di segni discreti piuttosto che di una presentazione iconica. Tuttavia a me pare che il dispositivo iconico sia senz'altro più vantaggioso, non solo perchè‚, in quanto essere umano, io sono un costruttore di immagini mentali, ma anche perchè‚ in queste interfacce le immagini sono economiche o efficienti. Se questo ragionamento è corretto, sarebbe logico congetturare che i mammiferi formano immagini perchè‚ i loro processi mentali devono attraversare molte interfacce.
La nostra non-consapevolezza dei nostri processi di percezione ha alcuni interessanti effetti collaterali. Ad esempio, quando questi processi operano senza essere controllati dal materiale in entrata proveniente da un organo di senso, come nel caso del sogno o dell'allucinazione o dell'immaginazione eidetica (*), è talora difficile dubitare della realtà esterna di ciò che le immagini sembrano rappresentare. Per converso, è forse un bene "non" conoscere o quasi il meccanismo di creazione delle immagini percettive. Ignorando questo lavoro, siamo liberi di "credere" a ciò che ci dicono i nostri sensi. Potrebbe essere scomodo dubitare continuamente della validità dei messaggi mandati dai nostri sensi.

(*) Un immagine mentale è "eidetica" se possiede tutte le caratteristiche della cosa che viene percepita, specialmente se è riferita a un organo di senso, e sembra così provenire dall'esterno.

giovedì 2 dicembre 2010

Tao potabile e non-potabile

l'acqua ben giova alle creature e non contende,
resta nel posto che gli uomini disdegnano.
Per questo è quasi simile al Tao.

Strani Anelli del Tao


Nella trattazione dei sistemi complessi a più livelli logici di descrizione possono comparire circolarità ricursive autoreferenziali che, sviluppandosi su più livelli, si richiudono al punto di partenza.


Douglas Hofstadter è stato il primo a occuparsene in "Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante", vincitore di un Premio Pulitzer nel 1980, definendoli "Strani Anelli", e sviluppandoli nel caso della costruzione logico-formale dei teoremi di Gödel, delle partiture musicali di J.S. Bach, in particolare "L'arte della fuga" e la "Offerta Musicale", e nelle opere di M.C. Escher.

«Mi resi conto che per me Gödel, Escher e Bach erano solo ombre proiettate in diverse direzioni da una qualche solida essenza centrale. Ho tentato di ricostruire l'oggetto centrale e ne è uscito questo libro. »



"... Godel, Escher, Bach: un grande logico, un grande pittore, un grande musicista. Che cosa lega questi nomi, a parte la gloria? Uno Strano Anello. E che cos'è uno Strano Anello? Ci suggerisce Hofstadter: « Il fenomeno dello "Strano Anello" consiste nel fatto di ritrovarsi inaspettamente, salendo o scendendo lungo i gradini di qualche sistema gerarchico, al punto di partenza ». è un fenomeno che Escher ha disegnato, che Bach ha messo in musica, che Godel ha posto al centro del suo teorema. ..." (D.H.)

triangoli di Penrose
Hofstadter ha ulteriormente sviluppato il tema dell'autoreferenza in "Anelli nell'Io":


M.C. Escher: Moebius strip II

M.C. Escher, Relativity, 1953
Arte della Fuga: Contrappunto IV

Arte della Fuga: Manoscritto dell'ultima pagina dell'ultima fuga, incompiuta - Deutsche Staatsbibliothek Berlin

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