René Magritte, Falso specchio, 1928 |
martedì 31 agosto 2010
lunedì 30 agosto 2010
Tao livello 0: relatività del Tao e Tao relativo
Nel 1905, in quello che si può definire con le stesse parole che lo stesso Einstein utilizzò per i Principia di Newton come il "singolo maggior contributo prodotto da un singolo individuo nella storia della fisica", Einstein introduceva un nuovo e rivoluzionario paradigma ponendo le basi della Relatività Ristretta.
ON THE ELECTRODYNAMICS OF MOVING BODIES
By A. EINSTEIN
June 30, 1905
It is known that Maxwell’s electrodynamics—as usually understood at the
present time—when applied to moving bodies, leads to asymmetries which do
not appear to be inherent in the phenomena. Take, for example, the reciprocal
electrodynamic action of a magnet and a conductor. The observable phenomenon
here depends only on the relative motion of the conductor and the
magnet, whereas the customary view draws a sharp distinction between the two
cases in which either the one or the other of these bodies is in motion. For if the
magnet is in motion and the conductor at rest, there arises in the neighbourhood
of the magnet an electric field with a certain definite energy, producing
a current at the places where parts of the conductor are situated. But if the
magnet is stationary and the conductor in motion, no electric field arises in the
neighbourhood of the magnet. In the conductor, however, we find an electromotive
force, to which in itself there is no corresponding energy, but which gives
rise—assuming equality of relative motion in the two cases discussed—to electric
currents of the same path and intensity as those produced by the electric
forces in the former case.
By A. EINSTEIN
June 30, 1905
It is known that Maxwell’s electrodynamics—as usually understood at the
present time—when applied to moving bodies, leads to asymmetries which do
not appear to be inherent in the phenomena. Take, for example, the reciprocal
electrodynamic action of a magnet and a conductor. The observable phenomenon
here depends only on the relative motion of the conductor and the
magnet, whereas the customary view draws a sharp distinction between the two
cases in which either the one or the other of these bodies is in motion. For if the
magnet is in motion and the conductor at rest, there arises in the neighbourhood
of the magnet an electric field with a certain definite energy, producing
a current at the places where parts of the conductor are situated. But if the
magnet is stationary and the conductor in motion, no electric field arises in the
neighbourhood of the magnet. In the conductor, however, we find an electromotive
force, to which in itself there is no corresponding energy, but which gives
rise—assuming equality of relative motion in the two cases discussed—to electric
currents of the same path and intensity as those produced by the electric
forces in the former case.
Einstein iniziava dalla considerazione che mentre per la meccanica classica newtoniana le trasformazioni che legano spazio e tempo tra due sistemi di riferimento inerziali, ovvero che hanno tra loro una velocità relativa costante, senza accelerazioni, erano le trasformazioni di Galileo, dove il tempo e lo spazio sono assoluti. In altri termini le leggi della meccanica newtoniana sono invarianti rispetto alle trasformazioni di Galileo, ovvero co-variano con esse, mentre questo non è il caso con le leggi dell'elettromagnetismo classico.
Einstein dimostrò che per l'elettromagnetismo le trasformazioni corrette, ovvero che rendono invarianti le equazioni di Maxwell, sono le trasformazioni di Lorentz che, a differenza di quelle di Galileo, non hanno tempo e spazio assoluti ma relativi: entrambi dipendono dal rapporto tra la velocità relativa tra i due sistemi di riferimento in rapporto a quella della luce.
Quando le trasformazioni di Lorentz vengono applicate alla meccanica newtoniana creando la meccanica relativistica, avvengono una serie di fenomeni contrari al sensocomune, il quale è basato sull'esperienza di oggetti grandi (rispetto al nucleo atomico) e lenti (rispetto alla velocità della luce) tipico della fisica classica, quali la contrazione delle lunghezze e la dilatazione dei tempi misurati tra due sistemi di riferimento che viaggino tra loro a velocità relative prossime a quella della luce.
Un tipico apparente paradosso dovuto alla relatività del tempo è il paradosso dei gemelli, un tipico esperimento concettuale o mentale (Gedankenexperiment), ovvero un esperimento che si ritiene impossibile effettuare sperimentalmente, o per la sua struttura intrinseca o per tecnologie insufficienti, ma il cui risultato, anche solo concettuale, è significativo: di due gemelli sulla terra uno parte con un'astronave e arriva a velocità prossime a quella della luce. Quando ritorna sulla terra trova che il gemello è invecchiato, o relativamente lui è ringiovanito. Questa è una conseguenza diretta della relatività ristetta ampiamente confermata sperimentalmente. Il paradosso consisterebbe che anche il gemello sull'astronave potrebbe affermare che è l'altro gemello ad essere andato via con la terra alla velocità della luce, per cui al ritorno entrambi dovrebbero essere ringiovaniti. Il paradosso è solo apparente e presuppone che la situazione dei due gemelli sia simmetrica mentre non è: solo il gemello sulla terra è sempre rimasto in un sistema inerziale, mentre quello sull'astronave in almeno due momenti, all'accelerazione e alla decelerazione, è stato in un sistema non-inerziale.
L'estensione della relatività ristretta a sistemi non-inerziali e all'ultima parte della fisica classica ancora non integrata relativisticamente, la teoria della gravità, è stata effettuata da Einstein nel 1916 come teoria della Relatività Generale, fondamentale per ogni modello cosmologico dell'Universo.
Per velocità che diventano piccole rispetto a quelle della luce le trasformazioni di Lorentz si riducono a quelle di Galileo, e la meccanica relativistica si riduce a quella newtoniana; in questo caso la teoria della relatività ristretta è da considerarsi come un'estensione della fisica classica.
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mercoledì 25 agosto 2010
Tao livello 0: l'Osservatore del Tao e il Tao che Osserva
Nella definizione di sistema è centrale il ruolo svolto dal soggetto Osservatore.
E' l'osservatore infatti che stabilisce quali e quanti siano gli elementi del sistema, quali relazioni/processi osservare e definisce il confine del sistema. Inoltre per conoscere e definire il sistema - misurarlo a livello 0 - l'osservatore deve interagire con esso, e quindi necessariamente modificarlo, per cui il sistema conosciuto non è più quello originale ma solo quello rilevato dall'osservatore. Inoltre lo stesso sistema osservato può interagire con l'osservatore. Si deve quindi considerare un sistema totale più ampio a livello superiore composto da osservatore-sistema osservato.
Questa considerazione apparentemente lapallisiana non è così scontata dato che ad oggi persiste il mito che la realtà oggetto della descrizione scientifica, ed in particolare delle "scienze dure" quali la fisica - descritte nel linguaggio formale della matematica - sia "oggettiva", ovvero non dipenda dal soggetto osservante. In questo mito l'osservatore non modifica mai il sistema osservato osservandolo, e può quindi conoscere sempre la realtà fisica "originale".
Questa grossolana confusione di uno dei fondamenti del metodo scientifico galileiano
ovvero che il risultato di un esperimento per essere considerato valido deve essere indipendente e concorde tra tutti i soggetti che lo effettuano, è il risultato della seicentesca separazione cartesiana tra res extensa e res cogitans, mente e corpo, soggetto e oggetto al livello 0 fisico.
"Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato."
Albert Einstein, lettera a Max Born del 4 dicembre 1926
Il mito dell'oggettività, almeno a livello 0, è inoltre conseguenza dell'enorme successo fino al 1900 della fisica classica newtoniana (meccanica classica e gravitazione) e waxwelliana (elettromagnetismo classico) nello spiegare praticamente tutti i fenomeni fisici osservati, dal moto dei pianeti alla propagazione della luce. Ancora oggi la quasi totalità delle tecnologie sviluppate nell'800 e 900, dalla meccanica all'elettronica, hanno come fondamento diretto queste due teorie classiche, che sono alla base della nostra esperienza "soggettiva" della realtà del livello 0 fisico.
Nella fisica classica l'osservatore non esiste, o meglio non ha alcuna influenza, se non per il fatto che tutte le leggi/equazioni sono definite in un dato sistema di riferimento, specificando la posizione e il tempo di riferimento da cui si osserva. Tutte le leggi della fisica classica sono invarianti per qualunque sistema di riferimento nello spazio e nel tempo, ovvero sono valide per qualsiasi osservatore in qualsiasi luogo e in ogni tempo. Lo spazio e il tempo sono quindi ritenuti assoluti.
Il paradigma concettuale della fisica classica è stato radicalmente rivoluzionato dall'inizio del 900 quando si sono esaminati teoricamente e sperimentalmente "luoghi" della fisica non ancora precedentemente studiati, in particolare quelli delle alte velocità/energie (paragonabili a quella della luce) e delle picodimensioni, quale l'interno del nucleo atomico e dei suoi costituenti.
Nelle due teorie sviluppate durante il 900 per questi ambiti di fenomeni, la teoria della Relatività Ristretta e la Meccanica Quantistica, il ruolo dell'osservatore è centrale e smentisce ogni possibilità di credenze come "realtà oggettiva" e di sensocomune già a livello 0.
Nella figura vengono riportati gli ambiti di applicazione per le varie teorie. Orizzontalmente è riportata la dimensione degli oggetti d, in verticale la loro velocità v. Come limite superiore di velocità è riportata la velocità della luce c e come limite superiore di dimensione al di sotto del quale intervengono i fenomeni quantistici è riportata la lunghezza (diametro) di un nucleo atomico Lp. Per dimensioni superiori a Lp e velocità inferiori ad approssimamente la metà di quella della luce c/2, ovvero nel mondo della nostra esperienza, vale la fisica classica CF; per dimensioni inferiori a Lp e velocità inferiori a c/2 vale la fisica quantistica QF; per dimensioni maggiopri di Lp e velocità superiori a c/2 vale la fisica relativistica RF; infine per dimensioni minori di Lp e velocità superiori a c/2 valgono entrambe le teorie quantistica e relativistica, ovvero la fisica quanto-relativistica Q-R F.
L'integrazione tra Meccanica Quantistica e Teoria della Reletività è stata iniziata dal lavoro di Paul Dirac nel 1928 e proseguita con lo sviluppo delle Teorie Quantistiche dei Campi.
Alcuni esperimenti rilevanti che dimostrano il ruolo centrale e particolare dell'Osservatore fuori dalla fisica classica del sensocomune dell'esperienza quotidiana sono:
- Spazio e Tempo relativi nella Relatività Ristretta e Generale
- Esperimento della doppia/singola fenditura "normale" e "ritardata" di Wheeler
- Paradosso di E-P-R e Entanglement quantistico
Syntropy
per una introduzione ai temi del livello 0:
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mercoledì 18 agosto 2010
non è un Tao per vecchi
NAVIGANDO VERSO BISANZIO
I
Questo non è un paese per vecchi.
I giovani tra di loro abbracciati, uccelli sugli alberi
Stirpi moribonde - nei loro canti,
Cascate di salmoni, mari invasi dagli sgombri,
Pesce, carne, o caccia celebrano l'intera estate
tutto ciò che è creato, nasce e muore.
Rapiti in questa musica dei sensi tutti trascurano
i monumenti dell'intelletto senza età.
II
Una cosa meschina è un uomo vecchio,
Lacera veste su un bastone, a meno che l'anima
Non batta le mani e canti, e più forte canti
Per ogni strappo nella sua veste mortale,
E altra non c'è scuola di canto che studiare
I monumenti della propria magnificenza;
E quindi io ho navigato i mari e venni
Alla città sacra di Bisanzio.
III
O Saggi che state nel sacro fuoco di Dio
Come in un dorato mosaico del muro,
Uscite dal sacro fuoco, in un vortice entrate
E diventate maestri cantori dell'anima mia.
Consumate del tutto il mio cuore, che, malato
Di desiderio è avvinto a un animale mortale,
Non sa che cos'è; e prendetemi con voi
Nell'artificio dell'eternità.
IV
Una volta fuori di natura mai più prenderò
La mia forma corporea da qualche sostanza naturale,
Ma una qualche forma quale gli orefici Greci fanno
D'oro battuto e smalto dorato
Per tener desto un Imperatore sonnolento;
Oppure seduto in cima a un ramo d'oro canterò
Ai Signori e alle Signore di Bisanzio
Del passato, o di ciò che sta passando o che verrà.
W. B. Yeats (1865-1939)
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Interludio Tao
lunedì 16 agosto 2010
Tao livello 0: Interconnessione Totale
La ricerca attualmente più avanzata a livello zero è la verifica sperimentale sul bosone di Higgs, una ipotetica particella elementare, massiva, scalare, prevista dal Modello Standard della fisica delle particelle. È l'unica particella del modello standard a non essere stata ancora osservata.
Questa particella gioca un ruolo fondamentale all'interno del modello: la teoria la indica come portatrice di forza del campo di Higgs che si ritiene permei l'universo e dia massa a tutte le particelle.
Al 2007 la particella non è mai stata osservata, ma ci sono alcune prove della sua esistenza. Il bosone di Higgs fu teorizzato nel 1964 dal fisico scozzese Peter Higgs, insieme a François Englert e Robert Brout, mentre stavano lavorando su un'idea di Philip Anderson, e indipendentemente da G. S. Guralnik, C. R. Hagen, e T. W. B. Kibble.
Esso è dotato di massa propria. La teoria dà un limite superiore per questa massa di circa 200 GeV. Al 2002, gli acceleratori di particelle, hanno raggiunto energie fino a 115 GeV. Benché un piccolo numero di eventi che sono stati registrati potrebbero essere interpretati come dovuti ai bosoni di Higgs, le prove a disposizione sono ancora inconcludenti. Ci si aspetta che il più potente acceleratore di particelle mai realizzato, il Large Hadron Collider presso il CERN, sia in grado di confermarne l'esistenza.
Nella fisica classica e quantistica degli anni 20 la massa di una particella è un parametro intrinseco, definita propriamente come 'massa a riposo' nel sistema di riferimento dove la velocità o l'energia della particella è zero. Vi sono due classi di particelle riguardo alla massa,quelle dove la massa a riposo non è nulla e quelle dove è zero e quindi viaggiano sempre alla velocità della luce, ad esempio i fotoni- le particelle del campo elettromagnetico.
Con lo sviluppo del modello standard delle particelle elementari si è introdotto un principio fondamentale generalmente noto come 'simmetria di gauge locale', e il modello standard viene definito come una teoria di gauge in cui si assume che il comportamento delle particelle sia invariante rispetto a certe trasformazioni operate sui costituenti fondamentali (i campi delle particelle elementari).
Risulta che l'introduzione di un semplice parametro intrinseco come la massa è in contraddizione con questa simmetria fondamentale (rompe esplicitamente la simmetria di gauge) e quindi renderebbe inconsistente tutta la teoria.
Il problema può essere risolto assumendo che tutte le particelle hanno una massa intrinseca nulla, postulando in aggiunta l'esistenza di un campo o meccanismo di Anderson-Higgs che permea tutto lo spazio e dotato di alcune caratteristiche del tutto particolari: tutte le particelle che si accoppiano al campo di Higgs acquistano una energia a riposo non nulla, che per quasi tutti gli effetti è completamente analoga ad una massa a riposo, e può quindi essere consistentemente e convenientemente descritta da un parametro di massa. La differenza è che l'accoppiamento fra le particelle ed il campo di Higgs rispetta, a livello fondamentale, la simmetria di gauge e permette quindi di spiegare simultaneamente le interazioni fondamentali fra le particelle, come pure la presenza di masse a riposo non nulle. Inoltre la reintroduzione del parametro di massa ha come conseguenza che la simmetria di gauge ora non è più esplicita, si dice che la simmetria è 'spontanemente rotta' o 'nascosta'. Le particelle che non si accoppiano al campo di Higgs, come ad esempio il fotone, continuano a comportarsi a tutti gli effetti come particelle di massa a riposo nulla.
L'accoppiamento strutturale delle particelle con massa con il campo di Anderson-Higgs, e più in generale lo scambio di particelle virtuali tra una particella con tutte le altre, e viceversa, ben rappresenta la metafora della rete di Indra di circa 2600 anni fa.
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giovedì 5 agosto 2010
nel segno del Tao: Murakami Haruki
I L P I C N I C D E L M E R C O L E D Ì P O M E R I G G I O
ERA un breve annuncio sul giornale del mattino, un paragrafo soltanto. Un amico mi telefonò e me lo lesse. Niente di speciale. Una cosa così avrebbe potuto scriverla un giornalista alle prime armi, appena uscito dall'università, giusto per esercitarsi un po'. La data, il nome di una strada, un autista di camion, un pedone, una vittima, un'indagine per probabile omissione di soccorso.
Suonava come una di quelle poesie sulla carta dei cioccolatini.
« Dov'è il funerale? » chiesi.
« Lo sapessi », rispose lui. « Ma qualche parente ce l'aveva, almeno? »
Certo che l'aveva.
Chiamai il dipartimento di polizia per rintracciare l'indirizzo e il numero di telefono dei genitori, dopodiché li contattai per avere informazioni sul funerale.
Vivevano in un vecchio quartiere di Tokyo. Tirai fuori la cartina ed evidenziai l'isolato con un cerchio rosso. Era pieno di linee metropolitane, ferroviarie e di autobus che si sovrapponevano come una specie di tela di ragno sformata, l'intera zona un labirinto di stradine e canali delle fogne.
Il giorno del funerale presi un tram da Waseda. Scesi quasi al capolinea. La cartina mi fu d'aiuto più o meno quanto un mappamondo. Finii per comprare un pacchetto di sigarette dopo l'altro, ogni volta chiedendo informazioni.
Era una casa con la struttura di legno, circondata da uno steccato di assi marroni. Un piccolo cortile e un braciere di ceramica abbandonato, pieno di acqua piovana stagnante. Il terreno era umido e scuro.
A sedici anni era scappata, il che forse spiega per quale motivo la cerimonia fu tanto malinconica. Vi parteciparono solo i familiari, quasi tutti anziani, e fu presieduta dal fratello maggiore, sui trenta, o forse era suo cognato.
Il padre, un ometto basso, sui cinquantacinque, portava una fascia a lutto intorno al braccio. Rimase impalato sulla soglia senza praticamente muoversi. Mi faceva venire in mente una strada spazzata dall'acqua, dopo il temporale.
Andandomene abbassai la testa in silenzio, e lui abbassò la sua, in segno di risposta, senza dire una parola.
La conobbi in autunno, nove anni fa, quando io ne avevo venti e lei diciassette.
Nei pressi dell'università c'era un piccolo caffè che bazzicavo con gli amici. Niente di speciale, ma offriva due elementi costanti: rock duro e caffè cattivo. Lei se ne stava sempre seduta allo stesso posto, i gomiti piantati sul tavolo, e leggeva. Aveva un'aria seducente, con quelle mani ossute e gli occhiali che sembravano un apparecchio per i denti. Il suo caffè era eternamente freddo, il portacenere zeppo di mozziconi di sigaretta.
L'unica cosa che cambiava era il libro. Una volta Mikey Spillane, un'altra Kenzaburo Oe, un'altra ancora Alien Ginsberg. Non importava che cosa: bastava fosse un libro. A prestarglieli erano gli studenti che dentro e fuori del locale, e lei li leggeva da cima a fondo, da copertina a copertina. Li divorava come fossero pannocchie.
A quell'epoca prestare libri era una cosa naturale, dunque non restava mai a corto di letture.
Erano i giorni dei Doors, degli Stones, dei Byrds, dei Deep Purple e dei Moody Blues. C'era un'atmosfera viva, sebbene tutto sembrasse già appollaiato sull'orlo del precipizio in attesa di una spinta.
Io e lei ci scambiavamo libri, ci perdevamo in discussioni interminabili, bevevamo whisky da due soldi, facevamo del sesso normale e tranquillo. Insomma, le cose di tutti i giorni. Nel frattempo, il sipario calava scricchiolando sulla baraonda degli anni '60.
Non so più come si chiamava.
Potrei tirare fuori l'annuncio mortuario, ma che differenza farebbe ormai. Ho dimenticato il suo nome.
Poniamo che un giorno incontri dei vecchi amici e a un certo punto la conversazione si sposti su di lei. Neanche loro ricordano mai il suo nome. Hai presente, quella tipa che andava a letto con tutti, aspetta, che faccia aveva, mi sfugge il nome ma ci sono andato a letto un sacco di volte, chissà che fine ha fatto, sarebbe buffo incrociarsi per strada.
« C'era una tipa che andava a letto con tutti. » Ecco, come si chiamava.
Copyright (c) 1982 by Haruki Murakami
Suonava come una di quelle poesie sulla carta dei cioccolatini.
« Dov'è il funerale? » chiesi.
« Lo sapessi », rispose lui. « Ma qualche parente ce l'aveva, almeno? »
Certo che l'aveva.
Chiamai il dipartimento di polizia per rintracciare l'indirizzo e il numero di telefono dei genitori, dopodiché li contattai per avere informazioni sul funerale.
Vivevano in un vecchio quartiere di Tokyo. Tirai fuori la cartina ed evidenziai l'isolato con un cerchio rosso. Era pieno di linee metropolitane, ferroviarie e di autobus che si sovrapponevano come una specie di tela di ragno sformata, l'intera zona un labirinto di stradine e canali delle fogne.
Il giorno del funerale presi un tram da Waseda. Scesi quasi al capolinea. La cartina mi fu d'aiuto più o meno quanto un mappamondo. Finii per comprare un pacchetto di sigarette dopo l'altro, ogni volta chiedendo informazioni.
Era una casa con la struttura di legno, circondata da uno steccato di assi marroni. Un piccolo cortile e un braciere di ceramica abbandonato, pieno di acqua piovana stagnante. Il terreno era umido e scuro.
A sedici anni era scappata, il che forse spiega per quale motivo la cerimonia fu tanto malinconica. Vi parteciparono solo i familiari, quasi tutti anziani, e fu presieduta dal fratello maggiore, sui trenta, o forse era suo cognato.
Il padre, un ometto basso, sui cinquantacinque, portava una fascia a lutto intorno al braccio. Rimase impalato sulla soglia senza praticamente muoversi. Mi faceva venire in mente una strada spazzata dall'acqua, dopo il temporale.
Andandomene abbassai la testa in silenzio, e lui abbassò la sua, in segno di risposta, senza dire una parola.
La conobbi in autunno, nove anni fa, quando io ne avevo venti e lei diciassette.
Nei pressi dell'università c'era un piccolo caffè che bazzicavo con gli amici. Niente di speciale, ma offriva due elementi costanti: rock duro e caffè cattivo. Lei se ne stava sempre seduta allo stesso posto, i gomiti piantati sul tavolo, e leggeva. Aveva un'aria seducente, con quelle mani ossute e gli occhiali che sembravano un apparecchio per i denti. Il suo caffè era eternamente freddo, il portacenere zeppo di mozziconi di sigaretta.
L'unica cosa che cambiava era il libro. Una volta Mikey Spillane, un'altra Kenzaburo Oe, un'altra ancora Alien Ginsberg. Non importava che cosa: bastava fosse un libro. A prestarglieli erano gli studenti che dentro e fuori del locale, e lei li leggeva da cima a fondo, da copertina a copertina. Li divorava come fossero pannocchie.
A quell'epoca prestare libri era una cosa naturale, dunque non restava mai a corto di letture.
Erano i giorni dei Doors, degli Stones, dei Byrds, dei Deep Purple e dei Moody Blues. C'era un'atmosfera viva, sebbene tutto sembrasse già appollaiato sull'orlo del precipizio in attesa di una spinta.
Io e lei ci scambiavamo libri, ci perdevamo in discussioni interminabili, bevevamo whisky da due soldi, facevamo del sesso normale e tranquillo. Insomma, le cose di tutti i giorni. Nel frattempo, il sipario calava scricchiolando sulla baraonda degli anni '60.
Non so più come si chiamava.
Potrei tirare fuori l'annuncio mortuario, ma che differenza farebbe ormai. Ho dimenticato il suo nome.
Poniamo che un giorno incontri dei vecchi amici e a un certo punto la conversazione si sposti su di lei. Neanche loro ricordano mai il suo nome. Hai presente, quella tipa che andava a letto con tutti, aspetta, che faccia aveva, mi sfugge il nome ma ci sono andato a letto un sacco di volte, chissà che fine ha fatto, sarebbe buffo incrociarsi per strada.
« C'era una tipa che andava a letto con tutti. » Ecco, come si chiamava.
Naturalmente, a onor del vero, non è che andasse proprio con tutti. Aveva i suoi parametri.
Resta tuttavia il fatto che, come anche l'esame più superficiale delle prove basterebbe a dimostrare, aveva una propensione ad andare a letto praticamente con chiunque.
Una volta, e soltanto una, la interrogai su questi parametri. « Be', se proprio devo dire... » esordi. Passarono un trenta secondi buoni di riflessione. « Non è come fa di solito la gente. A volte è l'idea in sé che mi eccita. Ma, sai, forse è solo che mi va di conoscere un mucchio di persone. O forse è così che riesco a farmi un quadro delle cose. »
« Andandoci a letto insieme? »
« Aha. »
Fu il mio turno di pensarci sopra.
« E dimmi, ti ha aiutato a trovare il senso della vita? »
« Un pochino » ,rispose.
Da quell'inverno fino a tutta l'estate non la rividi quasi.
L'università venne occupata e chiusa più volte, e comunque stavo attraversando un periodo di problemucci personali.
Quando, l'autunno successivo, mi ripresentai al caffè, la clientela era completamente cambiata e la sua fu l'unica faccia che riconobbi. Il rock duro c'era ancora, ma dall'aria era scomparsa ogni traccia di vita. Restavano solo lei e il caffè cattivo. Mi lasciai cadere di peso su una sedia, e cominciammo a parlare dei vecchi frequentatori del bar.
Avevano mollato quasi tutti: uno si era suicidato, un altro volatilizzato. Cose così.
« E tu, che hai fatto in quest'ultimo anno? » mi chiese.
« Di tutto un po'. »
« E sei più saggio? »
« Un pochino. »
Quella sera andai a letto con lei per la prima volta.
Della sua storia non so quasi nulla. E quello che so potrebbe avermelo raccontato qualcun altro; o forse fu lei, a dirmelo, quella notte mentre eravamo a letto insieme. Durante il primo anno di liceo c'era stato un grosso litigio con il padre ed era scappata da casa (e anche da scuola.) Credo
sia tutto. Dove vivesse di preciso che cosa facesse per campare, non lo sapeva nessuno.
Passava le sue giornate nei bar dove mettevano musica rock, beveva una tazza di caffè via l'altra, fumava come un turco e sfogliava i suoi libri, in attesa di qualcuno che si facesse avanti per pagarle il conto e le sigarette (cifrette nient'affatto trascurabili, per noi spiantati dell'epoca), qualcuno con cui poi finiva immancabilmente a letto.
Ecco. Questo è tutto quel che so di lei.
Dall'autunno di quell'anno fino alla primavera seguente, ogni martedì sera si presentava al mio appartamento fuori Mitaka. Spazzolava la parca cena che ero riuscito a mettere insieme, mi riempiva i portacenere e faceva l'amore con me tenendo la radio sintonizzata a tutto volume su
un programma rock. Il mercoledì mattina ci svegliavamo e andavamo a fare una passeggiata per i boschi, arrivavamo fino al campus universitario e mangiavamo in mensa. Nel pomeriggio ci facevamo una tazza di caffè annacquato in sala studenti e, se il tempo era bello, ci allungavamo sull'erba a guardare il cielo.
Lo chiamava il nostro « picnic del mercoledì pomeriggio».
« Ogni volta che veniamo qui mi sembra di fare un picnic. »
« Un picnic? Sul serio? »
« Be', i prati si stendono all'infinito, e tutti sembrano così felici... »
Poi si tirava a sedere e prima di accendersi una sigaretta consumava due o tre fiammiferi.
« Il sole sorge, e poi comincia a tramontare. Gente che viene, gente che va. Il tempo che vola. Non è proprio come nei picnic? »
Allora avevo ventun anni, quasi ventidue. Nessuna prospettiva di laurearmi in fretta, ma ancora nessuna ragione per mollare. Intrappolato nel più ambiguo e deprimente dei paesaggi. Così mi sentivo da mesi, incapace di muovere un passo in una nuova direzione, quale che fosse. Il mondo continuava a girare: soltanto io restavo fermo. In autunno ogni cosa parve assumere sembianze desolate, i colori svanivano rapidamente davanti agli occhi. La luce del sole, l'odore dell'erba, il minimo sgocciolio di pioggia: tutto mi dava sui nervi.
Quante volte di notte sognai di montare su un treno?
Sempre lo stesso sogno. Un treno a lunga percorrenza, un notturno impregnato di fumo di sigarette e puzza di toilette. Così affollato che si faceva fatica a stare in piedi. I sedili incrostati di vomito. L'unica cosa che potevo fare era scendere alla prima stazione. Che non era affatto una stazione. Solo un campo, in cui a perdita d'occhio non si vedeva la luce di una casa. Niente capostazione, niente orologio, niente cartelloni degli orari, niente. Questo, sognavo.
Ricordo ancora quel pomeriggio tremendo. Il venticinque di novembre. Le foglie di gingko abbattute dalla pioggia avevano trasformato i sentieri in letti di fiume ormai asciutti e dorati. Eravamo usciti per una passeggiata, le mani in tasca. Non si sentiva un rumore, a parte lo scrocchiare delle foglie sotto i nostri piedi e le grida acute degli uccelli.
« Mi dici a che stai pensando? » chiese lei d'un tratto.
« A niente in particolare. »
Continuò a camminare per un po', poi si sedette sul bordo del sentiero e inspirò una boccata di fumo.
« Fai sempre brutti sogni? »
« Diciamo spesso. Di solito macchinette automatiche che mi mangiano gli spiccioli. »
Lei rise e mi appoggiò una mano sul ginocchio, per poi toglierla subito.
« Non hai voglia di parlarne, vero? »
« Non oggi. Ho qualche difficoltà con le parole. »
Lasciò cadere la sigaretta mezzo fumata per terra, quindi la spiaccicò con cura sotto il tacco della scarpa. « Non riesci a dire quello che vorresti, è questo che intendi? »
« Non lo so », risposi.
Due uccelli si sollevarono da qualche parte lì vicino e subito furono inghiottiti dal cielo senza nuvole. Restammo a guardarli finché uscirono dal nostro campo visivo. Poi lei prese un rametto e cominciò a tracciare disegni indecifrabili nella polvere.
« A volte a letto con te mi sento veramente sola. »
« Se è così mi dispiace. »
« Non è colpa tua. Non è come se stessi pensando a un'altra ragazza mentre stiamo insieme... E poi, che differenza farebbe? È solo che... » Si interruppe a metà della frase, e lentamente disegnò tre linee nella polvere.
« Vedi, non è che voglia lasciarti fuori », ripresi io dopo un attimo. « Non so che cosa mi prende. Ti giuro che faccio di tutto per capire. Non mi piace gonfiare le cose, ma non voglio nemmeno fingere che non esistano. Ho bisogno di tempo. »
« Quanto tempo? »
« Che ne so? Un anno. Forse dieci... »
Lanciò via il rametto e si alzò, scrollandosi di dosso i fili d'erba secca. « Dieci anni? Non è come dire un'eternità? »
« Forse », risposi.
Passeggiammo tra i boschi fino al campus, ci sedemmo in sala studenti e biascicammo i nostri hot dog. Erano le due del pomeriggio, e sullo schermo del televisore continuava ad apparire la faccia di Yukio Mishima. La levetta del volume era rotta, non si capiva bene che cosa dicevano, e comunque non ce ne importava. Un altro studente montò su una sedia e prese ad armeggiare con l'audio, ma alla fine ci rinunciò e uscì dalla sala.
« Ti voglio », dissi.
« Okay », rispose.
Così risprofondammo le mani nelle tasche dei cappotti e lentamente ci avviammo verso casa.
Mi svegliai e la trovai che singhiozzava piano piano, il corpo snello scosso dai tremiti sotto le coperte. Alzai il riscaldamento e controllai la sveglia: le due del mattino. Una luna bianca da mozzare il fiato brillava proprio al centro del cielo.
Aspettai che smettesse di piangere, poi misi su il bollitore del tè. Una bustina in due. Niente zucchero, niente limone.
Tè liscio. Accesi due sigarette e gliene porsi una.
Lei inalò e sputò fuori la boccata di fumo, tre volte in rapida successione, quindi cominciò a tossire.
« Dimmi una cosa. Hai mai pensato di uccidermi? » chiese.
« Ucciderti? »
« Sì. »
« E perché mi fai una domanda del genere? »
La sigaretta stretta fra le labbra, si sfregò la palpebra con la punta di un dito.
« Non c'è nessun motivo particolare. »
« Mai. Assolutamente mai », dissi allora.
« Sicuro? »
« Sicuro. Perché dovrei volerti uccidere? »
« Oh, be', immagino tu abbia ragione », rispose. « E che per un attimo ho pensato che forse non sarebbe così brutto essere ammazzata da qualcuno. Tipo mentre dormo. »
« Spiacente, ma non sono quel genere di persona. »
« No? »
« Non che io sappia. »
Rise. Spense la sigaretta, si scolò il resto del tè, quindi tornò ad accendere.
« Io vivrò fino a venticinque anni », annunciò. « Poi morirò. »
Otto anni dopo, in luglio, moriva a ventisei.
Resta tuttavia il fatto che, come anche l'esame più superficiale delle prove basterebbe a dimostrare, aveva una propensione ad andare a letto praticamente con chiunque.
Una volta, e soltanto una, la interrogai su questi parametri. « Be', se proprio devo dire... » esordi. Passarono un trenta secondi buoni di riflessione. « Non è come fa di solito la gente. A volte è l'idea in sé che mi eccita. Ma, sai, forse è solo che mi va di conoscere un mucchio di persone. O forse è così che riesco a farmi un quadro delle cose. »
« Andandoci a letto insieme? »
« Aha. »
Fu il mio turno di pensarci sopra.
« E dimmi, ti ha aiutato a trovare il senso della vita? »
« Un pochino » ,rispose.
Da quell'inverno fino a tutta l'estate non la rividi quasi.
L'università venne occupata e chiusa più volte, e comunque stavo attraversando un periodo di problemucci personali.
Quando, l'autunno successivo, mi ripresentai al caffè, la clientela era completamente cambiata e la sua fu l'unica faccia che riconobbi. Il rock duro c'era ancora, ma dall'aria era scomparsa ogni traccia di vita. Restavano solo lei e il caffè cattivo. Mi lasciai cadere di peso su una sedia, e cominciammo a parlare dei vecchi frequentatori del bar.
Avevano mollato quasi tutti: uno si era suicidato, un altro volatilizzato. Cose così.
« E tu, che hai fatto in quest'ultimo anno? » mi chiese.
« Di tutto un po'. »
« E sei più saggio? »
« Un pochino. »
Quella sera andai a letto con lei per la prima volta.
Della sua storia non so quasi nulla. E quello che so potrebbe avermelo raccontato qualcun altro; o forse fu lei, a dirmelo, quella notte mentre eravamo a letto insieme. Durante il primo anno di liceo c'era stato un grosso litigio con il padre ed era scappata da casa (e anche da scuola.) Credo
sia tutto. Dove vivesse di preciso che cosa facesse per campare, non lo sapeva nessuno.
Passava le sue giornate nei bar dove mettevano musica rock, beveva una tazza di caffè via l'altra, fumava come un turco e sfogliava i suoi libri, in attesa di qualcuno che si facesse avanti per pagarle il conto e le sigarette (cifrette nient'affatto trascurabili, per noi spiantati dell'epoca), qualcuno con cui poi finiva immancabilmente a letto.
Ecco. Questo è tutto quel che so di lei.
Dall'autunno di quell'anno fino alla primavera seguente, ogni martedì sera si presentava al mio appartamento fuori Mitaka. Spazzolava la parca cena che ero riuscito a mettere insieme, mi riempiva i portacenere e faceva l'amore con me tenendo la radio sintonizzata a tutto volume su
un programma rock. Il mercoledì mattina ci svegliavamo e andavamo a fare una passeggiata per i boschi, arrivavamo fino al campus universitario e mangiavamo in mensa. Nel pomeriggio ci facevamo una tazza di caffè annacquato in sala studenti e, se il tempo era bello, ci allungavamo sull'erba a guardare il cielo.
Lo chiamava il nostro « picnic del mercoledì pomeriggio».
« Ogni volta che veniamo qui mi sembra di fare un picnic. »
« Un picnic? Sul serio? »
« Be', i prati si stendono all'infinito, e tutti sembrano così felici... »
Poi si tirava a sedere e prima di accendersi una sigaretta consumava due o tre fiammiferi.
« Il sole sorge, e poi comincia a tramontare. Gente che viene, gente che va. Il tempo che vola. Non è proprio come nei picnic? »
Allora avevo ventun anni, quasi ventidue. Nessuna prospettiva di laurearmi in fretta, ma ancora nessuna ragione per mollare. Intrappolato nel più ambiguo e deprimente dei paesaggi. Così mi sentivo da mesi, incapace di muovere un passo in una nuova direzione, quale che fosse. Il mondo continuava a girare: soltanto io restavo fermo. In autunno ogni cosa parve assumere sembianze desolate, i colori svanivano rapidamente davanti agli occhi. La luce del sole, l'odore dell'erba, il minimo sgocciolio di pioggia: tutto mi dava sui nervi.
Quante volte di notte sognai di montare su un treno?
Sempre lo stesso sogno. Un treno a lunga percorrenza, un notturno impregnato di fumo di sigarette e puzza di toilette. Così affollato che si faceva fatica a stare in piedi. I sedili incrostati di vomito. L'unica cosa che potevo fare era scendere alla prima stazione. Che non era affatto una stazione. Solo un campo, in cui a perdita d'occhio non si vedeva la luce di una casa. Niente capostazione, niente orologio, niente cartelloni degli orari, niente. Questo, sognavo.
Ricordo ancora quel pomeriggio tremendo. Il venticinque di novembre. Le foglie di gingko abbattute dalla pioggia avevano trasformato i sentieri in letti di fiume ormai asciutti e dorati. Eravamo usciti per una passeggiata, le mani in tasca. Non si sentiva un rumore, a parte lo scrocchiare delle foglie sotto i nostri piedi e le grida acute degli uccelli.
« Mi dici a che stai pensando? » chiese lei d'un tratto.
« A niente in particolare. »
Continuò a camminare per un po', poi si sedette sul bordo del sentiero e inspirò una boccata di fumo.
« Fai sempre brutti sogni? »
« Diciamo spesso. Di solito macchinette automatiche che mi mangiano gli spiccioli. »
Lei rise e mi appoggiò una mano sul ginocchio, per poi toglierla subito.
« Non hai voglia di parlarne, vero? »
« Non oggi. Ho qualche difficoltà con le parole. »
Lasciò cadere la sigaretta mezzo fumata per terra, quindi la spiaccicò con cura sotto il tacco della scarpa. « Non riesci a dire quello che vorresti, è questo che intendi? »
« Non lo so », risposi.
Due uccelli si sollevarono da qualche parte lì vicino e subito furono inghiottiti dal cielo senza nuvole. Restammo a guardarli finché uscirono dal nostro campo visivo. Poi lei prese un rametto e cominciò a tracciare disegni indecifrabili nella polvere.
« A volte a letto con te mi sento veramente sola. »
« Se è così mi dispiace. »
« Non è colpa tua. Non è come se stessi pensando a un'altra ragazza mentre stiamo insieme... E poi, che differenza farebbe? È solo che... » Si interruppe a metà della frase, e lentamente disegnò tre linee nella polvere.
« Vedi, non è che voglia lasciarti fuori », ripresi io dopo un attimo. « Non so che cosa mi prende. Ti giuro che faccio di tutto per capire. Non mi piace gonfiare le cose, ma non voglio nemmeno fingere che non esistano. Ho bisogno di tempo. »
« Quanto tempo? »
« Che ne so? Un anno. Forse dieci... »
Lanciò via il rametto e si alzò, scrollandosi di dosso i fili d'erba secca. « Dieci anni? Non è come dire un'eternità? »
« Forse », risposi.
Passeggiammo tra i boschi fino al campus, ci sedemmo in sala studenti e biascicammo i nostri hot dog. Erano le due del pomeriggio, e sullo schermo del televisore continuava ad apparire la faccia di Yukio Mishima. La levetta del volume era rotta, non si capiva bene che cosa dicevano, e comunque non ce ne importava. Un altro studente montò su una sedia e prese ad armeggiare con l'audio, ma alla fine ci rinunciò e uscì dalla sala.
« Ti voglio », dissi.
« Okay », rispose.
Così risprofondammo le mani nelle tasche dei cappotti e lentamente ci avviammo verso casa.
Mi svegliai e la trovai che singhiozzava piano piano, il corpo snello scosso dai tremiti sotto le coperte. Alzai il riscaldamento e controllai la sveglia: le due del mattino. Una luna bianca da mozzare il fiato brillava proprio al centro del cielo.
Aspettai che smettesse di piangere, poi misi su il bollitore del tè. Una bustina in due. Niente zucchero, niente limone.
Tè liscio. Accesi due sigarette e gliene porsi una.
Lei inalò e sputò fuori la boccata di fumo, tre volte in rapida successione, quindi cominciò a tossire.
« Dimmi una cosa. Hai mai pensato di uccidermi? » chiese.
« Ucciderti? »
« Sì. »
« E perché mi fai una domanda del genere? »
La sigaretta stretta fra le labbra, si sfregò la palpebra con la punta di un dito.
« Non c'è nessun motivo particolare. »
« Mai. Assolutamente mai », dissi allora.
« Sicuro? »
« Sicuro. Perché dovrei volerti uccidere? »
« Oh, be', immagino tu abbia ragione », rispose. « E che per un attimo ho pensato che forse non sarebbe così brutto essere ammazzata da qualcuno. Tipo mentre dormo. »
« Spiacente, ma non sono quel genere di persona. »
« No? »
« Non che io sappia. »
Rise. Spense la sigaretta, si scolò il resto del tè, quindi tornò ad accendere.
« Io vivrò fino a venticinque anni », annunciò. « Poi morirò. »
Otto anni dopo, in luglio, moriva a ventisei.
Copyright (c) 1982 by Haruki Murakami
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