mercoledì 17 aprile 2013

scalabilità planetaria del Tao

La Luna vista dalla Terra - Ron Miller
Mercurio al posto della Luna - Ron Miller
Venere al posto della Luna - Ron Miller
Marte al posto della Luna - Ron Miller
Urano al posto della Luna - Ron Miller
Nettuno al posto della Luna - Ron Miller
Saturno al posto della Luna - Ron Miller
Giove al posto della Luna - Ron Miller
RON MILLER














scalabilità stellare del Tao

martedì 16 aprile 2013

il quarto Tao


Gurdjieff: In verità, soltanto l’uomo che possieda i quattro corpi completamente sviluppati può essere chiamato Uomo nel pieno senso della parola. Così, l’uomo compiuto possiede numerose proprietà che l’uomo ordinario non possiede. Una di queste proprietà è l’immortalità. Tutte le religioni e tutti gli insegnamenti antichi contengono l’idea che con l’acquisizione del quarto corpo l’uomo acquista l’immortalità; e tutte indicano delle vie per acquisire il quarto corpo, ossia l’immortalità.

In relazione a ciò, alcuni insegnamenti paragonano l’uomo ad una casa di quattro stanze. L’uomo vive in una sola, la più piccola e la più povera di tutte, senza supporre minimamente, fino a quando non glielo si dice, l’esistenza delle altre, che sono piene di tesori. Quando egli ne sente parlare, incomincia a cercare le chiavi di queste stanze, e specialmente della quarta, la più importante. E quando un uomo ha trovato il mezzo di penetrarvi, diventa realmente il padrone della sua casa, perchè è soltanto allora che la casa gli appartiene completamente e per sempre.

La quarta stanza dà all’uomo l’immortalità e tutti gli insegnamenti religiosi si sforzano di indicargli il cammino verso di essa. Vi è un grandissimo numero di strade, più o meno lunghe, più o meno dure, ma tutte, senza eccezione, conducono o cercano di condurre in una stessa direzione, che è quella dell’immortalità.

L’immortalità non è una proprietà con la quale l’uomo nasce, ma una proprietà che può essere acquisita. Tutte le vie che conducono all’immortalità, quelle che sono generalmente conosciute e le altre, possono essere ripartite in tre categorie:

1. La via del fachiro.
2. La via del monaco.
3. La via dello yogi.

La via del fachiro è quella della lotta con il corpo fisico, è lunga, difficile e incerta. Il fachiro si sforza di sviluppare la volontà fisica, il potere sul corpo. Egli vi riesce attraverso terribili sofferenze, torturando il corpo. Tutta la via del fachiro è fatta di esercizi fisici incredibilmente penosi. Egli sta in piedi, nella medesima posizione, senza un movimento, per ore, giorni, mesi o anni; oppure siede con le braccia tese, su un nudo sasso, al sole, alla pioggia, alla neve; oppure si infligge il supplizio del fuoco o quello del formicaio in cui egli tiene le gambe nude, e così via. Se non cade ammalato o non muore, si sviluppa in lui ciò che può essere chiamato volontà fisica ed egli raggiunge allora la possibilità di formare il quarto corpo. Ma le altre sue funzioni, emozionali e intellettuali, rimangono non sviluppate. Egli ha conquistato la volontà, ma non possiede niente cui applicarla, non può farne uso per acquistare la conoscenza o perfezionare se stesso. In generale, è troppo vecchio per cominciare un lavoro nuovo.

Ma dove vi sono scuole di fachiri, si trovano pure scuole di yogi.
Generalmente gli yogi non perdono di vista i fachiri. E allorché‚ un fachiro raggiunge ciò a cui aspirava, prima di essere troppo vecchio, essi lo prendono in una delle loro scuole, dove per prima cosa lo curano e ricreano in lui il potere di movimento, dopo di che incominciano ad istruirlo. Un fachiro deve imparare di nuovo a parlare e a camminare come un bimbo piccolo. Ma egli possiede ora una volontà che ha superato difficoltà incredibili e che potrà aiutarlo a superare le difficoltà che l'attendono ancora nella seconda parte del suo cammino, allorché‚ si tratterà di sviluppare le sue funzioni intellettuali ed emozionali.

Non potete immaginarvi le prove alle quali si sottomettono i fachiri.
Non so se voi abbiate mai visto veri fachiri. Io ne ho incontrati molti; mi ricordo di uno di essi che viveva nel cortile interno di un tempio indiano; ho perfino dormito al suo fianco. Giorno e notte, per vent'anni, egli si era tenuto sulla punta delle dita dei piedi e delle mani. Non era più capace di raddrizzarsi ne‚ di spostarsi. I suoi discepoli lo portavano a braccia, lo conducevano al fiume dove lo lavavano come un oggetto. Ma un tale risultato non si ottiene in un giorno. Pensate a tutto ciò che aveva dovuto superare, alle torture che aveva dovuto subire per raggiungere quel grado.

E un uomo non diventa fachiro per sentimento religioso, o perché‚ egli comprenda le possibilità e i risultati di questa via. In tutti i paesi d'Oriente dove esistono fachiri, il popolino ha l'usanza di votare ai fachiri un ragazzo nato dopo qualche avvenimento felice. Accade anche che i fachiri adottino degli orfani o acquistino i figli di povera gente. Questi bambini diventano loro allievi e li imitano di buon grado, o vi sono costretti; alcuni lo fanno solo esteriormente, ma altri col tempo diventano realmente fachiri.

Si aggiunga che altri seguono questa via semplicemente per essere stati colpiti dallo spettacolo di qualche fachiro. Accanto a tutti i fachiri che si possono vedere nei templi, si trovano persone che li imitano, sedute o in piedi, nella stessa posizione. Costoro non lo fanno a lungo, certamente, ma a volte per parecchie ore. E accade anche che un uomo, entrato per caso in un tempio in un giorno di festa, dopo aver cominciato ad imitare qualche fachiro che l'aveva particolarmente impressionato, non ritorni a casa mai più ma si aggiunga alla folla dei suoi discepoli; più tardi, col passare del tempo diventerà anche lui un fachiro. Capirete che io in questi casi non do più alla parola 'fachiro' il suo senso proprio. In Persia, la parola fachiro indica semplicemente un mendicante; in India. i giocolieri, i saltimbanchi sono soliti chiamare se stessi fachiri. Gli europei, soprattutto gli europei istruiti, danno molto spesso il nome di fachiro agli yogi come pure a monaci erranti di diversi ordini.

Ma in realtà la via del fachiro, la via del monaco e la via dello yogi sono completamente differenti. Non ho parlato finora che dei fachiri.

Questa è la prima via.

La seconda è quella del monaco.
È la via della fede, del sentimento religioso e del sacrificio. Un uomo che non abbia fortissime emozioni religiose e una immaginazione religiosa molto intensa non può diventare un monaco nel vero senso della parola. Pure la via del monaco è molto dura e molto lunga. Il monaco passa degli anni, decine di anni a lottare contro se stesso, ma tutto il suo lavoro è concentrato sul secondo corpo, ossia sui sentimenti. Sottomettendo tutte le altre emozioni a una sola emozione, la fede, egli sviluppa in se stesso l'unità, la volontà sulle emozioni. Ma il suo corpo fisico e le sue capacità intellettuali possono restare non sviluppate. Per essere in grado di servirsi di ciò che egli avrà raggiunto, dovrà coltivarsi fisicamente e intellettualmente. Questo non potrà essere condotto a buon fine se non mediante nuovi sacrifici, nuove austerità, nuove rinunce. Un monaco deve ancora diventare uno yogi e un fachiro. Rarissimi sono coloro che arrivano così lontano; più rari sono ancora coloro che superano tutte le difficoltà. La maggior parte muoiono prima o non diventano monaci che in apparenza.

La terza via è quella dello yogi.
É la via della conoscenza, la via dell'intelletto. Lo yogi riesce a sviluppare il suo intelletto, ma il suo corpo e le sue emozioni restano da sviluppare e, come il fachiro ed il monaco, egli è incapace di trarre profitto da ciò che ha realizzato. Egli sa tutto, ma non può fare nulla. Per diventare capace di fare deve conquistare il dominio sul suo corpo e sulle sue emozioni. Per riuscirvi, deve rimettersi al lavoro ed egli non otterrà alcun risultato se non con degli sforzi prolungati. Però in questo caso ha il vantaggio di comprendere la sua posizione, di conoscere ciò che gli manca, ciò che deve fare e la direzione da seguire. Ma, come sulla via del fachiro e del monaco, rarissimi sono coloro che acquistano una tale conoscenza sulla via dello yogi, ossia raggiungono il livello in cui un uomo può sapere dove va. La maggior parte si arrestano ad un certo grado e non vanno oltre.

Le vie si differenziano l'una dall'altra anche nella loro relazione con il maestro o guida spirituale.

Sulla via del fachiro un uomo non ha maestro nel vero senso di questa parola. Il maestro in questo caso non insegna, serve semplicemente da esempio. Il lavoro dell'allievo consiste nell'imitare il maestro.

L'uomo che segue la via del monaco ha un maestro, e una parte dei suoi doveri, una parte del suo compito, è di avere nel suo maestro una fede assoluta, egli deve sottomettersi assolutamente a lui, in obbedienza. Ma l'essenziale sulla via del monaco è la fede in Dio, l'amore di Dio, gli sforzi ininterrotti per obbedire a Dio e servirlo, anche se nella sua comprensione dell'idea di Dio e del servizio di Dio può esservi una grande parte di soggettività e molte contraddizioni.

Sulla via dello yogi senza un maestro non si può fare nulla e non si deve fare nulla. L'uomo che abbraccia questa via deve, all'inizio, imitare il suo maestro come il fachiro e credere in lui come il monaco. Ma in seguito diviene gradualmente il maestro di se stesso. Egli impara i metodi del suo maestro e si esercita gradualmente ad applicarli a se stesso.

Ma tutte le vie, la via del fachiro come le vie del monaco e dello yogi hanno un punto comune: tutte incominciano da ciò che vi è di più difficile, un cambiamento di vita totale, una rinuncia a tutto ciò che è di questo mondo. Un uomo che ha una casa, una famiglia, deve abbandonarle, deve rinunciare a tutti i piaceri, attaccamenti e doveri della vita, e partire per il deserto, entrare in un monastero o in una scuola di yogi. Fin dal primo giorno, dai primi passi sulla via egli deve morire al mondo; soltanto così egli può sperare di raggiungere qualcosa su una di queste vie.

In una vita ordinaria, per quanto colma di interessi filosofici, scientifici, religiosi o sociali, non vi è nulla e non può esservi nulla che offra le possibilità contenute nelle vie. Infatti, esse conducono o potrebbero condurre l'uomo all'immortalità. La vita mondana, anche la più riuscita, conduce alla morte e non potrebbe condurre a nient'altro. L'idea delle vie non può essere compresa, se si ammette la possibilità di un'evoluzione dell'uomo senza il loro aiuto.

Per cogliere l’essenza di questo insegnamento, è indispensabile comprendere che le vie sono gli unici metodi che possono garantire lo sviluppo delle possibilità nascoste dell’uomo. Ciò mostra d’altronde come un tale sviluppo sia raro e difficile. Lo sviluppo di queste possibilità non è una legge. La legge per l’uomo è una esistenza nel cerchio delle influenze meccaniche., è lo stato di "uomo macchina". La via dello sviluppo delle possibilità nascoste è una via contro la natura, contro Dio. Ciò spiega le difficoltà e il carattere esclusivo delle vie. Esse sono ardue e strette. Ma al tempo stesso nulla potrebbe essere raggiunto senza di esse. Nell’oceano della vita ordinaria, e specialmente della vita moderna, le vie sono un fenomeno piccolo, appena percettibile, che, dal punto di vista della vita stessa, non ha la minima ragione di essere. Ma questo piccolo fenomeno contiene in se stesso tutto ciò di cui l’uomo può disporre per lo sviluppo delle sue possibilità nascoste. Le vie si oppongono alla vita di tutti i giorni, basata su altri principî e assoggettata ad altre leggi. In ciò consiste il loro potere e il loro significato. In una vita ordinaria, per quanto colma di interessi filosofici, scientifici, religiosi o sociali, non vi è nulla e non può esservi nulla che offra le possibilità contenute nelle vie. Infatti, esse conducono o potrebbero condurre l’uomo all’immortalità. La vita mondana, anche la più riuscita, conduce alla morte e non potrebbe condurre a nient’altro. L’idea delle vie non può essere compresa, se si ammette la possibilità di una evoluzione dell’uomo senza il loro aiuto.

Come regola generale, è duro per un uomo rassegnarsi a quest'idea; essa gli pare esagerata, ingiusta e assurda. Egli ha una povera comprensione del senso della parola 'possibilità. Si immagina che, se vi sono delle possibilità in lui, debbano svilupparsi e che debbano pur esserci dei mezzi di sviluppo alla sua portata. Da un totale rifiuto di riconoscere in se stesso qualsiasi genere di possibilità, l'uomo, in generale, passa immediatamente a un'esigenza imperiosa del loro sviluppo inevitabile. É difficile per lui abituarsi all'idea che non soltanto le sue possibilità possono restare al loro stadio attuale di sottosviluppo, ma che esse possono atrofizzarsi definitivamente e che d'altra parte il loro sviluppo esige da lui sforzi prodigiosi e perseveranti. In generale, se noi consideriamo le persone che non sono né fachiri, né monaci, né yogi, e delle quali possiamo affermare con sicurezza che non lo saranno mai, siamo in grado di affermare con certezza assoluta che le loro possibilità non possono svilupparsi e non saranno mai sviluppate. É indispensabile persuadersene profondamente per comprendere ciò che sto per dire.

Nelle condizioni ordinarie della vita civilizzata, la situazione di un uomo, anche intelligente, che cerca la conoscenza, è senza speranza, poiché‚ egli non ha la minima possibilità di trovare attorno a se‚ qualcosa che somigli ad una scuola di fachiri o ad una scuola di yogi; quanto alle religioni dell'occidente, esse sono degenerate a tal punto che da molto tempo non vi è più nulla di vivente in esse. Infine dall'occultismo o dallo spiritismo non c'è altro da aspettarsi che qualche ingenua esperienza.

E la situazione sarebbe veramente disperata se non esistesse un'altra possibilità, quella di una quarta via.

La quarta via non richiede che ci si ritiri dal mondo, non esige la rinuncia a tutto ciò che formava la nostra vita. Essa comincia molto più lontano che non la via dello yogi. Ciò significa che bisogna essere preparati per impegnarsi sulla quarta via e che questa preparazione deve essere acquisita nella vita ordinaria, essere molto seria e abbracciare parecchi aspetti differenti. Inoltre un uomo che vuole seguire la quarta via deve riunire nella sua vita condizioni favorevoli al lavoro, o che in ogni caso non lo rendano impossibile. Infatti, bisogna convincersi che sia nella vita esteriore che nella vita interiore di un uomo, certe condizioni possono costituire per la quarta via barriere insormontabili. Aggiungiamo che questa via, contrariamente a quella del fachiro, del monaco e dello yogi, non ha una forma definita. Prima di tutto essa deve essere trovata. É la prima prova. Ed è difficile, poiché‚ la quarta via è ben lontana dall'essere conosciuta quanto le altre tre vie tradizionali. C'è molta gente che non ne ha mai sentito parlare ed altri che negano semplicemente la sua esistenza o anche la sua possibilità.

Tuttavia, l'inizio della quarta via è ben più facile dell'inizio delle vie del fachiro, del monaco e dello yogi. É possibile seguire la quarta via e lavorare su di essa rimanendo nelle condizioni abituali di vita e continuando il lavoro usuale, senza rompere le relazioni che si avevano con la gente, senza abbandonare nulla. Anzi, le condizioni di vita nelle quali un uomo si trova quando inizia il lavoro - dove il lavoro, per così dire, lo sorprende - sono le migliori possibili per lui, perlomeno all'inizio. Infatti, queste condizioni gli sono naturali. Esse sono quell'uomo stesso, poiché‚ la vita di un uomo e le sue condizioni corrispondono a ciò che egli è. La vita le ha create sulla sua misura; di conseguenza ogni altra condizione sarebbe artificiale e il lavoro non potrebbe, in questo caso, toccare contemporaneamente tutti i lati del suo essere.

Così la quarta via tocca tutti i lati dell’essere umano simultaneamente. È il lavoro sulle tre camere contemporaneamente. Il fachiro lavora sulla prima camera, il monaco sulla seconda, lo yogi sulla terza. Quando raggiungono la quarta camera, il fachiro, il monaco e lo yogi lasciano dietro di sè molte cose incompiute e non possono fare uso di ciò che hanno raggiunto, poichè non sono padroni di tutte le loro funzioni. Il fachiro è padrone del suo corpo, ma non delle emozioni, né dai pensieri; il monaco è padrone delle sue emozioni, ma non del corpo, né del suo pensiero; lo yogi è padrone del suo pensiero, ma non del corpo, né delle emozioni.

La quarta via differisce dunque dalle altre in quanto la sua principale richiesta è una richiesta di comprensione. L'uomo non deve fare nulla senza comprendere - salvo a titolo di esperienza - sotto il controllo e la direzione del suo maestro. Più un uomo comprenderà quello che fa, più i risultati dei suoi sforzi saranno validi. É un principio fondamentale della quarta via. I risultati ottenuti nel lavoro sono proporzionali alla coscienza che si ha di questo lavoro. La fede non è richiesta su questa via; al contrario, la fede di qualsiasi tipo costituisce un ostacolo. Sulla quarta via un uomo deve assicurarsi da se‚ la verità di ciò che gli viene detto. E fin quando non avrà acquisito questa certezza, non deve fare nulla.

Il metodo della quarta via è il seguente: mentre si lavora sul corpo fisico, bisogna lavorare simultaneamente sul pensiero e sulle emozioni; lavorando sul pensiero, bisogna lavorare sul corpo fisico e sulle emozioni; mentre si lavora sulle emozioni, occorre lavorare sul pensiero e sul corpo fisico. Ciò che permette di riuscire è la possibilità, nella quarta via, di fare uso di un sapere particolare, inaccessibile nelle vie del fachiro, del monaco e dello yogi. Questo sapere rende possibile un lavoro simultaneo nelle tre direzioni. Tutta una serie di esercizi paralleli sui tre piani: fisico, mentale ed emozionale, servono a questo scopo.
Inoltre, nella quarta via è possibile individualizzare il lavoro di ciascuno; vale a dire, ogni persona deve fare solo ciò che gli è necessario e nulla che sia inutile per lui. Infatti, la quarta via fa a meno di tutto il superfluo che si è mantenuto per tradizione nelle altre vie.

Così, allorché‚ un uomo raggiunge la volontà mediante la quarta via, egli può servirsene, poiché‚ ha acquistato il controllo di tutte le sue funzioni fisiche, emozionali ed intellettuali. Egli ha risparmiato per giunta molto tempo con questo lavoro simultaneo e parallelo sui tre lati del suo essere.

La quarta via è talvolta chiamata la via dell’uomo astuto. "L’uomo astuto" conosce un segreto che il fachiro, il monaco e lo yogi non conoscono. In che modo "l’uomo astuto" abbia appreso questo segreto, non si sa. Forse l’ha trovato in qualche vecchio libro, forse l’ha ereditato, forse l’ha comperato, forse l’ha rubato a qualcuno. Fa lo stesso. L’uomo astuto conosce il segreto, e con il suo aiuto supera il fachiro, il monaco, lo yogi.

"Il fachiro è, tra i quattro, colui che opera nella maniera più grossolana; sa pochissimo e comprende pochissimo. Supponiamo che egli riesca, dopo un mese di intense torture, a sviluppare una certa energia, una certa sostanza che produca in lui determinati cambiamenti. Egli lo fa assolutamente all’oscuro, ad occhi chiusi, non conoscendo ne lo scopo, ne i metodi, ne i risultati, semplicemente per imitazione.

Il monaco sa un po’ meglio ciò che vuole; è guidato dal sentimento religioso, dalla tradizione religiosa, da un desiderio di compiutezza, di salvezza; egli ha fede nel maestro che gli dice ciò che deve fare e crede che i suoi sforzi ed i suoi sacrifici "piacciano a Dio". Supponiamo che in una settimana di digiuni, di continue preghiere, di privazioni e di penitenze, riesca a raggiungere ciò che il fachiro non aveva potuto sviluppare in sè che in un mese di torture.

Lo yogi ne sa molto di più. Sa ciò che vuole, sa perchè lo vuole, sa come può ottenerlo. Egli sa per esempio che, per arrivare al suo scopo, deve sviluppare in sè una certa sostanza. Egli sa che questa sostanza può essere prodotta in un giorno mediante un certo tipo di esercizio mentale o mediante una concentrazione intellettuale. Così per un giorno intero, senza permettersi una sola idea estranea, tiene l’attenzione fissa sopra questo esercizio ed ottiene ciò di cui ha bisogno. In questa maniera uno yogi riesce a raggiungere in un giorno la stessa cosa che il monaco raggiunge in una settimana, e il fachiro in un mese.

Bisogna ancora notare che oltre a queste vie giuste e legittime, vi sono anche vie artificiali che non danno che risultati temporanei e vie decisamente sbagliate che possono anche dare risultati permanenti, ma nefasti. Pure su queste vie l’uomo cerca la chiave della quarta stanza e qualche volta la trova. Ma ciò che trova nella quarta stanza, non ci è dato sapere.

Accade anche che la porta della quarta stanza venga aperta artificialmente con un grimaldello e in entrambi i casi è possibile che la stanza sia vuota".

Cimetiere d'Avon, Avon, Departement de Seine-et-Marne, Île-de-France, France




Gurdjieff – Il suo insegnamento oggi

asimmetria rotazionale del Tao galattico

Paul Friedlander, Spinning Cosmos

venerdì 12 aprile 2013

rappresentazione del Tao

H. Kopp-Delaney, Surreal Dimension
La revisione della nozione centrale di rappresentazione dei sistemi cognitivi inizia dalla considerazione che questi sono caratterizzati dalla loro chiusura operazionale, in cui delineare dove finisca l'ambiente (il mondo) esterno rappresentato e dove comincino i processi interni del sistema cognitivo che lo rappresenta è difficilmente definibile. Questi sistemi non operano sulla base della rappresentazione ma disvelano (enact) un mondo sulla base di un dominio di distinzioni che è inseparabile dalla struttura "incarnata" del sistema cognitivo:

Steps to a Middle Way

The Cartesian Anxiety

Representation Revisited
In the discussion of cognitivism we distinguished between two senses of representation, which we now need to recall. On the one hand, there is the relatively uncontroversial notion of representation as construal: cognition always consists in construing or representing the world a certain way. On the other hand, there is the much stronger notion that this feature of cognition is to be explained by the hypothesis that a system acts on the basis of internal representations. Since it might seem that these two ideas amount to the same thing, we need to refine our distinction somewhat.
We can begin by noting a relatively weak and uncontroversial sense of representation. This sense is purely semantic: It refers to anything that can be interpreted as being about something. This is the sense of representation as construal, since nothing is about something else without construing it as being some way. A map, for example, is about some geographical area; it represents certain features of the terrain and so construes that terrain as being a certain way. Similarly, words on a page represent sentences in a language, which may in tum represent or be about still other things. This sense of representation can be made even more precise. If, for example, our concern happens to be with languages in a more formal setting, we can say that the statements of a language represent their conditions of satisfaction. For example, the statement "snow is white"-taken literally is satisfied if snow is white; the statement "pick up your shoes"again, taken literally - is satisfied if the shoes are picked up by the person being addressed.
This sense of representation is weak because it need not carry any strong epistemological or ontological commitments. Thus it is perfectly acceptable to speak of a map representing the terrain without worrying about such things as how maps get their meaning. It is also perfectly acceptable to think of a statement as representing some set of conditions without making further assumptions about whether language as a whole works this way or whether there really are facts in the world separate from language that can then be re-presented by the sentences of the language. Or we can even talk about experiential representations, such as the image I have of my brother, without making any further assumptions about how this image arose in the first place. In other words, this weak sense of representation is pragmatic; we use it all the time without worry.
The obviousness of such an idea, however, is quickly transformed into a much stronger sense of representation that does carry quite heavy ontological and epistemological commitments. This strong sense arises when we generalize on the basis of the weaker idea to construct a full-fledged theory of how perception, language, or cognition in general must work. The ontological and epistemological commitments are basically twofold: We assume that the world is pregiven, that its features can be specified prior to any cognitive activity. Then to explain the relation between this cognitive activity and a pregiven world, we hypothesize the existence of mental representations inside the cognitive system (whether these be images, symbols, or subsymbolic patterns of activity distributed across a network does not matter for the moment). We then have a full-fledged theory that says (1) the world is pregiven; (2) our cognition is of this world-even if only to a partial extent, and (3) the way in which we cognize this pregiven world is to represent its features and then act on the basis of these representations.
We must, then, return to our earlier metaphor, the idea of a cognitive agent that is parachuted into a pregiven world. This agent will survive only to the extent that it is endowed with a map and learns to act on the basis of this map. In the cognitivist version of this story, the map is an innately specified system of representations-sometimes called a "language of thought" -whereas learning to employ this map is the task of ontogeny.
Many cognitive scientists will object that we have presented a caricature. Are we not presupposing a static conception of representation, one that overlooks the rich detail of the inner structure of a cognitive system and unjustifiably construes a representation as merely a mirror? Is it not well known, for example, that visual perception is considered to be a result of mapping the physical patterns of energy that stimulate the retina into representations of the visual scene, which are then used to make inferences and eventually to produce a perceptual judgment? Perception is seen as an active process of hypothesis formation, not as the simple mirroring of a pregiven environment.
This objection, though somewhat fair, misses the point. Our point is not to caricature a sophisticated research program but simply to render explicit some tacit epistemological assumptions in as clear a fashion as possible. Thus although everyone agrees that representation is a complex process, it is nonetheless conceived to be one of recovering or reconstructing extrinsic, independent environmental features. Thus in vision research, for example, one speaks of "recovering shape from shading" or "color from brightness." Here the latter features are considered to be extrinsic properties of the environment that provide the information needed to recover "higher-order" properties of the visual scene, such as shape and color. The basic idea of a world with pregiven features remains.
The complaint that we have presented a caricature would, however, be justified were we not to acknowledge the subtlety and sophistication of cognitive realism in relation to the classical opposition between realism and idealism in philosophy. In the hands of cognitive realism, the notion of representation does undergo something of a mutation. The power of this mutation is that it seems to offer a way out of the classical opposition between realism and idealism.
This opposition is based in the traditional notion of representation as a "veil of ideas" that stands between us and the world. On the one hand, the realist naturally thinks that there is a distinction between our ideas or concepts and that which they represent, namely, the world. The ultimate court of appeal for judging the validity of our representations is this independent world. Of course, each of our representations must cohere with many others, but the point of such internal features is to increase the probability that globally our representations will have some measure of correspondence or degree of fit with an outer and independent world.
The idealist, on the other hand, quickly points out that we have no access to such an independent world except through our representations. We cannot stand outside of ourselves to behold the degree of fit that our representations might have with the world. In fact, we simply have no idea of what the outside world is except that it is the presumed object of our representations. Taking this point to the extreme, the idealist argues that the very idea of a world independent of representations is itself only another of our representations – a second-order or metarepresentation. Our sense of an outer ground thus slips away, and we are left grasping for our internal representations, as if these could provide a sure and stable reference point.
At first sight, contemporary cognitive science seems to offer a way out of this traditional philosophical impasse. Largely because of cognitive science, philosophical discussion has shifted from concern with a priori representations (representations that might provide some noncontingent foundation for our knowledge of the world) to concern with a posteriori representations (representations whose contents are ultimately derived from causal interactions with the environment). This naturalized conception of representation does not invite the skeptical questions that motivate traditional epistemology. In fact, to shift one's concern to organism-environment relations in this way is largely to abandon the task of traditional a priori epistemology in favor of the naturalized projects of psychology and cognitive science. By taking up such a naturalized stance, cognitive science avoids the antinomies that lurk in transcendental or metaphysical realism, without embracing the solipsism or subjectivism that constantly threatens idealism. 'The cognitive scientist is thus able to remain a staunch realist about the empirical world while making the details of mind and cognition the subject of his investigations.
Cognitive science thus seems to provide a way of talking about representation without being burdened by the traditional philosophical image of the mind as a mirror of nature. But this appearance is misleading. It is true, as Richard Rorty remarks, that there is no way to raise the traditional skeptical questions of epistemology in cognitive science. Global skepticism about the possibility of cognition or knowledge is simply not to the point in the practice of science. But it does not follow, as Rorty seems to think, that the current naturalized conception of representation has nothing to do with the traditional image of the mind as a mirror of nature. On the contrary, a crucial feature of this image remains alive in contemporary cognitive science - the idea of a world or environment with extrinsic, pregiven features that are recovered through a process of representation. In some ways cognitivism is the strongest statement yet of the representational view of the mind inaugurated by Descartes and Locke. Indeed, Jerry Fodor, one of cognitivism's leading and most eloquent exponents, goes so far as to say that the only respect in which cognitivism is a major advance over eighteenth- and nineteenth-century representationism is in its use of the computer as a model of mind.
As we have seen, however, cognitivism is only one variety of cognitive realism. In both the emergence and society of mind approaches (and in the schools of basic elements analysis for the experiential pole of our investigation), the notion of representation becomes more and more problematical. We did not explicitly question this notion in our discussion of the varieties of cognitive realism, but if we look back on our journey, we can see that we have slowly drifted away from the idea of mind as an input-output device that processes information. The role of the environment has quietly moved from being the preeminent reference point to receding more and more into the background, while the idea of mind as an emergent and autonomous network of relationships has gained a central place. It is time, then, to raise the question, What is it about such networks, if anything, that is representational?
To make this question somewhat more accessible, consider once again Minsky's discussion toward the end of Society of Mind. There he writes, "Whenever we speak about a mind, we're speaking of the processes .that carry our brains from state to state ... concerns about minds are really concerns with relationships between states - and this has virtually nothing to do with the natures of the states themselves." How, then, are we to understand these relationships? What is it about them that makes them mindlike?
The answer that is usually given to this question is, of course, that these relationships must be seen as embodying or supporting representations of the environment. Notice, however, that if we claim that the function of these processes is to represent an independent environment, then we are committed to construing these processes as belonging to the class of systems that are driven from the outside, that are defined in terms of external mechanisms of control (a hetero-nomous system). Thus we will consider information to be a prespecified quantity, one that exists independently in the world and can act as the input to a cognitive system. This input provides the initial premises upon which the system computes a behavior-the output. But how are we to specify inputs and outputs for highly cooperative, self-organizing systems such as brains? There is, of course, a back-and-forth flow of energy, but where does information end and behavior begin? Minsky puts his finger on the problem, and his remarks are worth quoting at length:
Why are processes so hard to classify? In earlier times, we could usually judge machines and processes by how they transformed raw materials into finished products. But it makes no sense to speak of brains as though they manufacture thoughts the way factories make cars. The difference is that brains use processes that change themselves-and this means we cannot separate such processes from the products they produce. In particular, brains make memories, which change the ways we'll subsequently think. The principal activities of brains are making changes in themselves. Because the whole idea of self-modifying processes is new to our experience, we cannot yet trust our commonsense judgement about such matters.
What is remarkable about this passage is the absence of any notion of representation. Minsky does not say that the principal activity of brains is to represent the external world; he says that it is to make continuous self-modifications. What has happened to the notion of representation?
In fact, an important and pervasive shift is beginning to take place in cognitive science under the very influence of its own research. This shift requires that we move away from the idea of the world as independent and extrinsic to the idea of a world as inseparable from the structure of these processes of self-modification. This change in stance does not express a mere philosophical preference; it reflects the necessity of understanding cognitive systems not on the basis of their input and output relationships but by their operational closure.
A system that has operational closure is one in which the results of its processes are those processes themselves. The notion of operational closure is thus a way of specifying classes of processes that, in their very operation, tum back upon themselves to form autonomous networks. Such networks do not fall into the class of systems defined by external mechanisms of control (heteronomy) but rather into the class of systems defined by internal mechanisms of self-organization (autonomy). The key point is that such systems do not operate by representation. Instead of representing an independent world, they enact a world as a domain of distinctions that is inseparable from the structure embodied by the cognitive system.
We wish to evoke the point that when we begin to take such a conception of mind seriously, we must call into question the idea that the world is pregiven and that cognition is representation. In cognitive science, this means that we must call into question the idea that information exists ready-made in the world and that it is extracted by a cognitive system, as the cognitivist notion of an informavore vividly implies.
But before we go any further, we need to ask ourselves why the idea of a world with pregiven features or ready-made information seems so unquestionable. Why are we unable to imagine giving up this idea without falling into some sort of subjectivism, idealism, or cognitive nihilism? What is the source of this apparent dilemma? We must examine directly the feeling that arises when we sense that we can no longer trust the world as a fixed and stable reference point.

Illusioni del Tao


Discese nel mondo un maestro, nato nella terra santa dell'Indiana, cresciuto sulle mistiche alture ad est di Fort Wayne.

Il maestro imparò nelle scuole pubbliche dell'Indiana le cose di questo mondo, e poi crescendo il mestiere di meccanico riparatore di automobili.

Ma il maestro possedeva cognizioni di altri paesi e di altre scuole, grazie ad altre vite da lui vissute. Ricordava queste ultime e ricordando divenne savio e forte, per cui altri si resero conto della sua forza e a lui si rivolsero per essere consigliati.

Imparare significa scoprire quello che già sai. Fare significa dimostrare che lo sai. Insegnare è ricordare agli altri che sanno bene quanto te. Siete tutti allievi, praticanti, maestri.

Il tuo solo dovere in ogni esistenza è di essere fedele a te stesso. Essere fedele a chiunque altro, o a qualsiasi altra cosa, non soltanto è impossibile, ma il segno di un falso Messia.

Le domande più semplici sono le più profonde. Dove sei nato? Dov'è la tua casa? Dove stai andando? Che cosa stai facendo? Pensa a queste cose di quando in quando, e osserva le tue risposte cambiare.

Tu insegni meglio ciò che più hai bisogno di imparare.

Gli amici ti conosceranno meglio nel primo minuto dell'incontro di quanto gli estranei possano conoscerti in mille anni.

Il modo migliore per evitare responsabilità consiste nel dire: «Ho avuto responsabilità».

Sei guidato nella tua esistenza dalla creatura interiore capace di apprendere dal gaio essere spirituale che è il tuo vero Io. Non voltare le spalle a futuri possibili prima di essere certo che non hai niente da imparare da essi. Sei sempre libero di cambiare idea e di scegliere un avvenire diverso, o un diverso passato.

Non esiste nulla che sia un problema senza un dono per te nelle mani. Tu cerchi problemi perché hai bisogno dei loro doni.

Il legame che unisce la tua vera famiglia non è quello del sangue, ma quello del rispetto e della gioia per le reciproche vite. Di rado gli appartenenti ad una famiglia crescono sotto lo stesso tetto.

Cavilla sui tuoi limiti e senza dubbio ti apparterranno.

Mai ti si concede un desiderio senza che inoltre ti sia concesso il potere di farlo avverare. Può darsi che tu debba faticare per questo, tuttavia.

Il mondo è il quaderno degli esercizi, le pagine sulle quali esegui le somme. Non è realtà, sebbene tu possa esprimere la realtà in esso qualora lo desideri. Sei inoltre libero di scrivere assurdità, o menzogne, o di strappare le pagine.

Il peccato originale consiste nel limitare l'Essere. Non lo commettere.

Se ti eserciterai ad essere immaginario per qualche tempo, capirai che i personaggi immaginari sono talora più reali delle persone con un corpo e i battiti cardiaci.

La tua coscienza è il metro della schiettezza del tuo egoismo. Ascoltala attentamente.

Ogni persona, tutti gli eventi della tua vita sono lì perché tu li hai attratti lì. Quello che decidi di fare con essi dipende da te.

La verità che tu dici non ha passato né futuro. È e non deve essere altro.

Ecco una prova per accertare se la tua missione sulla terra è compiuta. Se sei vivo non lo è.

Per poter vivere libero e felicemente devi sacrificare la noia. Non sempre è un facile sacrificio.

Non lasciarti sgomentare dagli addii. Un addio è necessario prima che ci si possa ritrovare. E il ritrovarsi dopo momenti o esistenze, è certo per coloro che sono amici.

L'indizio della tua ignoranza è l'intensità con cui credi nell'ingiustizia e nella tragedia. Quella che il bruco chiama la fine del mondo, il maestro la chiama una farfalla.

Se ami qualcuno lascialo libero. Se torna da te, sarà per sempre tuo, altrimenti non lo è mai stato.

giovedì 11 aprile 2013

oloni meta-Tao


La successiva metastruttura discussa da Tyler Volk e Jeff Bloom sono gli oloni, un termine introdotto da Arthur Koestler in The Ghost in the Machine del 1967, e successivamente in Janus: A Summing Up del 1978. Nella definizione originaria di Koestler:
1. The holon

1.1 The organism in its structural aspect is not an aggregation of elementary parts, and in its functional aspects not a chain of elementary units of behaviour.
1.2 The organism is to be regarded as a multi-levelled hierarchy of semi-autonomous sub-wholes, branching into sub-wholes of a lower order, and so on. Sub-wholes on any level of the hierarchy are referred to as holons.
1.3 Parts and wholes in an absolute sense do not exist in the domains of life. The concept of the holon is intended to reconcile the atomistic and holistic approaches.
1.4 Biological holons are self-regulating open systems which display both the autonomous properties of wholes and the dependent properties of parts. This dichotomy is present on every level of every type of hierarchic organization, and is referred to as the "Janus phenomenon".
1.5 More generally, the term "holon" may be applied to any stable biological or social sub-whole which displays rule-governed behaviour and/or structural Gestalt-constancy. Thus organelles and homologous organs are evolutionary holons; morphogenetic fields are ontogenetic holons; the ethologist's "fixed action-patterns" and the sub-routines of acquired skills are behavioural holons; phonemes, morphemes, words, phrases are linguistic holons; individuals, families, tribes, nations are social holons.
Gli oloni sono quindi - come i clononi - parti intrinseche, composte da altri sottosistemi - in generali altri oloni -,  di una olarchia di un sistema complesso, contemporaneamente parti (componenti) e tutto (livelli) del sistema. Si distinguono dai clononi in quanto funzionalmente e strutturalmente distinguibili tra loro. L'esempio tipico sono gli atomi dei diversi elementi, oloni distinti composti da tre tipi fondamentali (protoni, neutroni ed elettroni) di particelle clononi indistinguibili. Un altro esempio dal punto di vista delle strutture organizzate sono i livelli di oloni che progressivamente portano dal livello individuale a quello globale:

Background

Holon, as mentioned previously, refers to a whole, which is often comprised of clonon parts or sets of clonon parts. Holons themselves can become clonons of even greater wholes. The idea of holons (in contrast to indistinguishable clonons) is that holons are functionally and structurally distinct parts on the level of a holarchy. Holons are like organs, on different scales of wholes. Thus the body’s holons are heart, lungs, brain, and so forth, which themselves are composed of many clonons, the relatively indistinguishable heart cells, liver cells, and so forth.

Examples

  • In science: a planet, a solar system (made of holons-planets that become clonons of the solar system), an atom is a holon of three fundamental types of clonon particles, atoms become clonons of larger holon molecules, etc.
  • In architecture and design: buildings, a community, etc.
  • In art: subjects, figures formed from points or strokes, a sculpture, etc
  • In social sciences: a concept, a community or society, an action holon of component clonon actions, a family, a class of students, etc.
  • In other senses: a wall or fence, an archway made of stone clonons, a gang or clique, etc.

Metapatterns

The Pattern Underground

il secondo anello del Tao


Dopo l'epilogo descritto nel quarto libro, l'entrata nel nagual gettandosi dalla cima di una montagna, con il quinto inizia un nuovo ciclo dei racconti di Castaneda, sempre più distante ed alieno dai suoi iniziali "resoconti del lavoro sul campo".

Prefazione

Una brulla e piatta cima di montagna, sul versante occidentale della Sierra Madre, nel Messico centrale, fu il teatro dei mio ultimo incontro con don Juan e don Genaro e coi loro apprendisti - miei colleghi - Pablito e Nestor. Quel che lassù avvenne fu di tanta solennità e di tale portata da non lasciare, in me, alcun dubbio: il nostro apprendistato era giunto al termine, e non avrei davvero più rivisto i due maestri, don Juan e don Genaro. Alla fine difatti ci dicemmo addio; quindi Pablito e io ci gettammo insieme, a capofitto, dalla vetta in un abisso.
Prima di quel salto nel vuoto, don Juan mi aveva predetto tutto ciò che mi sarebbe poi successo. Secondo il 'principio fondamentale' che allora mi espose, io - in seguito al tuffo nell'abisso - sarei divenuto pura percezione, per andar e venire di continuo dall'uno all'altro dei due intrinseci regni dei creato: il 'tonal' e il 'nagual'.
Durante quel volo nel vuoto, la mia percezione subì diciassette successivi rimbalzi dal tonal al nagual e viceversa. Quando rimbalzavo verso il nagual, sentivo il mio corpo disintegrarsi. (Non che avessi pensieri e sensazioni del tipo ordinario, logico e coerente; e tuttavia riuscivo - in qualche modo - a pensare e sentire.) Quando invece rimbalzavo nel tonal ritrovavo la mia unità. Ero intero. La mia percezione era coerente. Avevo visioni precise, in cui tutto era in ordine. Visioni d'una tale intensità - così vivide e reali, ma insieme così vaste e complesse - che non son mai riuscito a darne una spiegazione soddisfacente. Dire ch'erano visioni, nitidi sogni o magari allucinazioni non vale, affatto, a chiarirne la natura.
Dopo aver esaminato e analizzato, con la massima cura, le sensazioni percepite durante quel tuffo nell'abisso e le interpretazioni datene, giunsi al punto di non poter credere, razionalmente, che esso fosse avvenuto. Eppure, una parte di me era convinta, ostinatamente, che il volo era avvenuto per davvero.
Don Juan e don Genaro non sono più a mia disposizione; e la loro assenza ha determinato, in me, un bisogno urgentissimo: il bisogno di far luce e aprirmi un varco nel folto di contraddizioni apparentemente insolubili.
Tornai dunque nel Messico per vedere Pablito e Nestor e farmi aiutare da loro a risolvere i miei conflitti. Ma ciò in cui m'imbattei durante il viaggio non può esser definito altrimenti che un assalto finale contro la mia ragione, un attacco concentrico - architettato dallo stesso don Juan - per demolirla. I suoi apprendisti - da lui teleguidati - abbatterono infatti in pochi giorni, con precisione metodica, l'ultimo baluardo della mia ragione. In quei pochi giorni mi rivelarono uno dei due aspetti pratici della loro stregoneria: l'arte di sognare, ch'è appunto il tema della presente opera.
L'altro pratico aspetto della loro stregoneria è l'arte dell'agguato; ed essa - che rappresenta il culmine degli insegnamenti di don Juan e don Genaro - mi fu esposta nel corso di successive visite; quest'arte è, di gran lunga, il momento più complesso del loro essere al mondo in qualità di stregoni.