Dopo l'epilogo descritto nel quarto libro, l'entrata nel nagual gettandosi dalla cima di una montagna, con il quinto inizia un nuovo ciclo dei racconti di Castaneda, sempre più distante ed alieno dai suoi iniziali "resoconti del lavoro sul campo".
Prefazione
Una brulla e piatta cima di montagna, sul versante occidentale della Sierra Madre, nel Messico centrale, fu il teatro dei mio ultimo incontro con don Juan e don Genaro e coi loro apprendisti - miei colleghi - Pablito e Nestor. Quel che lassù avvenne fu di tanta solennità e di tale portata da non lasciare, in me, alcun dubbio: il nostro apprendistato era giunto al termine, e non avrei davvero più rivisto i due maestri, don Juan e don Genaro. Alla fine difatti ci dicemmo addio; quindi Pablito e io ci gettammo insieme, a capofitto, dalla vetta in un abisso.
Prima di quel salto nel vuoto, don Juan mi aveva predetto tutto ciò che mi sarebbe poi successo. Secondo il 'principio fondamentale' che allora mi espose, io - in seguito al tuffo nell'abisso - sarei divenuto pura percezione, per andar e venire di continuo dall'uno all'altro dei due intrinseci regni dei creato: il 'tonal' e il 'nagual'.
Durante quel volo nel vuoto, la mia percezione subì diciassette successivi rimbalzi dal tonal al nagual e viceversa. Quando rimbalzavo verso il nagual, sentivo il mio corpo disintegrarsi. (Non che avessi pensieri e sensazioni del tipo ordinario, logico e coerente; e tuttavia riuscivo - in qualche modo - a pensare e sentire.) Quando invece rimbalzavo nel tonal ritrovavo la mia unità. Ero intero. La mia percezione era coerente. Avevo visioni precise, in cui tutto era in ordine. Visioni d'una tale intensità - così vivide e reali, ma insieme così vaste e complesse - che non son mai riuscito a darne una spiegazione soddisfacente. Dire ch'erano visioni, nitidi sogni o magari allucinazioni non vale, affatto, a chiarirne la natura.
Dopo aver esaminato e analizzato, con la massima cura, le sensazioni percepite durante quel tuffo nell'abisso e le interpretazioni datene, giunsi al punto di non poter credere, razionalmente, che esso fosse avvenuto. Eppure, una parte di me era convinta, ostinatamente, che il volo era avvenuto per davvero.
Don Juan e don Genaro non sono più a mia disposizione; e la loro assenza ha determinato, in me, un bisogno urgentissimo: il bisogno di far luce e aprirmi un varco nel folto di contraddizioni apparentemente insolubili.
Tornai dunque nel Messico per vedere Pablito e Nestor e farmi aiutare da loro a risolvere i miei conflitti. Ma ciò in cui m'imbattei durante il viaggio non può esser definito altrimenti che un assalto finale contro la mia ragione, un attacco concentrico - architettato dallo stesso don Juan - per demolirla. I suoi apprendisti - da lui teleguidati - abbatterono infatti in pochi giorni, con precisione metodica, l'ultimo baluardo della mia ragione. In quei pochi giorni mi rivelarono uno dei due aspetti pratici della loro stregoneria: l'arte di sognare, ch'è appunto il tema della presente opera.
L'altro pratico aspetto della loro stregoneria è l'arte dell'agguato; ed essa - che rappresenta il culmine degli insegnamenti di don Juan e don Genaro - mi fu esposta nel corso di successive visite; quest'arte è, di gran lunga, il momento più complesso del loro essere al mondo in qualità di stregoni.
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