mercoledì 2 novembre 2011

pragmatica del Tao: i fondamenti



















 La fondazione del modello sistemico-relazionale dell'interazione e del comportamento umano a livello 4 è stata effettuata dalla seconda "Scuola di Palo Alto" di Watzlavick, Beavin, Jackson, Fish e Weakland presso il Mental Research Institute con la pubblicazione di Pragmatics of Human Communication nel 1967.
Il testo presenta i presupposti teorici del modello, la definizione di alcuni assiomi per la comunicazione umana, l'applicazione alla comunicazione patologica, un'analisi dell'organizzazione, un'analisi della comunicazione paradossale e della sua applicazione alla psicoterapia ed infine un capitolo che esplora i "limiti" della comunicazione.  

M.C. Escher, nastro di Moebius I, 1961
  • I fondamenti
Nelle aree di studio dei linguaggi naturali, quali la fonologia, morfologia, sintassi-grammatica, semantica e lessicologia, la pragmatica si occupa degli effetti del linguaggio sul comportamento, in particolare di come il contesto in cui il linguaggio agisce influisca sull'interpretazione del significato.
L'utilizzo moderno di questo termine all'interno della teoria dei segni, o semiotica, è stato proposto da Charles W. Morris che individua tre aree di studio:
  • la sintassi, o studio delle relazioni formali tra un segno e l'altro
  • la semantica, o studio delle relazioni dei segni con gli oggetti a cui si applicano
  • la pragmatica, o studio delle relazioni dei segni con gli interpretanti
Lo studio semiologico sui segni passa naturalmente a quello del linguaggio ed alla sua estensione con i due tipi di linguaggio di cui si compone la comunicazione, quello verbale (digitale o discreto) e quello non-verbale (analogico), e della loro congruenza o difformità nell'assegnare pragmaticamente un significato ben-formato.

Presupposti
Un fenomeno resta inspiegabile finché il campo d’osservazione non è abbastanza ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica.
Se si studia una persona dal comportamento disturbato (psicopatologia) isolandola, allora l’indagine deve occuparsi della natura di tale condizione e – in senso esteso - della natura della mente umana. Se invece si estende l’indagine fino ad includere gli effetti che tale comportamento ha sugli altri, le reazioni degli altri a questo comportamento, e il contesto in cui tutto ciò accade, il centro dell’interesse si sposta dalla monade isolata artificialmente alla relazione tra le parti di un sistema più vasto. Chi studia il comportamento umano passa allora dall’analisi deduttiva della mente all’analisi delle manifestazioni osservabili nella relazione: il veicolo di tali manifestazioni è la comunicazione.
Lo studio della comunicazione umana si può dividere in tre settori:
Sintassi: è di competenza esclusiva del teorico dell’informazione, il quale appunto si interessa ai problemi della codificazione, dei canali, della capacità, del rumore, della ridondanza, e di altre proprietà statistiche del linguaggio;
Semantica: l’interesse primario è il significato;
Pragmatica: influenza il comportamento.

Nozione di funzione e di relazione
Il concetto di funzione è costituito dal rapporto tra le variabili (che assumono valore proprio in base al loro rapporto).
E’ senza dubbio stimolante il parallelismo che si instaura tra l’affermazione in matematica del concetto di funzione e il riconoscimento in psicologia di quello di relazione. Sappiamo che sensazioni, percezioni, attenzione, memoria e diversi altri concetti sono stati definiti come “funzioni”; come del resto sappiamo dell’enorme mole di lavoro che è stato compiuto e che tutt’ora si compie per studiare tali “funzioni” isolandole artificialmente.
W. R. Ashby fa rivelare che un osservatore che sia in possesso di tutta l’informazione necessaria non ha bisogno di riferirsi al passato (e quindi all’esistenza di una memoria nel sistema): gli basta lo stato attuale del sistema per poterne spiegare il comportamento. Evidentemente la “memoria” non è qualcosa di obiettivo che il sistema possiede o non possiede; è un concetto a cui l’osservatore ricorre per colmare la lacuna determinata dal fatto che il sistema è in parte inosservabile. Tanto minore è il numero della variabili osservabili tanto più l’osservatore sarà costretto a considerare gli eventi passati come rilevanti per il comportamento del sistema.
Le percezioni implicano un processo di cambiamento, movimento o scansione. In altre parole, sulla base di prove estremamente ampie, è stato possibile stabilire e astrarre una relazione che è identica al concetto matematico di funzione... ne consegue che la sostanza delle nostre percezioni non è costituita da “cose” ma da funzioni; e come abbiamo visto le funzioni non sono grandezze isolate ma "segni per un nesso... per una infinità di situazioni possibili di uno stesso tipo..." Ma se le cose stanno così, non deve più sorprenderci neppure che la consapevolezza che l’uomo ha di se stesso è sostanzialmente una consapevolezza delle funzioni, delle relazioni in cui si trova implicato, e qui non ha importanza quanto egli possa successivamente reificare tale consapevolezza.

Informazione e retroazione
La teoria psicoanalitica di S. Freud si basa su di un modello che non è in contrasto con l’epistemologia predominante al tempo in cui furono formulati i principi della psicoanalisi. Si parte dal postulato che il comportamento sia in primo luogo la conseguenza di una ipotizzata azione reciproca di forze intrapsichiche che si ritiene seguano strettamente le leggi della fisica sulla conservazione e sulla trasformazione dell’energia. La psicoanalisi classica restava anzitutto una teoria dei processi intrapsichici, che considerava si secondaria importanza l’interazione con le forze esterne anche quando tale interazione era evidente. La ricerca psicoanalitica ha trascurato l’interdipendenza tra l’individuo e il suo ambiente, ed è proprio a questo punto che diventa indispensabile il concetto di scambio di informazione, cioè di comunicazione. C’è una differenza sostanziale tra il modello psicodinamico (psicoanalitico) da una parte e ogni schema che elabori il concetto di interazione individuo-ambiente dall’altra. Se si da un calcio ad un sasso, questo rotolerà secondo la forza acquisita e la struttura del terreno; se lo si dà a un cane, questo acquisirà sì la forza, ma “reagirà” in un ordine diverso.
La scoperta della retroazione ha reso possibile questo nuovo modo di vedere le cose. Una catena in cui l’evento A produce l’evento B, e poi B produce C, e C a sua volta causa D, etc..., può sembrare che abbia le proprietà di un sistema lineare deterministico. Ma se D riconduce ad A, il sistema è circolare e funziona in un modo completamente diverso.
La retroazione può essere negativa o positiva. La prima caratterizza l’omeostasi (stato stazionario) e gioca quindi un ruolo importante nel far raggiungere e mantenere la stabilità delle relazioni; la seconda provoca un cambiamento, cioè la perdita di stabilità e di equilibrio. In entrambi i casi, parte dei dati in uscita sono reintrodotti nel sistema come informazione circa l’uscita stessa. In caso di retroazione negativa, si usa questa informazione per far diminuire la deviazione all’uscita rispetto a una norma prestabilita o previsione dell’insieme – di qui l’aggettivo “negativa” - mentre in caso di retroazione positiva la stessa informazione agisce come una misura per aumentare la deviazione all’uscita, ed è quindi positiva in rapporto alla tendenza già esistente verso l’arresto o la distruzione.
I sistemi interpersonali possono essere considerati circuiti di retroazione, poiché il comportamento di ogni persona influenza ed è influenzato dal comportamento di ogni altra persona. Poiché sia la stabilità che il cambiamento contraddistinguono le manifestazioni della vita, i meccanismi di retroazione negativa e positiva agiscono in essa come forme specifiche di interdipendenza o di complementarità. I sistemi con autoregolazione – i sistemi a retroazione - impongono una loro filosofia in cui i concetti di modello e di informazione sono fondamentali come lo erano quelli di materia e di energia all’inizio del secolo.

Ridondanza
L’omeostato di W. R. Ashby è costituito da quattro identici sottosistemi autoregolanti e tutti interconnessi in modo tale che una perturbazione provocata in uno qualunque di essi influenza gli altri e a sua volta ciascuno reagisce attraverso gli altri. Nessun sottosistema può quindi ottenere il proprio equilibrio isolandosi dagli altri. L’omeostato ottiene la stabilità mediante una ricerca casuale delle sue combinazioni e continua finché non raggiunge una configurazione interna adatta.

Homeostat Details From Ashby's Notebooks.
Tuttavia, se un sistema come l’omeostato ha la capacità di immagazzinare gli adattamenti precedenti per usarli in futuro, la probabilità inerente alla sequenza delle configurazioni interne subirà un drastico cambiamento nel senso che certi raggruppamenti di configurazioni diventeranno ripetitivi e per tale ragione più probabili di altri. Questo è un processo stocastico, e secondo la teoria dell’informazione, tali processi mostrano ridondanza o vincolo.
La ridondanza è stata studiata ampiamente in due settori della comunicazione umana: in quello della sintassi e in quello della semantica. Una delle conclusioni che si possono trarre da questi studi è che ognuno di noi ha moltissime cognizioni sulla legittimità e sulla probabilità statistica inerente sia alla sintassi che alla semantica della comunicazione umana. Una persona può essere in grado di usare la propria lingua correttamente e fluentemente senza conoscere tuttavia la grammatica e la sintassi, cioè le regole che egli osserva nel parlare la lingua.
La maggior parte degli studi esistenti sulla pragmatica della comunicazione sembra che si limiti a considerare gli effetti della persona A sulla persona B, senza prendere in considerazione in egual misura che qualunque cosa faccia B influenza la mossa successiva di A, e che essi sono soprattutto influenzati dal contesto in cui ha luogo la loro interazione (e a loro volta influenzano il contesto).
I gradi di consapevolezza che abbiamo delle regole di comportamento e di interazione sono gli stessi che S. Freud ha postulato per i lapsus e gli errori:
se ne può avere piena consapevolezza, e in questo caso si possono usare il questionario e altre tecniche semplici di domanda-risposta;
possiamo  non rendercene conto, ma essere capaci di riconoscerli quando ci vengono fatti notare; 
è possibile non avere alcuna consapevolezza fino al punto che se anche venissero delineati con chiarezza per attirarvi la nostra attenzione, non saremmo ancora in grado di vederli.

Metacomunicazione e concetto di calcolo
Quando non usiamo più la comunicazione per comunicare ma per comunicare sulla comunicazione, gli schemi concettuali che adopriamo non fanno parte della comunicazione ma vertono su di essa. Definiamo quindi metacomunicazione, per analogia alla metamatematica, la comunicazione sulla comunicazione. Rispetto alla metamatematica, il lavoro di ricerca della metacomunicazione incontra due grossi inconvenienti. Il primo svantaggio è che nel campo della comunicazione non ci sia finora nulla di confrontabile al sistema formale del calcolo; il secondo è strettamente collegato al primo: mentre i matematici hanno due linguaggi (numeri e segni algebrici per esprimere fatti matematici e il linguaggio naturale per la metamatematica), noi dobbiamo limitarci ad usare il linguaggio naturale che resta il veicolo sia della comunicazione che della metacomunicazione.
Si può definire l’interazione ricorrendo all’analogia del gioco degli scacchi, come sequenze di “mosse” rigidamente governate de regole, ma è irrilevante che i comunicanti siano perfettamente consapevoli delle regole oppure no; è invece estremamente importante che su tali regole sia possibile fare delle asserzioni di metacomunicazione dotate tutte di significato. Il che significa che esiste un calcolo della pragmatica della comunicazione umana le cui regole vengono osservate nella comunicazione efficace e violate nella comunicazione disturbata.

Concetto di scatola nera
L’impossibilità di vedere la mente “al lavoro” ha fatto adottare negli ultimi ani un concetto elaborato nel settore delle telecomunicazioni, quello di “scatola nera”. Se applichiamo il concetto a problemi psicologici e psichiatrici, si vede subito il vantaggio euristico che presenta: non abbiamo bisogno di ricorrere ad alcuna ipotesi intrapsichica (che è fondamentalmente inverificabile) e possiamo limitarci ad osservare i rapporti di ingresso-uscita, cioè la comunicazione.

Consapevolezza e non consapevolezza
Lo studio del comportamento umano, sulla base del concetto di “scatola nera”, ci porta a considerare l’uscita di una “scatola” come l’ingresso di un’altra. Ma stabilire se tale scambio di informazione sia consapevole oppure no è un quesito che non ha più quell’importanza che invece conserva in una struttura psicodinamica. Il che non significa certo che non sia importante stabilire (per quanto riguarda le reazioni a un comportamento specifico) se tale comportamento sia consapevole o inconsapevole. L’opinione che si fa a proposito si basa necessariamente sulla nostra valutazione dei motivi dell’altro, e quindi su una ipotesi di ciò che passa dentro la testa dell’altro. E se anche si chiedesse all’altro, ci si può non fidare della risposta che si riceve.

Presente e passato
Non c’è dubbio che il comportamento sia determinato almeno in parte dall’esperienza precedente, ma si sa quanto sia inattendibile ricercarne le cause nel passato. Non soltanto le prove soggettive su cui principalmente si basa la memoria hanno la tendenza a distorcere i fatti, ma bisogna anche tener presente che qualunque persona A che parli del suo passato alla persona B è strettamente legata alla relazione in corso tra queste due persone (e ne è determinata).

Causa ed effetto
Le cause possibili o ipotizzabili del comportamento assumono un’importanza secondaria, mentre s’impone l’effetto del comportamento come criterio estremamente rilevante nell’interazione di individui che sono in stretti rapporti di parentela.

Circolarità dei modelli di comunicazione
Mentre nelle catene causali, che sono lineari e progressive, ha senso parlare del principio e della fine di una catena, tali termini sono privi di significato in sistemi con circuiti di retroazione. Non c’è fine né principio in un cerchio.

 

Relatività delle nozioni di “normalità” e “anormalità”
Una volta che si sia accettato il principio di comunicazione secondo cui un comportamento si può studiare soltanto nel contesto in cui si attua, i termini “sanità” e “insania” perdono praticamente il loro significato in quanto attributi di individui. Analogamente le nozioni di “normalità” e “anormalità” diventano molto discutibili.

venerdì 28 ottobre 2011

il cimitero del Tao verbale


il Te del Tao: XXV - RAFFIGURA L'ORIGINE


XXV - RAFFIGURA L'ORIGINE

C'è un qualcosa che completa nel caos,
il quale vive prima del Cielo e della Terra.

Come è silente, come è vacuo!
Se ne sta solingo senza mutare,
ovunque s'aggira senza correr pericolo,
si può dire la madre di ciò che è sotto il cielo.
Io non ne conosco il nome
e come appellativo lo dico Tao,

sforzandomi a dargli un nome lo dico Grande.
Grande ovvero errante,
errante ovvero distante,
distante ovvero tornante.
Perciò
il Tao è grande,
il Cielo è grande,
la Terra è grande
ed anche il sovrano è grande.
Nell'universo vi sono quattro grandezze
ed il sovrano sta in una di esse.
L'uomo si conforma alla Terra,
la Terra si conforma al Cielo,
il Cielo si conforma al Tao,
il Tao si conforma alla spontaneità.




Fritjof Capra nel "Tao della Fisica" ha messo in evidenza come le ultime righe del cap. XXV, oltre ad indicare le quattro forze esistenti in natura, siano in relazione con le teorie di bootstrap degli adroni degli anni 60-70, ed in particolare con la filosofia di auto-congruenza intrinseca dei modelli.

il segreto del Tao

The Canyon's Secret

Blyde River Canyon, Mpumalanga

Myself and Shem Compion went on a 5 day trip to Mpumalanga in January to explore the Africa's 2nd largest Canyon. One of Shem’s friend’s told us about this place on the other side of the Canyon that no one ever sees. After a long drive along unmarked and overgrown roads we got a concrete pass that quickly ascended through the tropical forest mist-belt and arrived atop Mariepskop in misty weather. We drove around and the scenery was a mix of mossy vegetation, military hardware and views of the lowveld that stretched forever.When it cleared occasionally we saw that there was a storm cloud over the main escarpment with a nice high-cloud anvil that would make for a a great sunset. We parked and decided to try and get to the escarpment edge, but the terrain of rock stacks and dense vegetation proved impossible to negotiate. We got about 100m from the road, made a u-turn and about 45 minutes later we were back at the car, exhausted and scratched all over. Using an Ipad and google earth we determined where the edge was closest to the road, drove there and found a seldom used track leading to the cliff edge. In front of us lay the back side of the three rondavels and the sun was about 20 minutes from reaching the gap in the clouds. We scouted for compositions, set up and waited for the light. As the first beams burst out below the clouds and creeped over the far hills the adrenaline started pumping (only landscape photographers can get an adrenaline rush from sunsets!). As the sun dipped below the horizon, the mist closed in and we headed back to car with a very big smile on our faces.

http://www.hougaardmalan.com/

Repressione (10 di Bastoni)


La figura di questa carta è letteralmente avvinta nei propri nodi. La sua luce brilla ancora all'interno, ma essa ha represso la propria vitalità nel tentativo di corrispondere a una infinità di richieste e di aspettative. Ha rinunciato a tutto il suo potere e alla propria visione per essere accettata proprio da quelle forze che l'hanno imprigionata. Il pericolo nel reprimere la propria energia naturale in questo modo appare evidente nelle crepe prodotte da un'eruzione vulcanica che sta per verificarsi ai confini dell'immagine. Il vero messaggio di questa carta è un invito a trovare uno sfogo benefico a questa esplosione potenziale. È essenziale trovare un modo per scaricare la tensione o lo stress che si possono essere accumulati all'interno. Picchia un cuscino, salta, vai in un luogo deserto e urla al cielo vuoto - qualsiasi cosa, pur di scuotere la tua energia e permetterle di circolare liberamente. Non aspettare che si verifichi una catastrofe.

In sanscrito viene chiamata "alaya vigyan": lo scantinato nel quale getti ciò che vuoi fare ma non puoi, a causa delle condizioni sociali, della cultura, della civiltà. Quelle cose però continuano ad accumularsi laggiù, e intaccano le tue azioni, la tua vita, in maniera estremamente indiretta. Non possono fronteggiarti a viso aperto, direttamente - le hai spinte a forza nell'oscurità - ma da quella zona oscura continuano a influenzare il tuo comportamento. Sono pericolose; è pericoloso conservare dentro di te tutte queste inibizioni. È possibile che siano queste le cose che arrivano al culmine, quando una persona impazzisce. La follia non è altro che tutte queste cose represse giunte a un punto in cui non riesci più a controllarle. Eppure, la follia è accettata, e la meditazione no - e la meditazione è il solo modo per essere assolutamente sani di mente.

giovedì 27 ottobre 2011

killer Tao erg



Killer lives inside me: yes, I can feel him move.
Sometimes he's lightly sleeping in the quiet of his room,
but then his eyes will rise and stare through mine;
he'll speak my words and slice my mind inside.
Yes the killer lives.

Angels live inside me: I can feel them smile...
Their presence strokes and soothes the tempest in my mind
and their love can heal the wounds that I have wrought.
They watch me as I go to fall - well, I know I shall be caught,
while the angels live.

How can I be free?
How can I get help?
Am I really me?
Am I someone else?

But stalking in my cloisters hang the acolytes of gloom
and Death's Head throws his cloak in to the corner of my room
and I am doomed...
But laughing in my courtyard play the pranksters of my youth
and solemn, waiting Old Man in the gables of the roof:
he tells me truth...

And I, too, live inside me and very often don't know who I am:
I know I'm not a hero, well, I hope that I'm not damned.
I'm just a man, and killers, angels, all are these:
Dictators, saviours, refugees in war and peace
as long as Man lives...

I'm just a man, and killers, angels, all are these:
Dictators, saviours, refugees...












martedì 25 ottobre 2011

gioco e serietà del Tao

Dei giochi e della serietà

Figlia. Papà. queste conversazioni sono serie?
Padre. Certo che lo sono.
F.       Non sono una specie di gioco che tu fai con me?
P.       Dio non voglia.., sono però una specie di gioco che noi facciamo insieme.
F.       Allora non sono serie!

P.       E se tu mi dicessi che cosa significano per te ‘serio’ e ‘gioco’?
F.       Be’... se tu... non lo so.
P.       Se io che cosa?
F.       Cioè... le conversazioni Sono serie per me, ma se tu stai solo giocando...
P.       Piano, piano. Guardiamo che cosa c’è di buono e che cosa c’è di male nel ‘giocare’ e nei ‘giochi’. In primo luogo non m’interessa - non molto - vincere o perdere. Quando le tue domande mi mettono con le spalle al muro, allora certo mi sforzo un po’ di più per pensare bene e vedere con chiarezza quello che voglio dire. Ma non baro e non ti preparo trappole; non c’è alcuna ten­tazione d’imbrogliare.
F.       Ecco, è proprio così. Per te non è una cosa seria: è un gioco. Quelli che imbrogliano, semplicemente non san­no cosa vuoi dire ‘giocare’; trattano un gioco come se fosse una cosa seria.
P.       Ma è una cosa seria.
F.       No, non lo è... per te non lo è.
P.       Perché non voglio imbrogliare?
F.       Sì... anche per quello.
P.       Ma tu vuoi imbrogliare continuamente?
F.       No, naturalmente no.
P.       Allora?
F.       Oh, papà, non capirai mai.
P.       Credo proprio di no.

P.       Guarda, ho segnato una specie di punto a mio favore proprio adesso, quando ti ho fatto ammettere che tu non vuoi imbrogliare... e poi ho concluso che dunque le conversazioni non sono ‘serie’ neppure per te. Ti sembra una specie d’imbroglio?
F.       Sì... una specie.
P.       D’accordo... lo credo anch’io. Scusami.
F.    Vedi, papà... se io imbrogliassi o volessi imbrogliare, vorrebbe dire che non prenderei sul serio le cose di cui stiamo parlando. Vorrebbe dire che io starei solo fa­cendo un gioco con te.
P.       Sì, questo è ragionevole.

F.       Ma no, non è ragionevole, papà. È un terribile pastic­cio.
P.       SI... un pasticcio... ma che funziona.
F.       Ma come, papà?
P.    Aspetta un momento. È difficile dirlo. Prima di tutto... penso che queste conversazioni ci facciano fare qualche progresso. A me piacciono molto e credo che piacciano anche a te. E poi, a parte questo, credo che si rie­sca a sistemare qualche idea e credo che i pasticci ser­vano. Cioè... se tutti e due parlassimo sempre in modo coerente, non faremmo mai alcun progresso; non fa­remmo che ripetere come pappagalli i vecchi clichés che tutti hanno ripetuto per secoli.
F.       Che cos’è un cliché, papà?
P.      Un cliché? È una parola francese, credo che in origine fosse un termine tipografico. Quando si stampa una frase, si devono prendere le lettere separatamente e metterle una per una in una specie di sbarra scanala­ta per comporre la frase. Ma per parole e frasi che la gente usa spesso, il tipografo tiene piccole sbarre di lettere già bell’e pronte. E queste frasi già fatte si chia­mano clichés.
F.       Ma adesso ho dimenticato quello che stavi dicendo dei clichés, papà.
P.       Si... parlavo dei pasticci in cui ci cacciamo durante queste conversazioni e dicevo che cacciarsi nei pasticci, in un certo modo, è una cosa sensata. Se non ci caccias­simo nei pasticci, i nostri discorsi sarebbero come gio­care a ramino senza prima mescolare le carte.
F.       Sì, papà... ma quelle cose... le sbarre di lettere già pron­te?
P.       I clichés? Sì... è la stessa cosa. Tutti noi abbiamo un bel po di frasi e di idee beli’e pronte, e il tipografo ha sbarre di lettere bell’e pronte, tutte ben sistemate in frasi. Ma se il tipografo vuole stampare qualcosa di nuovo, per esempio una cosa in una lingua straniera, dovrà disfare tutte quelle vecchie disposizioni di let­tere. Allo stesso modo, per pensare idee nuove e dire cose nuove, dobbiamo disfare tutte le idee già pronte e mescolare i pezzi.
F.       Ma, papà, il tipografo non mescolerà tutte le lettere, no? Non le mescolerà tutte in un sacco per poi scuo­terle. Le metterà una per una ai loro posti... tutte le
a in una scatola, tutte le b in un’altra, e tutte le vir­gole in un’altra, e così via.
P.       Si, è vero. Altrimenti diventerebbe matto a cercare una a quando ne ha bisogno.

P.       A che cosa stai pensando?
F.       No... è che ci sono tante di quelle domande.
P.       Per esempio?
F.       Be’, capisco che cosa vuoi dire a proposito di cacciarci nei pasticci, che questo ci fa dire cose di tipo nuovo. Ma sto pensando al tipografo. Lui deve tenere tutte le sue lettere in ordine anche se disfa tutte le frasi bell’e fatte. E poi penso ai nostri pasticci: dobbiamo tenere i pezzetti dei nostri pensieri in ordine, ma come?.., per non diventare matti?
P.       Penso di sì... sì... ma non so quale tipo di ordine. Que­sta è una domanda veramente difficile. Non credo che riusciremmo a ottenere oggi una risposta a questa do­manda.

P.       Hai detto che c’erano “tante di quelle domande”. Ne hai qualche altra?
F.       Sì... sui giochi e le cose serie. Siamo partiti da lì e poi non so come o perché questo ci ha portati a parlare dei pasticci. Tu confondi sempre ogni cosa.., è una specie d’imbroglio.
P.       Ma no, assolutamente no.

P.       Tu hai sollevato due problemi. Ma in realtà ce n’è ancora un sacco... Abbiamo cominciato da una doman­da su queste conversazioni: sono serie? Oppure sono una specie di gioco? E ti sentivi offesa dall’idea che io potessi farne un gioco, mentre tu le prendevi sul se­rio. È come se una conversazione fosse un gioco se una persona vi partecipasse con certe emozioni o idee, ma
non fosse un gioco se le sue idee o emozioni fossero diverse.
F.       SI, è che se le tue idee sulla conversazione sono diverse dalle mie...
P.       Se tutti e due avessimo l’idea di giocare, andrebbe be­ne?
F.       Sì... certo.
P.       Allora sembra che dipenda da me chiarire che cosa in­tendo con l’idea di gioco. Io so di essere serio (qualun­que ne sia il significato) nelle cose di cui parliamo. Noi parliamo di idee. E io so di giocare con le idee allo scopo di comprenderle e metterle insieme. È un ‘diver­timento’ nello stesso senso in cui un bambino si ‘di­verte’ coi cubi... E un bambino con i cubi per lo più si comporta in maniera molto seria col suo ‘diverti­mento’.
F.       Ma, papà, è un gioco nel senso che tu giochi contro di me?
P.       No. La mia idea è che tu e io stiamo giocando insieme contro i cubi - le idee. A volte siamo un tantino in competizione, ma in competizione su chi dei due rie­sce a sistemare l’idea successiva. E talvolta uno di noi aggredisce il pezzettino di costruzione dell’altro, op­pure io cerco di difendere le idee che ho costruito dalle tue critiche. Ma alla fin fine lavoriamo sempre insieme per tirar su le idee in modo che si reggano in piedi.

F.       Papà, i nostri discorsi hanno regole? La differenza tra un gioco e il divertirsi puro e semplice è che il gioco
ha delle regole.
P.       Sì. Lasciami pensare. Credo che abbiamo certe regole... e credo che un bambino che gioca coi cubi abbia anche lui le sue regole: I cubi stessi costituiscono una specie di regola. In certe posizioni stanno su e in altre posi­zioni non stanno su. E sarebbe una specie d’imbroglio se il bambino usasse la colla per far star su i cubi in certe posizioni in cui altrimenti cadrebbero.
F.       Ma che regole abbiamo noi?
P.       Re’, le idee con cui giochiamo comportano certe rego­le. Vi sono regole su come le idee si possono reggere e sostenere a vicenda. E se sono messe insieme in modo sbagliato, tutta la costruzione crollerà.
F.       Niente colla, papà?
P.       No... niente colla. Soltanto logica.

F.       Ma tu hai detto che se parlassimo sempre in modo lo­gico e non incappassimo in pasticci, non potremmo di­re mai niente di nuovo. Potremmo dir solo cose bel-l’e fatte. Come le hai chiamate quelle cose?
P.       Clichés. Si. La colla è ciò che tiene insieme i clichés.
F.       Ma tu hai detto ‘logica’, papà.
P.       Sì, lo so. Siamo di nuovo in un pasticcio. Solo che non vedo come faremo a uscire, da questo pasticcio.

F.       Come ci siamo capitati, papà?
P.       Giusto, vediamo se riusciamo a ricostruire i nostri pas­si. Stavamo parlando delle ‘regole’ di queste conversa­zioni. E io ho detto che le idee con cui giochiamo han­no regole di logica...
F.       Papà! Non sarebbe meglio avere un po’ più di regole e seguirle più attentamente? Così non potremmo fini­re in questi terribili pasticci.
P.       Sì, ma aspetta. Tu vuoi dire che io porto la conversa­zione in questi pasticci perché non rispetto certe rego­le che non abbiamo. Oppure, diciamo così: che potremmo farci delle regole che c’impedirebbero di finire nei pasticci — se noi le rispettassimo.
F.       SI, papà, le regole di un gioco servono proprio a que­sto.
P.       Sì, ma tu vuoi che queste conversazioni diventino un gioco di quel tipo? Io preferirei giocare a canasta, che è anche divertente.
F.       SI, è vero. Possiamo giocare a canasta ogni volta che ne abbiamo voglia. Ma adesso preferirei giocare a que­sto gioco. Solo che non so che tipo di gioco sia. E nep­pure che tipo di regole abbia.
P.       Eppure è già da un po’ che stiamo giocando.
F.       SI, ed è stato divertente.
P.       Vero.
P.       Torniamo alla domanda che hai fatto, e io ho detto che era troppo difficile per potervi rispondere oggi. Stavamo parlando del tipografo che disfà i suoi cli­chés, e tu hai detto che deve lo stesso mantenere qual­che ordine tra le sue lettere, per non diventare matto. E poi hai chiesto: che razza di ordine dovremmo mantenere per non diventare matti quando finiamo in un pasticcio? A me sembra che le regole del gio­co siano solo un nome diverso per quel tipo di ordine.
F.       Sì... e l’imbrogliare è ciò che ci caccia nei pasticci.
P.       In un certo senso sì. È vero. Solo che tutto il sugo del gioco è che noi finiamo nei pasticci, e poi ne veniamo fuori dall’altra parte, e se non ci fossero pasticci il no­stro ‘gioco’ sarebbe come la canasta o gli scacchi... e noi non vogliamo che sia così.
F.       Papà, ma sei tu che fai le regole?
P.       Questo, figlia mia, è un tiro mancino. E probabilmen­te anche disonesto. Ma lo accetto per quello che è. Sì, sono io che faccio le regole... dopo tutto non voglio che diventiamo matti.
F.       D’accordo. Ma, papà, tu cambi anche le regole? Qual­che volta?
P.       Uhm, un altro tiro mancino. Sì, figliola mia, le cam­bio continuamente. Ma non tutte, solo qualcuna.
F.       Mi piacerebbe che tu mi dicessi quando stai per cam­biarle!
P.       Uhm... sì... già. Vorrei poterlo fare. Ma non è così sem­plice. Se si trattasse degli scacchi o della canasta, po­trei dirti le regole, e volendo potremmo smettere di giocare e metterci a discutere le regole. E potrem­mo poi cominciare una nuova partita con le nuove regole. Ma a quali regole dovremmo obbedire tra le due partite? Proprio mentre stiamo discutendo le regole?
F.       Non capisco.
P.       Sì, il fatto è che lo scopo di queste conversazioni è quello di scoprire le ‘regole’. È come la vita: un gio­co il cui scopo è di scoprire le regole, regole che cam­biano sempre e non si possono mai scoprire.
F.       Ma quello io non lo chiamo un gioco, papà.
P.       Forse no. Io però lo chiamerei un gioco, o comunque un ‘giocare’. Ma certo non è come gli scacchi o la ca­nasta; è più simile a quello che fanno i gattini o i cuccioli. Forse. Non lo so.

F.       Papà, perché i gattini e i cuccioli giocano?
P.       Non lo so... non lo so...