Figlia. Papà, perché le cose hanno contorni?
Padre. Davvero? Non so. Di quali cose parli?
F. Sì, quando disegno delle cose, perché hanno i contorni?
P. Be’, e le cose di altro tipo.., un gregge di pecore? O una conversazione? Queste cose hanno contorni?
F. Non dire sciocchezze. Non si può disegnare una conversazione. Dico le cose.
P. Sì... stavo solo cercando di capire che cosa volevi dire. Vuoi dire: "Perché quando disegniamo le cose diamo loro dei contorni? ", oppure vuoi dire che le cose hanno dei contorni, che noi le disegniamo oppure no?
F. Non lo so, papà, devi dirmelo tu. Che cosa voglio chiederti?
P. Non lo so, tesoro. C’era una volta un artista molto arrabbiato che scribacchiava cose di ogni genere, e dopo la sua morte guardarono nei suoi quaderni e videro che in un posto aveva scritto: "I savi vedono i contorni e perciò li disegnano", ma in un altro posto aveva scritto: "I pazzi vedono i contorni e perciò li disegnano".
F. Ma che cosa voleva dire? Non capisco.
P. Be’, William Blake - questo era il suo nome - era un grande artista e un uomo molto arrabbiato. E a volte arrotolava le sue idee, facendone palline di carta che poi gettava alla gente.
F. Ma perché era tanto arrabbiato, papà?
P. Perché era tanto arrabbiato? Be’... molta gente pensava che lui fosse matto - proprio matto - pazzo, quando era arrabbiato. E questa era una delle cose che lo facevano arrabbiare da matti. E poi si arrabbiava con certi artisti che dipingevano le figure come se le cose non avessero contorni. Li chiamava "la scuola sbavacchiante".
F. Non era molto tollerante, vero, papà?
P. Tollerante? Dio santo... Sì, lo so... questo è quello che ti ficcano in testa a scuola. No, Blake non era molto tollerante. Non pensava neppure che la tolleranza fosse una buona cosa. Pensava che confondesse tutti i contorni e impantanasse tutto.., che rendesse tutti i gatti grigi. Così che nessuno fosse più in grado di vedere nulla in modo chiaro e netto.
F. Sì, papà.
P. No, questa non è una risposta. Cioè, ’Sì, papà’ non è una risposta. Quello che mi fa capire questa risposta è solo che tu non sai qual è la tua opinione.., e quello che dico io o che dice Blake non vale un fico secco per te e che la scuola ti ha così intontito coi discorsi sulla tolleranza che non sai più vedere la differenza tra una cosa e l’altra.
F. (Piange).
P. Santo cielo, scusami, ma mi sono arrabbiato. Ma non proprio con te. Mi sono arrabbiato per l’approssimazione con cui la gente pensa e agisce... e poi predicano la confusione e la chiamano tolleranza.
F. Ma, papà...
P. Sì?
F. Non so. Mi pare di nomi essere capace di pensare molto bene. È tutto così confuso.
P. Mi spiace. Credo di essere stato io a confonderti quando ho cominciato a sfogarmi.
F. Papà?
P. Dimmi.
F. Perché è una cosa che fa arrabbiare?
P. Che cos’è che fa arrabbiare?
F. Cioè.., se le cose hanno i contorni. Hai detto che William Blake si arrabbiava per questo. E poi tu ti sei arrabbiato per questo. Perché, papà?
P. Si, credo che sia così, in un certo senso. Credo che sia importante. In un certo senso, forse è la cosa importante. E altre cose sono importanti solo perché fanno parte di questa.
F. Mi spieghi, papà?
P. Cioè, be’, parliamo della tolleranza. Quando i Gentili vogliono perseguitare gli Ebrei perché hanno ucciso Cristo, io divento intollerante. Credo che i Gentili abbiano una gran confusione in testa e confondano tutti i contorni. Perché non sono stati gli Ebrei a uccidere Cristo, sono stati gli Italiani.
F. Davvero, papà?
P. Sì, solo che ora quelli che l’uccisero vengono chiamati Romani, e per i loro discendenti usiamo una parola diversa: li chiamiamo Italiani. Vedi, ci sono due pasticci, e io ho creato il secondo apposta per poterci veder chiaro. Primo, c’è il pasticcio di cambiare la storia e dire che sono stati gli Ebrei, e poi c’è il pasticcio di affermare che i discendenti dovrebbero essere responsabili di ciò che i loro antenati non hanno fatto. È una porcheria.
F. Sì, papà.
P. D’accordo, cercherò di non arrabbiarmi di nuovo. Quello che voglio dire è che la confusione e il disordine sono cose per cui ci si deve arrabbiare.
F. Papà?
P. Sì?
F. Anche l’altro giorno parlavamo di disordine. Stiamo parlando della stessa cosa anche adesso?
P. Sì, certamente. Ecco perché è importante... quello che abbiamo detto l’altro giorno.
F. E tu hai detto che il compito della scienza è di rendere chiare le cose.
P. Sì, è ancora la stessa cosa.
F. Mi sembra di non capire troppo bene tutto questo. Oggi cosa sembra essere anche un’altra cosa, e io mi ci perdo.
P. Sì, lo so che è difficile. Il fatto è che le nostre conversazioni hanno un contorno, in un certo senso... se solo lo si potesse vedere chiaramente.
P. Tanto per cambiare, pensiamo a un vero e proprio pasticcio concreto, per vedere se serve. Ti ricordi la partita di croquet in Alice nel paese delle meraviglie?
F. Sì... coi fenicotteri?
P. Si, quella.
F. E cogli istrici al posto delle palle?
P. No, porcospini. Erano porcospini. Non ci sono istrici in Inghilterra.
F. Ah, era in Inghilterra, papà? Non lo sapevo.
P. Certo che era in Inghilterra. In America non ci sono neppure duchesse.
F. Ma c’è la duchessa di Windsor, papà.
P. Sì, ma non ha aculei, non come un vero istrice.
F. Continua con Alice, papà, e non dire sciocchezze.
P. Sì, stavamo parlando dei fenicotteri. Il fatto è che l’uomo che scrisse Alice pensava alle stesse cose cui pensiamo noi. E si divertì con la piccola Alice immaginando una partita a croquet che fosse tutto un pasticcio, un assoluto pasticcio. Così stabilì che si dovessero usare fenicotteri invece di mazze, perché i fenicotteri potevano piegare il collo e così il giocatore non avrebbe saputo se la sua mazza avrebbe colpito la palla né come.
F. D’altra parte la palla poteva andarsene per conto suo, perché era un porcospino.
P. Certo. Così ogni cosa è talmente ingarbugliata che nessuno ha la minima idea di ciò che può accadere.
F. E poi anche gli archi se ne andavano in giro, perché erano soldati.
P. Certo.., ogni cosa poteva muoversi e nessuno poteva dire come si sarebbe mossa.
F. Per far questo pasticcio assoluto era necessario che ogni cosa fosse viva?
P. No... avrebbe potuto fare un pasticcio... no, forse hai ragione. Ecco, questo è interessante. Sì, sì, doveva essere proprio così. Aspetta un momento. È curioso, ma hai ragione. Perché se avesse creato il pasticcio in un altro modo qualunque, i giocatori avrebbero potuto imparare a cavarsela. Cioè, se il campo di croquet fosse stato accidentato, o se le palle avessero avuto una forma bizzarra, o se le teste delle mazze fossero state semplicemente oscillanti, allora i giocatori avrebbero potuto lo stesso imparare e il gioco sarebbe stato solo più difficile, ma non impossibile. Ma una volta che ci si fanno entrare esseri viventi, diventa impossibile. Questo non me l’aspettavo.
F. Davvero, papà? Io si. A me sembra naturale.
P. Naturale? Certo.., abbastanza naturale. Ma non mi sarei aspettato che le cose andassero a quel modo.
F. Perché no? Invece è proprio quello che io mi sarei aspettata.
P. Sì. Ma la cosa che non mi sarei aspettato è questa. Che gli animali, che sono essi stessi in grado di prevedere un poco le cose, e di agire sulla base di ciò che pensano che stia per accadere - un gatto può acchiappare un topo saltando proprio sul punto dove il topo probabilmente sarà quando il gatto avrà completato il salto - ma è proprio il fatto che gli animali sono capaci di prevedere e imparare che li rende le uniche cose veramente imprevedibili del mondo. E pensare che noi facciamo leggi come se le persone fossero del tutto regolari e prevedibili!
F. O forse si fanno le leggi proprio perché le persone non sono prevedibili e quelli che fanno le leggi vorrebbero che gli altri fossero prevedibili?
P. Sì, forse è così.
1953
IL CROQUET DELLA REGINA
Un gran cespuglio di rose stava presso all'ingresso del giardino. Le rose germogliate erano bianche, ma v'erano lì intorno tre giardinieri occupati a dipingerle rosse. «È strano!» pensò Alice, e s'avvicinò per osservarli, e come fu loro accanto, sentì dire da uno: - Bada, Cinque! non mi schizzare la tua tinta addosso!
- E che vuoi da me? - rispose Cinque in tono burbero. - Sette mi ha urtato il braccio.
Sette lo guardò e disse: - Ma bene! Cinque dà sempre la colpa agli altri!
- Tu faresti meglio a tacere! - disse Cinque. - Proprio ieri la Regina diceva che tu meriteresti di essere decapitato!
- Perché? - domandò il primo che aveva parlato.
- Questo non ti riguarda, Due! - rispose Sette.
Sì, che gli riguarda! - disse Cinque; - e glielo dirò io... perché hai portato al cuoco bulbi di tulipani invece di cipolle.
Sette scagliò lontano il pennello, e stava lì lì per dire: - Di tutte le cose le più ingiuste... - quando incontrò gli occhi di Alice e si mangiò il resto della frase. Gli altri similmente si misero a guardarla e le fecero tutti insieme una profonda riverenza.
Volete gentilmente dirmi, - domandò Alice, con molta timidezza, - perché state dipingendo quelle rose?
Cinque e Sette non risposero, ma diedero uno sguardo a Due. Due disse allora sottovoce: - Perché questo qui doveva essere un rosaio di rose rosse. Per isbaglio ne abbiamo piantato uno di rose bianche. Se la Regina se ne avvedesse, ci farebbe tagliare le teste a tutti. Così, signorina, facciamo il possibile per rimediare prima ch'essa venga a...
In quell'istante Cinque che guardava attorno pieno d'ansia, gridò: - La Regina! la Regina! - e i tre giardinieri si gettarono immediatamente a faccia a terra. Si sentì un gran scalpiccìo, e Alice si volse curiosa a veder la Regina.
Prima comparvero dieci soldati armati di bastoni: erano della forma dei tre giardinieri, bislunghi e piatti, le mani e i piedi agli angoli: seguivano dieci cortigiani, tutti rilucenti di diamanti; e sfilavano a due a due come i soldati. Venivano quindi i principi reali, divisi a coppie e saltellavano a due a due, tenendosi per mano: erano ornati di cuori.
Poi sfilavano gli invitati, la maggior parte re e regine, e fra loro Alice riconobbe il Coniglio Bianco che discorreva in fretta nervosamente, sorridendo di qualunque cosa gli si dicesse. Egli passò innanzi senza badare ad Alice. Seguiva il fante di cuori, portando la corona reale sopra un cuscino di velluto rosso; e in fondo a tutta questa gran processione venivano IL RE E LA REGINA DI CUORI.
Alice non sapeva se dovesse prosternarsi, come i tre giardinieri, ma non poté ricordarsi se ci fosse un costume simile nei cortei reali.
«E poi, a che servirebbero i cortei, - riflettè, - se tutti dovessero stare a faccia per terra e nessuno potesse vederli?»
Così rimase in piedi ad aspettare.
Quando il corteo arrivò di fronte ad Alice, tutti si fermarono e la guardarono; e la Regina gridò con cipiglio severo: - Chi è costei? - e si volse al fante di cuori, il quale per tutta risposta sorrise e s'inchinò.
- Imbecille! - disse la Regina, scotendo la testa impaziente; indi volgendosi ad Alice, continuò a dire: - Come ti chiami, fanciulla?
- Maestà, mi chiamo Alice, - rispose la fanciulla con molta garbatezza, ma soggiunse fra sé: «Non è che un mazzo di carte, dopo tutto? Perché avrei paura?»
- E quelli chi sono? - domandò la Regina indicando i tre giardinieri col viso a terra intorno al rosaio; perché, comprendete, stando così in quella posizione, il disegno posteriore rassomigliava a quello del resto del mazzo, e la Regina non poteva distinguere se fossero giardinieri, o soldati, o cortigiani, o tre dei suoi stessi figliuoli.
- Come volete che io lo sappia? - rispose Alice, che si meravigliava del suo coraggio. - È cosa che non mi riguarda.
La Regina diventò di porpora per la rabbia e, dopo di averla fissata selvaggiamente come una bestia feroce, gridò: - Tagliatele la testa, subito!...
- Siete matta! - rispose Alice a voce alta e con fermezza; e la Regina tacque.
Il Re mise la mano sul braccio della Regina, e disse timidamente: - Rifletti, cara mia, è una bambina!
La Regina irata gli voltò le spalle e disse al fante: - Voltateli!
Il fante obbedì, e con un piede voltò attentamente i giardinieri.
- Alzatevi! - gridò la Regina, e i tre giardinieri, si levarono immediatamente in piedi, inchinandosi innanzi al Re e alla Regina, ai principi reali, e a tutti gli altri.
- Basta! - strillò la regina. - Mi fate girare la testa. - E guardando il rosaio continuò: - Che facevate qui?
- Con buona grazia della Maestà vostra, - rispose Due umilmente, piegando il ginocchio a terra, tentavamo...
- Ho compreso! - disse la Regina, che aveva già osservato le rose, - Tagliate loro la testa! - E il corteo reale si rimise in moto, lasciando indietro tre soldati, per mozzare la testa agli sventurati giardinieri, che corsero da Alice per esserne protetti.
- Non vi decapiteranno! - disse Alice, e li mise in un grosso vaso da fiori accanto a lei. I tre soldati vagarono qua e là per qualche minuto in cerca di loro, e poi tranquillamente seguirono gli altri.
- Avete loro mozzata la testa? - gridò la Regina.
- Maestà, le loro teste se ne sono andate! - risposero i soldati.
- Bene! - gridò la Regina. - Si gioca il croquet?
I soldati tacevano e guardavano Alice, pensando che la domanda fosse rivolta a lei.
- Sì! - gridò Alice.
Venite qui dunque! - urlò la Regina. E Alice seguì il corteo, curiosa di vedere il seguito.
- Che bel tempo! - disse una timida voce accanto a lei. Ella s'accorse di camminare accanto al Coniglio bianco, che la scrutava in viso con una certa ansia.
- Bene, - rispose Alice: - dov'è la Duchessa?
- St! st! - disse il Coniglio a voce bassa, con gran fretta. Si guardò ansiosamente d'intorno levandosi in punta di piedi, avvicinò la bocca all'orecchio della bambina: - È stata condannata a morte.
- Per qual reato? - domandò Alice.
- Hai detto: «Che peccato?» - chiese il Coniglio.
- Ma no, - rispose Alice: - Ho detto per che reato?
- Ha dato uno schiaffo alla Regina... -cominciò il coniglio.
Alice ruppe in una risata.
- Zitta! - bisbigliò il Coniglio tutto tremante. - Ti potrebbe sentire la Regina! Sai, è arrivata tardi, e la Regina ha detto...
- Ai vostri posti! - gridò la Regina con voce tonante. E gl'invitati si sparpagliarono in tutte le direzioni, l'uno rovesciando l'altro: finalmente, dopo un po', poterono disporsi in un certo ordine, e il giuoco cominciò. Alice pensava che in vita sua non aveva mai veduto un terreno più curioso per giocare il croquet; era tutto a solchi e zolle; le palle erano ricci, i mazzapicchi erano fenicotteri vivi, e gli archi erano soldati vivi, che si dovevano curvare e reggere sulle mani e sui piedi.
La principale difficoltà consisteva in ciò, che Alice non sapeva come maneggiare il suo fenicottero; ma poi riuscì a tenerselo bene avviluppato sotto il braccio, con le gambe penzoloni; ma quando gli allungava il collo e si preparava a picchiare il riccio con la testa, il fenicottero girava il capo e poi si metteva a guardarla in faccia con una espressione di tanto stupore che ella non poteva tenersi dallo scoppiare dalle risa: e dopo che gli aveva fatto abbassare la testa, e si preparava a ricominciare, ecco che il riccio si era svolto, e se n'andava via. Oltre a ciò c'era sempre una zolla o un solco là dove voleva scagliare il riccio, e siccome i soldati incurvati si alzavano e andavan vagando qua e là, Alice si persuase che quel giuoco era veramente difficile.
I giocatori giocavano tutti insieme senza aspettare il loro turno, litigando sempre e picchiandosi a cagion dei ricci; e in breve la Regina diventò furiosa, e andava qua e là pestando i piedi e gridando:
- Mozzategli la testa! - oppure: - Mozzatele la testa! - almeno una volta al minuto.
- Alice cominciò a sentirsi un po' a disagio: e vero che non aveva avuto nulla da dire con la Regina; ma poteva succedere da un momento all'altro, e pensò: «Che avverrà di me? Qui c'è la smania di troncar teste. Strano che vi sia ancora qualcuno che abbia il collo a posto!»
E pensava di svignarsela, quando scorse uno strano spettacolo in aria. Prima ne restò sorpresa, ma dopo aver guardato qualche istante, vide un ghigno e disse fra sé: «È Ghignagatto: potrò finalmente parlare con qualcuno.»
- Come va il giuoco? - disse il Gatto, appena ebbe tanto di bocca da poter parlare.
Alice aspettò che apparissero gli occhi, e poi fece un cenno col capo. «È inutile parlargli, - pensò, - aspettiamo che appaiano le orecchie, almeno una.» Tosto apparve tutta la testa, e Alice depose il suo fenicottero, e cominciò a raccontare le vicende del giuoco, lieta che qualcuno le prestasse attenzione. Il Gatto intanto dopo aver messa in mostra la testa, credé bene di non far apparire il resto del corpo.
- Non credo che giochino realmente, - disse Alice lagnandosi. - Litigano con tanto calore che non sentono neanche la loro voce... non hanno regole nel giuoco; e se le hanno, nessuno le osserva... E poi c'è una tal confusione con tutti questi oggetti vivi; che non c'è modo di raccapezzarsi. Per esempio, ecco l'arco che io dovrei attraversare, che scappa via dall'altra estremità del terreno... Proprio avrei dovuto fare croquet col riccio della Regina, ma è fuggito non appena ha visto il mio.
- Ti piace la Regina? - domandò il Gatto a voce bassa.
- Per nulla! - rispose Alice; - essa è tanto... - Ma s'accorse che la Regina le stava vicino in ascolto, e continuò -...abile al giuoco, ch'è inutile finire la partita.
La Regina sorrise e passò oltre.
- Con chi parli? - domandò il Re che s'era avvicinato ad Alice, e osservava la testa del Gatto con grande curiosità.
- Con un mio amico... il Ghignagatto, - disse Alice; - vorrei presentarlo a Vostra Maestà.
- Quel suo sguardo non mi piace, - rispose il Re; - però se vuole, può baciarmi la mano.
- Non ho questo desiderio, - osservò il Gatto.
- Non essere insolente, - disse il Re, - e non mi guardare in quel modo. - E parlando si rifugiò dietro Alice.
- Un gatto può guardare in faccia a un re, - osservò Alice, - l'ho letto in qualche libro, ma non ricordo dove.
- Ma bisogna mandarlo via, - disse il Re risoluto; e chiamò la Regina che passava in quel momento:
- Cara mia, vorrei che si mandasse via quel Gatto!
La Regina conosceva un solo modo per sciogliere tutte le difficoltà, grandi o piccole, e senza neppure guardare intorno, gridò: - Tagliategli la testa!
- Andrò io stesso a chiamare il carnefice, - disse il Re, e andò via a precipizio.
Alice pensò che intanto poteva ritornare per vedere il progresso del gioco, mentre udiva da lontano la voce della Regina che s'adirava urlando. Ella aveva sentito già condannare a morte tre giocatori che avevano perso il loro turno. Tutto ciò non le piaceva, perché il gioco era diventato una tal confusione ch'ella non sapeva più se fosse la sua volta di tirare o no. E si mise in cerca del suo riccio.
Il riccio stava allora combattendo contro un altro riccio; e questa sembrò ad Alice una buona occasione per batterli a croquet l'uno contro l'altro: ma v'era una difficoltà: il suo fenicottero era dall'altro lato del giardino, e Alice lo vide sforzarsi inutilmente di volare su un albero. Quando le riuscì d'afferrare il fenicottero e a ricondurlo sul terreno, la battaglia era finita e i due ricci s'erano allontanati. «Non importa, - pensò Alice, - tanto tutti gli archi se ne sono andati dall'altro lato del terreno.» E se lo accomodò per benino sotto il braccio per non farselo scappare più, e ritornò dal Gatto per riattaccare discorso con lui.
Ma con sorpresa trovò una gran folla raccolta intorno al Ghignagatto; il Re, la Regina e il carnefice urlavano tutti e tre insieme, e gli altri erano silenziosi e malinconici.
Quando Alice apparve fu chiamata da tutti e tre per risolvere la questione. Essi le ripeterono i loro argomenti; ma siccome parlavano tutti in una volta, le fu difficile intendere che volessero.
Il carnefice sosteneva che non si poteva tagliar la testa dove mancava un corpo da cui staccarla; che non aveva mai avuto da fare con una cosa simile prima, e che non voleva cominciare a farne alla sua età.
L'argomento del Re, era il seguente: che ogni essere che ha una testa può essere decapitato, e che il carnefice non doveva dire sciocchezze.
L'argomento della Regina era questo: che se non si fosse eseguito immediatamente il suo ordine, avrebbe ordinato l'esecuzione di quanti la circondavano. (E quest'ingiunzione aveva dato a tutti quell'aria grave e piena d'ansietà.)
Alice non seppe dir altro che questo: - Il Gatto è della Duchessa: sarebbe meglio interrogarla.
- Ella è in prigione, - disse la Regina al carnefice: - Conducetela qui. - E il carnefice volò come una saetta.
Andato via il carnefice, la testa del Gatto cominciò a dileguarsi, e quando egli tornò con la Duchessa non ce n'era più traccia: il Re e il carnefice corsero qua e là per ritrovarla, mentre il resto della brigata si rimetteva a giocare.