mercoledì 30 novembre 2011

il Te del Tao: XXX - LIMITARE LE OPERAZIONI MILITARI


XXX - LIMITARE LE OPERAZIONI MILITARI

Quei che col Tao assiste il sovrano
non fa violenza al mondo con le armi,
nelle sue imprese preferisce controbattere.
Là dove stanziano le milizie
nascono sterpi e rovi,
al seguito dei grandi eserciti
vengono certo annate di miseria.
Chi ben li adopra
soccorre e basta,
non osa con essi acquistar potenza.
Soccorre e non si esalta,
soccorre e non si gloria,
soccorre e non s'insuperbisce,
soccorre quando non può farne a meno,
soccorre ma non fa violenza.
Quel che s'invigorisce allor decade:
vuol dire che non è conforme al Tao.
Ciò che non è conforme al Tao presto finisce.


M.C. Escher, Sphere Spirals, Woodcut printed from four blocks, 1958

49 Tao


















In un altro paese

In autunno c'era ancora la guerra, ma noi non ci andavamo più. Faceva freddo in autunno, a Milano, e il buio calava molto presto. Allora si accendevano le luci elettriche, ed era divertente camminare per le strade guardando le vetrine.
C'era molta selvaggina appesa davanti ai negozi, e la neve spolverava la pelliccia delle volpi e il vento ne gonfiava la coda. I cervi penzolavano rigidi e vuoti e pesanti, e gli uccellini si gonfiavano al vento e il vento ne scompigliava le piume. Era un autunno freddo, il vento veniva giù dalle montagne.
Ogni pomeriggio andavamo tutti all'ospedale, e c'erano vari modi di arrivarci, nel crepuscolo, attraverso la città. Due di questi modi erano seguendo i canali, ma la strada era lunga. Sempre, però, per entrare nell'ospedale, si attraversava un ponte su un canale. Si poteva scegliere fra tre ponti. Su uno di essi una donna vendeva caldarroste. Si stava al calduccio, davanti al fuoco della sua carbonella, e dopo le castagne erano calde nella tua tasca. L'ospedale era molto vecchio e molto bello, e si entrava da un cancello, si attraversava un cortile e si usciva da un cancello dalla parte opposta. Di solito c'erano dei funerali che partivano dal cortile. Oltre il vecchio ospedale c'erano i nuovi padiglioni in muratura, e là c'incontravamo ogni pomeriggio, eravamo tutti molto gentili e molto interessati a quello che affliggeva tizio o caio, e stavamo seduti nelle macchine che dovevano cambiare ogni cosa, o quasi.
Il dottore si avvicinò alla macchina dove stavo seduto io e disse: - Cosa le piaceva fare di più, prima della guerra? Praticava uno sport?
Dissi: - Si, il football.
- Bene, - disse lui. - Potrà tornare a giocare a football meglio che mai.
Il mio ginocchio non si piegava e la gamba pendeva irrigidita dal ginocchio alla caviglia, senza polpaccio, e la macchina doveva piegare il ginocchio e farlo muovere come se andassi in bicicletta. Ancora non si piegava, però, e quando veniva il momento di piegarlo, era la macchina, invece, a incepparsi. Il dottore disse: - Tutto questo passerà. Lei è un giovanotto fortunato. Tornerà a giocare a football come un campione.
Nella macchina vicina c'era un maggiore che aveva una mano piccola come quella di un bambino. Mi strizzò l'occhio quando il dottore gli visitò la mano, che era tra due cinghie di cuoio che saltavano su e giù e facevano muovere le dita irrigidite, e disse: - E giocherò anch'io a football, capitano medico? - Era stato un grandissimo schermitore, e prima della guerra il più grande schermitore italiano.
Il dottore andò nel suo ufficio, in una stanza in fondo alla sala, e ci portò una fotografia che mostrava una mano che, prima della cura, era piccola quasi come quella del maggiore, e che dopo era un po' più grande. Il maggiore tenne la fotografia con la mano buona e la studiò molto attentamente. - Una ferita? - chiese.
- Un infortunio sul lavoro, - disse il dottore.
- Molto interessante, molto interessante, - disse il maggiore, e la restituì al dottore.
- Ha fiducia?
- No, - disse il maggiore.
C'erano tre ragazzi che venivano ogni giorno e avevano circa la mia età. Erano di Milano, tutt'e tre, e uno doveva fare l'avvocato, uno il pittore, e uno avrebbe voluto fare la carriera militare, e quando avevamo finito con le macchine a volte tornavamo insieme al Caffè Cova, che era vicino alla Scala. Poiché eravamo in quattro, prendevamo la via più breve attraverso il quartiere comunista perché eravamo in quattro. La gente ci odiava perché eravamo ufficiali, e da un'osteria, mentre passavamo, qualcuno gridava: - Abbasso gli ufficiali! - Un altro ragazzo che qualche volta veniva con noi, portando così a cinque il numero dei componenti la comitiva, aveva sulla faccia un fazzoletto di seta nera perché allora era senza naso e dovevano rifargli il viso. Era andato al fronte direttamente dall'accademia militare e lo avevano ferito meno di un'ora dopo il suo arrivo in prima linea. Gli ricostruirono la faccia, ma lui veniva da un'antichissima famiglia e così non riuscivano mai a fargli il naso giusto. Poi andò in Sudamerica a lavorare in una banca. Ma quello di cui racconto accadde tanto tempo fa, e allora non sapevamo, nessuno di noi lo sapeva, come sarebbero andate, dopo, le cose. Allora sapevamo soltanto che c'era ancora la guerra, ma che noi non ci saremmo più andati.
Avevamo tutti le stesse medaglie, tranne il ragazzo con la benda di seta nera sul viso, lui non era stato al fronte abbastanza tempo per guadagnarsi una medaglia. Il ragazzo alto dalla faccia pallidissima che doveva fare l'avvocato era stato tenente degli arditi e aveva tre medaglie del tipo di cui noi ne avevamo una sola. Per molto tempo era vissuto fianco a fianco alla morte e aveva un'aria piuttosto distaccata. Avevamo tutti un'aria piuttosto distaccata, e non c'era nulla che ci unisse tranne il fatto che ogni pomeriggio c'incontravamo all'ospedale. Anche se, mentre andavamo al Cova attraverso la parte meno raccomandabile della città, camminando nel buio, con luci e canti che uscivano dalle osterie, e dovendo certe volte imboccare una strada dove gli uomini e le donne si affollavano sul marciapiede, cosa che ci costringeva a urtarli per passare, ci sentivamo uniti dal fatto che era successo qualcosa che loro, le persone che ci avevano in uggia, non potevano capire.
Quanto a noi, capivamo bene il Cova, che era comodo e caldo e non troppo vivamente illuminato, e rumoroso e pieno di fumo a certe ore, e c'erano sempre ragazze ai tavoli e giornali illustrati su una rastrelliera appesa al muro. Le ragazze del Cova erano molto patriottiche, e io scoprii che in Italia le persone più patriottiche erano le ragazze dei caffè, e credo che lo siano ancora.
All'inizio i ragazzi furono assai gentili, s'interessarono alle mie medaglie e mi chiesero cos'avevo fatto per guadagnarmele. Mostrai loro i documenti, che erano scritti in uno stile bellissimo e pieno di fratellanza e abnegazione, ma che in realtà dicevano, tolti tutti i fronzoli, che mi avevano assegnato le medaglie perché ero americano. Dopodiché il loro atteggiamento verso di me cambia un tantino, anche se, di fronte agli estranei, ero sempre un amico. Ero un amico, ma non più veramente uno di loro, quand'ebbero letto le citazioni, perché per loro era stato diverso, per guadagnarsi le medaglie, avevano fatto cose ben diverse. Io ero stato ferito, questo è vero; ma tutti sapevamo che essere feriti, dopo tutto, dipendeva solo dal caso. Non mi vergognai mai dei nastrini, però, e qualche volta, dopo l'ora del cocktail, immaginavo di aver fatto, per guadagnarmi le medaglie, tutte le cose che avevano fatto loro; ma la sera, tornando a casa per le strade vuote col vento freddo e tutti i negozi chiusi, cercando di tenermi vicino ai lampioni, sapevo che quelle cose non le avrei fatte mai, e avevo una gran paura di morire, e spesso stavo a letto, di notte, tutto solo, chiedendomi come mi sarei comportato quando fossi tornato al fronte.
I tre con le medaglie erano come falchi cacciatori; e io non ero un falco, anche se un falco potevo sembrare a coloro che non avevano mai cacciato; loro, i tre, la sapevano più lunga, e per questo le nostre vie si separarono. Ma rimasi buon amico del ragazzo che era stato ferito il suo primo giorno al fronte, perché ora non avrebbe mai saputo come si sarebbe comportato; così neanche lui poteva essere accettato, e mi piaceva perché pensavo che forse neanche lui sarebbe diventato un vero falco.
II maggiore, che era stato un grande schermitore, non credeva nel coraggio, e quando stavamo seduti nelle macchine passava molto tempo a correggermi gli errori di grammatica. Mi aveva fatto i complimenti per come parlavo l'italiano, e insieme conversavamo con molta disinvoltura. Un giorno avevo detto che l'italiano mi sembrava così facile che non riuscivo a provare un particolare interesse per questa lingua: tutto era così semplice da dire... - Ah, si, - disse il maggiore. - Perché, allora, non comincia a studiare la grammatica? - Cominciammo dunque a studiare la grammatica, e subito l'italiano diventò così difficile che non ebbi più il coraggio di rivolgergli la parola finché non ebbi la grammatica sulla punta delle dita.
Il maggiore veniva all'ospedale con molta regolarità. Penso che non avesse saltato un giorno, anche se sono certo che non credeva nelle macchine. Ci fu un periodo in cui nessuno dei due credeva nelle macchine, e un giorno il maggiore disse che erano tutte sciocchezze. Allora le macchine erano nuove ed eravamo noi che dovevamo provarle. Era un'idea idiota, disse lui, una teoria come un'altra. Io non avevo imparato la grammatica, e lui disse che ero uno stupido, una persona impossibile, e che mi dovevo vergognare, e che lui era stato uno sciocco a disturbarsi per me. Era un uomo piccino, sedeva impettito sulla seggiola con la destra ficcata nella macchina e guardava il muro, diritto davanti a sé, mentre le cinghie andavano rumorosamente su e giù facendogli muovere le dita.
- Che farà quando la guerra finirà, se finirà? - mi chiese. - Attento alla grammatica!
Andrò negli Stati Uniti.
E’ sposato ?
- No, ma spero di sposarmi.
- Tanto peggio per lei, - disse. Pareva arrabbiatissimo. - Un uomo non deve sposarsi.
- Perché, signor maggiore ?
- Non mi chiami « signor maggiore».
- Perché un uomo non deve sposarsi?
- Non può sposarsi. Non può sposarsi, - disse rabbiosamente. - Se non vuol perdere tutto, non dovrebbe mettersi nella condizione di perderlo. Non dovrebbe mettersi nella condizione di perdere. Dovrebbe trovare delle cose che non si possono perdere.
Parlava rabbiosamente e con grande asprezza, e parlando teneva lo sguardo fisso davanti a sé.
- Ma perché dovrebbe necessariamente perderlo?
- Lo perderà, - disse il maggiore. Stava guardando il muro. Poi abbassò gli occhi alla macchina e strappò via la manina dalle cinghie e se la batté con forza sulla coscia.
- Lo perderà, - disse, quasi urlando. - Non discuta con me! - Poi chiamò l'assistente che badava alle macchine. - Venga a spegnere quest'ordigno maledetto.
Tornò nell'altra stanza per la cura con la luce e il massaggio. Poi lo sentii chiedere al dottore se poteva usare il suo telefono e chiuse la porta. Quando rientrò nella stanza, io ero seduto in un'altra macchina. Lui indossava la mantella e aveva il berretto in testa, venne dritto verso la mia macchina e mi mise una mano sulla spalla.
- Sono veramente desolato, - disse, e con la mano buona mi diede un colpetto sulla spalla. - Non volevo essere scortese. Mia moglie è appena morta. Deve perdonarmi.
- Oh... - dissi, sentendomi male per lui. - Mi dispiace tanto.
Rimase là mordendosi il labbro inferiore. - E’ molto difficile, - disse. - Non riesco a rassegnarmi.
Il suo sguardo mi attraversava e si perdeva alle mie spalle fuori dalla finestra. Poi il maggiore si mise a piangere. - Sono assolutamente incapace di rassegnarmi, - disse con voce strozzata, e poi, piangendo, a testa alta, con lo sguardo vuoto, con un'andatura rigida e marziale, con le guance rigate di lacrime e mordendosi le labbra, passò davanti alle macchine e uscì dalla porta.
Il dottore mi disse che la moglie del maggiore, che era giovanissima e che lui aveva sposato soltanto dopo essere stato esentato dal servizio per invalidità, era morta di polmonite. Si era ammalata solo qualche giorno prima. Nessuno si aspettava che morisse. Il maggiore non venne all'ospedale per tre giorni. Poi arrivò alla solita ora, portava una benda nera sulla manica dell'uniforme. Quando tornò, appese al muro c'erano delle grandi. fotografie in cornice di lesioni di ogni genere, prima e dopo la cura con le macchine. Davanti alla macchina usata dal maggiore c'erano tre fotografie di mani come la sua che erano completamente guarite. Non so dove il dottore fosse andato a pescarle. Da quello che avevo sempre sentito dire, noi eravamo i primi a usare quelle macchine. Le fotografie non contarono granché per il maggiore, che ora si limitava a guardar fuori dalla finestra.
Ketchum Cemetery, Ketchum, Blaine County, Idaho, USA
http://www.hemingwaysociety.org/

gioco e fantasia del Tao - 2


(2) Se si riflette sull'evoluzione della comunicazione, è evidente che una fase molto importante in questa evoluzione viene raggiunta quando l'organismo cessa a poco a poco di rispondere 'automaticamente' ai segni dello stato di umore dell'altro, e diviene capace di riconoscere che il segno è un segnale, di riconoscere, cioè, che i segnali dell'altro individuo, e anche i suoi, sono soltanto segnali, che possono essere creduti, non creduti, contraffatti, negati, amplificati, corretti,e così via.
È chiaro che questa consapevolezza che i segnali sono segnali non è affatto completa, neppure tra gli uomini. Troppo spesso noi tutti reagiamo in modo automatico ai titoli dei giornali, come se questi stimoli fossero indicazioni oggettive dirette di eventi del nostro ambiente, piuttosto che segnali elaborati e trasmessi da creature le cui motivazioni sono altrettanto complesse delle nostre. Un mammifero non umano è automaticamente eccitato dalI'odore sessuale di un altro; e giustamente, poiché la secrezione di quel segno è un 'involontario' segno di umore, cioè un evento, percettibile  all'esterno, che è parte del processo fisiologico che abbiamo chiamato umore. Tra gli uomini la situazione è, di regola, più complicata: i deodoranti mascherano i segni olfattivi involontari e, per sostituire questi ultimi, l'industria dei cosmetici fornisce all'individuo profumi che non sono segni involontari, ma volontari e riconoscibili come tali. Più di un uomo ha perso la testa per un alito di profumo, e, se si deve prestar fede alla pubblicità, sembra che questi segnali volontariamente portati abbiano talvolta un effetto automatico e  di autosuggestione anche sul loro portatore volontario.
Comunque sia, questa breve digressione servirà a illustrare una fase dell'evoluzione: il dramma che esplode quando gli organismi, mangiato il frutto dell' Albero della Conoscenza, scoprono che i loro segnali sono segnali. Non solo può aver luogo a questo punto l'invenzione tipicamente umana del linguaggio, ma si possono avere le complessità dell'empatia, dell'identificazione, della proiezione, e così via; e da ciò nasce anche la possibilità di comunicare ai molteplici livelli di astrazione sopra menzionati.

(A Theory of Play and Fantasy, 1954) - 1

martedì 29 novembre 2011

sulla realtà del Tao quantico


A quantum wave function was originally conceived by Schröedinger as a tangible, physical wave. This viewpoint was quickly threatened both by Born relating the wave function to probabilities, and by the realisation that quantum states could not always be assigned separately to individual systems. Nevertheless most physicists and chemists concerned with pragmatic applications successfully treat the quantum state as a real object encoding all properties of microscopic systems. However, many ... have suggested that the quantum state should properly be viewed as something less than real. For example:

... I incline to the opinion that the wave function does not (completely) describe what is real, but only a (to us) empirically accessible maximal knowledge regarding that which really exists [...] This is what I mean when I advance the view that quantum mechanics gives an incomplete description of the real state of a airs. 

The motivation for physicists to take an interest in this question was eloquently stated by Jaynes:

But our present QM formalism is not purely epistemological; it is a peculiar mixture describing in part realities of Nature, in part incomplete human information about Nature - all scrambled up by Heisenberg and Bohr into an omelette that nobody has seen how to unscramble. Yet we think that the unscrambling is a prerequisite for any further advance in basic physical theory. For, if we cannot separate the subjective and objective aspects of the formalism, we cannot know what we are talking about; it is just that simple.












Some physicists hold that quantum systems do not have physical properties, or that the existence of quantum systems at all is a convenient fiction. In this case, the state vector is a mere calculational device, used to make predictions of the probabilities for macroscopic events. This work, however, proceeds on the assumption that quantum systems - like atoms and photons - exist, and have at least some physical properties. We assume very little about these properties, for example we do not assume that systems have a de nite position or momentum. The statistical view of the quantum state is that it merely encodes an experimenter's information about the properties of a system. We will describe a particular measurement and show that the quantum predictions for this measurement are incompatible with this view.

Maturità (9 di Denari)


Quando il frutto è maturo, cade da solo dall'albero. Il momento prima era appeso a un ramo tramite un filo molto sottile, il picciolo, ricolmo di succo; l'attimo dopo cade - non perché sia stato costretto, né perché abbia fatto uno sforzo per saltare, ma perché l'albero ha riconosciuto il suo essere maturo e lo ha lasciato andare. Quando questa carta compare in una lettura, è un segno che sei pronto a condividere le tue ricchezze interiori, il tuo "nettare". Tutto ciò che devi fare è rilassarti là dove sei, e permettere che accada. Questa condivisione di te stesso, quest'espressione della tua creatività, può giungere in molti modi - nel lavoro, nelle relazioni, nelle esperienze della vita di tutti i giorni. Non è richiesta alcuna preparazione speciale, né uno sforzo da parte tua. È semplicemente il momento giusto!

Solo se la tua meditazione ti ha condotto a una luce che risplende ogni notte, solo allora anche la morte per te non sarà tale, bensì una soglia verso il divino. Con la luce nel cuore, la morte stessa si trasforma in una soglia, ed entri nello spirito universale; ti unisci all'oceano. E se non giungi a conoscere quest'esperienza oceanica, hai vissuto invano. Il tempo è sempre 'adesso', e il frutto è sempre maturo. Devi solo farti coraggio ed entrare nella tua foresta interiore. Il frutto è sempre maturo e il tempo è sempre quello giusto. Non esiste una cosa definibile "il momento sbagliato"!

TA(O)rkus



Tao paradossale


"Non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me."

"Se lo spazio è curvo, che mensole metti?"
Maurizio Crozza

Il paradosso (dal greco para - contro - e doxa - opinione) nelle sue varie forme è stato sempre presente, dalla logica matematica alla fisica alle rappresentazioni grafiche e musicali (vedi sopra) al funzionamento di alcuni tipi di sistemi agli effetti comportamentali pragmatici della comunicazione sia umana che animale;
Il loro studio formale è stato fatto, tra gli altri, da Russell e Whitehead nell'ambito della logica formale e matematica sviluppando la Teoria dei Tipi logici nel contesto della definizione di livelli tra classi e metaclassi, la quale doveva salvare la logica classica aristotelica dalla devastante presenza dei paradossi. Benchè la sua importanza in logica sia stata superata dai teoremi di Godel, la sua applicazione è stata utilizzata dal gruppo di Bateson in un contesto molto diverso, sviluppando la teoria del doppio legame per l'eziologia della schizofrenia, dove l'effetto pragmatico di una situazione paradossale ha effetti comportamentali devastanti:

“Quello che Russell e Whitehead affrontavano era un problema molto astratto: la logica, nella quale essi credevano, doveva essere salvata dai grovigli che nascono quando i "tipi logici", come li chiamava Russell, vengono bistrattati nella loro rappresentazione matematica.Non so se, mentre lavoravano ai "Principia", Russell e Whitehead avessero idea che l'oggetto del loro interesse è essenziale per la vita degli esseri umani e degli altri organismi.Di certo Whitehead sapeva che giocherellando con i tipi ci si può divertire e si può farne scaturire l'umorismo. Ma dubito che egli abbia mai superato la fase del divertimento e sia giunto a capire che il gioco non era insignificante e che avrebbe gettato luce sull'intera biologia.”

La Scuola di Palo Alto di Watzlawick ha ulteriormente sviluppato le caratteristiche della comunicazione paradossale e dei suoi effetti pragmatici considerando i paradossi tra i tre livelli logici insiti nella comunicazione umana: l'espressione verbale, quella non-verbale ed il contesto nel quale il soggetto vive, comunica ed interagisce.
René Magritte, Golconde, 1953

Natura del paradosso
Il paradosso non solo pervade l’interazione e influenza il nostro comportamento e la nostra salute mentale, ma sfida anche la nostra fede nella coerenza, e quindi nella fermezza ultima, del nostro universo. Il paradosso intenzionale ha un’importante potenziale terapeutico.


Definizione
Si può definire il paradosso come una contraddizione che deriva dalla deduzione corretta da premesse coerenti.

Tre tipi di paradosso
La prima classe riguarda le antinomie, che secondo W. Quine “producono un’autocontraddizione, in base alle regole accettate dal ragionamento” . W. Stegmüller è più specifico e definisce un’antinomia come un’asserzione che è sia contraddittoria che dimostrabile.
C’è poi una seconda classe di paradossi che differiscono dalle antinomie soltanto in un unico aspetto importante: non si presentano nei sistemi logici e matematici ma derivano piuttosto da certe incoerenze nascoste nella struttura di livello del pensiero e del linguaggio. Ci si riferisce a questo secondo gruppo come alle antinomie semantiche o definizioni paradossali.
Infine, c’è un terzo gruppo di paradossi che si presentano nelle interazioni e determinano il comportamento. Definiremo questo gruppo paradossi pragmatici che si possono dividere in ingiunzioni paradossali e predizioni paradossali.
Ecco i tre tipi di paradossi:

1. Antinomie: paradossi logico-matematici;
2. Antinomie semantiche: definizioni paradossali;
3. Paradossi pragmatici: ingiunzioni paradossali e predizioni paradossali.

Il primo tipo corrisponde alla sintassi logica, il secondo alla semantica e il terzo alla pragmatica.

Paradossi logico-matematici
Il più famoso paradosso di questo gruppo è sulla “classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse”. Una classe è la totalità di tutti gli oggetti che hanno una certa proprietà. Quindi, ad esempio, la classe dei gatti contiene tutti i gatti, passati, presenti e futuri. Avendo stabilito questa classe, tutti gli altri oggetti che restano nell’universo si possono considerare la classe dei non-gatti, perché tutti questi oggetti hanno in comune una proprietà ben definita: essi non sono gatti. Ora ogni asserzione che implichi che un oggetto appartiene ad entrambe queste classi sarebbe una semplice contraddizione, perché nulla può essere nello stesso tempo gatto e non-gatto. Ma non è accaduto niente di straordinario: che ci sia questa contraddizione dimostra semplicemente che è stata violata una legge fondamentale della logica e che la logica stessa non ne soffre.
Lasciamo stare gatti e non-gatti individuali e salendo ad un livello logico più elevato, cerchiamo di capire che cosa sono le classi. E’ evidente che esse possono essere o non essere membri di se stesse. La classe di tutti i concetti, per esempio, è ovviamente essa stessa un concetto, mentre la nostra classe di gatti non è essa stessa un gatto. Dunque, a questo secondo livello, l’universo è ancora diviso in due classi, quelle che sono membri di se stesse e quelle che non lo sono. Inoltre, ogni asserzione che implichi che una di queste classi è e non è membro di se stessa equivarrebbe ad una semplice contraddizione da mettere da parte senza pensarci ulteriormente.
Chiamiamo M le classi che sono membri di se stesse e N le classi che non sono membri di se stesse. Non dimentichiamo che la divisione dell’universo in classi che contengono se stesse (self-membership) e in classi che non contengono se stesse (non self-membership) è esaustiva; non ci possono essere, per definizione, eccezioni di sorta. Quindi se la classe N è membro di se stessa, non è un membro di se stessa, perché N è la classe delle classi che non sono membri di se stesse. D’altra parte, se N non è membro di se stessa, allora soddisfa la condizione di contenere se stessa: è un membro di se stessa proprio perché non è membro di se stessa, perché il non-contenere se stessa è la distinzione essenziale di tutte le classi che compongono N. Questa non è una semplice contraddizione, ma una vera antinomia, perché il risultato paradossale si basa su una rigorosa deduzione logica e non sulla violazione delle leggi della logica.
In realtà si tratta di una fallacia. B. Russell l’ha resa evidente con la sua teoria dei tipi logici. Per dirla assai in breve, questa teoria postula il principio fondamentale che “qualunque cosa comprenda tutti gli elementi di una collezione non deve essere un termine della collezione” . Dunque, dire che la classe di tutti i concetti è essa stessa un concetto non è falso, ma privo di significato.

Definizioni paradossali
Non sono identici il “concetto” ad un livello più basso (membro) e il “concetto” al livello più elevato immediatamente successivo (classe). Eppure si usa lo stesso nome, “concetto”, sia per membro che per classe e in tal modo l’identità linguistica crea un equivoco. Per evitare questa insidia, si debbono usare indicatori di tipo logico –indici nei sistemi formalizzati, virgolette o corsivi negli altri casi- dovunque esista la possibilità di una confusione dei livelli.
Forse la più famosa delle antinomie semantiche è quella dell’uomo che dice di se stesso: “Io sto mentendo”. Se seguiamo questa asserzione fino alla conclusione logica, troviamo che è vera soltanto se non è vera. In questo caso, non si può più usare la teoria dei tipi logici per eliminare l’antinomia, perché le parole o le combinazioni di parole non hanno una gerarchia di tipo logico.
Ogni linguaggio ha, come dice L. Wittgenstein, “una struttura della quale nulla può dirsi in quel linguaggio, ma che vi può essere un altro linguaggio che tratti della struttura del primo linguaggio e possegga a sua volta una nuova struttura, e che una tale gerarchia di linguaggi può non avere alcun limite” . E’ un’idea che è stata sviluppata, soprattutto da R. Carnap e da A. Tarski, in una teoria che ora è nota come la teoria dei livelli di linguaggio. Per analogia con la teoria dei tipi logici, questa teoria salvaguarda della confusione dei livelli. Postula che al livello più basso del linguaggio le asserzioni vengono fatte sugli oggetti. Questo è il regno del linguaggio oggetto. Ma nel momento in cui vogliamo dire qualcosa su questo linguaggio, dobbiamo usare un metalinguaggio, e un metametalinguaggio se vogliamo parlare su questo metalinguaggio, e così via in una catena regredente teoricamente infinita.
Applicando questo concetto dei livelli di linguaggio all’antinomia semantica del mentitore, ci si rende conto che la sua asserzione, sebbene sia costituita soltanto di tre parole, contiene due asserzioni, una al livello-oggetto, l’altra al metalivello e dice qualcosa su quella al livello-oggetto, cioè che non è vera. Al tempo stesso, quasi con un gioco di prestigio, si indica che questa asserzione nel metalinguaggio è essa stessa una delle asserzioni su cui s’è fatta la meta-asserzione, che è essa stessa un’asserzione nel linguaggio oggetto. Nella teoria dei livelli di linguaggio questo genere di riflessività delle asserzioni che implicano la propria verità o falsità sono l’equivalente del concetto di self-membership di una classe nella teoria dei tipi logici; entrambe sono asserzioni prive di significato.


Paradossi pragmatici

Ingiunzioni paradossali
H. Reichenbach tratta il paradosso del barbiere. Questo è un soldato a cui viene ordinato dal capitano di radere tutti i soldati della compagnia che non si radono da soli, ma nessun altro. Naturalmente, H. Reichenbach giunge alla sola conclusione logica che “non esiste un barbiere simile a quello della compagnia, nel senso che abbiamo precisato” .
Gli elementi essenziali di questo caso sono i seguenti:
una forte relazione complementare (ufficiale e subordinato);
entro lo schema di questa relazione, viene data un’ingiunzione che deve essere obbedita ma deve essere disobbedita per essere obbedita (l’ordine definisce il soldato come uno che si rade da solo se e soltanto se egli non rade se stesso, e viceversa);
la persona che in questa relazione è nella posizione one-down non è in grado di uscir fuori e quindi di dissolvere il paradosso commentandolo, cioè metacomunicando su di esso (sarebbe un atteggiamento di “insubordinazione”).

Una persona presa in una simile situazione è in una posizione insostenibile. Quindi, mentre da un punto di vista puramente logico un barbiere del genere non esiste e l’ordine del capitano è privo di significato, nella vita reale la situazione appare assai diversa.

Esempi di paradossi pragmatici

ESEMPIO 1
Scrivere “Chicago è una città popolosa”, sintatticamente e semanticamente è corretto. Ma è sbagliato scrivere “Chicago è trisillaba”, perché in tal caso si devono usare le virgolette: ““Chicago” è trisillaba”. La differenza tra questi due usi della parola sta nel fatto che nella prima asserzione la parola si riferisce ad un oggetto, mentre nel secondo la stessa parola si riferisce ad un nome (che è una parola) e quindi a se stessa. La prima asserzione è nel linguaggio oggetto, la seconda nel metalinguaggio.
Proviamo ora ad immaginare una possibilità singolare, ovvero che qualcuno consideri le due asserzioni su Chicago in una sola, (“Chigago è una città popolosa ed è trisillaba”) e la detti alla sua segretaria minacciandola di licenziarla se non può o non vuole scriverla correttamente. Non c’è alcun dubbio che comunicazioni di questo tipo creino una situazione insostenibile. Poiché il messaggio è paradossale, ogni reazione ad esso all’interno dello schema stabilito dal messaggio deve essere ugualmente paradossale. Fino a quando la segretaria rimane entro lo schema stabilito dal suo principale, ha soltanto due alternative: cercare di accondiscendere e naturalmente fallire (incompetenza), o rifiutarsi di scrivere (insubordinazione). Occorre far notare che delle due accuse che ne derivano la prima in qualche modo equivale a quella di debolezza mentale e la seconda a quella di cattiva volontà. Che sono accuse non troppo lontane da quelle classiche di follia e di cattiveria. Ci sono due ragioni possibili per un comportamento simile: o il principale cerca un pretesto per licenziare la segretaria oppure non è sano di mente.
Si ha una situazione completamente diversa se la segretaria non rimane entro lo schema stabilito dall’ingiunzione, ma lo commenta; in altre parole, se non reagisce al contenuto della direttiva del principale ma comunica sulla comunicazione di lui. In tal modo esce fuori dal contesto creato dal principale e non resta presa nel dilemma. La segretaria dovrebbe esporre i motivi che rendono insostenibile la situazione e che effetto ha su di lei una situazione simile; comunque, non sarebbe certo un’impresa da poco. Un’altra ragione per cui la metacomunicazione non è una soluzione semplice è che il principale, usando la sua autorità, può rifiutarsi di accettare la comunicazione della segretaria al metalivello ed etichettarla come una prova ulteriore della sua incompetenza e insolenza.

ESEMPIO 2
Le definizioni di sé paradossali del tipo di quella del mentitore non soltanto trasmettono un contenuto privo di significato da un punto di vista logico, ma definiscono la relazione del sé con l’altro. Perciò, quando si prestano all’interazione umana, non conta tanto che l’aspetto di contenuto (“notizia”) sia privo di significato quanto che l’aspetto di relazione (“comando”) non si possa né eludere né capire chiaramente. Il mentitore salta dentro e fuori lo schema stabilito, infatti, l’uso del termine da parte del “malato” esclude la condizione che il termine denota.

ESEMPIO 3
Esistono ingiunzioni che richiedono un comportamento specifico, che proprio per sua natura non può essere che spontaneo. Il prototipo di questo messaggio è quindi: “Sii spontaneo!”. chiunque riceva questa ingiunzione si trova in una situazione insostenibile, perché per accondiscendervi dovrebbe essere spontaneo entro uno schema di condiscendenza e non spontaneità. Analogamente, questo è anche il problema dell’omosessuale che brama un rapporto intenso con un “vero” maschio, per scoprire poi alla fine che quest’ultimo è sempre, deve essere sempre, un altro omosessuale. In termini di simmetria e di complementarità, queste ingiunzioni sono paradossali perché richiedono la simmetria nello schema di una relazione stabilita come complementare. La spontaneità prospera nella libertà e svanisce sotto il vincolo.

ESEMPIO 4
Le ideologie in particolare tendono a restare impigliate nei dilemmi del paradosso, soprattutto se la loro metafisica è l’antimetafisica. I pensieri di Rubashov, il protagonista di “Darkness at Noon” di A. Koestler, sono paradigmatici a questo proposito: “Il Partito negava la libera volontà dell’individuo, e nello stesso tempo ne esigeva il volontario olocausto. Gli negava la capacità di scegliere tra due alternative, e nello stesso tempo chiedeva che scegliesse sempre quella giusta. Gli negava il potere di distinguere il bene dal male, e nello stesso tempo parlava pateticamente di colpevolezza e di tradimento” .


ESEMPIO 5
Se confrontiamo il brano sopra citato con il racconto autobiografico di uno schizofrenico, risulta evidente che il suo dilemma è lo stesso di Rubashov. Il paziente viene messo dalle sue “voci” in una situazione insostenibile e viene poi accusato di mistificazione e di riluttanza quando si trova a non poter accondiscendere alle loro ingiunzioni paradossali. Quello che rende il racconto così straordinario è che sia stato scritto quasi 130 anni fa, molto prima che si cominciasse ad elaborare una moderna teoria psichiatrica (“Quando confessai dentro di me che non sapevo cosa dovessi fare, mi hanno accusato di falsità e di mistificazione” ).

ESEMPIO 6
Quando intorno al 1616 le autorità giapponesi cominciarono una persecuzione sistematica dei convertiti al cristianesimo, diedero alle loro vittime la possibilità di scegliere tra una sentenza di morte e un’abiura che era tanto complessa quanto paradossale. Questa abiura aveva la forma di un giuramento. “Ogni apostata doveva ripetere le ragioni per cui rinnegava il Cristianesimo, pronunciando una formula prestabilita [...] Venivano fatti giurare, per una logica assai curiosa, chiamando a testimoni proprio le potenze che avevano appena rinnegato: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, Santa Maria e tutti gli angeli” .
Di fronte al problema di operare “veramente” un cambiamento nella mente di qualcuno, i giapponesi ricorsero all’espediente del giuramento. Ma capirono con chiarezza che un giuramento simile li avrebbe legati soltanto se lo avessero prestato al Dio cristiano oltre che alle divinità buddiste e scintoiste. Ma era una “soluzione” che li metteva subito alle prese con l’indecidibilità delle asserzioni riflessive. Veniva fatta un’asserzione entro uno schema di riferimento chiaramente stabilito (la fede cristiana) che asseriva qualcosa su questo schema e quindi su se stessa, vale a dire negava lo schema di riferimento, e negando lo schema negava il giuramento stesso. Se consideriamo C come la classe di tutte le asserzioni entro la struttura del cristianesimo, il giuramento è sia un membro di C, poiché invoca la Trinità, sia al tempo stesso una meta-asserzione che nega C –quindi su C-. E’ un’impasse logica che ormai conosciamo bene. Nessuna asserzione fatta entro un dato schema di riferimento può nello stesso tempo uscir fuori dallo schema, per così dire, e negare se stessa. E’ il dilemma di chi è preso da un incubo mentre sogna; non servirà a niente tutto quello che cerca di fare nel sogno. Può sfuggire all’incubo soltanto se si sveglia, il che significa uscir fuori dal sogno. Ma il risveglio non fa parte del sogno, è uno schema completamente diverso; è un non-sogno, per così dire. In teoria, l’incubo potrebbe continuare per sempre, come accade per certi incubi di schizofrenici, perché nulla entro lo schema ha il potere di negare lo schema. Ma questo è proprio l’obiettivo che i giapponesi intendevano raggiungere col giuramento. I convertiti, abiurando, restavano entro lo schema di una formula paradossale e in tal modo venivano presi nel paradosso.
Un giuramento lega di per sé non solo chi lo presta ma anche il dio in nome del quale viene prestato.
Ma il paradosso deve anche aver influenzato gli stessi persecutori. E’ impossibile che non siano stati consapevoli di aver posto con la loro formula il dio cristiano al di sopra delle proprie divinità. Per cui alla fine devono essersi trovati inviluppati dalla loro stessa mistificazione, che negava ciò che asseriva e asseriva ciò che negava.
In linea di massima si può dire che la storia del genere umano mostra che ci sono due tipi di persone che vogliono sottomettere la mente degli altri: coloro che ritengono una situazione accettabile la distruzione fisica dei loro oppositori senza preoccuparsi affatto di quello che pensano “veramente” le loro vittime, e coloro che per un interesse escatologico degno di miglior causa se ne preoccupano moltissimo. Al secondo gruppo interessa anzitutto cambiare la mente dell’uomo, la sua eliminazione fisica è soltanto un aspetto secondario. O’ Brien, il torturatore che G. Orwell presenta in “1984”, è un’autorità esperta sull’argomento. Si tratta del paradosso “sii spontaneo!” nella formula più nuda.

ESEMPIO 7
Una situazione sostanzialmente simile a quella dei convertiti giapponesi e dei loro persecutori è quella che venne a crearsi nel 1938 tra S. Freud e le autorità naziste. I nazisti avevano promesso a S. Freud un visto d’uscita dall’Austria a condizione che sottoscrivesse una dichiarazione da cui risultasse che era stato “trattato dalle autorità tedesche e in particolare dalla Gestapo con tutto il rispetto e la considerazione dovuti alla mia fama di scienziato” . Anche se nel caso personale di S. Freud la dichiarazione rispondeva a verità, nel contesto più vasto della spaventosa persecuzione degli ebrei viennesi, il documento veniva ad avallare una vergognosa pretesa di equità da parte delle autorità, con lo scopo evidente di usare la fama internazionale di S. Freud per la propaganda nazista. S. Freud deve essersi trovato di fronte al dilemma di sottoscriverlo o rifiutarsi. In termini di psicologia sperimentale, doveva affrontare un conflitto di evitamento-evitamento. Egli riuscì a rovesciare le posizioni intrappolando i nazisti nella loro stessa mistificazione. Quando l’ufficiale della Gestapo gli portò i documenti per la firma,S. Freud chiese se gli era permesso aggiungere un’altra frase. L’ufficiale acconsentì, sicuro com’era della sua posizione one-up, e S. Freud scrisse di suo pugno: “Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia” . Ora la situazione era capovolta. La Gestapo, che in un primo momento aveva costretto S. Freud a lodarla, non poteva certo fare obiezione per aver ricevuto una lode supplementare. Ma per chiunque sapesse sia pure confusamente cosa stava accadendo a Vienna in quei giorni il sarcasmo di quella “lode” era così devastante da rendere il documento privo di ogni valore ai fini della propaganda. In breve, S. Freud aveva invalidato il documento con una asserzione che aderiva al contenuto della dichiarazione ma nello stesso tempo lo negava con il sarcasmo.

ESEMPIO 8
In “Les Plaisirs et les Jours”, M. Proust ci dà un esempio stupendo del paradosso pragmatico che si ha quando c’è contraddizione, come spesso accade, tra un comportamento socialmente approvato e l’emozione individuale. Alexis è un tredicenne che va a trovare lo zio che sta morendo per una malattia incurabile. Il suo precettore gli dice di non parlare allo zio della morte e di non piangere. Alexis pensa però che se nascondo la sua ansia allo zio può sembrare che non lo sia e che quindi non gli voglia bene.

ESEMPIO 9
Un giovanotto ebbe il sentore che i suoi genitori non approvavano che filasse con una certa ragazza che aveva intenzione di sposare. Il padre del ragazzo era un bell’uomo, dinamico e ricco, che dominava completamente la moglie e i tre figli. La madre era una donna silenziosa e chiusa in se stessa che in diverse occasioni era andata in clinica “per riposare” (posizione completamente one-down). Un giorno il padre invitò il figlio nel suo studio –una procedura riservata soltanto alle dichiarazioni molto solenni- e gli disse: “Louis, c’è una cosa che dovresti sapere. Noi Alvarados sposiamo sempre donne migliori di noi”.
L’asserzione del padre si presta alle seguenti interpretazioni. Noi Alvarados siamo gente superiore; tra l’altro, la posizione sociale delle donne che sposiamo è altolocata. Ma la prova ultima di tale superiorità e non solo nettamente in contrasto con i fatti che il giovanotto può osservare, ma implica anche che gli uomini Alvarados sono inferiori alle proprie mogli. E questa implicazione nega quanto l’asserzione voleva sostenere.

ESEMPIO 10
Lo psichiatra chiese a un giovanotto che aveva in cura di invitare i genitori a partecipare ad almeno ad una seduta di terapia congiunta. Durante la seduta fu chiaro che i genitori erano d’accordo tra loro soltanto quando si coalizzavano contro il figlio, mentre in molti argomenti importanti non erano affatto d’accordo. La madre, dopo aver giudicato provocatorio un consiglio del terapeuta, disse: “L’unica cosa che vogliamo dalla vita è che il matrimonio di nostro figlio sia felice come il nostro”. Se la questione si pone in questi termini, la sola conclusione è che il matrimonio è felice quando non lo è, ed infelice quando è felice.

ESEMPIO 11
Una madre stava parlando al telefono con lo psichiatra della figlia schizofrenica e si lamentava delle ricadute della ragazza. Ma di solito quando diceva che la figlia era ricaduta voleva dire che la ragazza si era mostrata più indipendente e che aveva battibeccato con lei. Da qualche giorno, per esempio, la figlia era andata a stare per conto suo in un appartamento, una decisione che aveva abbastanza infastidito la madre. Il terapeuta le chiese di fare un esempio di quello che lei definiva comportamento disturbato, e la donna rispose che la figlia aveva rifiutato un suo invito a cena, ma alla fine era riuscita a convincerla. L’opinione della madre è che quando la ragazza dice “no” significa che vuol venire, perché lei sa meglio della figlia quello che passa nella sua mente confusa; e quando la ragazza dice “sì” vuol dire soltanto che la figlia non ha mai la forza di dire “no”. Sia la madre che la figlia sono dunque legate da questo modo paradossale di etichettare i messaggi.

ESEMPIO 12
D. Greenburg ha pubblicato recentemente una raccolta incantevole di comunicazioni paradossali di madri. Ecco una perla: “Regala a tuo figlio Marvin due camicie sportive. La prima volta che ne metta una, guardalo con tristezza e digli col tuo Solito Tono di Voce: “Quell’altra non ti piace?”.

Teoria del doppio legame
G. Bateson, D. D. Jackson, J. Haley e J. H. Weakland hanno descritto per primi gli effetti del paradosso nell’interazione umana, in un saggio intitolato “Toward a Theory of Schizophrenia” pubblicato nel 1956. Essi si chiedono quali sequenze di esperienza interpersonale provocherebbero il comportamento (piuttosto che essere causate da esso) che giustificherebbe la diagnosi di schizofrenia. Lo schizofrenico, ipotizzano, “deve vivere in un universo in cui le esperienze di eventi sono tali che le sue abitudini di comunicazione non convenzionali in qualche modo saranno appropriate” . E’ un’ipotesi che li ha portati a postulare e a identificare certe caratteristiche essenziali di tale interazione, per cui hanno coniato il termine “doppio legame”.
E’ possibile descrivere gli elementi di un doppio legame come segue:
due o più persone sono coinvolte in una relazione intensa che ha un alto valore di sopravvivenza fisica e/o psicologica per una di esse, per alcune, o per tutte. Le situazioni in cui si hanno tipicamente queste relazioni intense includono la vita familiare, l’invalidità, la dipendenza materiale, la prigionia, l’amicizia, l’amore, la fedeltà...;
in un simile contesto viene dato un messaggio che è strutturato in modo tale che

a.) asserisce qualcosa,
b.) asserisce qualcosa sulla propria asserzione e
c.) queste due asserzioni si escludono a vicenda.

Quindi, se il messaggio è un’ingiunzione, l’ingiunzione deve essere disobbedita per essere obbedita; se è una definizione del sé o dell’altro, la persona di cui si è data la definizione è quel tipo di persona soltanto se non lo è, e non lo è se lo è; infine, si impedisce al ricettore del messaggio di uscir fuori dallo schema stabilito da questo messaggio, o metacomunicando su esso (commentandolo) o chiudendosi in se stesso. Egli non può non reagire ad esso, ma non può neppure reagire ad esso in modo adeguato (non paradossale), perché il messaggio stesso è paradossale. Questa situazione spesso si ha quando viene proibito in modo più o meno evidente di mostrare una qualsiasi consapevolezza della contraddizione o del vero problema in questione. Una persona in una situazione di doppio legame è quindi probabile che si trovi punita (o almeno che le si faccia provare un senso di colpa) per aver avuto percezioni corrette, e che venga definita “cattiva” o “folle” per aver magari insinuato che esiste una discrepanza tra ciò che vede e ciò che “dovrebbe” vedere.
Il problema della patogenesi del doppio legame divenne subito l’aspetto più discusso e frainteso della teoria.
Non c’è alcun dubbio che il mondo in cui viviamo è ben lontano dall’essere un mondo logico e non c’è dubbio che tutti siamo esposti a doppi legami, eppure la maggior parte di noi riesce a conservare la propria salute mentale. Ma molte di queste esperienze sono isolate e spurie, anche se quando accadono possono essere traumatiche. Una situazione molto diversa si presenta invece quando si è esposti al doppio legame per lungo tempo e poco a poco ci si abitua a tale situazione e la si aspetta. Questo, naturalmente, vale soprattutto per l’infanzia, quando tutti i bambini hanno la tendenza a concludere che quello che accade a loro, accade in tutto il mondo. Il doppio legame non può essere un fenomeno unidirezionale. Se esso produce un comportamento paradossale, allora sarà proprio questo comportamento a “legare doppio” il “doppio legatore”.
Dove il doppio legame è diventato il modello predominante della comunicazione, e dove l’attenzione diagnostica viene limitata all’individuo più manifestamente disturbato, si scoprirà che il comportamento di questo individuo soddisfa i criteri diagnostici della schizofrenia. Soltanto in questo senso un doppio legame si può considerare “causativo” e quindi patogeno.
Si possono aggiungere altri criteri per definire la connessione esistente tra il doppio legame e la schizofrenia. Essi sono:
quando si ha un doppio legame di lunga durata, forse cronico, esso si trasformerà in qualcosa che ci si aspetta, qualcosa di autonomo e abituale, che riguarda la natura delle relazioni umane e del mondo in genere, un’attesa che non ha bisogno di essere ulteriormente rafforzata;
il comportamento paradossale imposto dal doppio legame a sua volta ha natura di doppio legame, e questo porta ad un modello di comunicazione autoperpetuantesi. Il comportamento del comunicante più manifestamente disturbato, se lo si esamina isolatamente, soddisfa i criteri clinici della schizofrenia.
Negli esperimenti classici in cui si pone un organismo in una situazione di conflitto (approccio-evitamento, approccio-approccio, evitamento-evitamento) la radice del conflitto è sempre rintracciabile in quegli elementi che equivalgono a una contraddizione tra le alternative, che sono state offerte o imposte. Questi esperimenti producono effetti comportamentali che vanno dall’indecisione alla scelta sbagliata, ma tali comportamenti non presentano mai la patologia peculiare che si osserva quando il dilemma è veramente paradossale.
Invece la presenza di tale patologia è evidente nei famosi esperimenti di I. Pavlov in cui in un primo tempo si addestra un cane a differenziare tra un cerchio e una ellisse e in un secondo tempo lo si rende incapace di tale differenziazione quando l’ellisse viene a mano a mano allargata in modo da sembrare sempre più simile a un cerchio. I. Pavlov ha coniato il termine “nevrosi sperimentale” per definire questi effetti comportamentali. Il nodo del problema sta nel fatto che in questo tipo di esperimenti lo sperimentatore prima impone all’animale la necessità vitale di una differenziazione corretta e poi rende impossibile la differenziazione entro tale schema. Il cane viene così gettato in un mondo in cui la sua sopravvivenza dipende dall’osservanza di una legge che viola se stessa: il paradosso alza la sua testa di Gorgone. A questo punto l’animale comincia ed esibire tipici disordini del comportamento.
Visual Paradox – Dylan Leeds, University of Oregon, 2009.
La distinzione più importante tra ingiunzioni contradditorie e paradossali è la seguente. Di fronte ad un’ingiunzione contraddittoria si sceglie un’alternativa e si perde – o si patisce - l’altra alternativa. Non è che il risultato sia quello più soddisfacente: abbiamo già accennato che non si può salvare capra e cavoli, e il male minore resta pur sempre un male. Ma l’ingiunzione contraddittoria offre almeno la possibilità di compiere una scelta logica. L’ingiunzione paradossale, invece, fa fallire la scelta stessa, nulla è possibile, e viene messa in moto una serie oscillante e autoperpetuantesi.

Nel caso di doppi legami, la complessità del modello è particolarmente vincolante e le reazioni pragmatiche possibili sono molto poche.
Di fronte all’assurdità insostenibile della sua situazione, è probabile che un individuo concluda che deve essersi lasciato sfuggire qualche elemento d’importanza vitale che era inerente alla situazione o che le persone che contano in quel contesto gli avevano offerto. In entrambi i casi sarà ossessionato dal bisogno di scoprire tali elementi, di dare un significato a ciò che continua ad accadere in lui e attorno a lui, e alla fine sarà costretto ad estendere la sua ricerca ai fenomeni più improbabili e senza alcuna attinenza col significato e gli elementi che cerca di rintracciare. Questa deviazione dai problemi reali diventa ancora più plausibile se si ricorda che un elemento essenziale di una situazione di doppio legame è la proibizione di essere consapevoli della contraddizione che la situazione comporta.
D’altro canto può scegliere la reazione che le reclute scoprono molto presto e che è la migliore possibile alla logica ottundente (o alla mancanza di logica) della vita militare: prestare osservanza a tutte le ingiunzioni prendendole alla lettera, guardandosi bene dal mostrare di avere idee personali.
La terza reazione possibile potrebbe essere quella di ritrarsi dalle complicazioni della vita. Per mettere in atto una simile “soluzione” occorre isolarsi fisicamente quanto più possibile e inoltre bloccare l’ingresso dei canali di comunicazione perché la comunicazione non consente di isolarsi come si desidera. E’ lecito supporre che praticamente si possa ottenere lo stesso risultato –fuga dai viluppi del doppio legame- con un comportamento iperattivo che sia così intenso e prolungato da sommergere la maggior parte dei messaggi che entrano.
Queste tre forma di comportamento di fronte all’indecidibilità di doppi legami reali o che ci si è abituati ad aspettarsi richiamano alla mente i quadri clinici della schizofrenia, cioè rispettivamente i sottogruppi della schizofrenia paranoide, della ebefrenia e della catatonia (stuporosa e agitata).


Predizioni paradossali
Nei primi mesi del 1940 fece la sua comparsa un paradosso nuovo e particolarmente affascinante.

Il direttore di una scuola annuncia agli allievi che ci sarà un esame inatteso durante la prossima settimana, cioè in un giorno qualsiasi tra lunedì e venerdì. Gli studenti gli fanno notare che, a meno che non violi i termini del proprio annuncio e non intenda dare un esame inatteso in un certo momento della settimana seguente, non potrà esserci un esame simile. Perché se non si è tenuto nessun esame entro giovedì sera, allora no si può tenerlo inaspettatamente venerdì, perché venerdì sarebbe l’unico giorno possibile che è rimasto. Ma se per questa ragione si esclude venerdì, come possibile giorno d’esame, per la stessa ragione si può escludere anche giovedì. E’ chiaro che mercoledì sera ci sarebbero rimasti soltanto due giorni: giovedì e venerdì. Abbiamo dimostrato che venerdì si può escludere. Resta soltanto giovedì, ma un esame tenuto di giovedì non sarebbe più inatteso. Naturalmente, per la stessa ragione si possono escludere mercoledì, martedì e infine anche lunedì: non ci può essere un esame inatteso. Si può supporre che il direttore ascolti la loro “dimostrazione” in silenzio e poi tenga l’esame giovedì mattina. Dal momento del suo annuncio egli aveva programmato di tenere l’esame quel giovedì mattina. Essi, d’altro canto, sono ora di fronte a un esame completamente inatteso – inatteso proprio perché hanno convinto se stessi che l’esame non poteva essere inatteso- .
L’aspetto più sorprendente del paradosso è questo: se lo si esamina più da vicino ci si rende conto che l’esame poteva tenersi anche il venerdì ed essere ugualmente inatteso. In realtà, ciò che conta è la situazione esistente il giovedì sera (il resto è superfluo). Da giovedì sera resta solo venerdì come giorno possibile, ma questa constatazione rende del tutto prevedibile un esame di venerdì. E’ proprio questo processo deduttivo secondo cui l’esame è atteso e quindi impossibile che rende possibile al direttore di tenere un esame inatteso di venerdì o anche in qualsiasi altro giorno della settimana, rispettando rigorosamente i termini del suo annuncio.
Ecco, dunque, ancora un vero paradosso:
  • l’annuncio contiene un predizione nel linguaggio oggetto (“ci sarà un esame”);
  • contiene una predizione nel metalinguaggio che nega la predicibilità dell’esame;
  • le due predizioni si escludono a vicenda;
  • il direttore può impedire agli studenti di uscire fuori dalla situazione creata dal suo annuncio e di ricevere informazione supplementare che potrebbe metterli in grado di scoprire la data dell’esame.
Quando si considerano le conseguenze pragmatiche, si possono trarre due conclusioni assai sorprendenti:
  1. per realizzare la predizione contenuta nel suo annuncio, il direttore ha bisogno che gli studenti giungano alla conclusione opposta (cioè, che un esame così come è stato annunciato è logicamente impossibile), perché soltanto allora si sarà creata la situazione in cui può diventare operante la predizione di un esame inatteso. Le predizioni paradossali presentano affinità col comportamento che richiama l’abulia e l’inerzia tipiche della schizofrenia semplice;
  2. il dilemma sarebbe ugualmente impossibile se gli studenti implicitamente non si fidassero del direttore. Tutta la loro deduzione s’impernia sull’ipotesi che ci possa e ci si debba fidare del direttore. Un dubbio sulla sua lealtà non dissolverebbe il paradosso dal punto di vista della logica, ma certamente lo dissolverebbe dal punto di vista della pragmatica. Non soltanto la logicità di pensiero, ma anche la fiducia, dunque, ci rendono vulnerabili a questo genere di paradosso.
Una persona che rechi l’etichetta diagnostica di “schizofrenico” può assumere sia la parte degli studenti che quella del direttore. Come gli studenti è preso nel dilemma di logica e fiducia. Ma viene anche a trovarsi in una posizione assai simile a quella del direttore perché s’impegna come lui in messaggi di comunicazione che sono indecidibili. G. C. Nerlich ha espresso questo stato di cose: “Un modo per non dire niente è contraddirsi. E se uno riesce a contraddirsi dicendo che non sta dicendo niente, allora alla fine non si contraddice affatto. Può salvare capra e cavoli” .
La “soluzione” del suo dilemma è l’uso di messaggi indecidibili che dicono di se stessi che non stanno dicendo niente.

Ma anche in settori diversi da quello delle comunicazioni puramente schizofreniche si può constatare che le predizioni paradossali turbano i rapporti umani. Si presentano, per esempio, ogni volta che una persona P, godendo implicitamente della fiducia dell’altro, O, minaccia di fare qualcosa ad O, che renderebbe P indegno di fiducia.
Un esempio pratico è quello di una coppia in cui il marito, una persona orgogliosa del fatto in vita sua non ha mai dato motivo a nessuno di dubitare della sua parola, risponde al vizio della propria moglie di bere un bicchiere di vino prima di pranzo dicendole che se non la smetteva avrebbe trovato anche lui un vizio, riferendosi ad altre donne.
La struttura della minaccia del marito è identica alla struttura dell’annuncio del direttore. Secondo la moglie lui sta dicendo:
  • sono del tutto degno di fiducia (trustworthy);
  • ora ti punirò con l’essere indegno di fiducia (infedele, traditore);
  • perciò, resterò degno di fiducia con l’essere indegno di fiducia, perché se adesso non distruggessi la tua fiducia nella mia fedeltà (trustworthiness) coniugale, non sarei più degno di fiducia.
Da un punto di vista semantico il paradosso sorge sui due diversi significati di “degno di fiducia”. Al primo punto il termine è usato nel metalinguaggio per denotare la proprietà comune di tutte le sue (del marito) azioni, promesse e attitudini. Al secondo punto è usato nel linguaggio oggetto e si riferisce alla fedeltà coniugale.

La fiducia. Il dilemma dei prigionieri
Nei rapporti umani, ogni predizione è in qualche modo collegata col fenomeno della fiducia. Nella comunicazione umana non c’è alcun modo di far partecipare l’altro all’informazione o alle percezioni di cui uno dispone esclusivamente per sé. Nella migliore delle ipotesi l’altro può avere fiducia o diffidenza, ma non può mai sapere. D’altra parte, l’attività umana sarebbe praticamente paralizzata se la gente agisse soltanto in base all’informazione di prima mano o alle percezioni.
Il direttore sa che darà l’esame giovedì mattina; il marito sa che non intende tradire la moglie. In ogni interazione del tipo “dilemma dei prigionieri”, nessuno dei due ha qualche informazione di prima mano. Entrambi devono fare assegnamento sulla fiducia che hanno nell’altro. Tali predizioni diventano invariabilmente paradossali.
Il “dilemma dei prigionieri” si può rappresentare mediante una matrice come la seguente:

                                                                                    b1          b2

                                                                           a1    5,5       -5, 8

                                                                           a2    8, -5    -3, -3

in cui due giocatori, A e B hanno ciascuno due mosse alternative (A = a1, a2, B = b1, b2). Entrambi sono pienamente consapevoli dei guadagni e delle perdite stabiliti dalla matrice. Il loro dilemma è costituito dal fatto che ciascuno non sa che alternativa sceglierà l’altro. Di solito si presume che, indipendentemente dal fatto che il gioco venga giocato una sola volta o cento volte di seguito, la decisione a2, b2 è quella più sicura. Naturalmente una soluzione più ragionevole sarebbe a1, b1 perché assicura ad entrambi i giocatori un guadagno. Ma si può fare questa scelta soltanto a condizione che ci sia una fiducia reciproca.
Questo è il punto dove quasi tutte le coppie (o anche quasi tutte le nazioni) si fermano a valutare e definire la loro relazione.

Riassumendo, un paradosso è una contraddizione logica che deriva dalle deduzioni coerenti di premesse corrette. I paradossi pragmatici si distinguono dalla semplice contraddizione soprattutto per questo motivo: mentre nel caso di una contraddizione la scelta è una soluzione, nei paradossi la scelta non è neanche possibile.