giovedì 29 novembre 2012

il Tao che non si può beffare - II


I Tragedy
It seems that the dramatists of classical Greece and possibly their audiences and the philosophers who throve in that culture believed that an action occurring in one generation could set a context or set a process going which would determine the shape of personal history for a long time to come.
The story of the House of Atreus in myth and drama is a case in point. The initial murder of Chrysippus by his stepbrother Atreus stars a sequence in which the wife of Atreus is seduced by Atreus‘ brother Thyestes, and in the ensuing feud between the brothers, Atreus kills and cooks his brother‘s son, serving him to his father in a monstrous meal. These events led in the next generation to the sacrifice of Iphigenia by her father, Agamemnon, another son of Thyestes, and so on to the murder of Agamemnon by his wife, Clytemnestra, and her paramour, Aegisthus, brother of Agamemnon and son of Thyestes.
In the next generation, Orestes and Electra, the son and daughter of Agamemnon, avenge their father‘s murder by killing Clytemnestra, an act of matricide for which the Furies chase and haunt Orestes until Athena intervenes, establishing the court of the Areopagus and trying Orestes before that court, finally dismissing the cases. It required the intervention of a goddess to conclude the sequence or anangke, or necessity, whereby each killing led irresistibly to the next.
The Greek idea of necessary sequence was, of course, not unique. What is interesting is the Greeks seem to have thought of anangke as totally impersonal theme in the structure of the human world. It was as if, from the initial act onwards, dice were loaded against the participants. The theme, as it worked itself out, used human emotions and motives as its means, but the theme itself (we would vulgarly call it a “force”) was thought to be impersonal, beyond and greater than gods and persons, a bias or warp in the structure of the universe.
Such ideas occur at other times and in other cultures. The Hindu idea of karma is similar and differs from anangke only in the characteristically Hindu elaboration which includes both “good” and “bad” karma and carries recipes for the “burning up” of bad karma.
I myself encountered a similar belief among the Iatmul of New Guinea. The Iatmul shamans claimed that they could see a person‘s ngglambi as a black cloud or aura surrounding him or her. The Iatmul are a sorcery-ridden people and it was quite clear that nnglambi followed the pathway of sorcery. A might sin against B, thus incurring the black cloud. B might pay a sorcerer to avenge the first sin, and nnglambi would the surround both B and the sorcerer. In any case, it was expected that the person with black nnglambi would encounter tragedy – perhaps his own death, perhaps that of a relative, for ngglambi is contagious – and the tragedy would probably be brought about by sorcery. Ngglambi, like anangke, worked through human agencies.
The present question, however, does not concern the detailed nature of anangke, ngglambi, karma, and other similar conceptions that human individuals attribute to the larger system. The question is simply: What are the characteristics of those mental subsystems called individuals, arising from their aggregation in larger systems also having mental characteristics, that are likely to be expressed by generating such mythologies (true or false) as those of anangke, etc.? This is a question of a different order, not to be answered by reification of the larger mental system nor by simply evoking motives of the participant individuals.
A piece of an answer can be tentatively offered, if only to show the reader the direction of our inquiry.
Anangke, karma, and ngglambi are reified abstractions, the last being the most concretely imagined, so that the shamans even “see” it. The others are less reified and are perceptible only in their supposed effects, above all in the myths – the quasi-miraculous tales that exemplify the workings of the principle.
Now, it is well known in human interaction that individual beliefs become self-validating, both directly, by “suggestion,” so that the believer tends to see or hear or taste that which he believes; or indirectly, so that the belief may validate itself by shaping the actions of the believers in a way which brings to pass that which they believe, hope, or fear may be the case. Then let me chalk up as a characteristic of human individuals a potential for pathology arising our of the fact that they are of a flexible and viscous nature. They clot together to create aggregates which become the embodiment of themes of which the individuals themselves are or may be unconscious.
In terms of such a hypothesis, anangke and karma are particular epiphenomena brought about by the clustering of flexible subsystems.

un Tao separato


Dopo una serie di esperienze - per la maggior parte terrificanti - utilizzando o meno vari allocinogeni, Castaneda decise nell'Ottobre 1965 di porre fine al proprio apprendistato, come descritto nel suo primo libro:
Quell'esperienza fu l'ultimo degli insegnamenti di don Juan. Da allora in poi non ho mai più cercato le sue lezioni. E sebbene don Juan non abbia mutato il suo atteggiamento di benefattore nei miei confronti, credo di essere stato sconfitto dal primo nemico di un uomo di conoscenza.
Nel 1971 Castaneda pubblicò il suo secondo libro, nel quale prosegue il racconto delle sue esperienze avvenute tra il 1968 e il 1970.
Il 2 Aprile 1968 ritornò a far visita a Don Juan:
Don Juan mi guardò un momento e non sembrò in assoluto sorpreso di vedermi, benché fossero passati più di due anni dalla mia ultima visita. Mi mise la mano nella spalla e sorridendo disse delicatamente che vedeva distintamente che stavo diventando grasso e impigrito.

Gli avevo portato un esemplare del mio libro. Senza nessun preambolo, lo tirai fuori dal mio portadocumenti e glielo diedi.

- È un libro su di lei, Don Juan - dissi.

Egli lo prese e lo sfogliò rapidamente come se fosse un maglio di lettere. Gli piacquero il colore verde della fodera ed il volume del libro. Sentì la copertina con la palma delle mani, gli diede rovesciata un paio di volte e dopo me lo restituì. Sentii un'ondata di orgoglio.

- Voglio che lei lo conservi - dissi.

Don Juan mosse la testa con una risata silenziosa.

- Meglio di no - disse, e dopo aggiunse con largo sorriso: - Sai già quello che facciamo con la carta in Messico - .

Risi. Il suo tocco di ironia mi sembrò bello.
Nell'introduzione al secondo libro Castaneda ripercorre le sue esperienze precedenti:
INTRODUZIONE

Dieci anni fa ebbi la fortuna di conoscere Don Juan Matus, un indio yaqui del nordovest del Messico. Iniziai l'amicizia con lui in circostanze estremamente fortuite. Ero seduto con Bill, un mio amico, nel terminal degli autobus di un paese confinante in Arizona. Stavamo in silenzio. Imbruniva ed il caldo dell'estate era insopportabile. All'improvviso, Bill si inclinò e mi toccò la spalla.
- Lì sta l'individuo del quale ti ho parlato - disse a voce bassa.
Inclinò casualmente la testa segnalando verso l'entrata. Un anziano era appena arrivato.
- Che cosa mi dicesti di lui? - domandai.
- È l'indio che sa del peyote, ti ricordi? -
Ricordai che una volta Bill ed io avevamo viaggiato in automobile tutto il giorno, cercando la casa di un indio messicano molto "eccentrico" che viveva nella zona. Non la trovammo, ed ebbi il sospetto che gli indios a cui chiedemmo indicazioni ci avessero disorientati a proposito. Bill mi disse che l'uomo era un "yerbero" e che sapeva molte cose sul cactus allucinogeno peyote. Disse anche che mi sarebbe stato utile conoscerlo. Bill era la mia guida nel sudovest degli Stati Uniti, dove io continuavo a raccogliere informazioni ed esperienze sulle piante medicinali usate dagli indios della zona.
Bill si alzò ed andò a salutare l'uomo. L'indio era di statura media. I suoi capelli bianchi e tagliati corti coprivano un po' le orecchie, accentuando la rotondità del cranio. Era molto scuro: le profonde rughe nel suo viso gli davano l'apparenza da vecchio, ma il suo corpo sembrava forte ed agile. L'osservai un momento. Si muoveva con una facilità che avrei creduto impossibile per un anziano.
Bill mi fece segno di avvicinarmi.
- È un buon tipo - mi disse -. Ma non lo capisco. Il suo spagnolo è raro; deve essere pieno di colloquialismi rurali -.
L'anziano guardò Bill e sorrise. Bill, che parla appena alcune parole di spagnolo, pronunciò una frase assurda in quella lingua. Mi guardò come domandando se si faceva capire, ma io ignoravo quello che aveva in mente; sorrise con timidezza e si allontanò. L'anziano mi guardò ed incominciò a ridere. Gli spiegai che il mio amico dimenticava a volte che non sapeva lo spagnolo.
- Credo che ha anche dimenticato di presentarci - aggiunsi, e gli dissi il mio nome.
- Ed io sono Juan Matus, per servirla - rispose.
Ci demmo la mano e rimanemmo un momento senza parlare. Ruppi il silenzio e gli parlai del mio progetto. Gli dissi che cercavo qualunque tipo di informazione sulle piante, specialmente sul peyote. Parlai compulsivamente per un lungo tempo, e benché la mia ignoranza del tema fosse quasi totale, gli feci capire che sapevo molto circa il peyote. Pensai che se mi davo arie sulla mia conoscenza l'anziano si sarebbe interessato a conversare con me. Ma non disse niente. Ascoltò con pazienza. Quindi assentì lentamente e mi scrutò. I suoi occhi sembravano brillare di luce propria. Schivai il suo sguardo. Mi sentii addolorato. Ebbi in quel momento la certezza che sapeva che stavo dicendo sciocchezze.
- Venga un giorno a casa mia - disse finalmente, allontanando gli occhi da me. - Forse lì possiamo conversare più comodamente -.
Non seppi più che dire. Mi sentivo fuori luogo. Dopo un momento, Bill svoltò ed entrò nel recinto. Notò il mio disagio e non pronunciò una sola parola. Rimanemmo un momento seduti in profondo silenzio. Quindi l'anziano si alzò. Il suo autobus era arrivato. Disse addio.
- Non ti è andata molto bene, vero? - domandò Bill.
- No. -
- Gli hai domandato delle piante? -
- Si. Ma credo non gli interessava. -
- Te l'ho detto, è molto eccentrico. Gli indios di qui lo conoscono, ma non lo menzionano mai. E questo è per qualche ragione. -
- Mi ha detto che potevo andare a casa sua. -
- Stava prendendoti in giro. Certo, puoi andare a casa sua, ma per che cosa? Non ti dirà mai niente. Se arrivi a domandargli qualcosa, ti tratterà come se fossi un idiota dicendo sciocchezze -.
Bill disse in modo convincente che aveva conosciuto già gente così, persone che davano l'impressione di sapere molto. Nella sua opinione tali persone non valevano la pena, perché presto o tardi si poteva ottenere la stessa informazione da qualcuno che facesse meno il difficile. Disse che non aveva pazienza né tempo da perdere con vecchi bizzarri, e che l'anziano dimostrava solo di essere conoscitore di erbe, mentre in realtà ne sapeva tanto poco come chiunque.
Bill continuò a parlare, ma non lo ascoltavo. La mia mente era fissa sull'indio. Sapeva che lo stavo ingannando. Ricordai i suoi occhi. Avevano brillato, letteralmente.
Ritornai a vederlo alcuni mesi più tardi, non tanto in quanto studente di antropologia interessato alle piante medicinali, bensì come posseduto da una curiosità inspiegabile. Il modo in cui mi aveva guardato era stato un evento senza precedenti nella mia vita. Volevo sapere che cosa implicava quello sguardo.
Ero preso da un'ossessione, e quanto più pensavo a lui più insolita mi sembrava.
Don Juan ed io ci diventammo amici, e durante un anno gli feci innumerevoli visite. Il suo atteggiamento mi dava molta fiducia ed il suo senso dell'umorismo mi sembrava eccellente; ma soprattutto sentivo nei suoi atti una consistenza silenziosa, completamente sconcertante per me. Sperimentavo nella sua presenza un raro diletto, e contemporaneamente uno strano disagio. La sua sola compagnia mi costringeva ad effettuare una tremenda rivalutazione dei miei modelli di condotta. Mi avevano educato, chissà come quanti in tutto il mondo, ad avere la disposizione di accettare l'uomo come una creatura essenzialmente debole e fallibile. Quello che mi impressionava di Don Juan era il fatto che non sottolineava l'essere debole ed indifeso, e il solo stare vicino a lui assicurava un paragone sfavorevole tra il suo modo di comportarsi e il mio. Per caso una delle osservazioni più impressionanti che sentii in quell'epoca si riferiva alla nostra inerente differenza. In precedenza ad una delle mie visite mi sentevo molto sfortunato a causa del corso totale della mia vita e di un certo numero di urgenti conflitti personali. Arrivando a casa sua mi sentivo malinconico e nervoso.
Parlavamo del mio interesse nella sua conoscenza ma, come di abitudine, seguivamo sentieri distinti. Io mi riferivo alla conoscenza accademica che trascende l'esperienza, mentre lui parlava della conoscenza diretta del mondo.
- Cosa credi di conoscere del mondo che ti circonda? - domandò.
- Conosco di tutto - dissi.
- Voglio dire, senti il mondo che ti circonda? -
- Sento il mondo che mi circonda tanto quanto posso -.
- Quello non basta. Devi sentirlo tutto; altrimenti il mondo perde il suo senso -.
Formulai il classico argomento che non era necessario provare la zuppa per conoscere la ricetta, né ricevere una scossa elettrica per sapere dell'elettricità.
- Trasformi tutto in una stupidità - disse -. Vedo già che vuoi afferrarti alle tue ragioni malgrado non ti diano niente; vuoi continuare ad essere ancora lo stesso a costo del tuo benessere.
- Non so di cosa parli -.
- Parlo del fatto che non sei completo. Non hai pace -.
L'affermazione mi disturbò. Mi sentii offeso. Pensai che Don Juan non era qualificato in alcun modo per giudicare i miei atti né la mia personalità.
- Sei pieno di problemi - disse -. Perché? -
- Sono solo un uomo, Don Juan - riposi di malumore.
Feci l'affermazione nella stesso modo in cui la faceva mio padre normalmente. Ogni volta che diceva di essere solo un uomo, intendeva che era debole ed indifeso e la sua frase, come la mia, traboccava di un essenziale senso di disperazione.
Don Juan mi scrutò come il giorno in cui ci conoscemmo.
- Pensi troppo a te stesso - disse sorridendo -. E quello ti dà una strana fatica che ti fà chiudere al mondo che ti circonda ed aggrapparti alle tue ragioni. Per questo motivo hai solamente problemi. Anch'io sono solo un uomo, ma non lo dico come lo dici tu. -
- Come lo dice lei? -
- Io sono uscito da tutti i miei problemi. La mia vita è tanto breve e non mi permette di aggrapparmi a tutte le cose che voglio. Ma questo non è problema, né un punto di discussione; è solo un peccato -.
Mi piacque il tono delle sue frasi. Non c'era in lui disperazione né compassione per sé stesso.
Nel 1961, un anno dopo il nostro primo incontro, Don Juan mi rivelò che possedeva una conoscenza segreta delle piante medicinali. Mi disse che era uno stregone. Da quel momento la relazione tra noi cambiò; mi trasformai nel suo apprendista e durante i quattro anni seguenti lottò per insegnarmi i misteri della stregoneria. Ho scritto di quell'apprendistato in Gli insegnamenti di Don Juan: una via yaqui alla conoscenza.
Le nostre conversazioni furono tutte in spagnolo, e grazie al magnifico dominio che Don Juan possedeva di questa lingua ottenni spiegazioni dettagliate dei complessi significati del suo sistema di credenze. Ho chiamato stregoneria quell'intricata e sistematica struttura di conoscenza, e Don Juan uno stregone, perché egli stesso usava tali categorie nella conversazione informale. Tuttavia, nel contesto di spiegazioni più serie, usava i termini "conoscenza" per categorizzare la stregoneria e "uomo di conoscenza" o "quello che sa" per categorizzare lo stregone.
Al fine di insegnare e approfondire la sua conoscenza, Don Juan usava tre piante psicotrope conosciute : peyote, Lophophora williamsii; toloache, Datura inoxia, ed un fungo appartenente al genere Psylocibe. Attraverso l'ingestione separata di ognuno di questi allucinogeni si produssero in me, il suo apprendista, alcuni stati peculiari di percezione distorta, o coscienza distorta, che ho chiamato "stati di realtà non ordinaria." Ho usato la parola "realtà" perché una premessa principale nel sistema di credenze di Don Juan era che gli stati di coscienza prodotti per l'ingestione di qualunque delle tre piante non erano allucinazioni, bensì aspetti concreti, benché non comuni, della realtà della vita quotidiana. Don Juan non si comportava verso tali stati di realtà non ordinaria "come" se fossero reali; li prendeva "come" reali.
Classificare come allucinogeni le piante citate, e come realtà non ordinaria gli stati che producevano, è, naturalmente, un mia descrizione. Don Juan intendeva e spiegava le piante come veicoli che conducevano o guidavano un uomo a certe forze o "poteri" impersonali; e gli stati che producevano come gli "incontri" che un stregone doveva avere con quei "poteri" per guadagnare controllo su essi.
Chiamava il peyote "Mescalito" e lo descriveva come un maestro benevolente e protettivo degli uomini. Mescalito insegnava la "forma" corretta di vivere. Il peyote normalmente si ingeriva in riunioni di stregoni chiamati "mitotes", dove i partecipanti si univano specificamente per cercare una lezione sulla forma corretta di vivere.
Don Juan considerava il toloache, ed i funghi, poteri di tipo distinto. Li chiamava "alleati" e diceva che erano suscettibili alla manipolazione; in realtà, uno stregone otteneva la sua forza manipolando un alleato. Dei due, Don Juan preferiva il fungo. Affermava che il potere contenuto nel fungo era suo alleato personale, e lo chiamava "fumo" o "humito".
Il procedimento di Don Juan per utilizzare i funghi era di lasciarli asciugare dentro un piccolo guaje, dove si polverizzavano. Manteneva chiuso il guaje per un anno, e dopo mescolava la polvere fine con altre cinque piante secche e produceva un miscuglio per fumare.
Per trasformarsi in un uomo di conoscenza bisognava "trovarsi" con l'alleato tante volte quante fosse possibile; bisognava familiarizzare con lui. Questa premessa implicava, naturalmente, che uno doveva fumare abbastanza spesso il miscuglio allucinogeno. Questo processo di "fumare" consisteva nell'ingerire la tenue polvere dei funghi che non bruciava, ed inalare il fumo delle altre cinque piante che componevano il miscuglio. Don Juan spiegava i profondi effetti del fumo sulle capacità di percezione dicendo che "l'alleato si portava via il corpo".
Il metodo didattico di Don Juan richiedeva un sforzo straordinario da parte dell'apprendista. In realtà, il grado di partecipazione e di compromesso necessario era così estenuante che alla fine di 1965 dovetti abbandonare l'apprendistato. Posso dire ora, con la prospettiva dei cinque anni trascorsi da quel tempo, che gli insegnamenti di Don Juan avevano incominciato a rappresentare una seria minaccia per la mia "idea" del mondo. Incominciavo a perdere la certezza, comune a tutti noi, che la realtà della vita quotidiana è qualcosa che possiamo dare per scontato.
All'epoca del mio ritiro, mi ero convinto che la mia decisione era finale; non volevo tornare a vedere Don Juan. Tuttavia, nell'Aprile del 1968 mi diedero uno dei primi esemplari del mio libro e mi sentii costretto ad mostrarglielo. Andai a visitarlo. Il nostro rapporto di maestro-apprendista si ristabilì misteriosamente, e posso dire che in quell'occasione iniziai un secondo ciclo di apprendistato, molto distinto del primo. La mia paura non fu tanto acuta come era stata nel passato. Il contesto degli insegnamenti di Don Juan fu più rilassato. Rideva e mi faceva anche ridere molto. Sembrava avere, da parte sua, un deliberato tentativo di minimizzare la serietà in generale. Durante i momenti davvero cruciali di questo secondo ciclo mi aiutò a superare esperienze che facilmente avrebbero potuto diventare ossessive. La sua premessa era la necessità di una disposizione leggera per sopportare l'impatto e la stranezza della conoscenza che mi stava insegnando.
- La ragione per la quale ti spaventasti ed fuggisti volando è perché ti senti più importante di quello che credi - disse, spiegando la mia precedente fuga. - Sentirsi importante fà diventare pesante, rude e vanitoso. Per essere uomo di conoscenza si deve essere leggeri e fluidi.
L'interesse particolare di Don Juan nel secondo ciclo di apprendistato fu insegnarmi a "vedere". Apparentemente, c'era nel suo sistema di conoscenza la possibilità di una differenza semantica tra "vedere" e "guardare" come due modi distinti di percepire. "Guardare" si riferiva alla maniera ordinaria in cui siamo abituati a percepire il mondo, mentre "vedere" includeva un processo molto complesso per virtù del quale un uomo di conoscenza percepisce spontaneamente l' "essenza" delle cose del mondo.
Al fine di presentare in forma leggibile la complessità del processo di apprendistato ho condensato lunghi passaggi di domande e risposte, riducendo così le mie note del campo originali. Credo, tuttavia, che in questo la mia presentazione non può, in assoluto, travisare il significato degli insegnamenti di Don Juan. La riduzione ha il proposito di far fluire le mie note, come fluisce la conversazione, affinché avessero l'impatto desiderato; cioè, volevo comunicare al lettore, per mezzo di un reportage, il dramma e l'immediatezza della situazione del campo. Ogni sezione che ho messo come capitolo fu una sessione con Don Juan. Come regola generale, egli terminava sempre ognuna delle nostre sessioni in una nota ripida; così, il tono drammatico della fine di ogni capitolo non è un effetto letterario del mio racconto: era una metodo proprio della tradizione orale di Don Juan. Sembrava essere un effetto mnemonico che mi aiutava a mantenere la qualità drammatica e l'importanza delle lezioni.
Ciononostante, sono necessarie alcune spiegazioni per dare coerenza al mio reportage, perché la sua chiarezza dipende dalla delucidazione di certi concetti chiave o unità chiave che desidero far emergere. Questa lezione di enfasi è congruente col mio interesse nella scienza sociale. È perfettamente possibile che un'altra persona, con un insieme differente di mete ed anticipazioni, risaltasse concetti interamente distinti di quelli che io ho scelto.
Durante il secondo ciclo di apprendistato, Don Juan insistè che l'uso del miscuglio da fumare era il requisito indispensabile per "vedere". Pertanto, dovevo usarlo il più frequentemente possibile.
- Solo il fumo può darti la velocità necessaria per scorgere quell mondo fugace - disse -.
Con l'aiuto del miscuglio psicotropo, produsse in me una serie di stati di realtà non ordinaria. La caratteristica saliente di tali stati, in relazione a quello che Don Juan sembrava stare facendo, era una condizione di "inapplicabilità". Quello che percepivo in quegli stati di coscienza distorta era incomprensibile ed impossibile da interpretare per mezzo della nostra forma quotidiana di capire il mondo. In altre parole, la condizione di inapplicabilità comportava la cessazione della pertinenza della mia visione del mondo.
Don Juan usò questa condizione di inapplicabilità degli stati di realtà non ordinaria per introdurre una serie di nuove "unità di significato" prestabilite. Le unità di significato erano tutti gli elementi individuali pertinenti alla conoscenza che Don Juan si impegnava ad insegnarmi. Li ho chiamate unità di significato perché erano il conglomerato basilare di dati sensoriali, e le sue interpretazioni, sul quale si erigeva un significato più complesso. Una di tali unità era, per esempio, la forma in cui si intendeva l'effetto fisiologico della miscela psicotropa. Questa produceva un intorpidimento ed una perdita di controllo motore che nel sistema di Don Juan si interpretavano come un'azione realizzata dal fumo, che era l'alleato in questo caso, al fine di "portarsi via il corpo dell'apprendista."
Le unità di significato si raggruppavano in forma specifica, ed ogni blocco così creato integrava quello che chiamo una "interpretazione sensibile". Ovviamente, dev'esserci un numero infinito di possibili interpretazioni sensibili che sono pertinenti alla stregoneria e che uno stregone deve imparare a realizzare. Nella nostra vita quotidiana, affrontiamo un numero infinito di interpretazioni sensibili pertinenti. Un esempio semplice potrebbe essere l'interpretazione, oramai non deliberata, che facciamo più volte ogni giorno della struttura che chiamiamo "stanza." È ovvio che abbiamo imparato ad interpretare in termini di stanza la struttura che chiamiamo stanza; così, stanza è un'interpretazione sensibile perché richiede che nel momento di farla abbiamo conoscenza, in una o in un'altra forma, di tutti gli elementi che entrano nella sua composizione. Un sistema di interpretazione sensibile è, in altre parole, il processo in virtù del quale un apprendista ha conoscenza di tutte le unità di significato necessarie per realizzare assunzioni, deduzioni, predizioni, etc., su tutte le situazioni pertinenti alla sua attività.
Dicendo "apprendista" mi riferisco ad un partecipante che possiede una conoscenza adeguata di tutte, o quasi tutte, le unità di significato implicate nel suo sistema particolare di interpretazione sensibile. Don Juan era uno stregone che conosceva tutti i passi della sua stregoneria.
Come apprendista, cercavo di aprirmi l'accesso al suo sistema di interpretazione sensibile. Tale accessibilità, in questo caso, equivaleva ad un processo di risocializzazione nel quale imparavo nuove modi di interpretare dati percettivi.
Io ero l' "estraneo", quello che non aveva la capacità di realizzare interpretazioni intelligenti e congruenti delle unità di significato proprie della stregoneria.
Il compito di Don Juan, in quanto impegnato a far diventare accessibile il suo sistema all'apprendista, consisteva nello scomporre una particolare certezza che io condivido con tutti: la certezza che la prospettiva "di buonsenso" che abbiamo del mondo sia definitiva. Attraverso l'uso di piante psicotrope, e di contatti diretti tra il suo strano sistema e la mia persona, riuscì a mostrarmi che la mia prospettiva del mondo non può essere definitiva perché è solo un'interpretazione.
Per l'indio americano, durante migliaia di anni, il termine che chiamiamo stregoneria è stata una pratica, seria ed autentica, paragonabile a quella della nostra scienza. La nostra difficoltà nel comprenderla sorge, senza dubbio, dalle unità di significato particolari con le quali tratta.

Don Juan mi disse una volta che un uomo di conoscenza ha predilezioni. Gli chiesi di spiegare questo enunciato.
- La mia predilezione è vedere - disse.
- Che cosa vuole dire con questo? -
- Mi piace vedere - disse - perché solo vedendo un uomo di conoscenza può sapere. -
- Che tipo di cose lei vede? -
- Tutto. -
- Ma anche io vedo tutto e non sono un uomo di conoscenza. -
- No. Tu non vedi. -
- Ovviamente che sì -
- Ti dico che no -
- Perché dice questo, Don Juan? -
- Tu guardi solamente la superficie delle cose. -
- Vuole dire che ogni uomo di conoscenza vede attraverso quello che guarda? -
- No. Questo non è quello che voglio dire. Ho detto che un uomo di conoscenza ha le sue proprie predilezioni; la mia è semplicemente vedere e sapere; altri fanno altre cose. -
- Quali altre cose, per esempio? -
- Conosci Sacateca: è un uomo di conoscenza e la sua predilezione è ballare. Cosicché egli balla e sa. -
- È la predilezione di un uomo di conoscenza qualcosa che fa per sapere? -
- Sì -
- Ma come potrebbe il ballo aiutare a Sacateca a sapere? -
- Potremmo dire che Sacateca balla con tutto quello che ha. -
- Balla come io ballo? Dico, come si balla? -
- Diciamo che balla come io vedo e tu non balli. -
- Vede anche come lei vede? -
- Sì, ma balla anche. -
- Come balla Sacateca? -
- È difficile spiegarlo. È un ballo molto speciale che usa quando vuole sapere. Ma l'unica cosa che posso dirti è che, a meno che tu capisca i modi del sapere, è impossibile parlare di ballare o di vedere. -
- L'ha visto lei ballare? -
- Sì. Ma non chiunque guardi il suo ballo può vedere che quella è la sua forma speciale di sapere. -
Io conoscevo Sacateca, o almeno sapevo chi era. Ci avevano presentato ed una volta l'invitai per una birra. Si comportò con molta cortesia e mi disse che passassi a casa sua con libertà in qualunque momento volessi. Pensai per lungo tempo di visitarlo, ma non lo dissi a Don Juan.
Il pomeriggio del 14 Maggio del 1962 andai a casa di Sacateca; mi avevano dato istruzioni per arrivare e non ebbi difficoltà a trovarla. Stava in un angolo ed aveva un recinto intorno. L'inferriata era chiusa. Feci il giro per vedere se potevo osservare l'interno della casa. Sembrava deserta.
- Don Elías - chiamai a voce alta. Le galline spaventate si sparsero per il patio chiocciando con furia. Un cagnolino si precipitò al recinto. Sperai che mi abbaiasse; invece si sedette a guardarmi. Gridai di nuovo e le galline esplosero un'altra volta in coccodé.
Una vecchia uscì dalla casa. Gli chiesi di chiamare Don Elías.
- Non c'é - disse.
- Dove posso trovarlo? -
- Sta nel campo. -
- In che cosa parte dal campo? -
- Non so. Vengono più tardi. Lui ritorna alle cinque. -
- È lei la donna di Don Elías? -
- Sì, sono sua moglie - disse e sorrise.
Tentai di fargli domande su Sacateca, ma si scusò e disse che non parlava bene lo spagnolo. Salii nella mia automobile e mi allontanai.
Ritornai alla casa verso le sei. Mi fermai davanti all'inferriata e gridai il nome di Sacateca. Questa volta uscì della casa. Sacateca sembrò riconoscermi.
- Ah, sei tu - disse sorridendo.  - Come sta Juan? -
- Molto bene. Ma come sta lei, Don Elías? -
Non rispose. Sembrava nervoso. A dispetto della sua gran riservatezza esterna, sentii che si sentiva disgustato.
- Ti comandò Juan con qualche messaggio? -
- No. Sono venuto solo. -
- E per che motivo? -
La sua domanda sembrò tradire la sua genuina sorpresa.
- Nient'altro, volevo parlare con lei - dissi, tentando di far sembrare la cosa più spensierata possibile. - Don Juan mi ha raccontato cose meravigliose su di lei e mi è venuta curiosità e volevo farle alcune domande. -
Sacateca stava in piedi di fronte a me. Il suo corpo era magro e forte. Portava camicia e pantaloni cachi. Aveva gli occhi socchiusi; sembrava insonnolito o forse ubriaco. La sua bocca era socchiusa ed il labbro inferiore pendeva. Notai la sua respirazione profonda; sembrava quasi russare. Realizzai che Sacateca si trovava senza dubbio ubriaco oltre misura. Ma quest'idea risultava incongrua, perché pochi minuti prima, uscendo della casa, era stato molto attento e molto cosciente della mia presenza.
- Di che cosa vuoi parlare? - disse finalmente.
La voce suonava stanca; era come se le parole strisciassero una dietro l'altra. Mi sentii molto scomodo. Era come se la sua fatica fosse contagiosa e mi tirasse.
- Di niente in particolare - risposi, - Nient'altro che conversare come amici. Lei mi invitò una volta a venire a casa sua. -
- Sì, ma questo non è la stessa cosa. -
- Perché non è la stessa cosa? -
- Non parli con Juan? -
- Si. -
- Allora per quale motivo vuoi parlare con me? -
- Penso che potrei farle alcune domande. . . -
- Domanda a Juan, non ti sta insegnando? -
- Sì, ma in ogni caso mi piacerebbe domandare riguardo a quello che Don Juan mi insegna, ed avere la sua opinione. Così potrò sapere a che cosa attenermi. -
- Per che motivo chiedi queste cose? Non ti fidi di Juan? -
- Sì. -
- Allora perché non gli domandi tutto quello che vuoi sapere? -
- Sì gli domando. E mi dice tutto. Ma se anche lei potesse parlarmi di quello che Don Juan mi insegna, forse io capirei meglio. -
- Juan può dirti tutto. Egli è l'unico che può. Non capisci questo? -
- Sì, ma mi piace parlare con gente come lei, Don Elías. Non tutti i giorni si trova un uomo di conoscenza. -
- Juan è un uomo di conoscenza. -
- Lo so. -
- Allora perché stai parlandomi? -
- Le ho già detto che sono venuto a parlare come amici. -
- No, non è vero. Tu vuoi un'altra cosa. -
Volli spiegarmi e non potei dire che incoerenze. Sacateca non disse niente. Sembrava ascoltare con attenzione. Aveva di nuovo gli occhi socchiusi, ma sentii che mi scrutava. Assentì quasi impercettibilmente. Le sue palpebre si aprirono all'improvviso, e vidi i suoi occhi. Sembrava guardare oltre me. Battè spensieratamente il suolo con la punta del suo piede destro, giusto dietro il suo tallone sinistro. Aveva le gambe lievemente inarcate, le braccia inerti contro i fianchi. Quindi alzò il braccio destro; la mano era aperta con la palma perpendicolare al suolo; le dita estese nella mia direzione. Lasciò oscillare la mano un paio di volte prima di metterla al livello del mio viso. La mantenne in quella posizione per un istante e mi disse alcune parole. La sua voce era molto chiara, ma le parole strisciavano.
Dopo un momento lasciò cadere la mano al suo fianco e rimase immobile, adottando una posizione strana. Era fermo sulle dita del suo piede sinistro. Con la punta del piede destro, incrociato dietro il tallone del sinistro, batteva il suolo leggero e ritmicamente.
Sperimentai un'apprensione senza motivo, una specie di inquietudine. Le mie idee sembravano dissociate. Pensavo a cose senza connessione né senso che niente avevano a che vedere con quello che succedeva. Notai la mia scomodità e tentai di incanalare nuovamente i miei pensieri verso la situazione immediata, ma non potei nonostante una gran lotta. Era come se una forza mi impedisse di concentrarmi o pensare cose adeguate al momento.
Sacateca non aveva pronunciato parola ed io non sapevo che più dire o fare. In modo completamente automatico mi girai ed andai via.
Più tardi mi sentii spinto a narrare a Don Juan il mio incontro con Sacateca. Don Juan rise a crepapelle.
- Che cosa è realmente successo? - domandai.
- Sacateca ballò! - disse Don Juan. - Ti vide, e dopo ballò. -
- Che cosa mi fece? Mi sentii molto freddo e nauseato. -
- Sembra che non gli stessi simpatico, e ti fermò tirandoti una parola. -
- Come potè fare questo? - esclamai, incredulo.
- Molto semplice; ti fermò con la sua volontà. -
- Come lei? -
- Ti fermò con la sua volontà! -
La spiegazione non bastava. Le sue affermazioni mi suonavano strane. Tentai di tirarne fuori di più, ma non potè spiegare l'evento in modo per me più soddisfacente.
Ovviamente questo evento, o qualunque evento che succedesse dentro un altrui sistema di buonsenso, poteva essere spiegato o compreso solo in termini delle unità di significato proprie di tale sistema. Questa opera è, pertanto, un reportage, e deve leggersi come reportage. Il sistema di apprendistato mi era incomprensibile; così la pretesa di fare qualcosa di più che esprimerlo sarebbe ingannevole ed impertinente. In questo aspetto, ho adottato il metodo fenomenologico e lottato per affrontare la stregoneria esclusivamente come fenomeni che mi furono presentati. Io, come percettore, registrai quello che percepii, e nel momento di registrarlo mi proposi di sospendere ogni giudizio.

mercoledì 28 novembre 2012

la natura del Tao ordinario

kurtwenner.com
Discussi i modelli per la descrizione sistemica della mente e della coscienza, Tart approfondisce lo stato della coscienza ordinaria che produce l'ordinaria realtà consensuale:

The Nature of Ordinary Consciousness

If the doors of perception were cleansed every thing would appear to man as it is, infinite.
For man has closed himself up, till he sees all things thro' narrow chinks of his cavern.

William Blake, The Marriage of Heaven and Hell

The prejudice that our ordinary state of consciousness is natural or given is a major obstacle to understanding the nature of the mind and states of consciousness. Our perceptions of the world, others, and ourselves, as well as our reactions to (consciousness of) them, are semi-arbitrary constructions. Although these constructions must have a minimal match to physical reality to allow survival, most of our lives are spent in consensus reality, that specially tailored and selectively perceived segment of reality constructed from the spectrum of human potential. We are simultaneously the beneficiaries and the victims of our culture. Seeing thins according to consensus reality is good for holding a culture together, but a major obstacle to personal and scientific understanding of the mind.
A culture can be seen as a group which has selected certain human potentials as good and developed them, and rejected others as bad. Internally this means that certain possible experiences are encouraged and others suppressed to construct a "normal" state of consciousness that is effective in and helps define the culture's particular consensus reality. The process of enculturation begins in infancy, and by middle childhood the individual has a basic membership in consensus reality. Possibilities are partially shaped by the enculturation that has already occurred. By adulthood the individual enjoys maximum benefits from membership, but he is now maximally bound within this consensus reality. A person's "simple" perception of the world and of others is actually a complex process controlled by many implicit factors.
One of the greatest problems in studying consciousness and altered states of consciousness is an implicit prejudice that tends to make us distort all sorts of information about states of consciousness. When you know you have a prejudice you are not completely caught by it, for you can question whether the bias is really useful and possibly try to change it or compensate for it. But when a prejudice is implicit it controls you without your knowledge and you have little chance to do anything about it.
The prejudice discussed in this chapter is the belief that our ordinary state of consciousness is somehow natural. It is a very deep-seated and implicit prejudice. I hope in this chapter to convince you intellectually that it is not true. Intellectual conviction is a limited thing, however, and to know the relativity and arbitrariness of your ordinary state of consciousness on a deeper level is a much more difficult task.
Consciousness, not our sense organs, is really our "organ" of perception, and one way to begin to see the arbitrariness of our consciousness is to apply the assumption that ordinary consciousness is somehow natural or given to a perceptual situation.
This is done in Figure:
A man is looking at a cat and believing that the image of the real cat enters his eye and is, in effect, faithfully reproduced on a screen in his mind, so that he sees the cat as it is. This naive view of perception was rejected long ago by psychologists, who have collected immense amounts of evidence to show that it is a ridiculously oversimplified, misleading, and just plain wrong view of perception. Interestingly, these same psychologists seldom apply their understanding of the complexity of perception to their own lives, and the person in the street does so even less.
While there are a great many simple perceptions we can very well agree on, there are many others, especially the more important ones in human life, on which there is really little agreement. I would be that almost all adult, non-institutionalized humans in our society would agree that this object in your hand is called a book, but as we define more complex things the bet gets riskier. If you go to a courtroom trial and listen to the testimony of several eyewitnesses, all of whom presumably has basically the same stimuli reaching their receptors, you may hear several different versions of reality. Or, if you discuss the meaning of current events with your acquaintances, you will find that there are many other points of view besides your own. Most of our interest is directed by complex, multifaceted social reality of this sort.
Most of us deal with this disagreement by simply assuming that those who disagree with us are wrong, that our own perceptions and consciousness are the standard of normality and rightness, and that other people cannot observe or think well and/or are lying, evil, or mentally ill.
Consciousness, then, including perception, feeling, thinking, and acting, is a semi-arbitrary construction. I emphasize semi-arbitrary because I make the assumption, common to our culture that there are some fixed rules governing physical reality whose violation produces inevitable consequences. If someone walks off the edge of a tall cliff, I believe he will fall to the bottom and probably be killed, regardless of his beliefs about cliffs, gravity, or life and death. Thus people in cultures whose belief systems do not, to a fair degree, match physical reality, are not likely to survive long enough to argue with us. But once the minimal degree of coincidence with physical reality necessary to enable physical survival has been attained, the perception/consciousness of an action in the complex social reality that then exists may be very arbitrary indeed.
We must face the fact, now amply documented by the scientific evidence presented in any elementary psychology textbook, that perception can be highly selective. Simple images of things out there are not clearly projected onto a mental screen, where we simply see them as they are. The act of perceiving is a highly complex, automated construction. It is a selective category system, a decision-making system, preprogrammed with criteria of what is important to perceive. It frequently totally ignores things it has not been preprogrammed to believe are important.
Figure shows a person with a set of categories programmed in his mind, a selection of implicit criteria to recognize things that are "important." When stimulated by one of these things he is preprogrammed to perceive, he readily responds to it. More precisely, rather than saying he responds to it which implies a good deal of directness in perception, we might say that it triggers a representation of itself in his mind, and he then responds to that representation. As long as it is a good representation of the actual stimulus object, he has a fairly accurate perception. Since he tends to pay more attention to the representations of things he sees than to the things themselves, however, he may think he perceives a stimulus object clearly when actually he is perceiving an incorrect representation.
This is where perception begins to be distorted by the perceiver's training and needs. Eskimos have been trained to distinguish seven or more kinds of snow. We do not see these different kinds of snow, even though they exist, for we do not need to make these distinctions. To us it is all snow. Our one internal representation of snow is triggered indiscriminately by any kind of actual snow. Similarly, for the paranoid person who needs to believe that others are responsible for his troubles, representations of threatening actions are easily triggered by all sorts of behaviors on the part of others.
What happens when we are faced by the unknown, by things we have not been trained to see?
The figure, using the same kind of analogy as the previous figure, depicts this. We may not see the stimulus at all: the information passes right through the mind without leaving a trace. Or we may see a distorted representation of the stimulus: some of the few features it has in common with known stimuli trigger representations of the known features, and that is what we perceive. We "sophisticated" Westerners do not believe in angels. If we actually confronted one, we might not be able to see it correctly. The triangle in its hands is a familiar figure, however, so we might perceive the triangle readily. In fact, we might see little but the triangle—maybe a triangle in the hands of a sweet old lady wearing a white robe
Don Juan, the Yaqui man of knowledge, puts it quite succinctly: "I think you are only alert about things you know".
I mentioned above the curious fact about psychologists, who know about the complexities of perception, almost never seem to apply this information to their own perceptions. Even though they study the often large and obvious distortions in other people's perceptions, they maintain an image of themselves as realistic perceivers. Some psychologists even argue that perception is actually quite realistic. But what does "realistic" mean?
We like to believe that it means perception of the real world, the physical world. But the world we spend most of our time perceiving is not just any segment of the physical world, but a highly socialized part of the physical world that has been built into cities, automobiles, television sets. So our perception may indeed be realistic, but it is so only with respect to a very tailored segment of reality, a consensus reality, a small selection of things we have agreed are "real" and "important." thus, within our particular cultural framework, we can easily set up what seem to be excellent scientific experiments that will show that our perceptions are indeed realistic, in the sense that we agree with each other on these selected items from our consensus reality.
This is a way of saying that our perceptions are highly selective and filtered, that there is a major subsystem of consciousness, Input-Processing discussed at length later, that filters the outside world for us. If two people have similar filtering systems, as, for example, if they are from the same culture, they can agree on many things. But again, as Don Juan says, "I think you are only alert about things you know." If we want to develop a science to study consciousness, and want that science to go beyond our own cultural limitations, we must begin by recognizing the limitations and arbitrariness of much of our ordinary state of consciousness.