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lunedì 21 ottobre 2013

la freccia del Tao

La freccia del tempo


«Sino all'inizio di questo secolo si credette in un tempo assoluto. In altri termini, ogni evento poteva essere etichettato da un numero chiamato «tempo» ad esso associato in un modo unico, e ogni buon orologio avrebbe concordato con ogni altro nel misurare l'intervallo di tempo compreso fra due eventi. La scoperta che la velocità della luce appare la stessa a ogni osservatore, in qualsiasi modo si stia muovendo, condusse però alla teoria della relatività, nella quale si dovette abbandonare l'idea che esista un tempo unico assoluto. Ogni osservatore avrebbe invece la sua propria misura del tempo quale viene misurato da un orologio che egli porta con sé: orologi portati da differenti osservatori non concorderebbero necessariamente fra loro. Il tempo diventò così un concetto più personale, relativo all'osservatore che lo misurava.
Quando si tentò di unificare la gravità con la meccanica quantistica, si dovette introdurre l'idea del tempo "immaginario". Il tempo immaginario è indistinguibile dalle direzioni nello spazio. Se si può andare verso nord, si può fare dietro-front e dirigersi verso sud; nello stesso modo, se si può procedere in avanti nel tempo immaginario, si dovrebbe poter fare dietro-front e procedere a ritroso. Ciò significa che non può esserci alcuna differenza importante fra le direzioni in avanti e all'indietro del tempo immaginario. D'altra parte, quando si considera il tempo "reale", si trova una differenza grandissima fra le direzioni in avanti e all'indietro, come ognuno di noi sa anche troppo bene. Da dove ha avuto origine questa differenza fra il passato e il futuro? Perché ricordiamo il passato ma non il futuro?


Le leggi della scienza non distinguono fra passato e futuro. Più precisamente, le leggi della scienza sono invarianti sotto la combinazione di operazioni (o simmetrie) note come C, P e T. (C significa lo scambio fra particelle e antiparticelle; P significa l'assunzione dell'immagine speculare, con inversione di destra e sinistra; T significa, infine, l'inversione del moto di tutte le particelle, ossia l'esecuzione del moto all'indietro.) Le leggi della scienza che governano il comportamento della materia in tutte le situazioni normali rimangono immutate sotto la combinazione delle due operazioni C e P prese a sé. In altri termini, la vita sarebbe esattamente identica alla nostra per gli abitanti di un altro pianeta che fossero una nostra immagine speculare e che fossero composti di antimateria anziché di materia.
Se le leggi della scienza rimangono immutate sotto la combinazione delle operazioni C e P, e anche sotto la combinazione C, P e T, devono rimanere immutate anche sotto la sola operazione T. Eppure c'è una grande differenza fra le operazioni in avanti e all'indietro del tempo reale nella vita comune. Immaginiamo una tazza d'acqua che cada da un tavolo e vada a frantumarsi sul pavimento. Se filmiamo questo fatto, potremo dire facilmente, osservandone la proiezione, se la scena che vediamo si stia svolgendo in avanti o all'indietro. Se la scena è proiettata all'indietro, vedremo i cocci riunirsi rapidamente e ricomporsi in una tazza intera che balza sul tavolo. Possiamo dire che la scena che vediamo è proiettata all'indietro perché questo tipo di comportamento non viene mai osservato nella vita comune. Se lo fosse, i produttori di stoviglie farebbero fallimento.
La spiegazione che si dà di solito del perché non vediamo mai i cocci di una tazza riunirsi assieme a ricostituire l'oggetto integro è che questo fatto è proibito dal secondo principio della termodinamica. Questo dice che in ogni sistema chiuso il disordine, o l'entropia, aumenta sempre col tempo. In altri termini, questa è una forma della legge di Murphy: le cose tendono sempre ad andare storte! Una tazza integra sul tavolo è in uno stato di alto ordine, mentre una tazza rotta sul pavimento è in uno stato di disordine. Si può passare facilmente dalla tazza sul tavolo nel passato alla tazza rotta sul pavimento nel futuro, ma non viceversa.
L'aumento col tempo del disordine o dell'entropia è un esempio della cosiddetta freccia del tempo, qualcosa che distingue il passato dal futuro, dando al tempo una direzione ben precisa. Esistono almeno tre frecce del tempo diverse. Innanzitutto c'è la freccia del tempo termodinamica: la direzione del tempo in cui aumenta il disordine o l'entropia. Poi c'è la freccia del tempo psicologica: la direzione in cui noi sentiamo che passa il tempo, la direzione in cui ricordiamo il passato ma non il futuro. Infine c'è la freccia del tempo cosmologica: la direzione del tempo in cui l'universo si sta espandendo anziché contraendo.
Orbene, nessuna condizione al contorno per l'universo può spiegare perché tutt'e tre le frecce puntino nella stessa direzione, e inoltre perché debba esistere in generale una freccia del tempo ben definita. La freccia psicologica è determinata dalla freccia termodinamica, e queste due frecce puntano sempre necessariamente nella stessa direzione. Se si suppone la condizione dell'inesistenza di confini per l'universo, devono esistere una freccia del tempo termodinamica e una cosmologica ben definite, ma esse non punteranno nella stessa direzione per l'intera storia dell'universo. Solo però quando esse puntano nella stessa direzione le condizioni sono idonee allo sviluppo di esseri intelligenti in grado di porsi la domanda: Perché il disordine aumenta nella stessa direzione del tempo in cui l'universo si espande?.
Esaminerò dapprima la freccia del tempo termodinamica. La seconda legge della termodinamica risulta dal fatto che gli stati disordinati sono sempre molti di più di quelli ordinati. Per esempio, consideriamo i pezzi di un puzzle in una scatola. Esiste uno, e un solo, ordinamento in cui tutti i pezzi formano una figura completa. Di contro esiste un numero grandissimo di disposizioni in cui i pezzi sono disordinati e non compongono un'immagine.
Supponiamo che un sistema prenda l'avvio in uno del piccolo numero di stati ordinati. Al passare del tempo il sistema si evolverà secondo le leggi della scienza e il suo stato si modificherà. In seguito è più probabile che il sistema si trovi in uno stato disordinato piuttosto che in uno ordinato, dato che gli stati disordinati sono in numero molto maggiore. Il disordine aumenterà quindi probabilmente col tempo se il sistema obbedisce alla condizione iniziale di grande ordine.
Supponiamo che nello stato iniziale i pezzi siano raccolti nella scatola nella disposizione ordinata in cui formano un'immagine. Se scuotiamo la scatola i pezzi assumeranno un'altra disposizione. Questa sarà probabilmente una disposizione disordinata in cui i pezzi non formeranno un'immagine appropriata, semplicemente perché le disposizioni disordinate sono in numero molto maggiore di quelle ordinate. Alcuni gruppi di pezzi potranno formare ancora parti della figura, ma quanto più scuotiamo la scatola tanto più aumenta la probabilità che anche questi gruppi si rompano e che i pezzi vengano a trovarsi in uno stato completamente mischiato, nel quale non formeranno più alcuna sorta di immagine. Così il disordine dei pezzi aumenterà probabilmente col tempo se i pezzi obbediscono alla condizione iniziale che si prenda l'avvio da uno stato altamente ordinato.
Supponiamo, però, che Dio abbia deciso che l'universo debba finire in uno stato di alto ordine, ma che non abbia alcuna importanza in quale stato sia iniziato. In principio l'universo sarebbe probabilmente in uno stato molto disordinato. Ciò significherebbe che il disordine è destinato a diminuire col tempo. Vedremmo allora i cocci di tazze rotte riunirsi assieme e le tazze intere saltare dal pavimento sul tavolo. Gli esseri umani che si trovassero a osservare queste scene vivrebbero però in un universo in cui il disordine diminuisce col tempo. Ebbene, tali esseri avrebbero una freccia del tempo psicologica orientata all'indietro. In altri termini, essi ricorderebbero gli eventi del futuro e non del passato. Quando la tazza è rotta, essi ricorderebbero di averla vista integra sul tavolo, ma vedendola sul tavolo non ricorderebbero di averla vista in pezzi sul pavimento.
È piuttosto difficile parlare della memoria umana perché non sappiamo nei particolari in che modo funzioni il cervello. Però sappiamo tutto su come funzionano le memorie dei computer. Esaminerò perciò la freccia del tempo psicologica per i computer. Io penso che sia ragionevole supporre che la freccia del tempo psicologica per i computer sia la stessa che per gli esseri umani. Se così non fosse, si potrebbe fare una strage sul mercato azionario avendo un computer che ricordasse le quotazioni di domani!
Una memoria di un computer è fondamentalmente un dispositivo contenente elementi che possono esistere in uno di due stati diversi. Un esempio semplice è un abaco. Nella sua forma più semplice, esso consiste in un certo numero di bacchette su ciascuna delle quali può scorrere una pallina forata, che può essere messa in una di due posizioni. Prima che un'informazione venga registrata in una memoria di computer, la memoria si trova in uno stato disordinato, con probabilità uguali per ciascuno dei due stati possibili. (Le palline dell'abaco sono distribuite in modo casuale sulle bacchette.) Dopo avere interagito col sistema che dev'essere ricordato, la memoria si troverà decisamente nell'uno o nell'altro stato, a seconda dello stato del sistema. (Ogni pallina dell'abaco si troverà o nella parte destra o nella parte sinistra di ogni bacchetta.) La memoria sarà quindi passata da uno stato disordinato a uno stato ordinato. Per essere certi, però, che la memoria si trovi nello stato giusto, è necessario usare una certa quantità di energia (per spostare le palline o per fornire energia al computer, per esempio). Quest'energia viene dissipata sotto forma di calore, e contribuisce ad aumentare la quantità di disordine nell'universo. Si può mostrare che quest'aumento del disordine è sempre maggiore dell'aumento dell'ordine nella memoria stessa. Così, il calore espulso dal ventilatore del computer significa che, quando un computer registra un'informazione nella sua memoria, la quantità totale di disordine nell'universo aumenta ancora. La direzione del tempo in cui un computer ricorda il passato è la stessa in cui aumenta il disordine.
Il nostro senso soggettivo della direzione del tempo, la freccia del tempo psicologica, è perciò determinato nel nostro cervello dalla freccia del tempo termodinamica. Esattamente come un computer, anche noi dobbiamo ricordare le cose nell'ordine in cui aumenta l'entropia. Questo fatto rende la seconda legge della termodinamica quasi banale. Il disordine aumenta col tempo perché noi misuriamo il tempo nella direzione in cui il disordine aumenta. Non c'è una cosa di cui possiamo essere più sicuri di questa!
Ma per quale ragione deve esistere la freccia del tempo termodinamica? O, in altri termini, perché l'universo dovrebbe essere in uno stato di grande ordine a un estremo del tempo, l'estremo che chiamiamo passato? Perché non si trova sempre in uno stato di completo disordine? Dopo tutto, questa cosa potrebbe sembrare più probabile. E perché la direzione del tempo in cui aumenta il disordine e la stessa in cui l'universo si espande?
Nella teoria classica della relatività generale non si può predire in che modo l'universo sia cominciato perché tutte le leggi note della scienza verrebbero meno in presenza della "singolarità" del Big Bang. L'universo potrebbe avere avuto inizio in un modo molto omogeneo e ordinato. Questo fatto avrebbe condotto a frecce del tempo termodinamica e cosmologica ben definite, come quelle che osserviamo. Esso avrebbe però potuto avere origine altrettanto bene in uno stato molto grumoso e disordinato. In questo caso l'universo si sarebbe trovato già in uno stato di completo disordine, cosicché il disordine non avrebbe potuto aumentare col tempo. Esso sarebbe stato destinato o a restare costante, nel qual caso non ci sarebbe stata una freccia del tempo termodinamica ben definita, o a diminuire, nel qual caso la freccia del tempo termodinamica avrebbe puntato nella direzione opposta a quella della freccia cosmologica. Nessuna di queste due possibilità e in accordo con ciò che osserviamo. Ma la teoria classica della relatività generale predice il suo stesso venir meno. Quando ci si avvicina alla singolarità del Big Bang, gli effetti gravitazionali quantistici diventeranno importanti e la teoria classica cesserà di essere una buona descrizione dell'universo. Si deve usare una teoria quantistica della gravità per capire in che modo abbia avuto inizio l'universo.
In una teoria quantistica della gravità per specificare lo stato dell'universo si dovrebbe ancora dire in che modo le possibili storie dell'universo si comporterebbero all'èstremo confine dello spazio-tempo in passato. Si potrebbe evitare questa difficoltà di dover descrivere quel che non sappiamo e non possiamo sapere solo se le storie soddisfano la condizione dell'inesistenza di ogni confine: se hanno un'estensione finita, ma non hanno confini, margini o singolarità. In questo caso l'inizio del mondo sarebbe un punto regolare, omogeneo, dello spazio-tempo e l'universo avrebbe cominciato la sua espansione in un modo molto regolare e ordinato. Esso non potrebbe essere stato completamente uniforme, poiché in tal caso avrebbe violato il principio di indeterminazione della teoria quantistica. Dovettero esserci piccole fluttuazioni nella densità e nelle velocità delle particelle. La condizione dell'assenza di confine implicava però che queste fluttuazioni fossero il più possibile piccole, in accordo col principio di indeterminazione di Heisenberg.
L'universo avrebbe avuto inizio con un periodo di espansione esponenziale o "inflazionaria" in cui le sue dimensioni sarebbero aumentate di un fattore molto grande.
Nel corso di tale espansione le fluttuazioni di densità sarebbero rimaste dapprima piccole, ma in seguito avrebbero cominciato a crescere. Nelle regioni in cui la densità era leggermente maggiore della media si sarebbe avuto un rallentamento dell'espansione per opera dell'attrazione gravitazionale della massa extra. Infine,- tali regioni avrebbero cessato di espandersi e si sarebbero contratte a formare galassie, stelle ed esseri come noi. L'universo sarebbe iniziato in uno stato omogeneo e ordinato e sarebbe diventato grumoso e disordinato al passare del tempo. Ciò spiegherebbe l'esistenza della freccia del tempo termodinamica.
Ma che cosa accadrebbe se l'universo cessasse di espandersi e cominciasse a contrarsi? La freccia del tempo termodinamica si rovescerebbe e il disordine comincerebbe a diminuire col tempo? Questo fatto condurrebbe a ogni sorta di possibilità fantascientifiche per coloro che fossero riusciti a sopravvivere dalla fase di espansione a quella di contrazione. Quei nostri lontani pronipoti vedrebbero i cocci di tazze ridotte in frammenti ricomporsi in tazze integre, e vedrebbero queste volare dal pavimento sul tavolo? Sarebbero in grado di ricordare le quotazioni di domani e guadagnare una fortuna sul mercato azionario? Potrebbe sembrare un po' accademico preoccuparsi di che cosa accadrebbe se l'universo tornasse a contrarsi, giacché questa contrazione non avrà inizio in ogni caso se non fra altri dieci miliardi di anni almeno. C'è però un modo più rapido per sapere che cosa accadrebbe: saltare in un buco nero. Il collasso di una stella a formare un buco nero è molto simile alle ultime fasi del collasso dell'intero universo. Se nella fase di contrazione dell'universo il disordine dovesse diminuire, potremmo quindi attenderci che esso diminuisca anche all'interno di un buco nero. Così, un astronauta che cadesse in un buco nero sarebbe forse in grado di vincere alla roulette ricordando in quale scomparto si trovava la pallina prima della sua puntata. (Purtroppo, però, non potrebbe giocare a lungo prima di essere trasformato in una fettuccina. Né sarebbe in grado di fornirci informazioni sull'inversione della freccia del tempo termodinamica, o neppure di versare in banca i suoi guadagni, giacché sarebbe intrappolato dietro l'orizzonte degli eventi del buco nero.)
In principio credevo che nella fase di collasso dell'universo il disordine sarebbe diminuito. Questo perché pensavo che nel corso della contrazione l'universo dovesse tornare a uno stato omogeneo e ordinato. Ciò avrebbe significato che la fase di contrazione sarebbe stata simile all'inversione temporale della fase di espansione. Le persone nella fase di contrazione avrebbero vissuto la loro vita a ritroso: sarebbero morte prima di nascere e sarebbero diventate più giovani al procedere della contrazione dell'universo.
Quest'idea è attraente perché comporterebbe una bella simmetria fra le fasi di espansione e di contrazione. Non è però possibile adottarla a se, indipendentemente da altre idee sull'universo. La domanda è: essa è implicita nella condizione che l'universo sia illimitato o è in contraddizione con tale condizione? In principio pensavo che la condizione che l'universo non avesse alcun limite implicasse effettivamente che nella fase di contrazione il disordine sarebbe diminuito. Fui sviato in parte dall'analogia con la superficie terrestre. Se si supponeva che l'inizio dell'universo corrispondesse al Polo Nord, la fine dell'universo doveva essere simile al principio, esattamente come il Polo Sud è simile al Polo Nord. I poli Nord e Sud corrispondono però all'inizio e alla fine dell'universo nel tempo immaginario. L'inizio e la fine nel tempo reale possono essere molto diversi l'uno dall'altro. Fui tratto in inganno anche da una ricerca che avevo fatto su un modello semplice dell'universo in cui la fase di contrazione assomigliava all'inversione del tempo della fase di espansione. Un mio collega, Don Page, della Penn State University, sottolineò però che la condizione dell'assenza di ogni confine non richiedeva che la fase di contrazione dovesse essere necessariamente l'inversione temporale della fase di espansione. Inoltre un mio allievo, Raymond Laflamme, trovò che, in un modello leggermente più complicato, il collasso dell'universo era molto diverso dall'espansione. Mi resi conto di aver commesso un errore: la condizione dell'assenza di ogni limite implicava che il disordine sarebbe in effetti continuato ad aumentare anche durante la contrazione. Le frecce del tempo termodinamica e psicologica non si sarebbero rovesciate quando l'universo avesse cominciato a contrarsi, e neppure all'interno dei buchi neri.
Che cosa si deve fare quando si scopre di aver commesso un errore come questo? Alcuni non ammettono mai di avere sbagliato e continuano a trovare argomenti nuovi, a volte contraddittori fra loro, per sostenere la loro causa, come fece Eddington nella sua opposizione alla teoria dei buchi neri. Altri affermano di non avere mai sostenuto realmente la teoria sbagliata o, se lo hanno fatto, pretendono di averlo fatto solo per dimostrare che era contraddittoria. A me pare molto meglio e molto più chiaro ammettere in una pubblicazione di avere sbagliato. Un buon esempio in proposito fu quello di Einstein, che definì la costante cosmologica, da lui introdotta nel tentativo di costruire un modello statico dell'universo, l'errore più grave di tutta la sua vita. Per tornare alla freccia del tempo, rimane l'interrogativo: perché osserviamo che le frecce termodinamica e cosmologica puntano nella stessa direzione? O, in altri termini, perché il disordine aumenta nella stessa direzione del tempo in cui si espande l'universo? Se si crede che l'universo passi prima per una fase di espansione per tornare poi a contrarsi, come sembra implicare la proposta dell'inesistenza di confini, la domanda si trasforma nell'altra del perché dovremmo trovarci nella fase di espansione e non in quella della contrazione.
Si può rispondere a questa domanda sulla base del "principio antropico debole". Le condizioni nella fase di contrazione non sarebbero idonee all'esistenza di esseri intelligenti in grado di porsi la domanda: perché il disordine cresce nella stessa direzione del tempo in cui si sta espandendo l'universo? L'inflazione nel primissimo periodo di esistenza dell'universo, predetta dalla condizione dell'inesistenza di alcun confine, significa che l'universo deve espandersi con una velocità molto vicina al valore critico in corrispondenza del quale riuscirebbe a evitare di strettissima misura il collasso, e quindi che non invertirà comunque la direzione del suo movimento per moltissimo tempo. A quell'epoca tutte le stelle avranno esaurito il loro combustibile, e i protoni e i neutroni in esse contenuti saranno probabilmente decaduti in particelle di luce e radiazione. L'universo si troverebbe allora in uno stato di disordine quasi completo. Non ci sarebbe una freccia del tempo termodinamica forte. Il disordine non potrebbe aumentare di molto perché l'universo sarebbe già in uno stato di disordine quasi completo. Una freccia del tempo termodinamica forte è però necessaria per l'operare della vita intelligente. Per sopravvivere, gli esseri umani devono consumare cibo, che è una forma ordinata di energia, e convertirlo in calore, che è una forma di energia disordinata. Perciò nella fase di contrazione dell'universo non potrebbero esistere forme di vita intelligente. Questa è la spiegazione del perché osserviamo che le frecce del tempo termodinamica e cosmologica sono puntate nella stessa direzione. Non che l'espansione dell'universo causi un aumento del disordine. A causare l'aumento del disordine, e a far sì che le condizioni siano favorevoli alla vita intelligente soltanto nella fase di espansione, è piuttosto la condizione dell'assenza di confini dell'universo.
Per compendiare, le leggi della scienza non distinguono fra le direzioni del tempo in avanti e all'indietro. Ci sono però almeno tre frecce del tempo che distinguono il passato dal futuro. Esse sono la freccia termodinamica: la direzione del tempo in cui aumenta il disordine; la freccia psicologica: la direzione del tempo in cui ricordiamo il passato e non il futuro; e la freccia cosmologica: la direzione del tempo in cui l'universo si espande anziché contrarsi. Ho mostrato che la freccia psicologica è essenzialmente identica con la freccia termodinamica, cosicché le due puntano sempre nella stessa direzione. La proposta dell'assenza di un confine per l'universo predice l'esistenza di una freccia del tempo termodinamica ben definita perché l'universo deve cominciare in uno stato omogeneo e ordinato. È la ragione per cui noi vediamo questa freccia termodinamica accordarsi con la freccia cosmologica e che forme di vita intelligente possono esistere soltanto nella fase dell'espansione. La fase della contrazione non sarà adatta perché non ha una freccia del tempo termodinamica forte.
Il progresso del genere umano nella comprensione dell'universo ha stabilito un cantuccio d'ordine in un universo sempre più disordinato. Se il lettore ricordasse ogni parola di questo libro, la sua memoria avrebbe registrato circa due milioni di elementi di informazione: l'ordine nel suo cervello sarebbe aumentato di circa due milioni di unità. Leggendo il libro, però, egli avrà convertito almeno un migliaio di calorie di energia ordinata, sotto forma di cibo, in energia disordinata sotto forma di calore, che viene dissipato nell'aria per convezione e sotto forma di sudore. Il disordine dell'universo risulterà in tal modo accresciuto di circa venti milioni di milioni di milioni di milioni di unità - ossia di quasi dieci milioni di milioni di milioni di volte più dell'aumento dell'ordine nel suo cervello - e questo nell'ipotesi che ricordasse perfettamente l'intero contenuto di questo libro!!!»















https://eventhorizontelescope.org/

lunedì 17 giugno 2013

Tao di massa del fascismo


«Il fascismo, nella sua forma piú pura, è la somma di tutte le reazioni irrazionali del carattere umano medio. Il sociologo ottuso, a cui manca il coraggio di riconoscere il ruolo predominante della irrazionalità nella storia dell'umanità, considera la teoria fascista della razza soltanto un interesse imperialistico, per dirla con parole piú blande, un "pregiudizio". Lo stesso dicasi per il politico irresponsabile e retorico. L'intensità e la vasta diffusione di questi "pregiudizi razziali" sono la prova che essi affondano le loro radici nella parte irrazionale del carattere umano. La teoria della razza non è una creazione del fascismo. Al contrario: il fascismo è una creazione dell'odio razziale e la sua espressione politicamente organizzata. Di conseguenza esiste un fascismo tedesco, italiano, spagnolo, anglosassone... L'ideologia razziale è una tipica espressione caratteriale biopatica dell'uomo orgasticamente impotente»


Il fascismo come espressione della struttura caratteriale umana media

Da quando la primitiva organizzazione democratico-lavorativa è definitivamente tramontata, il nucleo biologico non ha piú trovato un’espressione sul piano sociale. Ciò che è a naturale" ed "elevato" nell’uomo, ciò che lo lega al suo cosmo, ha trovato soltanto nell’arte, soprattutto nella musica e nella pittura, un’autentica espressione. Ma finora non ha esercitato alcuna sostanziale influenza sulla formazione della società umana, se per società si intende non la cultura di un ristretto gruppo di persone ricche appartenenti alla classe dominante, ma la comunità di tutti gli uomini.
Negli ideali etici e sociali del liberalismo si possono riconoscere i tratti dello strato caratteriale superficiale, caratterizzato dall’autocontrollo e dalla tolleranza. Questo liberalismo accentua la propria etica al fine di soffocare "il mostro nell’uomo", il secondo strato delle "pulsioni secondarie", "l'inconscio" di Freud. La naturale socialità del terzo e piú profondo strato, dello strato in cui ha sede il nucleo biologico dell'uomo, è sconosciuta al liberale. Egli deplora e combatte il pervertimento caratteriale umano con norme etiche, ma le catastrofi del XX secolo hanno insegnato che non ha combinato gran che.
Tutto ciò che è veramente rivoluzionario, qualsiasi arte e scienza autentiche, nasce dal nucleo biologico naturale dell’uomo. Né il vero rivoluzionario né l’artista o lo scienziato finora sono riusciti a conquistare le masse e a guidarle, e semmai vi sono riusciti, non sono stati capaci di tenerle in modo duraturo nel campo degli interessi vitali.
Le cose stanno diversamente, rispetto al liberalismo e alla vera rivoluzione, per quanto riguarda il fascismo. Sostanzialmente il fascismo non rappresenta né lo strato superficiale né quello piú profondo, ma il secondo strato caratteriale intermedio delle pulsioni secondarie.
Nel periodo in cui ero occupato con la prima stesura di questo libro, il fascismo veniva generalmente considerato un "partito politico" che come altri "raggruppamenti sociali" esprimeva in modo organizzato un’"idea politica". Di conseguenza "il partito fascista introduceva il fascismo o con la forza o con "manovre politiche"".
Contrariamente a tutto ciò, le mie esperienze mediche fatte con molte persone appartenenti ai piú disparati strati sociali, razze, nazioni, religioni ecc. mi avevano insegnato che il "fascismo" non è altro che l’espressione politicamente organizzata della struttura, caratteriale umana media, di una struttura che non è vincolata né a determinate razze o nazioni né a determinati partiti, ma che è generale ed internazionale. Secondo il significato caratteriale "il fascismo" è l’atteggiamento emozionale fondamentale dell’uomo autoritariamente represso dalla civiltà delle macchine e dalla sua concezione meccanicistico-mistica della vita.
Il carattere meccanicistico-mistico degli uomini del nostro tempo crea i partiti fascisti e non viceversa.
Ancor oggi, in seguito a un errato pensiero politico, il fascismo viene considerato una specifica caratteristica nazionale dei tedeschi o dei giapponesi. Da questa prima concezione sbagliata conseguono tutte le altre interpretazioni erronee.
Il fascismo è stato e continuerà ad essere considerato, a danno degli autentici sforzi per raggiungere la libertà, la dittatura di una piccola cricca reazionaria. L’ostinazione con cui si continua a sostenere questo errore è da attribuire alla paura di rendersi conto di come stanno veramente le cose: il fascismo è un fenomeno internazionale che corrode tutti i gruppi della società umana di tutte le nazioni. Questa conclusione trova la sua conferma negli avvenimenti internazionali degli ultimi quindici anni.
Le mie esperienze analitico-caratteriali mi convinsero invece che oggi non esiste assolutamente nessuno che non porti in sé gli elementi del modo di pensare e sentire fascista. Il fascismo come movimento politico si differenzia da altri partiti reazionari per il fatto che viene sostenuto e diffuso dalle masse umane.
Mi rendo perfettamente conto dell’enorme responsabilità che deriva da simili affermazioni. Augurerei, nell’interesse del nostro mondo tormentato, che le masse lavoratrici si rendessero conto con altrettanta chiarezza della loro responsabilità per quanto riguarda il fascismo.
Bisogna distinguere rigorosamente fra normale militarismo e fascismo. La Germania guglielmina era militarista, ma non fascista.
Poiché il fascismo si manifesta sempre e ovunque come un movimento sorretto dalle masse umane, tradisce tutti i tratti e tutte le contraddizioni della struttura caratteriale delle masse umane: non è, come si crede generalmente, un movimento puramente reazionario, ma costituisce un amalgama tra emozioni ribelli e idee sociali reazionarie.
Se per rivoluzione si intende la ribellione razionale contro condizioni insopportabili nella società umana, la volontà razionale di "andare a fondo a tutte le cose" ("radicale" – "radix" – "radice") e di migliorarle, allora il fascismo non è mai rivoluzionario. Non vi è dubbio che esso può fare la sua comparsa ammantato di sentimenti rivoluzionari. Ma non si chiamerà rivoluzionario quel medico che combatte con sfrenate imprecazioni una malattia, ma al contrario quello che con calma, coraggiosamente e coscienziosamente, cerca e combatte le cause della malattia. La ribellione fascista nasce sempre laddove una emozione rivoluzionaria viene trasformata in illusione per paura della verità.
Il fascismo, nella sua forma piú pura, è la somma di tutte le reazioni irrazionali del carattere umano medio. Il sociologo ottuso, a cui manca il coraggio di riconoscere il ruolo predominante della irrazionalità nella storia dell’umanità, considera la teoria fascista della razza soltanto un interesse imperialistico, per dirla con parole piú blande, un "pregiudizio". Lo stesso dicasi per il politico irresponsabile e retorico. L’intensità e la vasta diffusione di questi "pregiudizi razziali" sono la prova che essi affondano le loro radici nella parte irrazionale del carattere umano. La teoria della razza non è una creazione del fascismo. Al contrario: il fascismo è una creazione dell’odio razziale e la sua espressione politicamente organizzata. Di conseguenza esiste un fascismo tedesco, italiano, spagnolo, anglosassone, ebreo ed arabo. L’ideologia razziale è una tipica espressione caratteriale biopatica dell’uomo orgasticamente impotente.
Il carattere sadico-pervertito dell’ideologia razziale tradisce la sua natura anche nel suo atteggiamento di fronte alla religione. Si dice che il fascismo sarebbe un ritorno al paganesimo e il nemico mortale della religione. Ben lungi da ciò, il fascismo è l’estrema espressione del misticismo religioso. Come tale si manifesta sotto una particolare forma sociale. Il fascismo appoggia quella religiosità che nasce dal pervertimento sessuale, e trasforma il carattere masochista della religione della sofferenza dell’antico patriarcato in una religione sadica. Di conseguenza traspone la religione dall’aldilà della filosofia della sofferenza nell’aldiqua dell’omicidio sadico.
La mentalità fascista è la mentalità dell’"uomo della strada" mediocre, soggiogato, smanioso di sottomettersi ad un’autorità e allo stesso tempo ribelle. Non è casuale che tutti i dittatori fascisti escano dalla sfera sociale del piccolo uomo della strada reazionario. Il grande industriale e il militarista feudale approfittano di questa circostanza sociale per i propri scopi, dopo che questi si sono sviluppati nell’ambito della generale repressione vitale. La civiltà meccanicistica ed autoritaria raccoglie, sotto la forma di fascismo, solo dal piccolo borghese represso ciò che da secoli ha seminato, come mistica mentalità del caporale di giornata e automatismo fra le masse degli uomini mediocri e repressi. Questo piccolo borghese ha copiato fin troppo bene il comportamento del grande e lo riproduce in modo deformato e ingigantito. Il fascista è il sergente del gigantesco esercito della nostra civiltà profondamente malata e altamente industrializzata. Non si può far vedere impunemente all’uomo comune il grande tam tam dell’alta politica: il piccolo sergente ha superato il generale imperialista in tutto: nella musica di marcia, nel passo dell’oca, nel comandare e nell’obbedire, nella mortale paura di dover pensare, nella diplomazia, nella strategia e nella tattica, nelle divise e nelle parate, nelle decorazioni e nelle medaglie. Un uomo come l’imperatore Guglielmo si rivelò in tutte queste cose un miserabile dilettante rispetto a Hitler figlio di un funzionario e morto di fame. Quando un generale "proletario" si copre il petto da ambo le parti con medaglie, e perché no, dalla gola fino all’ombelico, dimostra cosí al piccolo uomo comune che non intende essere da meno del "vero" e grande generale.
Solo dopo aver studiato a fondo e per anni il carattere del piccolo uomo comune represso, e le cose come si svolgono realmente dietro le quinte, è possibile comprendere su quali forze poggia il fascismo.
Nella ribellione delle masse di animali umani maltrattati contro le insignificanti cortesie del falso liberalismo (non intendo il vero liberalismo e la vera tolleranza) apparve lo strato caratteriale delle pulsioni secondarie.
Non è possibile rendere inoffensivo l’energumeno fascista se lo si cerca, a seconda della congiuntura politica, soltanto nel tedesco o nell’italiano e non anche nell’americano o nel cinese; se non lo si rintraccia nel proprio essere; se non si conoscono le istituzioni sociali che lo covano ogni giorno.
Si può battere il fascismo soltanto se lo si affronta obiettivamente e praticamente con una approfondita conoscenza dei processi vitali. Nessuno è capace di imitarlo in fatto di manovre politiche, abilità nel destreggiarsi nei rapporti diplomatici, e organizzazione delle parate. Ma non sa rispondere a questioni vitali pratiche, perché vede tutto nell’immagine riflessa dell’ideologia e sotto forma della divisa dello stato.
Quando un carattere fascista di qualsiasi colorazione si mette a predicare "l'onore della nazione" (anziché l’onore dell’uomo) o a la salvezza della sacra famiglia e della razza" (anziché la comunità dell’umanità che lavora); quando monta in superbia e quando dalla sua bocca non escono che slogans, allora gli si chieda pubblicamente, e con la massima calma e semplicità:
"Che cosa fai praticamente per dar da mangiare alla nazione senza assassinare altre nazioni? Che cosa fai come medico contro le malattie croniche, che cosa fai come educatore per favorire la gioia di vivere dei bambini, che cosa fai come economista contro la miseria, che cosa fai come assistente sociale contro il logoramento delle madri con tanti figli, che cosa fai come costruttore per sviluppare l’igiene delle abitazioni? Ora, cerca di non parlare a vanvera e cerca di dare una risposta concreta e pratica, altrimenti tieni chiuso il becco!"
Da ciò consegue che il fascismo internazionale non potrà mai essere battuto con manovre politiche. Soccomberà alla naturale organizzazione del lavoro, dell’amore e del sapere su scala internazionale.
Il lavoro, l'amore e il sapere della nostra società non hanno ancora il potere di determinare l’esistenza umana. Piú ancora, queste grandi forze del principio vitale positivo non sono consapevoli della loro immensità, della loro insostituibilità e della loro determinante importanza per l’esistenza sociale. Per questo motivo la società umana si trova oggi, un anno dopo la vittoria militare sui partiti fascisti, ancora piú vicina all’orlo dell’abisso. Il crollo della nostra civiltà sarà inarrestabile se i responsabili del lavoro, gli scienziati di tutte le ramificazioni vitali (e non mortali) e i donatori e i beneficiari dell’amore naturale tarderanno a rendersi conto della loro gigantesca responsabilità.
Ciò che è vivo può esistere senza il fascismo, ma il fascismo non può vivere senza ciò che è vivo. Il fascismo è il vampiro avvinghiato al corpo dei viventi che sfoga i suoi impulsi omicidi quando l’amore si ridesta in primavera invocando la naturale realizzazione.
"La libertà umana e sociale, l'autogoverno della nostra vita e della vita dei nostri discendenti si realizzerà in modo pacifico o violento?". Nessuno è in grado di dare una risposta a questa angosciosa domanda.
Ma chi conosce le funzioni vitali nell’animale, nel neonato, nel lavoratore dedito alla propria attività, sia che si tratti di un meccanico, di un ricercatore o di un artista, cessa di pensare servendosi di concetti che sono stati creati dalle malefatte dei partiti. Ciò che è vivo non può "prendere il potere con la violenza" perché non saprebbe che farsene del potere. Forse questa conclusione significa che la vita sarà per sempre vittima e martire del gangsterismo politico e che il politicante continuerà a succhiare per sempre il suo sangue? Questa conclusione sarebbe errata.
In quanto medico il mio compito è quello di guarire le malattie. In quanto ricercatore devo svelare processi naturali sconosciuti. Se mi si presentasse un cialtrone politico per costringermi ad abbandonare i miei malati e il mio microscopio, non mi farei disturbare, ma lo butterei fuori dalla porta, qualora non se ne andasse di sua spontanea volontà. Il fatto di dover ricorrere alla violenza per difendere il mio lavoro e i miei studi sulla vita umana dagli intrusi non dipende da me o dal mio lavoro, ma dal grado di impudenza dell’intruso. Proviamo a immaginare ora che tutti quelli che svolgono una attività che investe la vita umana riconoscano in tempo utile il cialtrone politico. Non agirebbero diversamente. Forse questo esempio semplificato può dare una risposta parziale alla domanda sul modo con cui prima o poi dovrà essere difesa la vita contro gli intrusi e i distruttori.

Prefazione alla III edizione del 1932
Schlangenbader Straße 87, Berlin-Wilmersdorf, Germany
"L'essere vivente mella sua continua interazione con l'ambiente circostante vive pienamente la verità nella misura in cui essa è aderente ai suoi bisogni o, il che è lo stesso, con la sua possibilità di influenzare l'ambiente per soddisfare i bisogni naturali. La verità, quindi, è una funzione naturale, proprio come camminare e correre, come cacciare l'orso per un esquimese, come cercare le tracce del nemico per un pellerossa"
Museum at Reich summer residence, Rangeley, Franklin County, Maine, USA

Listen, Little Man!

mercoledì 29 maggio 2013

Tao party





















Golders Green Crematorium, Golders Green, Greater London, England
The ashes are buried under a rosebush, plot #39802. The rosebed is located at the far end of the crematorium complex, next to the Chapel of Memory columbarium.

giovedì 23 maggio 2013

il Libro Tao: dentro l'informazione - II


INSIDE INFORMATION

This feeling of being lonely and very temporary visitors in the universe is in flat contradiction to everything known about man (and all other living organisms) in the sciences. We do not "come into" this world; we come out of it, as leaves from a tree. As the ocean "waves," the universe "peoples." Every individual is an expression of the whole realm of nature, a unique action of the total universe. This fact is rarely, if ever, experienced by most individuals. Even those who know it to be true in theory do not sense or feel it, but continue to be aware of themselves as isolated "egos" inside bags of skin.
The first result of this illusion is that our attitude to the world "outside" us is largely hostile. We are forever "conquering" nature, space, mountains, deserts, bacteria, and insects instead of learning to cooperate with them in a harmonious order. In America the great symbols of this conquest are the bulldozer and the rocket—the instrument that batters the hills into flat tracts for little boxes made of ticky-tacky and the great phallic projectile that blasts the sky. (Nonetheless, we have fine architects who know how to fit houses into hills without ruining the landscape, and astronomers who know that the earth is already way out in space, and that our first need for exploring other worlds is sensitive electronic instruments which, like our eyes, will bring the most distant objects into our own brains.)(1) The hostile attitude of conquering nature ignores the basic interdependence of all things and events—that the world beyond the skin is actually an extension of our own bodies—and will end in destroying the very environment from which we emerge and upon which our whole life depends.
The second result of feeling that we are separate minds in an alien, and mostly stupid, universe is that we have no common sense, no way of making sense of the world upon which we are agreed in common. It's just my opinion against yours, and therefore the most aggressive and violent (and thus insensitive) propagandist makes the decisions. A muddle of conflicting opinions united by force of propaganda is the worst possible source of control for a powerful technology.
It might seem, then, that our need is for some genius to invent a new religion, a philosophy of life and a view of the world, that is plausible and generally acceptable for the late twentieth century, and through which every individual can feel that the world as a whole and his own life in particular have meaning. This, as history has shown repeatedly, is not enough. Religions are divisive and quarrelsome. They are a form of one-upmanship because they depend upon separating the "saved" from the "damned," the true believers from the heretics, the in-group from the out-group. Even religious liberals play the game of "we're-moretolerant-than-you." Furthermore, as systems of doctrine, symbolism, and behavior, religions harden into institutions that must command loyalty, be defended and kept "pure," and—because all belief is fervent hope, and thus a cover-up for doubt and uncertainty—religions must make converts. The more people who agree with us, the less nagging insecurity about our position. In the end one is committed to being a Christian or a Buddhist come what may in the form of new knowledge. New and indigestible ideas have to be wangled into the religious tradition, however inconsistent with its original doctrines, so that the believer can still take his stand and assert, "I am first and foremost a follower of Christ/Mohammed/Buddha, or whomever." Irrevocable commitment to any religion is not only intellectual suicide; it is positive unfaith because it closes the mind to any new vision of the world. Faith is, above all, open-ness—an act of trust in the unknown.
An ardent Jehovah's Witness once tried to convince me that if there were a God of love, he would certainly provide mankind with a reliable and infallible textbook for the guidance of conduct. I replied that no considerate God would destroy the human mind by making it so rigid and unadaptable as to depend upon one book, the Bible, for all the answers. For the use of words, and thus of a book, is to point beyond themselves to a world of life and experience that is not mere words or even ideas. Just as money is not real, consumable wealth, books are not life. To idolize scriptures is like eating paper currency.
Therefore The Book that I would like to slip to my children would itself be slippery. It would slip them into a new domain, not of ideas alone, but of experience and feeling. It would be a temporary medicine, not a diet; a point of departure, not a perpetual point of reference. They would read it and be done with it, for if it were well and clearly written they would not have to go back to it again and again for hidden meanings or for clarification of obscure doctrines.

"AlanWatts was not a buddha, but he could be one day. He has moved closer to it. THE BOOK is tremendously important. It is his testament, his whole experience with Zen masters, Zen classics. And he is a man of tremendous intelligence; he was also a drunkard. Intelligence plus wine have really created a juicy book."





il Libro Tao: dentro l'informazione - I

martedì 21 maggio 2013

TaoZen























"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone" 
Yun Men

«Le opere di Daisetz Teitaro Suzuki sullo Zen sono da annoverare tra i più alti contributi del secolo allo studio del Buddhismo attuale, così come lo stesso Zen rappresenta il frutto migliore germogliato dall'albero le cui radici sono raccolte nel Canone Pali. Non possiamo essere abbastanza grati all'autore sia perché egli ha reso lo Zen più accessibile alla cultura occidentale sia per il modo con cui egli ha raggiunto lo scopo.»
Carl Gustav Jung Introduzione in D.T. Suzuki. An Introduction to Zen Buddhism, Kyoto: Eastern Buddhist Soc. 1934. In italiano: Introduzione al buddhismo zen. Roma, Ubaldini, 1970.

«The man I am going to mention is not recognized as enlightened because there was nobody to recognize him. Only an enlightened person can recognize another. This man’s name is D.T. Suzuki. This man has done more than anybody else in the modern world to make meditation and Zen available. Suzuki worked for his whole life to introduce to the West the innermost core of Zen.
’Zen’ is only the Japanese pronunciation of the Sanskrit word dhyāna – meditation. Buddha never used Sanskrit; he hated it, for the simple reason that it had become the language of the priests, and the priest is always in the service of the devil. Buddha used a very simple language, that used by his people in the valley of Nepal. The name of his language is Pali. In Pali dhyana is pronounced ch’ana.
Simple, illiterate, ordinary people cannot appreciate the subtleties of any language. They make it according to themselves. It is like a stone rolling down the river, it becomes round. That’s how every word used by the people starts having a beautiful roundness, a particular simplicity. Dhyana is difficult for the ordinary people to pronounce; they pronounced it ch’ana. When it reached China, from ch’ana it became ch’an, and when it traveled to Japan it became Zen. You can see – it happens everywhere – people always make words simple.»






Il buddhismo zen come purificazione e liberazione
trad. Julius Evola

Nella sua essenza lo Zen è l'arte di vedere nella propria natura. Esso indica la via che dalla servitù conduce alla libertà. Facendoci attingere direttamente alla fonte della vita, esso ci emancipa dai gioghi sotto i quali noi, quali esseri finiti, di solito soffriamo in questo mondo. Può dirsi che lo Zen libera tutte quelle energie naturalmente immagazzinate in ciascuno di noi che nelle circostanze normali sono contratte e deviate, tanto da non trovare un modo adeguato di esplicazione.
Il nostro essere lo si può paragonare ad una batteria elettrica che racchiude, allo stato latente, un potere misterioso. Quando non è portato all'atto in modo conveniente questo potere intristisce, ovvero, alterandosi, va a manifestarsi in forme anormali. Ora, Io scopo dello Zen è di preservarci sia dalla follia che da una interna mutilazione. Ciò io intendo per libertà: dar libero giuoco a tutti gli impulsi creativi e benefici insiti nel nostro animo. In genere, siamo ciechi di fronte al fatto che noi possediamo le facoltà necessarie per essere felici e per amarci gli uni con gli altri. Tutte le lotte che vediamo intorno a noi derivano da siffatta ignoranza. Perciò lo Zen vuole che in noi un «terzo occhio» - come i buddhisti lo chiamano - si apra su quella regione insospettata da cui siamo esclusi a causa della nostra ignoranza. Quando la nube dell'ignoranza si dissipa, si manifesta l'infinito dei cieli e per la prima volta noi scorgiamo la vera natura dello stesso essere. Allora noi conosciamo il significato della vita, comprendiamo che essa non è un cieco tendere, né un mero dispiegamento di forze brute; pur non conoscendone esattamente lo scopo ultimo, sentiamo in essa qualcosa che ci rende infinitamente felici di viverla, che ci fa restare contenti in ogni sviluppo di essa di là da ogni problema e da ogni dubbio pessimistico.
Finché siamo pieni di attività e non ancora desti alla conoscenza della vita possiamo non sentire la serietà di tutti i conflitti che essa racchiude e che sul momento sembrano essere risolti per essere in uno stato di quiescenza. Ma prima o poi verrà il tempo in cui dovremo metterci senz'altro faccia a faccia con la vita e sciogliere i suoi enigmi più incalzanti e preoccupanti. Confucio dice: «A quindici anni la mia mente era dedicata allo studio e a trenta sapevo a che punto mi trovavo». Questo è uno dei detti più interessanti del Saggio cinese. Ogni psicologo converrà nella sua verità. Infatti, in genere è verso i quindici anni che si comincia a considerare con serietà quanto ci è d'intorno ed a cercare il senso della vita. Tutte le energie spirituali fino ad allora nascoste nella parte inconscia della psiche prorompono quasi simultaneamente. E quando questa emergenza è troppo brusca e violenta la mente può perdere in modo più o meno permanente il proprio equilibrio: di fatto, tanti casi di prostrazione nervosa che si verificano durante l'adolescenza sono principalmente dovuti a questa rottura dell'equilibrio mentale. In molti, gli effetti non sono tanto gravi e la crisi può passare senza lasciare tracce profonde; ma in certi caratteri, per via di tendenze innate o dell'influenza dell'ambiente su di una costituzione interna poco salda, il risveglio spirituale sommuove gli strati più profondi della personalità. Questo è il momento nel quale si impone lo scegliere fra un «eterno No» e un «eterno Sì». Per «studio» Confucio intende tale scelta: non la lettura dei classici, ma il sondare i misteri della vita.
Normalmente la lotta si conclude con l'«eterno Sì » o con il «sia fatta la tua volontà», perché, dopo tutto, la vita è sempre una forma di affermazione, per negativo che sia il modo con cui i pessimisti la concepiscono. Però non possiamo negare il fatto, che in questo mondo esistono molte cose atte a spingere uno spirito troppo sensibile nell'altra direzione e a fargli esclamare, come Andreieff nella Vita dell'uomo: «Maledico ogni cosa che mi hai data. Maledico il giorno in cui sono nato. Maledico il giorno in cui morirò. Maledico tutta la mia vita. Ogni cosa, la rigetto contro la tua faccia crudele, o Fato assurdo! Sii maledetto, sii per sempre maledetto! Con la mia maledizione, io ti vinco. Che puoi fare più contro di me?... Col mio ultimo pensiero io griderò nelle tue orecchie bestiali: Sii maledetto! sii maledetto!». Questa è una terribile accusa contro la vita, una completa negazione della vita, l'imagine più sinistra del destino dell'uomo su questa terra. «Senza lasciare una traccia» - è vero perché non sappiamo nulla del nostro avvenire, salvo che noi tutti spariremo, insieme alla stessa terra che ci ha generati. Certo, vi sono abbastanza cose che giustificano il pessimismo.
Come la gran parte di noi la vive, la vita è un dolore. Questo fatto non può essere contestato. Finché la vita è una forma di lotta, essa non può non essere sofferenza. La lotta non significa forse lo scontro di due forze che cercano ognuna di sopraffare l'altra? Se si perde la battaglia, l'esito è la morte, e la morte è la cosa che più si teme al mondo. Anche se si evita la morte, può attenderci la solitudine, talvolta più intollerabile della stessa morte. Si può non essere coscienti di tutto ciò e continuare a darsi ai piaceri passeggeri che i sensi ci procurano. Ma questa incoscienza non cambia nulla nella realtà della vita. Il cieco può insistere nel negare l'esistenza del sole, ma non potrà annientarlo. Il caldo tropicale continuerà a bruciarlo senza pietà e se egli non se ne difende sarà spazzato via dalla superficie della terra.
Il Buddha aveva perfettamente ragione nel proclamare le «quattro nobili verità», la prima delle quali è che la vita è dolore. Forse che ognuno di noi non è venuto al mondo gridando e, in un certo modo, protestando? Il meno che si possa dire è che il passaggio da un dolce, caldo grembo materno ad un ambiente freddo e nemico è un accidente doloroso. La crescenza è sempre accompagnata dal dolore. La dentizione è un processo più o meno doloroso. La pubertà è generalmente connessa a disturbi sia fisici che psichici. Lo sviluppo di quell'organismo superiore che noi chiamiamo società è esso stesso contrassegnato da tragici cataclismi, e noi attualmente assistiamo proprio ad una di queste convulsioni da parto. Possiamo ragionare freddamente e dire che tutto ciò è inevitabile, che, nella misura in cui ogni ricostruzione implica la distruzione della situazione precedente, non possiamo fare a meno di attraversare stati dolorosi. Ma la fredda analisi intellettuale non allevia in alcun modo queste sofferenze che non si possono evitare, inflitte inesorabilmente al nostro essere. Dopo ogni ragionamento, resta pur fermo che la vita è una lotta commista a dolore.
Senonché proprio in ciò sta qualcosa di provvidenziale. Quanto maggiore è il dolore, tanto più il carattere si sviluppa in profondità e questo approfondirsi del carattere mette in grado di leggere in modo più penetrante i segreti della vita. Tutti i grandi artisti, tutti i grandi capi religiosi si sono formati attraverso dure lotte da essi combattute intrepidamente, spessissimo presso alle maggiori sofferenze. Prima di cibarsi del pane del dolore e della tristezza non si può conoscere il gusto della vita reale. Mencio ha ragione nel dire che il Cielo, quando vuole formare un grande uomo, lo prova in ogni modo, finché egli sorge trionfante di là da tutte le sue esperienze dolorose.
A me sembra che Oscar Wilde abbia sempre posato, preoccupandosi soltanto di far colpo; può essere stato un grande artista, ma vi è in lui qualche cosa che me lo allontana. Eppure nel De Profundis egli scrive: «In questi ultimi mesi, dopo difficoltà e lotte terribili, sono stato in grado di comprendere alcune delle lezioni nascoste nel profondo della sofferenza. I preti e le persone che usano frasi prive di sapienza parlano talvolta della sofferenza come di un mistero. Essa è in realtà una rivelazione. Si discernono cose che prima non si erano mai intraviste. Si guarda tutta la propria storia da un diverso punto di vista». Dal che si vede quali effetti trasfiguranti abbia avuto, sul carattere di Wilde, la sua vita in prigione. Se egli fosse passato attraverso una simile prova all'inizio della sua carriera avrebbe di certo creato opere ben più grandi di quelle che ci ha lasciato.
Noi siamo troppo centrati nel nostro Io. Il guscio dell'Io entro cui viviamo è la cosa più difficile a superare durante la nostra crescenza. Lo portiamo continuamente con noi, dalla fanciullezza fino al momento del nostro trapasso. Eppure ci sono date molte occasioni per far saltare questo guscio, e la prima, la più grande di esse, ci si offre appunto quando raggiungiamo l'adolescenza. È allora che l'lo, per la prima volta, va a riconoscere l'«altro». Intendo riferirmi al destarsi dell'amore sessuale. Un lo prima intero e indiviso comincia ora ad avvertire una specie di frattura. L'amore dormiente nel profondo del suo essere alza la testa e suscita in lui le forti emozioni. Una volta destatosi, l'amore chiede sia l'affermazione dell'Io che la sua distruzione. L'amore fa perdere l'Io nell'oggetto amato e, nello stesso tempo, esige il possesso di questo oggetto. È, questa, una contraddizione e una tragedia della vita. Un tale sentimento elementare deve essere una delle forze divine dalle quali l'uomo è spinto verso un cammino ascendente. Dio manda tragedie all'uomo perfetto. La massima parte della letteratura prodotta in questo mondo, altro non è che una ripetizione del tema dell'amore: tema, di cui sembriamo non essere mai sazi. Ma non è propriamente questo il soggetto che, qui, desidero trattare. Ho solo, voluto mettere in rilievo che col destarsi dell'amore si ha una breve visione dell'infinito e che codesta visione spinge i giovani verso il romanticismo o verso il razionalismo - a seconda del temperamento, dell'ambiente e dell'educazione.
Una volta che il guscio dell'Io si è spezzato e che I'«altro» viene assunto nel nostro stesso essere, possiamo dire che l'Io ha negato se stesso, ovvero che l'Io ha fatto il suo primo passo verso l'infinito. Sul piano religioso ne segue un'aspra lotta fra il finito e l'infinito, fra l'intelletto e un potere più alto, o, più semplicemente, fra la carne e lo spirito. Questo è il problema dei problemi, che ha spinto più di un giovane fra le mani di Satana. Quando un adulto rievoca questi giorni della sua giovinezza, non può fare a meno di sentire una specie di brivido in tutto il suo essere. La lotta, da combattere in sincerità, può protrarsi sino all'età di trent'anni, che è quella in cui Confucio dichiara di aver saputo a che punto si trovava. Ormai la coscienza religiosa è completamente desta e vengono provate con serietà in ogni direzione, le vie possibili per sottrarsi alla lotta o per mettere fine ad essa. Si leggono libri, si assiste a conferenze, si ascolta con avidità la parola di religiosi, si prova ogni specie di esercizi o di discipline spirituali. Ed è naturale che si venga anche a chiedere che cosa sia lo Zen.
 
Lo Zen come risolve il problema dei problemi?
Anzitutto lo Zen per la sua soluzione si appella direttamente a certi fatti dell'esperienza personale, e non a conoscenze libresche. Una facoltà più alta dell'intelletto deve cogliere la natura del proprio essere, ove sembra prorompere il conflitto fra il finito e l'infinito. Infatti lo Zen afferma che all'intelletto è proprio il far sorgere un problema che lui stesso non è in grado risolvere; per cui, esso va messo da parte e bisogna ricorrere a qualcosa di più alto e di più luminoso. Si è che I'intelletto ha in proprio una peculiare qualità perturbatrice. Pone abbastanza problemi per alterare la serenità dell'animo, ma, fin troppo spesso, è incapace di dare ad essi delle soluzioni soddisfacenti. Distrugge la felice pace dell'ignoranza senza saper ristabilire il precedente stato di equilibrio con l'offrire qualcosa d'altro. Poiché svela l'ignoranza, esso spesso viene considerato come una facoltà illuminatrice; di fatto, esso invece disturba, senza portare sempre e necessariamente della luce sul cammino. Esso non rappresenta l'ultima istanza: esso aspetta sempre qualcosa di più alto per la soluzione di tutti i problemi che usa far sorgere senza preoccuparsi affatto delle conseguenze. Se fosse capace di portare un ordine nuovo di là dallo sconvolgimento che causa e di stabilirlo una volta per tutte, non vi sarebbe stato più bisogno di filosofia dopo i sistemi creati da grandi pensatori, come Aristotele o Hegel. Ma la storia del pensiero prova che ogni nuovo edificio costruito da una mente eccezionale è destinato ad essere abbattuto da coloro che vengono dopo. Finché si tratta di semplice filosofia, non vi è nulla da eccepire contro questo continuo demolire e ricostruire; infatti la natura intrinseca dell'intelletto, quale io lo concepisco, l'esige, e noi non possiamo arrestare il processo dell'indagine filosofica più di quel che possiamo arrestare il nostro stesso respiro. Ma se è della stessa vita che è quistione, non possiamo aspettare la soluzione ultima che l'intelletto, quand'anche ne sia capace potrà offrire. Non, possiamo sospendere nemmeno per un istante la nostra attività vitale nell'attesa che la filosofia ce ne sveli i misteri. I misteri restino pur tali: noi dobbiamo vivere. L'affamato non può attendere che sia' finita una analisi completa del cibo, che determini il valore nutritivo di ogni elemento. Per chi è morto, questa conoscenza scientifica del cibo non sarà di alcun valore. Così lo Zen non si affida all'intelletto per la soluzione dei suoi problemi più profondi.
Ho parlato di esperienza personale; per essa devesi intendere un rapporto diretto, senza intermediari, coi fatti, qualunque essi siano. Una imagine prediletta dello Zen è che indicare la luna col dito è necessario, ma guai a coloro che scambiano il dito per la luna. Un cesto è certo, utile per portare a casa il pesce, ma una volta che il pesce sta sulla tavola non ha senso continuare a pensare al paniere. Qui sono i fatti: afferrarli a mani nude, a che non ci sfuggano - ecco ciò che lo Zen si propone. Come la natura ha orrore per il vuoto, così lo Zen aborre tutto ciò che può inserirsi fra noi e i dati immediati dell'esperienza. Secondo lo Zen, se ci si riferisce ai fatti in quanto tali non esistono conflitti, come quello fra il finito e l'infinito o fra la carne e lo spirito. A base di codesti conflitti stanno distinzioni vane, tracciate fittiziamente dall'intelletto per i propri usi. Chi le prende troppo sul serio o chi cerca di ritrovarle dentro il fatto stesso della vita rasomiglia a chi scambia il dito per la luna. Quando abbiamo fame mangiamo; quando abbiamo sonno ci stendiamo - in tutto ciò che c'entra il finito o l'infinito? Non siamo forse completi, ciascuno in se stesso? La vita quale viene vissuta basta. Solo quando il potere disturbatore dell'intelletto interviene e cerca di ucciderla noi cessiamo di vivere e ci imaginiamo che qualcosa ci manchi. Si lasci in pace l'intelletto; utile nella sua propria sfera, esso non deve interferire nella corrente della vita. Se volete scrutare la vita, fatelo mentre fluisce e lasciandola fluire. In nessun caso se ne deve arrestare il flusso o immischiarsi in esso, perché nel punto in cui vi immergerete le mani la sua trasparenza sarà alterata, esso cesserà di riflettere il volto che aveste fin dalle origini e che continuerete a portare sino alla fine dei tempi.
Più o meno in corrispondenza con le «Quattro Massime» della scuola Nichire, lo Zen ha in proprio quattro principi:
«Una trasmissione speciale al difuori delle Scritture;
Indipendenza dalle parole e dalla lettera;
Riferimento diretto all'anima dell'uomo;
Visione della propria natura e conseguimento dello stato di Buddha».
Ciò riassume tutto quel che lo Zen vuole, in quanto religione. Naturalmente, non si deve dimenticare che vi è tutto uno sfondo storico, dietro a questa audace presa di posizione. Al tempo dell'introduzione dello Zen in Cina, la maggior parte dei buddhisti era dedita alla discussione di grandi problemi metafisici, o si limitava alla mera osservanza dei precetti etici statuiti dal Buddha o, ancora, coltivava una vita letargica nel segno della contemplazione della contingenza delle cose di questo mondo. Ad essi tutti mancava la presa sul gran fatto costituito dalla stessa vita, che fluisce di là da tali vane esercitazioni dell'intelletto o dell'imaginazione. Riconoscendo questo deprecabile stato delle cose, Bodhidarma e i suoi successori proclamarono le «Quattro Grandi Massime» dello Zen dianzi riferite. In una parola, esse significano che lo Zen ha un proprio modo di avviare ognuno verso la natura profonda del proprio essere e che usando tale modo si raggiunge lo stato di Buddha, nel quale tutte le contradizioni e tutti i dissidi creati dall'intelletto si risolvono senza residuo in una superiore unità.
Per questo lo Zen non «spiega» mai ma indica soltanto; non usa circonlocuzioni e non generalizza. Tratta sempre di fatti concreti e tangibili. Dal punto di vista logico, lo Zen può apparire pieno di contradizioni e di ripetizioni. Di fatto, esso si tiene al disopra di tutto ciò e procede calmo per la sua via. Secondo l'espressione acconcia di un maestro Zen, «portando sulla spalla il bastone che ci si è fatto a casa, va dritto fra i monti innalzantisi l'uno dietro l'altro». Non vuole misurarsi con la logica, procede semplicemente sul cammino dei fatti lasciando il resto al proprio destino. Solo quando la logica, disconoscendo la propria funzione, cerca di por piede nella via dello Zen, esso proclama i suoi principi e mette rudemente fuori l'intrusa. In sé lo Zen non è però nemico di nulla. Non vi è ragione a che esso si faccia l'antagonista dell'intelletto, questo potendo essere talvolta utilizzato per la causa stessa dello Zen. Volendo dare qualche esempio del modo con cui lo Zen si rifà direttamente ai fatti fondamentali dell'esistenza, riferirò il seguente episodio:
Una volta Lin-chi [2] (Rinzai) [3] tenne un discorso, dicendo: «Su di una massa di carne rossastra sta seduto un uomo vero senza titoli; di continuo esso entra nei vostri organi dei sensi e ne esce. Se ancora non vi siete resi conto di questo fatto, guardate! guardate!». Un monaco si fece avanti e domandò: «Chi è questo uomo vero senza titoli?». Lin-chi scese d'un balzo dal suo seggio e afferrando il monaco esclamò: «Parla! Parla!». Il monaco restò perplesso, senza saper che dire. Allora il maestro lo lasciò esclamando: «Ma di che roba senza valore è fatto questo uomo vero senza titoli!» e senz'altro si ritirò nella sua stanza.
Lin-chi era noto per il suo modo rude e diretto di trattare i discepoli. Disprezzava le maniere approssimative che generalmente caratterizzano i metodi di maestri privi di fuoco. Un tale stile inattenuato egli deve averlo ereditato dal suo maestro Huang-nieh (Obaku), da cui fu bastonato tre volte perché gli aveva chiesto quale è il principio fondamentale del buddhismo. Non occorre dire che lo Zen non consiste nel battere o scuotere brutalmente chi fa delle domande. Chi vedesse in ciò un elemento essenziale dello Zen, commetterebbe lo stesso errore grossolano di colui che scambia il dito per la luna. Più che in qualsiasi altra dottrina, nello Zen tutte le manifestazioni o dimostrazioni esteriori non vanno considerate in se stesse. Esse indicano solo la direzione lungo la quale si debbono cercare certi fatti. Come indicazioni, sono importanti, ed è difficile farne a meno. Ma se ci si lascia prendere nelle loro maglie si è perduti, perché non si comprenderà più lo Zen. Alcuni pensano che lo Zen cerchi di prendervi nella rete della logica o al laccio delle denominazioni. Se fate un falso passo, vi attende l'eterna dannazione, mai raggiungerete quella libertà che il vostro cuore così ardentemente desidera. Per questo Lin-chi afferra a mani nude ciò che si presenta direttamente a ciascuno di noi. Se il nostro terzo occhio si apre storbidato, riconosceremo subito, senza errore possibile, dove Lin-chi vuole condurci. Per prima cosa, dobbiamo penetrare nello spirito stesso del maestro e parlare all'uomo interiore che vi risiede. Non vi è spiegazione a parole che possa farci mai penetrare la natura, del nostro Io. Sarebbe come cercare di afferrare la propria ombra. Correndo dietro ad essa, l'ombra si allontanerà alla stessa velocità. Nel punto in cui vi renderete conto di ciò, leggerete profondamente nello spirito di un Lin-chi o di un Huang-nieh e comincerete a scoprire quale è effettivamente il loro animo.
Yu-men (Ummon) [4] fu un altro grande maestro dello Zen, vissuto verso la fine della dinastia T'ang. Egli pagò con una gamba la visione del principio di vita dal quale scaturisce l'intero universo, inclusavi la sua stessa umile esistenza. Tre volte egli dovette recarsi dal suo maestro, Mu-chou (Bokuju), che era stato un discepolo anziano di Lin-chi sotto Huang-nieh, prima che gli fosse concesso di vederlo. Il maestro gli chiese: «Chi sei?». «Sono Bun-yen», rispose il monaco. (Bun-yen era il suo nome, mentre Yu-men era quello del monastero ove in seguito si stabilì). Il monaco in cerca della verità fu autorizzato a varcare la soglia dell'abitazione del maestro: ma questi lo afferrò nello stesso istante per il petto chiedendogli: «Parla! Su, parla!». Yu-men esitò allora il maestro lo scaraventò daccapo fuori gridando: «Oh, che essere buono a nulla!» [5]. La pesante porta fu chiusa così bruscamente, che una gamba di Yu-men restò presa fra i battenti e si ruppe. Si vuole che proprio l'acuto dolore sentito aprisse l'occhio di quel monaco al più grande fatto della vita. L'essere ansioso implorante pietà sparì, la realizzazione conseguita in quell'istante ebbe molto più valore della gamba perduta. Questo, del resto, non è un caso isolato; nella storia dello Zen s'incontrano molti esempi di uomini pronti a sacrificare membra del loro corpo per raggiungere a la verità. Confucio dice: «Se un uomo intende il Tao la mattina, ciò è bene per lui, ne dovesse anche morire la sera». Alcuni sentono realmente che la verità ha maggior valore del mero vivere, di una esistenza semplicemente vegetativa o animale. Purtroppo nel mondo sono numerosi i cadaveri viventi che si rotolano nella melma dell'ignoranza e della sensualità.
È in ciò che lo Zen è più difficile da capire. Perché quell'ingiuria sarcastica? Perché quell'apparente crudeltà? Che colpa aveva commesso Yu-men per meritare di perdere la gamba? Egli era un povero monaco in cerca della verità, animato da un vivo, serio desiderio di essere illuminato dal maestro. Era davvero necessario che questi, per il suo modo di intendere lo Zen, per tre volte non lo ricevesse e poi, avendo socchiusa la porta, gliela sbattesse di nuovo in faccia in modo così inumano? Era questa la verità del buddhismo che Yu-men tanto desiderava raggiungere? Ma, cosa singolare, il risultato di tutto ciò fu proprio quel che entrambi desideravano. Quanto al maestro, egli fu lieto di vedere che il discepolo aveva conseguita la visione dei segreti del suo essere; quanto al discepolo, egli fu grato per quanto gli era stato fatto. Evidentemente, è quel che può esservi al mondo di più irrazionale e di più inconcepibile. Ecco perché poco fa ho detto che dello Zen non sì può fare l'oggetto di una analisi logica o di una esposizione intellettualistica. Esso deve essere sperimentato da ciascuno direttamente e personalmente nel più profondo dello spirito. Come due specchi senza macchia si riflettono a vicenda, del pari il fatto e il nostro spirito debbono stare l'uno di fronte all'altro senza nulla che s'intrometta. È allora che si sarà capaci di cogliere il fatto nella sua realtà viva e vibrante.
Prima di tale momento, la libertà è una vuota parola. Il nostro primo scopo è sottrarci ai vincoli che gravano su tutti gli esseri finiti; ma se non spezziamo la catena stessa dell'ignoranza con cui siamo legati mani e piedi, dove potremo cercare la liberazione? E questa catena dell'ignoranza l'ha creata unicamente l'intelletto insieme alla febbre dei sensi che si attacca ad ogni nostro pensiero, ad ogni nostra sensazione. Sbarazzarsene è difficile: sono come vesti bagnate - dicono giustamente i maestri Zen. «Siamo nati liberi ed uguali». Quale pur sia il significato che tale formula ha sul piano sociale o politico, lo Zen afferma che nel dominio spirituale essa è vera e che tutte le catene e le manette che a noi sembra di portare sono sorte in un secondo tempo, causa la nostra ignoranza della vera condizione dell'esistenza. Tutto ciò che, ora sul piano intellettuale ed ora sul piano fisico, i maestri fanno liberalmente e con animo aperto per coloro che ad essi si rivolgono, è inteso a ripristinare lo stato dell'originaria libertà. E un tale stato mai lo si realizzerà per davvero prima che lo si esperimenti personalmente coi propri sforzi, fuor da ogni rappresentazione ideologica. La verità ultima dello Zen è che a causa dell'ignoranza si è prodotta una frattura nel nostro essere; è che fin dagli inizi non è mai esistita una lotta fra il finito e l'infinito; è che proprio la pace che ora stiamo cercando con tanto ardore è già esistita in ogni tempo. Su Tun-p'o (Sotoba), noto poeta e uomo di Stato cinese, esprime tale idea nei seguenti versi:
Pioggia e nebbia sul monte Lu,
Ed onde che si gonfiano nel Che-chiang;
Se non vi sei ancora stato,
È certo che assai lo rimpiangerai;
Ma dopo essere stato là, tornato a casa
Come ogni cosa ti sembrerà naturale!
Pioggia e nebbia sul monte Lu
Ed onde che si gonfiano nel Che-chiang.
È ciò che anche afferma Ch'ing-yuan Wei-hsin (Seigen I shin) dicendo: «Prima che una persona studi lo Zen, per essa i monti sono monti e le acque sono acque; dopo che, grazie all'insegnamento di un buon maestro, essa ha penetrato la verità dello Zen, per essa i monti non sono monti e le acque non sono acque; ma quando alla fine essa davvero raggiunge la sede della pace, per essa i monti sono di nuovo monti e, le acque, acque».
A Mu-chou (Bokuju), che visse verso la metà del IX secolo, una volta fu domandato: «Ogni giorno dobbiamo vestirci e mangiare - come liberarci da tutto ciò?». Il maestro rispose: «Noi ci vestiamo, noi mangiamo». «Non capisco» - fece l'altro. «Se non capisci, mettiti il vestito e mangia il tuo cibo», fu la risposta.
Lo Zen tratta sempre dei fatti concreti, non si abbandona a considerazioni generiche. Non vorrei «aggiungere gambe superflue alla serpe dipinta», ma come commento filosofico alle parole di Mu-chou potrei dire questo: noi tutti siamo degli esseri finiti e non possiamo vivere fuori dello spazio e del tempo; nella misura in cui siamo creature della terra, per noi non vi è modo di cogliere l'infinito. Come possiamo liberarci dalle limitazioni di questa esistenza? Forse era questo il senso della prima domanda del monaco, alla quale il maestro risponde: La salvazione va cercata nello stesso finito non essendovi un infinito separato dalle cose finite; se cercate qualcosa di trascendente, vi taglierete fuori da questo mondo di relatività il che equivale a distruggervi. Voi non desiderate una salvazione che vi costi l'esistenza. Per cui, mangiate e bevete, e trovate la vostra via verso la liberazione proprio in questo mangiare e bere. Ma ciò andava troppo oltre le capacità di comprensione di chi aveva posta la domanda, per cui il monaco confessò di non intendere che cosa il maestro avesse voluto dire. Il maestro allora soggiunse: Che tu capisca o non capisca, continua a vivere nel finito e col finito - perché morirai se non mangerai e se non ti difenderai dal freddo a causa del tuo desiderio dell'infinito. Quale pur sia il tuo sforzo, il nirvana va cercato in mezzo al samsara (al mondo diveniente). Si tratti di un maestro giunto all'illuminazione oppure dell'ultimo ignorante, né l'uno né l'altro può sottrarsi alle cosidette leggi di natura. Quando lo stomaco è vuoto, entrambi hanno fame; quando nevica, entrambi debbono indossare abiti pesanti. Non voglio dire che v'è solo l'esistenza materiale, ma quegli uomini, a parte il loro, grado di spiritualità sono quello che sono. Come è detto nei testi buddhisti, l'oscurità stessa della caverna si trasforma in luce quando arde la torcia della visione interiore. Non è che in un primo tempo si tolga una cosa chiamata oscurità e poi si porti un'altra cosa chiamata illuminazione: in sostanza, oscurità e illuminazione sono, sin dal principio, una sola e medesima cosa; il passaggio dall'uno stato all'altro avviene solo all'interno, soggettivamente. Così il finito è l'infinito, è viceversa. Non si tratta di due realtà separate anche se intellettualmente non possiamo concepirli altrimenti. Tradotta in termini di logica, questa è forse l'idea contenuta nella risposta data da Mu-chou al monaco. L'errore consiste nel nostro spezzare in due cose distinte ciò che, in realtà è assolutamente uno. La vita quale la viviamo è una, anche se la facciamo a pezzi applicandovi senza, scrupoli il bisturi dell'intelletto.
Pregato dai monaci di tener loro un discorso, Hyakujo Nehan (Pai-chang Nieh-p'an) disse loro di andare a lavorare alla fattoria, dopo di che egli avrebbe parlato sul grande argomento del buddhismo. Così essi fecero, poi si recarono dal maestro per il discorso: questi non disse una parola ma stese semplicemente le braccia verso i monaci. Forse, dopo tutto, non vi è nulla di misterioso nello Zen. Ogni cosa vi viene presentata nuda sotto gli occhi. Se mangiate il vostro cibo, se vi tenete vestiti puliti o se andate a lavorare in una fattoria a coltivare riso o ortaggi, fate tutto ciò che vi si chiede di fare su questa terra, e l'infinito si realizza in voi. Come si realizza? Quando a Mu-chou fu chiesto che cosa sia lo Zen, egli pronunciò la frase di un testo sanscrito: «Mahapraiñaparamita!» (= la grande sapienza dell'altra sponda). Chi aveva domandato, confessò di non capire il senso di una tale strana frase; il maestro allora la commentò dicendo:
«Dopo anni che l'ho usata, la mia veste è consunta.
Parti di essa, appese a brandelli e svolazzanti,
sono state portate via dal vento fra le nubi».
L'infinito, dopo tutto, non è come un nudo mendicante?
Comunque, a tale riguardo vi è una cosa che non si deve mai perdere di vista, e cioè che la pace della povertà - e la pace è possibile solo nella povertà - la si consegue dopo una dura battaglia affrontata con tutte le forze del proprio essere. Il soddisfacimento dato da una attitudine oziosa o di «lasciar fare» è ciò che si deve più aborrire. In esso non vi è nulla dello Zen, esso è solo pigrizia e vita vegetativa. Una battaglia in cui si abbia impegnata tutta la propria forza, tutta la propria qualità virile, deve prima infuriare. Senza di ciò ogni pace non è che una parvenza, è priva di basi profonde la prima tempesta la distruggerà. Lo Zen sottolinea particolarmente questo punto. È cosa certa che l'interna virilità che, a parte i voli mistici, si ritrova nello Zen, deriva dall'aver combattuto intrepidamente e strenuamente la battaglia della vita.
Così dal punto di vista etico lo Zen lo si può considerare come una disciplina che mira alla costruzione del carattere. La nostra vita ordinaria si svolge solo ai margini della personalità essa non muove gli strati più profondi dell'anima. Perfino quando si desta la coscienza religiosa, essa per la gran parte di noi è una esperienza che passa senza lasciare i segni di una dura battaglia. Siamo portati a vivere ogni cosa solo in superficie. Possiamo anche essere intelligenti, svegli, brillanti e cosi via, ma tutto ciò che produciamo manca di profondità e di sincerità, non impegna l'essere più profondo. Molte persone sono assolutamente incapaci di creare qualcosa che non abbia il carattere di un surrogato o di una imitazione di cui è ben visibile la vuotezza e la nessuna relazione con una esperienza spirituale. Pur essendo in prima linea religioso, lo Zen forma anche il carattere. 0, ancor meglio: è una esperienza spirituale profonda tenuta ad effettuare una trasformazione della struttura morale della personalità.
In che modo?
La verità dello Zen è tale, che se vogliamo comprenderla appieno dobbiamo impegnarci in una lotta aspra, in una lotta spesso lunghissima che richiede una continua, spossante vigilanza. La disciplina nel senso dello Zen non è facile. Un maestro Zen disse una volta che la vita monacale può essere seguita soltanto da una persona dotata di grande forza interna e che perfino un ministro non deve imaginarsi di poter divenire senz'altro un buon monaco. (Va notato che in Cina essere ministro rappresentava il massimo che un uomo può sperare in questo mondo). Non che la vita monastica dello Zen richieda la pratica di una eccezionale ascesi - si tratta piuttosto dell'elevazione al massimo grado delle proprie forze spirituali. Ogni sentenza, ogni atto dei grandi maestri Zen sono proceduti da questa altezza interna. Sono sentenze ed atti che non vogliono essere enigmatici e che non intendono confonderci. Ma finché non ci innalziamo alla stessa altezza di quei maestri non possiamo ottenere la stessa sovrana visione della vita. Ruskin dice: «Siatene ben certi: se l'autore vale qualcosa, non coglierete subito quel che vuole dire - anzi, passerà un lungo tempo prima che giungiate a capirne tutto il significato. Non che egli non lo abbia espresso, anzi lo ha espresso con vigore; ma egli non può dire tutto e, cosa più strana, nemmeno lo vuole. L'essenziale lo esprimerà in modo nascosto e in parabole, per mettervi alla prova. Non capisco completamente la ragione di ciò, né voglio analizzare la crudele reticenza dell'animo del saggio che gli fa sempre nascondere il suo pensiero più profondo. Egli ve lo offre non per aiutarvi ma per ricompensarvi, e prima di permettervi di coglierlo vuol essere sicuro che ve lo meritiate». Questa chiave del tesoro regale della sapienza non la otteniamo che dopo una lotta interna tenace e dolorosa.
La mente umana ordinariamente è piena di sciocchezze intellettuali e di detriti sentimentali di ogni specie. Certo, essi a loro modo possono essere utili nella vita d'ogni giorno. Tuttavia è essenzialmente a causa di questi aggregati che la nostra vita è miserabile e che noi soffriamo sentendoci schiavi. Ogni volta che vogliamo fare un movimento essi ci vincolano, ci soffocano, oscurano il nostro orizzonte spirituale. È come se vivessimo di continuo sotto una costrizione. Desideriamo profondamente la naturalezza e la libertà, ma sembra come se non ci fosse dato di raggiungerle. I maestri dello Zen conoscono tutto ciò essendo passati attraverso queste esperienze. Essi vogliono che ci sbarazziamo di tutti questi gravami, gravami che non siamo davvero tenuti a portarci appresso se vogliamo vivere una vita di verità e di illuminazione. Così essi pronunciano poche parole e dimostrano, attivamente, che, a comprenderle nel modo giusto, esse ci libereranno dall'oppressione e dalla tirannia di queste concrezioni intellettuali. Ma la comprensione non è cosa facile. Essendoci abituati da tanto tempo alla costrizione, ci è difficile rimuovere l'inerzia mentale. Essa ha messo radici profonde nel nostro essere, tanto che ci è necessario sovvertire tutta la struttura della nostra personalità. La via della rintegrazione è sparsa di lagrime e di sangue. Ma non vi è altro modo di raggiungere le altezze conquistate dai grandi maestri; non si perviene alla verità dello Zen che impegnando tutte le energie della personalità. Il passaggio è pieno di cardi e di rovi e la parete da scalare è quanto mai infida. Non è un giuoco ma la cosa più seria di tutta una vita, un compito che uno spirito vano non deve mai osare di affrontare. Bisogna disporre di una incudine interna sulla quale il proprio carattere andrà sempre di nuovo martellato. Alla domanda: «Che cosa è lo Zen?» un maestro dette questa risposta: «Far bollire olio sulle fiamme». Dobbiamo passare attraverso questa esperienza del fuoco prima che lo Zen ci sorrida e ci dica: «Ecco la vostra casa».
Una delle risposte dei maestri dello Zen atte a sconcertare il senso comune è questa: P'ang-yun (Hokoji), già seguace di Confucio, chiese a Ma-tsu (Baso , 788): «Di che specie è l'uomo che non si attacca a cosa alcuna?». Il maestro disse: «Te lo dirò quando avrai bevuto d'un fiato tutta l'acqua del fiume d'occidente». Che risposta assurda alla più seria delle domande che possa incontrarsi nella storia del pensiero! Sembra quasi sacrilega. Eppure, come lo sa chiunque abbia studiato lo Zen, della serietà di Ma-tsu non si può dubitare. In effetti, l'ascesa dello Zen dopo il sesto patriarca, Hui-neng, la si deve alla meravigliosa atività di Ma-tsu; sotto la sua guida si formarono più di ottanta maestri perfettamente qualificati, e Hokojì che fu uno di primissimi seguaci laici dello Zen, si guadagnò la ben meritata fama di essere il Vimalakirti del buddhismo cinese. Un colloquio fra due maestri dello Zen di tale statura non poteva essere un vano giuoco. Malgrado l'apparenza di banalità e perfino di frivolità, quelle parole nascondono una delle gemme più preziose della letteratura dello Zen. Non si può dire quanti seguaci dello Zen abbiano sudato e si siano disperati di fronte all'impenetrabilità di quella risposta di Ma-tsu.
Ancora un esempio: un monaco chiese al maestro Shin di Chosa (Chang-sha Ching-ch'en): «Dove è andato Nansen dopo morto?». Rispose il maestro: «Quando Shih-tou (Sekito) era ancora nell'ordine dei giovani novizi, vide il sesto patriarca». «Ma io non sto domandandovi circa i giovani novizi! Voglio sapere dove è andato Nansen dopo morto». «Quanto a questo» disse il maestro, «la cosa dà da pensare» .
L'immortalità dell'anima è un altro grande problema: si può quasi dire che su di esso si basa tutta la storia della religione. Tutti vogliono sapere circa il post-mortem. Dove andiamo quando lasciamo questa terra? Vi è davvero una vita futura? Ovvero la fine di questa vita è la fine di tutto? Mentre sono molti coloro che non si preoccupano troppo circa il significato ultimo dell'Uno solitario e «senza un compagno», forse non vi è nessuno che almeno una volta nella sua vita non si sia chiesto quale sia il suo destino dopo la morte. Il fatto che Shih-tou da giovane avesse visto o no il sesto patriarca, sembra non avere la menoma attinenza con ciò che Nansen era divenuto dopo morto. Questi essendo stato il maestro Shin di Chosa, era naturale che il monaco domandasse proprio a Chosa circa il luogo in cui Nansen era passato. Secondo la logica originaria, la risposta di Chosa non era una risposta. Donde la nuova domanda, a cui, di nuovo, il maestro doveva rispondere con parole equivoche - perché che cosa voleva dire quel «la cosa dà da pensare». Da ciò appare chiaro che lo Zen è una cosa e la logica un'altra. Se, non rendendoci conto di ciò, ci aspettiamo dallo Zen alcunché di razionalmente coerente e di intellettualmente illuminativo, disconosciamo completamente il significato dello Zen. Già all'inizio ho detto che lo Zen si interessa di fatti e non di idee generiche. E questo è proprio il punto in cui lo Zen investe direttamente le basi della personalità. Generalmente l'intelletto non le raggiunge, perché noi non viviamo nell'intelletto bensì nella volontà. Brother Lawrence dice il vero quando - nella sua «Practice of tbe presence of God» afferma: «Dovremmo stabilire una grande differenza fra gli atti dell'intelletto e quelli del volere; i primi hanno relativamente poco valore mentre i secondi hanno un valore assoluto».
La letteratura dello Zen è piena di affermazioni del genere, che sembrano essere state fatte casualmente e innocentemente; ma coloro che davvero sanno che cosa è lo Zen, attesteranno che siffatte espressioni uscite così naturalmente dalle labbra dei maestri sono come veleni mortali che, una volta ingeriti, provocano un violento dolore, un dolore che - come i Cinesi dicono - fa torcere le viscere nove volte e anche più. Ma solo con questo dolore e con questo sconvolgimento le scorie interne si staccano e si rinasce con una visione completamente nuova della vita. Il carattere precipuo dello Zen è che esso diviene intelligibile solo dopo che si è passati attraverso queste lotte interne. Si è che lo Zen è una esperienza diretta e personale, non un sapere raggiunto mediante analisi o confronti. «Non parlate di poesia che ad un poeta; solo il malato sa simpatizzare col malato». In questo senso bisogna orientarsi. Occorre raggiungere una maturità spirituale atta a sintonizzarsi con lo spirito dei maestri. Giunti a tanto, toocata l'una corda l'altra non mancherà di rispondere. Gli accordi armoniosi derivano sempre dal risuonare in simpatia di due o più corde. E ciò che lo Zen fa, è preparare la nostra mente affinché sappia riconoscere gli antichi maestri ed essere ricettiva di fronte ad essi. Sul piano psicologico si può anche dire che Io Zen libera energie in noi accumulate, di cui nelle circostanze normali non siamo consci.
Alcuni vogliono che lo Zen si riduca a una autosuggestione. Ma ciò non spiega nulla. A pronunciare le parole Yamatodamashi si desta, nella maggioranza dei Giapponesi, un fervore patriottico. Si insegna ai bambini di riverire la bandiera del Sole Levante, e quando i soldati passano dinanzi alle insegne del reggimento involontariamente salutano. Quando si rimprovera ad un giovinetto di non agire come un piccolo Samurai e di disonorare il nome degli antenati, egli non esita a dar prova di coraggio e resiste ad ogni tentazione. Per un Giapponese, tutte queste cose sono suscitatrici di forza e, secondo alcuni psicologi, tale risveglio è autosuggestione. Anche le convenzioni sociali e gli istinti di imitazione possono essere considerati come autosuggestioni, lo stesso valendo per la stessa disciplina morale. Agli studenti si dà un esempio a che lo seguano o lo imitino. L'idea mette a poco a poco radice in loro attraverso la forza della suggestione finché noi li vediamo agire come se fosse una loro idea. Quella dell'autosuggestione, è una teoria sterile che nulla spiega. Dicendo che lo Zen è autosuggestione, abbiamo forse una idea più chiara dello Zen? Si è che alcuni credono di essere scientifici quando designano certi fenomeni con qualche nuovo termine venuto alla moda; si tengono allora per soddisfatti, quasi che così su quei fenomeni fosse venuta una nuova luce. Invero. l'esame dello Zen deve essere intrapreso da psicologi più profondi.
Ormai si ammette che nella nostra coscienza vi è una regione sconosciuta, una regione che non è stata ancora esplorata sistematicamente. Essa viene talvolta chiamata l'inconscio o il subconscio. È un regno popolato di figure oscure e, naturalmente, la maggior parte dei ricercatori teme di inoltrarvisi. Ma non per questo essa è meno reale. Proprio come il campo della nostra coscienza normale è pieno di ogni specie di imagini - imagini benefiche o dannose, ordinate o confuse, chiare o oscure, piene di forza o evanescenti - del pari il subconscio è il reservoir che alimenta ogni forma di occuItismo o di misticismo, se così vogliamo designare tutto ciò che ha carattere latente, anormale, psichico o sovrannaturale. Anche il potere di vedere la natura del proprio essere può nascondersi in quella zona, e lo Zen può consistere nel destarlo alla nostra coscienza. In ogni modo, i maestri parlano, figurativamente dell'aprirsi di un terzo occhio. Il termine corrente dato in Giappone a questa dischiusura e a questo risveglio è satori.
Come lo si raggiunge?
Meditando su voci o su azioni che, scaturite direttamente dalla ragione interiore non offuscata dall'intelletto o dall'imaginazione, sono state studiate in modo da avere un potere distruttivo sui vortici generati dall'ignoranza e dalla confusione [6]. E lo Zen ha metodi propri per la pratica della cosidetta meditazione, distinta da ciò che popolarmente o nell'Hinayana viene inteso con tale termine.
Può essere interessante indicare fin d'ora qualcuno dei mezzi usati dai maestri per aprire l'occhio spirituale del discepolo. È naturale che essi spesso usino le varie insegne sacre che portano quando si recano nella Sala del Dharma. In genere, si tratta dell'hossu (specie di frusta che in origine in India era uno scacciamosche), il shippe (canna di bambù lunga qualche piede), il nyol (bastone di forma varia e di vario materiale - letteralmente la parola vuol dire «come lo si desidera o pensa», cinta in sanscrito) o lo shujvo. (una specie di scettro). L'ultimo sembra essere stato lo strumento preferito per la illustrazione delle verità dello Zen. Citerò qualche esempio del suo uso.
Secondo Hui-leng (Ye-ryo), di Chokei, «quando si conosce che cosa sia questa verga, tutto lo studio dello Zen è al termine» - il che ricorda il fiore nella screpolatura del muro di Tennyson. Giacché - vien detto - se noi intendiamo il senso della verga, sapremo «ciò che sono Dio e l'uomo», vale a dire avremo la visione della natura del nostro essere e una tale visione porrà finalmente termine a tutti i dubbi e a tutte le brame che turbano il nostro animo. Così si può facilmente comprendere l'importanza che il bastone ha nello Zen.
Hui-ch'ing (Ye-sei), di Basho, che probabilmente visse nel X secolo, fece una volta la seguente dichiarazione: «Se avete un bastone, ve ne darò uno; se non ne avete, ve lo prenderò». Questo è uno dei detti più caratteristici dello Zen; ma più tardi Mu-chi (Bokitsu), di Daiyi, osò opporre un altro detto che del primo è l'aperta contradizione: «lo la penso altrimenti. Se avete un bastone ve lo prenderò e se non ne avete nessuno ve ne darò uno. Questa è la mia opinione. Potete servirvi del bastone? 0 non potete servirvene? Se lo potete, Te-shan (Tokusan) sarà la vostra avanguardia e Lin-chi (Rinzai) la vostra retroguardia. Ma se non lo potete, che esso venga restituito al maestro che lo ebbe per primo».
Un monaco si avvicinò a Bokuju e disse: «Quale è la formula che supera [la sapienza di] tutti i Buddha e [di] tutti i patriarchi?» Il maestro brandì immediatamente il suo bastone dinanzi alla congregazione dicendo: «Questo, io lo chiamo un bastone, e tu, come lo chiami?». Il monaco che aveva fatto la domanda non seppe che dire. Allora il maestro alzò di nuovo il bastone e disse: «0 monaco, non avevi domandato quale è la formula che supera [la sapienza di] tutti i Buddha e [di] tutti i patriarchi?».
Detti, come quelli di Bokuju, possono essere ritenuti affatto privi di senso e non degni di attenzione. Quale nome pur si dia al bastone, ciò sembra non importare molto, quanto alla sapienza sacra che trascende i limiti della nostra conoscenza. Il detto di un altro grande maestro dello Zen, Ummon, sarà forse più accessibile. Una volta egli alzò il suo bastone dinanzi ai monaci riuniti e osservò «Si legge nelle scritture che gli ignoranti prendono questo bastone per una cosa reale, i seguaci dell'Hinayana ne fanno una non-entità, i Pratyekabuddha lo considerano una allucinazione mentre i Bodbisattva ammettono la sua apparente realtà che tuttavia è fatta di vuoto. Ma, voi monaci» continuò il maestro - «vedendo un bastone, chiamatelo semplicemente un bastone. Camminate o restate seduti a piacere, ma non siate indecisi».
Ecco un altro episodio ove figura lo stesso vecchio e insignificante bastone e un detto ancor più mistico di Ummon. Un giorno questi annunciò: «Il mio bastone si è trasformato in un drago ed ha inghiottito tutto l'universo; dove sarà ormai la vasta terra coi suoi monti e i suoi fiumi?». In un'altra occasione Ummon, citando un antico filosofo buddbista che disse: «Colpite il vuoto dello spazio e udrete una voce; battete un pezzo di legno e non udrete alcun suono», prese il suo bastone, colpì nel vuoto ed esclamò «Oh, come fa male!». Poi batté la tavola e chiese: «Udite forse qualche rumore?».
Un monaco rispose: «Sì, vi è un tumore». Allora il maestro esclamò «Ignorante che sei!» [7].
A continuare con analoghi esempi, non si finirebbe più Dunque non andrò oltre, aspettandomi che qualcuno mi chieda: «Simili detti hanno qualcosa a che fare con la visione della natura del proprio essere? Vi è una qualche relazione fra questi discorsi apparentemente assurdi sul bastone e il problema più importante nella realtà della vita?».
Come risposta riferirò due passi, tratti l'uno da Tz'u-ming (Jimyo) e l'altro da Yuan-wu (Yengo). In un discorso Tz'u-ming disse: «Prendete un granello di polvere e in esso vi si manifesterà tutta la vasta terra. In un unico leone si rivelano milioni di leoni. In verità vi sono migliaia e migliaia di leoni, ma voi conoscetene uno, solo uno». Ciò dicendo, egli alzò il bastone e soggiunse: «Ecco il mio bastone - e quell'unico leone, dove è?». Aspettò poi dette in una esclamazione, depose il bastone e lasciò il pulpito.
Nell'Hekigan [8] Yuan-wu nell'introduzione allo «Zen dell'un dito» di Gutei [9] esprime la stessa idea: «Si prenda un granello di polvere e in essa si troverà la vasta terra; un bocciolo fiorisce, e l'universo si dischiude con esso. Ma dove dovrebbe fissarsi l'occhio se la polvere ancora non si alza e se il fiore non si è ancora dischiuso? Così è detto che tagliando un groviglio di fili essi tutti restano tagliati e che immergendolo in una tintura essi tutti prendono lo stesso colore. Ebbene, uscite dal groviglio di tutte le relazioni vincolanti e fatelo a pezzi, senza però perdere la traccia del vostro tesoro interiore, perché è per mezzo di esso che l'alto e il basso stando dovunque in corrispondenza e ciò che ha proceduto non distinguendosi da ciò che è rimasto indietro, ogni cosa si manifesterà secondo una perfezione assoluta».
Spero che con ciò il lettore avrà già una idea, sia pure necessariamente vaga e generale, dello Zen quale viene insegnato in Estremo Oriente da più di mille anni. In quanto seguirà cercherò anzitutto di ricondurre l'origine dello Zen alla stessa illuminazione spirituale del Buddha, dato che lo Zen è stato spesso accusato di essersi troppo allontanato da quel che si considera generalmente essere l'insegnamento del Buddha, specie da quello esposto negli Agama e nei Nikaya. Benché lo Zen, così come è, rappresenti indubbiamente una creazione dello spirito cinese, risalendo la linea del suo sviluppo si trova l'esperienza personale dello stesso fondatore indù della dottrina. Se non s'intende questo tenendo in pari tempo presenti le caratteristiche psicologiche del popolo cinese, la diffusione dello Zen fra i buddhisti dell'Estremo Oriente risulterà inintelligibile. In ultima analisi, lo Zen è una delle scuole mahayaniche del buddhismo, spogliata della sua veste indù.
 
Note
[1] Si tratta di una delle lezioni divulgative preparate dall'autore per gli studenti di Buddhismo nel 1911. Venne pubblicata per la prima volta in The Eastern Buddbist, con il titolo «The Buddhism as Purifier and Liberator of Life». Poiché tratta dello Zen nei suoi aspetti generali, ho ritenuto opportuno adottarla come Introduzione alla presente opera.
[2] L'Autore dà in vari casi, i nomi di persone e di luoghi sia in cinese che in giapponese. I nomi giapponesi sono quelli tra parentesi. (N.d.T.).
[3] Fondatore della scuola Rinzai del Buddhismo Zen, morto nell'867.
[4] Fondatore della scuola Ummon del Buddhismo Zen, morto nel 996.
[5] Letteralmente: rozzo succhiello, del tempo della dinastia Ch'in.
[6] Lo Zen ha un metodo proprio per praticare le meditazioni, così chiamato, perché si devono distinguere i metodi Zen da cì ò che si intende comunemente nel senso binayanistico del termine. Lo Zen non ha nulla a che fare con il quietismo o con l'abbandono alla trance Avrò altre occasioni di ritornare sull'argomento.
[7] Ciò ricorda le parole del maestro Chan di Pao-fu che, vedendo avvicinarsi un monaco, prese il suo bastone e con esso batté prima un pilastro e poi il monaco. Avendo il monaco gridato per il dolore, il maestro gli disse:, «Come mai al pì astro non ho fatto male?»
[8] L'Hekisanshu è una collezione di cento «casi» con commenti poetici di Hsueh-tou (Seccho) e con annotazioni, in parte critiche e in parte esplicative, di Yengo. Il libro fu introdotto in Giappone durante l'epoca Kamakura e da allora è stato considerato uno dei testi più importanti dello Zen, specie dalla scuola di Rinzai.
[9] Gutei era un discepolo di T'ien-lung (Tenryu), probabilmente vissuto verso la fine della dinastia T'ang. Abitava in un piccolo tempio, ove ricevette una volta la visita di una monaca errante, che entrò direttamente nel tempio senza togliersi il panno che portava avvolto attorno alla testa. Stringendo il bastone, la donna girò tre volte attorno alla sedia di meditazione su cui stava Gutei. Poi gli disse: «Dimmi una parola dello Zen e io mi leverò il panno dalla testa». Ripeté l'invito tre volte, ma Gutei non seppe che dire. La monaca, allora, fece per andarsene, e Gutei le disse: «Si sta facendo tardi, non vuoi passare qui la notte?». Shih-chi (jissai) - così si chiamava la monaca - rispose: «Se mi dici una parola dello Zen, resterò». Anche questa volta, egli non seppe che dire, e la monaca se ne andò.
Fu un colpo terribile per il povero Gutei, il quale si disse: «Pur avendo aspetto di uomo, sembra che io non possegga alcuna forza virile!» Si dette allora allo studio dello Zen, deciso ad acquisirne una perfetta padronanza. Mentre stava per ì iziare le «peregrinazioni» dello Zen, ebbe la visione del dio delle montagne che gli disse di non lasciare il tempio, perché un Bodhisattva incarnato vi sarebbe giunto e lo avrebbe illuminato sulla verità dello Zen. Effettivamente, la mattina dopo si presentò al tempio un maestro dello Zen, chiamato T'ien-lung (Tenryu). Gutei gli raccontò l'episodio umiliante del giorno precedente e gli esternò la sua ferma decisione di penetrare i misteri della Zen. T'ien-lung si limitò ad alzare un dito, senza pronunciare parola. Ciò fu sufficiente per aprire la mente di Gutei al significato supremo dello Zen, e si vuole che da quel giorno Gutei, quando ponevano problemi relativi allo Zen, non dicesse né facesse altro che alzare un dito.
Nel tempio vi era un ragazzo il quale, vedendo il maestro compiere quel gesto, prese a imitarlo ogni volta che gli veniva domandato che genere di discorsi teneva il maestro. Ma quando riferì al maestro quella sua abitudine, Gutei gli recise il dito con un coltello. Il ragazzo fuggì urlando per il dolore, ma Gutei lo richiamò. Il ragazzo tornò indietro, il maestro alzò a sua volta il dito e in quell'istante il giovanotto realizzò il significato dello «Zen di un dito» sia di Tenryu che di Gutei.
Tokei-ji Temple Cemetery, Kamakura, Kanagawa, Japan