martedì 30 ottobre 2012

Tao e motociclette: a priori

I. Della differenza tra la ragione pura e l’empirica.
Non vi è neppur dubbio che ogni nostro sapere incominci colla sperienza. Da che altro infatti potrebb’essere al proprio esercizio eccitata la facoltà di conoscere, ove non lo fosse dagli oggetti che i nostri sensi affettano, e parte producano rappresentazioni per se stessi, parte mettono in azione l’attitudine del nostro intendimento a confrontare, accoppiare o dividere quelle rappresentazioni, e così lavorare la materia bruta delle impressioni sensitive, e ridurle a quella tal cognizione degli oggetti, che si chiama sperienza? Niuna cognizione adunque precede in noi, risguardo al tempo, la sperienza, ed ogni cognizione incomincia colla medesima.
Ciò non di meno, e quantunque sorga ed incominci ogni nostra cognizione colla sperienza, non perciò ne viene che tutta sorga e nasca dalla sperienza. Perciocché potrebbe darsi, per avventura, che la stessa nostra cognizione sperimentale fosse un composto di ciò che noi riceviamo per mezzo d’impressioni, e di ciò ci somministra da se stessa la nostra propria facoltà di conoscere (data e mediante l’occasione delle impressioni dei sensi); nel qual caso non distingueressimo quanto è fornito in qualità di materia prima dai sensi, da quanto vi aggiungesse del suo la detta facoltà, prima che un lungo esercizio non ce ne avesse fatti scorti, e resi capaci della relativa separazione (distinzione).
É dunque dimanda che ha per lo meno di necessità onde venga più davvicino esaminata, e cui non si potrà di primo aspetto e sì tosto rispondere: se tale specie di cognizione si dia, la quale sia indipendente dalla sperienza ed anche da tutte impressioni dei sensi. Questa cognizione chiamo intanto a priori e dall’empiriche le distinguo, in quanto hanno esse le fonti loro a posteriori, vale a dire dalla sperienza.
Ma non è ancora ben determinata, la detta espressione, perché valga indicarne tutto il senso, coerentemente al proposto quesito. Perciocché gli è già stile il dire che siamo resi capaci o partecipi a priori di parecchie nozioni, che tuttavia emergono dalle sorgenti della sperienza: e si dice, atteso che non le deriviamo immediatamente da essolei, bensì da una regola generale, che abbiamo tolta ciò non pertanto in prestito dalla speriena medesima. Così di un tale, che abbia scavate le fondamenta della propria casa, diciamo che egli poteva saperlo a priori qualmente la sarebbe caduta, vale a dire che non gli era mestieri aspettarli dalla sperienza perché la casa di fatto cadesse. Eppure non poteva quel tale saper questo affatto a priori; ché doveva egli essere già consapevole per isperienza, che i corpi sono gravi, e quindi cadono se vien loro tolto ciò che li sostiene.
D’ora innanzi pertanto sotto nome di cognizioni a priori intenderemo quelle, che hanno luogo indipendentemente non già da quella o da questa soltanto, ma da ogni e qualunque sperienza assolutamente. Come contrarie a siffatte cognizioni risguarderemo l’empiriche, o quelle che sono solamente possibili a posteriori, per mezzo cioè dell’esperienza. Quelle poi, fra le cognizioni a priori, alle quali non è frammesso assolutamente nulla di empirico, diconsi pure. Così la proposizione, a cagion d’esempio: ogni cambiamento ha la propria causa, è proposizione a priori, non però pura, perciocché l’idea del cambiamento non può essere dedotta che dalla sperienza.
Fedro come studioso era abominevole: dava giudizi avventati su ogni filosofo, aveva da sindacare su qualsiasi testo, era sempre parziale. Voleva che i filosofi seguissero una certa strada e s'infuriava quando non lo facevano. Ho ancora un frammento di ricordo di lui seduto in una stanza alle tre del mattino, davanti alla famosa Critica della ragion pura di Immanuel Kant. La studiava come un giocatore di scacchi avrebbe studiato una partita, vagliandone la linea di sviluppo, cercando le contraddizioni e le incongruenze.
Fedro era un personaggio bizzarro rispetto agli americani del Midwest che lo circondavano, ma quando studiava Kant lo era meno. Per Kant provava un grande rispetto, non perché condividesse il suo pensiero, ma perché ammirava l'eccezionale fortificazione logica che Kant aveva costruito intorno alle sue posizioni. Kant è sempre superbamente metodico, perseverante, regolare e meticoloso mentre si inerpica sulle vette nevose di un pensiero volto a stabilire che cosa è nella mente e che cosa ne è fuori. E fu proprio su queste vette che a Fedro si presentò per la prima volta la soluzione complessiva del problema dell'intelligenza classica e dell'intelligenza romantica.
Per seguire Kant bisogna aver capito anche il pensiero di Hume. Hume aveva affermato questo: se, per determinare la vera natura del mondo, ci si attiene strettamente alle regole logiche dell'induzione e della deduzione, fondate sull'esperienza, si deve giungere a determinate conclusioni. Il suo ragionamento si sviluppava secondo le traiettorie che risulterebbero dalla risposta a questa domanda: prendiamo un bambino privo dalla nascita di tutte e cinque le facoltà sensoriali, e supponiamo che venga nutrito per via endovenosa e mantenuto in vita in questo stato fino a diciotto anni. Ci si può allora chiedere: questa persona di diciotto anni ha un pensiero in testa? E se sì, da dove gli arriva?
Hume avrebbe risposto che il diciottenne non aveva pensieri di sorta, e dando questa risposta si sarebbe definito un empirista, uno che crede che tutta la conoscenza derivi esclusivamente dai sensi. Il metodo scientifico della sperimentazione è empirismo attentamente controllato. Il buon senso odierno è empirismo, dato che la stragrande maggioranza concorderebbe con Hume, benché in altre culture e in altri tempi la maggioranza avrebbe potuto non essere d'accordo.
Il primo problema dell'empirismo, se nell'empirismo si crede, riguarda la natura della «sostanza». Se tutta la nostra conoscenza ci deriva dai dati sensoriali, che cos'è esattamente questa sostanza che dovrebbe generarli? Se cercate di immaginare che cos'è questa sostanza a prescindere da quello che percepite non riuscirete a pensare a un bel niente.
Dato che tutta la conoscenza deriva da impressioni sensoriali e dato che non esiste un'impressione sensoriale della sostanza stessa, ne segue logicamente che della sostanza non abbiamo nessuna conoscenza. È tutta nella nostra mente.
In secondo luogo, se si parte dalla premessa che tutta la conoscenza ci viene dai sensi, bisogna chiedersi: da quali dati sensoriali ci deriva la nostra consapevolezza del rapporto tra causa e effetto? In altre parole, qual è la base empirica e scientifica della causalità?
La risposta di Hume è: «Nessuna». Nelle nostre sensazioni non c'è nessuna prova della causalità. È un rapporto che immaginiamo quando a un fenomeno ne segue con una certa regolarità un altro. Non ha un'esistenza reale nel mondo che osserviamo. Se si accetta la premessa che tutta la conoscenza ci deriva dai sensi, dice Hume, allora bisogna concludere logicamente che sia la «natura» sia «le leggi della natura» sono creazioni della nostra immaginazione.
Quest'idea che il mondo intero è contenuto nella nostra mente potrebbe essere scartata come un'assurdità se Hume si fosse limitato a proporla come base di discussione. Invece lui faceva di essa un argomento irrefutabile.
Bocciare le conclusioni di Hume era necessario, ma sfortunatamente il modo in cui egli ci era arrivato rendeva apparentemente impossibile farlo senza abbandonare l'empirismo scientifico per ritornare a barricarsi dietro a sistemi di pensiero medioevali. E questo Kant non poteva accettarlo. Così fu Hume, disse Kant, a «risvegliarlo dai suoi sonni dogmatici» e a indurlo a scrivere la Critica della ragion pura.
Kant cerca di salvare l'empirismo scientifico dalle conseguenze della sua stessa logica autodistruttiva. Segue dapprima il sentiero lungo il quale si era avviato Hume. «Che tutta la nostra conoscenza inizi con l'esperienza è indubbio» egli dice, ma presto si allontana da quel sentiero per negare che tutte le componenti della conoscenza provengano dai sensi al momento della percezione dei dati sensoriali. «Benché tutta la conoscenza inizi con l'esperienza, non ne segue necessariamente che essa derivi dall'esperienza». Sulle prime potrebbe sembrare che Kant stia menando il can per l'aia, ma non è vero. Grazie a questa differenza, egli aggira l'abisso del solipsismo al quale conduceva la via di Hume e procede su una strada propria, completamente nuova e diversa.
Kant dice che ci sono aspetti della realtà che non sono forniti immediatamente dai sensi e questi aspetti li chiama a priori.
Il «tempo» , per esempio, è un a priori. Non si vede, non si sente, non si odora, non si gusta, non si tocca. Il tempo è quello che Kant chiama un'«intuizione» , che la mente fornisce quando riceve il dato sensoriale.
La stessa cosa vale per lo spazio. A meno che non applichiamo i concetti di spazio e tempo alle impressioni che riceviamo, il mondo è incomprensibile, non è che un guazzabuglio caleidoscopico di colori, forme, rumori, odori, dolori e sapori senza significato. Pertanto, noi percepiamo gli oggetti in un certo modo grazie alla nostra applicazione di intuizioni a priori quali spazio e tempo, ma questi oggetti non sono creazioni della nostra immaginazione come vorrebbero gli idealisti puri. Lo spazio e il tempo sono forme che applichiamo ai dati nel momento in cui li riceviamo dall'oggetto che li produce. I concetti a priori hanno la loro origine nella natura umana, per cui non sono causati dall'oggetto percepito né gli conferiscono la sua esistenza, ma forniscono una specie di vaglio per i dati sensoriali che accetteremo. Per esempio, quando chiudiamo gli occhi, i nostri dati sensoriali ci dicono che il mondo è scomparso. Ma questa idea viene eliminata e non arriva mai alla nostra coscienza perché abbiamo in mente un concetto a priori della continuità del mondo. Quella che noi consideriamo realtà è una sintesi continua tra gli elementi di una gerarchia  fissa di concetti a priori e i dati sempre mutevoli dei nostri sensi.
Adesso cerchiamo di applicare alcuni dei concetti espressi da Kant a questa strana macchina, a questa creazione che ci ha trasportato attraverso lo spazio e il tempo.
Hume, in pratica, diceva che tutto quello che so di questa motocicletta proviene dai miei sensi. Dev'essere così. Non c'è altra possibilità. Se dico che è fatta di metallo e altre sostanze, lui domanda: «Che cos'è il metallo?». Se rispondo che il metallo è duro, lucido e freddo al tatto e cambia forma senza rompersi sotto i colpi di un materiale più duro, Hume dice che ho espresso soltanto dei dati sensoriali legati alla vista, all'udito, al tatto. Non c'è sostanza. Dimmi cos'è il metallo a prescindere da queste sensazioni. E allora, ovviamente, sono fritto.
Ma se non c'è sostanza, cosa possiamo dire dei dati sensoriali che riceviamo? Se giro la testa a sinistra e guardo il manubrio, la ruota anteriore, il portacarte e il serbatoio, ho un tipo di disposizione dei dati sensoriali. Se giro la testa a destra ho una disposizione di dati sensoriali leggermente diversa. Se non c'è una base logica per la sostanza, non c'è neanche una base logica per concludere che quel che ha prodotto queste due visioni è la medesima motocicletta.
Siamo a un punto morto. La nostra ragione, che dovrebbe renderci le cose più comprensibili, fa esattamente il contrario, e quando la ragione viene meno ai suoi scopi in questo modo, vuoi dire che qualcosa nella sua struttura deve essere cambiato.
Kant ci viene in aiuto dicendo che il fatto di non poter percepire immediatamente una «motocicletta» come qualcosa di distinto dai suoi colori e dalle sue forme non è affatto una prova che la motocicletta non ci sia. Noi abbiamo in mente una motocicletta a priori che ha una continuità nel tempo e nello spazio e può cambiare aspetto a seconda della nostra posizione, e pertanto non viene contraddetta dai dati sensoriali che riceviamo.
La motocicletta di Hume, quella che non ha nessun senso, salterà fuori se il nostro ipotetico paziente di prima, quello sprovvisto delle facoltà sensoriali, le riacquistasse all'improvviso per una frazione di secondo e ricevesse il dato sensoriale di una motocicletta per poi esserne di nuovo privato. A questo punto credo che egli avrebbe nella mente una motocicletta alla Hume, che non gli fornirebbe alcuna prova dell'esistenza di concetti quali la causalità.
Ma, come dice Kant, noi non siamo quel ragazzo. Nella nostra mente abbiamo un motocicletta a priori molto reale della cui esistenza non abbiamo motivo di dubitare, la cui realtà può essere confermata in qualsiasi momento.
Questa motocicletta a priori si è formata nella nostra mente, nel corso di molti anni, grazie a un numero enorme di dati sensoriali e cambia costantemente con l'immissione di dati sensoriali nuovi. Alcuni dei cambiamenti nella specifica motocicletta a priori che sto guidando sono molto rapidi e transitori, come per esempio la sua posizione rispetto alla strada. Quando un'informazione non è più utile la dimentico, perché ne arrivano di nuove a sostituirla. Altri cambiamenti in questo a priori sono più lenti: il calo della benzina nel serbatoio. L'usura delle gomme. L'allentarsi di viti e bulloni. La variazione del gioco tra ganasce e tamburi dei freni. Altri aspetti cambiano così lentamente da sembrare immutabili — la cromatura, i cuscinetti delle ruote, i cavi di comando —, ma anch'essi cambiano costantemente. E per finire, alla lunga anche il telaio si modifica leggermente in seguito ai colpi e agli sbalzi di temperatura e alle sollecitazioni di fatica interna comuni a tutti i metalli.
Che razza di macchina, questa motocicletta a priori! I dati sensoriali la confermano, ma i dati sensoriali non sono lei. La motocicletta che io credo esista aprioristicamente fuori di me è come i soldi che credo di avere in banca. Se andassi in banca e chiedessi di vedere i miei soldi, i cassieri rimarrebbero piuttosto sorpresi. Io mi accontento di sapere che il sistema bancario mi fornisce i mezzi per averli sottomano quando ne ho bisogno. Così, anche se i miei dati sensoriali non hanno mai prodotto nulla che si possa chiamare «sostanza» , mi accontento del fatto che in questi dati sensoriali è insita la capacità di ottenere dei risultati con ciò che la sostanza genera, e che questi dati sensoriali continuano a concordare con la motocicletta a priori che ho in mente. Per comodità dico che ho i soldi in banca e per lo stesso motivo dico che la moto che sto guidando è composta di una sostanza. La Critica della ragion pura si occupa essenzialmente delle modalità di acquisizione di questa conoscenza a priori e del suo impiego.
La tesi di Kant che i nostri concetti a priori sono indipendenti dai dati sensoriali e passano al vaglio quello che vediamo, Kant la chiama una «rivoluzione copernicana». In seguito a questa rivoluzione non cambiò nulla, e tuttavia cambiò tutto. O, per metterla in termini kantiani, il mondo oggettivo, fonte dei nostri dati sensoriali, non cambiò, ma venne rovesciato il concetto a priori che di esso avevamo. L'effetto fu travolgente. Fu proprio l'accettazione della rivoluzione copernicana a distinguere l'uomo moderno dai suoi predecessori medievali.
Copernico non fece altro che prendere il concetto a priori del mondo universalmente riconosciuto nel suo tempo — e cioè che la terra fosse piatta e ferma nello spazio —, proporre un concetto a priori alternativo, secondo il quale la terra sarebbe sferica e girerebbe intorno al sole, e dimostrare che entrambi i concetti a priori quadravano con i dati sensoriali a disposizione.
Kant sentì di aver fatto la stessa operazione in metafisica. Supponiamo che i concetti a priori nella nostra testa siano indipendenti da quello che vediamo e facciano da vaglio tra noi e la realtà. Questo equivale a prendere il vecchio concetto aristotelico dello scienziato come osservatore passivo, una «tabula rasa» , e rivoltarlo. Kant e i suoi milioni di seguaci hanno sostenuto che grazie a questo capovolgimento si ottiene una comprensione più soddisfacente del nostro modo di arrivare alla conoscenza.

lunedì 29 ottobre 2012

manifestazioni del Tao cognitivista

L'ipotesi cognitivista allo studio della mente e della coscienza ha trovato storicamente ampia applicazione in vari settori:

Manifestations of Cognitivism

Cognitivism in Artificial Intelligence
The manifestations of cognitivism are nowhere more visible than in artificial intelligence (AI), which is the literal construal of the cognitivist hypothesis. Over the years many interesting theoretical advances and technological applications have been made within this orientation, such as expert systems, robotics, and image processing. These results have been widely publicized, and so we need not digress to provide specific examples here.
Because of wider implications, however, it is worth noting that AI and its cognitivist basis reached a dramatic climax in Japan's ICOT Fifth Generation Program. For the first time since the war there is a national plan involving the efforts of industry, government, and universities, launched in 1981. The core of this program is a cognitive device capable of understanding human language and of writing its own programs when presented with a task by an untrained user. Not surprisingly, the heart of the ICOT program was the development of a series of interfaces of knowledge representation and problem solving based on PROLOG, a high-level programming language for predicate logic. The ICOT program has triggered immediate responses from Europe and the United States, and there is little question that this is a major commercial concern and engineering battlefield. (It is also worth noting that the Japanese goverment has launched in 1990 the Sixth Generation Program based on connectionist models.) Although it is only one example, the ICOT program is a major illustration ofthe inseparability of science and technology in the study of cognition and of the effects that this marriage has on the public at large.
The cognitivist hypothesis has in AI its most literal construal. The complementary endeavor is the study of natural, biologically implemented cognitive systems, especially humans. Here, too, computationally characterizable representations have been the main explanatory tool. Mental representations are taken to be occurrences of a formal system, and the mind's activity is what gives these representations their attitudinal color-beliefs, desires, intentions, etc. Here, therefore, unlike AI, we find an interest in what the natural cognitive systems are really like, and it is assumed that their cognitive representations are about something for the system; they are said to be intentional in the sense indicated here.

Cognitivism and the Brain
Another equally important effect of cognitivism is the way it has shaped current views about the brain. Even though in theory the symbolic level of cognitivism is compatible with many views about the brain, in practice almost all of neurobiology (and its huge body of empirical evidence) has become permeated with the cognitivist, information-processing perspective. More often than not, the origins and assumptions of this perspective are not even questioned.
The exemplar of this approach is the celebrated studies of the visual cortex, an area of the brain where one can easily detect electrical responses from neurons when the animal is presented with a visual image. It was reported early on that it was possible to classify cortical neurons, such as feature detectors, responding to certain attributes of the object being presented-its orientation, contrast, velocity, color, and so on. In line with the cognitivist hypothesis, these results have been seen as the biological basis for the notion that the brain picks up visual information from the retina through the feature-specific neurons in the cortex, and the information is then passed on to later stages in the brain for further processing (conceptual categorization, memory associations, and eventually action).
In its most extreme form, this view of the brain is expressed in Barlow's "grandmother cell" doctrine, where there is a correspondence between concepts (such as the concept someone has of her grandmother) or percepts and specific neurons. (This is equivalent - to AI detectors and labeled lines.) This extreme view is waning in popularity now, but the basic idea that the brain is an information processing device that responds selectively to features of the environment remains as the dominant core of modem neuroscience and in the public's understanding.

Cognitivism in Psychology
Psychology is the discipline that most people assume to be the study of mind. Psychology predates cognitive science and cognitivism and is not coextensive with either of them. What influence has cognitivism had on psychology? To understand something of this, we need some historical background in psychology.
We have already mentioned introspectionism and its differences from mindfulness meditation. It may be that when anyone first thinks to inquire about the mind, there are a limited number of possibilities of how to proceed, and turning to one's own mind is one of the universal strategies that will occur. This track, developed by the. meditative traditions of India, was aborted for psychology in the West when the nineteenth-century introspectionists, lacking a method of mindfulness, tried to treat the mind as an external object, with disastrous results for interobserver agreement. The breakdown of introspectionism into noncommensurable, warring laboratories left experimental psychology with a profound distrust of self-knowledge as a legitimate procedure in psychology. Introspectionism was replaced by the dominant school of behaviorism.
One obvious alternative to looking inward to the mind is to look outward at behavior; we even have the folk saying, "Actions speak louder than words." Behaviorism was particularly compatible with the early twentieth-century positivist zeitgeist of disembodied objectivism in science, for it eliminated mind entirely from its psychology. According to behaviorism, although one could objectively observe inputs to the organism (stimuli) and outputs (behavior) and could investigate the lawful relationships between inputs and outputs over time, the organism itself (both its mind and its biological body) was a black box that was methodologically unapproachable by behavioral science (hence no rules, no symbols, no computations). Behaviorism completely dominated North American experimental psychology from the 1920s until fairly recently.
The first signs of a postbehaviorist experimental cognitive psychology began to appear in the late 195Os. The trick of these early researchers who were still, strictly speaking, positivist, was to find experimental means for defining and measuring the effect of a given forbidden mentalistic phenomenon. Let us take mental images as an example.
A mental image is undisputably in the black box for a behaviorist; it is not publicly observable, so one cannot have observer agreement about it. Researchers, however, gradually devised demonstrations of the pragmatic effects of mental images. Instructing an experimental subject to hold a mental image during a signal detection task lowers the accuracy of the detection, and, furthermore, this effect is modality specific (a visual image interferes more in a visual detection task than an auditory task, and vice versa). Such experiments legitimate imagery even in behaviorist terminology-imagery is a powerful intervening variable. Furthermore, experiments began to explore the behavior of mental images in themselves, often showing that they had properties like those of perceptual images. In delightfully ingenious experiments, Kosslyn showed that mental visual images appear to be scanned in real time, and Shepard and Metzler showed that mental images appear to be rotated in real time just as perceptual visual images are. Studies of other formerly mentalistic (now called cognitive) phenomena began to be performed in perception, memory, language, problem solving, concepts, and decision making.
What influence did cognitivism have on this emerging experimental investigation of the mind? Interestingly, the initial effect of cognitivism on psychology was extremely liberating. The computer metaphor of the mind could be used to formulate experimental hypotheses or even to legitimate one's theory simply by programming it. Although the programs were almost entirely cognitivist (psychological processes were modeled in terms of explicit rules, symbols, and representations), the overall effect was to breach the constraints of behaviorist orthodoxy and admit into psychology long-suppressed, commonsense understanding of the mind. For example, developmental psycholinguistics could now explore openly the idea that children learn the vocabulary and grammar of their language not as reinforced, paired associates but as hypotheses about correct adult speech that develop with their cognitive capacities and experience. Motivation could be understood as more than hours of deprivation; one could now talk of cognitive representations of goals and plans. The social system was not just a complex stimulus; it could be modeled in the mind as representations of scripts and social schemas. One coulq speak of the human information processor as a lay scientist, testing hypotheses and making mistakes. In short, the introduction of the computer metaphor in a very general, albeit implicitly cognitivist, sense into cognitive psychology allowed an explosion of commonsense theory and its operationalization into computer models and human research.
Strict cognitivism in its explicit form, on the other hand, places strong constraints on theory and has generated primarily philosophical debate. Let us return to mental imagery as an example. In cognitivism, mental imagery, like any other cognitive phenomenon, can be no more than the manipulation of symbols by computational rules. Yet Shepard's and Kosslyn's experiments have demonstrated that mental images perform in a continuous fashion in real time, very like visual perception. Does this refute cognitivism? A hard-line cognitivist, such as Pylyshyn, argues that images are simply subjective epiphenomena (as they were for behaviorism) of more fundamental symbolic computations. Attempting to bridge the rift between data and cognitivist theory, Kosslyn has formulated a model by which images are generated in the mind by the same rules that generate images in computer displays: the interaction of languagelike operations and picturelike operations together generate the internal eye. One current view of the imagery debate is that since, at best, the imagery research demonstrates the similarity of imagery to perception, this simply points us to the need for a viable account of perception.

Cognitivism and Psychoanalysis
We stated earlier that psychoanalytic theory had mirrored much of the development of cognitive science. In fact, psychoanalysis was explicitly cognitivist in its inception. Freud attended Brentano's course in Vienna, as did Husserl, and he fully endorsed the representational and intentional view of the mind. For Freud, nothing could affect behavior unless it were mediated by a representation, even an instinct. “An instinct can never be an object of consciousness—only the idea that represents the instinct. Even in the unconscious, moreover, it can only be represented by the idea.” Within this framework, Freud's great discovery was that not all representations were accessible to consciousness; he never seemed to doubt that the unconscious, for all that it might operate on a different symbol system than the conscious, was fully symbolic, fully intentional, and fully representational.
Freud's descriptions of mental structures and processes are sufficiently general and metaphorical that they have proved translatable (with arguable degrees of loss of meaning) into the language of other psychological systems. In the Anglo-American world, one extreme was Dollard and Miller's hotly contested retheorizing of Freudian discoveries in terms of behaviorist-based learning theory. More relevant for us was Erdelyi's rather placidly accepted (perhaps because of Freud's preexisting cognitivist "metaphysics") translation into cognitivist-based information-processing language. For example, Freud's concept of repression/censorship becomes, in cognitivist terms, the matching of information from a perception or idea to a criterion level for acceptable accounts of anxiety: if it is above the criterion, it goes to a stop-processing/accessing information box, from whence it is shunted back to the unconscious; if below the criterion, it is allowed into the preconscious and, perhaps, then into the conscious. After another criterion match in the decision tree, it is either allowed into behavior or suppressed. Does such a description add anything to Freud? It certainly serves to translate such notions as the Freudian unconscious into what is taken to be a "scientific" currency of the day. It is also fair to say that many contemporary post-Freudian theorists in Europe-such as Jacques Lacan-would disagree: such theorizing misses the central spirit of the psychoanalytic journey-to move beyond the trap of representations, including those about the unconscious.
It is presently fashionable to say that Freud "decentered" the self; what he actually did was to divide the self into several basic selves. Freud was not a strict cognitivist in the Pylyshyn sense: the unconscious had the same type of representations as the conscious, all of which could, at least theoretically, become, or have been, conscious. Modem strict cognitivism has a far more radical and alienating view of unconscious processing. It is to this issue that we now tum as we discuss the meaning of cognitivism for our experience.

giovedì 25 ottobre 2012

palindromo in Tao 2D


È ormai da secoli, forse da millenni, che mi trovo imprigionato tra queste pareti di bronzo. Ormai non ne avverto neppure più il freddo. Credo che il mio corpo si sia disfatto, divenendo indistinguibile dai metri di terriccio, sassi e mattoni che ricoprono me e la mia prigione. In teoria non esisto più, e da un bel pezzo.

Oppède-le-Vieux, Petit Luberon, Provence, France

prime spiegazioni sul Tao

Monument Valley Mitchell Mesa; philiphyde
Dopo il primo incontro con Mescalito, Castaneda ricapitola cosa è successo in quell'occasione e ottiene le prime spiegazioni da Don Juan:
Sabato, 5 agosto, 1961
Più tardi quella mattina, dopo la colazione, il proprietario della casa, don Juan ed io ritornammo all'abitazione di don Juan. Ero stanchissimo, ma non potei addormentarmi nel camioncino. Solo dopo che l'uomo se ne fu andato caddi addormentato nel portico della casa di don Juan.
Quando mi svegliai era buio; don Juan mi aveva messo addosso una coperta. Lo cercai, ma non era nella casa. Venne più tardi con una pentola di fagioli fritti e una grande quantità di tortillas. Ero estremamente affamato.
Terminato di mangiare, mentre stavamo riposando, mi chiese di raccontargli tutto quello che mi era successo la notte precedente. Riferii la mia esperienza molto dettagliatamente e con la maggior precisione possibile.
Quando ebbi finito accennò con la testa e disse: "Penso che tu sia a posto. Mi è difficile adesso spiegare come e perché. Ma penso che per te sia andato tutto bene. Vedi, qualche volta è scherzoso, come un bambino; altre volte è terribile, spaventoso. O scherza, o è mortalmente serio. Non si può sapere in anticipo come sarà con un'altra persona. Tuttavia, quando lo si conosce bene — qualche volta si può prevedere. Stanotte hai giocato con lui. Sei la sola persona che io sappia che abbia avuto un incontro del genere".
"In che cosa si differenzia la mia esperienza da quella degli altri?".
"Non sei un indiano; quindi mi è difficile immaginarmi in che consista la differenza. Tuttavia, o accetta le persone o le respinge, senza badare se siano o no indiani. Che io sappia. Ne ho visto una grande quantità. So anche che scherza, certa gente la fa ridere, ma non l'ho mai visto giocare con nessuno".
"Don Juan, potete dirmi adesso come fa il peyote a proteggere...".
Non mi lasciò terminare. Mi toccò vigorosamente sulla spalla.
"Non chiamarlo così! Non hai ancora visto abbastanza di lui per conoscerlo".
"Come fa Mescalito a proteggere la gente?".
"Consiglia. Risponde a qualsiasi domanda tu faccia".
"Allora Mescalito è vero? Voglio dire è qualcosa che si può vedere?".
Sembrò sconcertato dalla mia domanda. Mi guardò con una specie di espressione senza significato.
"Quello che intendevo dire è che Mescalito...".
"Ho sentito quello che hai detto. Non l'hai forse visto ieri notte?".
Volevo dirgli che avevo visto solamente un cane, ma notai il suo sguardo sconcertato.
"Allora pensate che quello che ho visto ieri notte era lui?".
Mi guardò con disprezzo. Fece una risatina soffocata, scosse il capo come se non potesse crederci, e aggiunse in un tono molto bellicoso: "A poco crees que era tu... marna? (Non dirmi che credi che fosse tua... mamma?)". Fece una pausa prima di dire 'marna' perché quello che intendeva dire era "tu chingada madre", un'espressione usata come allusione poco rispettosa alla madre dell'interlocutore. La parola, 'mama' era talmente assurda che entrambi ridemmo a lungo.
Quindi mi resi conto che si era addormentato e non aveva risposto alla mia domanda.

Domenica, 6 agosto, 1961
Accompagnai con l'automobile don Juan alla casa in cui avevo preso il peyote. Lungo la strada mi disse che il nome dell'uomo che mi aveva 'offerto a Mescalito' era John. Quando arrivammo alla casa trovammo John seduto sul portico assieme a due giovani. Erano tutti estremamente gioviali. Ridevano e chiacchieravano con grande facilità. Tutti e tre parlavano inglese alla perfezione. Dissi a John che ero venuto a ringraziarlo per avermi aiutato.
Volevo sapere quello che pensavano sul mio comportamento durante l'esperienza allucinogena, e dissi loro che avevo tentato di pensare a quello che avevo fatto quella notte e che non riuscivo a ricordare. Risero ed erano riluttanti a parlare. Sembrava che si tenessero indietro per via di don Juan. Lo guardavano tutti come se aspettassero un cenno affermativo per continuare. Probabilmente don Juan fece un cenno, sebbene io non notassi nulla, perché improvvisamente John prese a dirmi quello che avevo fatto durante la notte.
Disse che aveva saputo che ero stato 'preso' quando mi aveva sentito vomitare. Calcolava che dovevo aver vomitato trenta volte Don Juan lo corresse e disse che erano state solo dieci volte.
John continuò: "Poi ci mettemmo tutti accanto a te. Eri irrigidito, e avevi delle convulsioni. Per moltissimo tempo, stando disteso sulla schiena, hai mosso la bocca come se parlassi. Poi hai cominciato a battere il capo sul pavimento, don Juan ti ha messo sulla testa un vecchio cappello e tu hai smesso. Sei rimasto a rabbrividire e a gemere per ore, disteso sul pavimento. Penso che a quel punto tutti si erano addormentati; ma ti ho sentito ansimare e gemere nel mio sonno. Poi ti ho sentito urlare e mi sono svegliato. Ti ho visto balzare in aria, urlando. Ti sei precipitato verso l'acqua, hai rovesciato la casseruola e hai cominciato a nuotare nella pozzanghera.
"Don Juan ti ha portato dell'altra acqua. Ti sei seduto tranquillamente davanti alla casseruola. Poi sei saltato in piedi e ti sei tolto tutti i vestiti. Stavi inginocchiato davanti all'acqua, bevendo a grandi ; sorsate. Poi ti sei seduto a fissare il vuoto. Pensavamo che saresti rimasto lì per sempre."
Erano quasi tutti addormentati, compreso don Juan, quando improvvisamente sei saltato di nuovo in piedi, ululando, e ti sei messo a inseguire il cane. Il cane si è spaventato, e ha ululato anche lui, e si è messo a correre dietro la casa. Allora tutti si sono svegliati."
"Ci siamo alzati tutti. Tu sei ritornato dall'altra parte ancora inseguendo il cane. Il cane correva davanti a te abbaiando e ululando. Penso che devi aver girato venti volte intorno alla casa, correndo in cerchio, abbaiando come un cane. Temevo che la gente cominciasse a incuriosirsi. Non ci sono vicini qui intorno, ma il tuo ululare era così forte che avrebbe potuto essere sentito a miglia di distanza".
Uno dei giovani aggiunse: "Hai catturato il cane e lo hai portato nel portico in braccio".
John continuò: "Poi hai cominciato a giocare con il cane. Hai lottato con lui, e tu e il cane avete giocato e vi siete morsi a vicenda. Questo, penso, era divertente. Il mio cane di solito non gioca. Ma questa volta tu e il cane stavate rotolando l'uno sull'altro".
"Poi sei corso all'acqua e il cane ha bevuto con te", disse il giovane.
"Sei corso a bere con il cane cinque o sei volte".
"Quanto tempo è durato?", chiesi.
"Ore", disse John. "A un certo momento vi abbiamo persi di vista tutti e due. Penso che dovete essere corsi dietro la casa. Vi sentivamo solo abbaiare e gemere. Assomigliavi talmente a un cane che non potevamo distinguervi l'uno dall'altro".
"Può essere che fosse semplicemente il cane da solo", dissi.
Risero, e John disse: "Eri là che abbaiavi, ragazzo!".
"Che cosa è successo poi?".
I tre si guardarono l'un l'altro, sembrava che non riuscissero a decidere che cosa era accaduto in seguito. Alla fine il giovane che non aveva ancora detto nulla parlò.
"Soffocava", disse, rivolto a John.
"Sì, certamente, soffocavi. Hai cominciato a gridare in maniera molto strana, e poi sei caduto sul pavimento. Pensavamo che ti stessi mordendo la lingua; don Juan ti ha aperto le mascelle e ti ha versato dell'acqua in faccia. Poi hai cominciato di nuovo a rabbrividire e ad avere convulsioni.
Quindi sei rimasto immobile a lungo. Don Juan ha detto che era finito tutto. Era ormai mattina, così ti abbiamo buttato addosso una coperta e ti abbiamo lasciato a dormire sotto il portico". A questo punto John si fermò e guardò gli altri uomini che stavano palesemente cercando di non ridere. Si rivolse a don Juan e gli disse qualcosa. Don Juan sorrise e rispose alla domanda. John si rivolse a me e disse: "Ti abbiamo lasciato sotto il portico perché temevamo che ti mettessi a pisciare in tutte le stanze".
Risero tutti rumorosamente.
"Che cosa mi succedeva?", chiesi. "Io...".
"Tu?", mi canzonò John. "Non volevamo dirlo, ma don Juan dice che è tutto regolare. Hai pisciato sul mio cane!". "Che cosa ho fatto?".
"Non penserai che il cane scappava perché aveva paura di te, forse? Il cane correva perché tu gli stavi pisciando addosso".
A questo punto ci fu una risata generale. Cercai di interrogare uno dei giovani, ma stavano tutti ridendo e non mi udì.
John proseguì: "II mio cane si è preso la rivincita; anche lui ti ha pisciato addosso!".
Questa affermazione era evidentemente divertentissima perché scoppiarono tutti dalle risate, compreso don Juan. Quando si furono calmati chiesi in tutta serietà: "È vero sul serio? È successo davvero?". John replicò, sempre ridendo: "Ti giuro che il mio cane ti ha pisciato addosso".
Tornando in macchina alla casa di don Juan gli chiesi: "È davvero successo tutto questo, don Juan?".
"Sì", mi rispose, "ma loro non sanno quello che hai visto. Non si rendono conto che stavi giocando con 'lui'. È per questo che non ti ho disturbato".
"Ma è vera questa storia del cane e me che ci pisciavamo addosso a vicenda?".
"Non era un cane! Quante volte te lo devo dire? Questa è la sola maniera per capire. È la sola maniera! Era 'lui' che giocava con te".
"Sapevate che stava accadendo tutto questo prima che ve lo dicessi?".
Esitò per un istante prima di rispondere.
"No, ho ricordato, dopo che me lo hai raccontato, la strana maniera in cui guardavi. Sospettavo soltanto che stesse andando bene perché tu non mi sembravi spaventato".
"Il cane ha veramente giocato con me come dicono loro?".
"Maledizione! Non era un cane!".

Giovedì, 17 agosto, 1961
Dissi a don Juan quello che pensavo della mia esperienza. Dal punto di vista del lavoro che intendevo fare era stata disastrosa. Dissi che non mi interessava un altro 'incontro' del genere con Mescalito.
Convenni che tutto quello che era successo era stato più che interessante, ma aggiunsi che nulla in ciò poteva veramente spingermi a ricercarlo di nuovo. Credevo seriamente di non essere tagliato per quel tipo di sforzo. Il peyote aveva prodotto in me, come reazione secondaria, uno strano tipo di disagio fisico. Era un timore indefinito e una indefinita infelicità; una malinconia di un qualche tipo, che non sapevo definire esattamente. E non trovavo alcunché di nobile in quello stato. Don Juan rise e disse: "Stai cominciando a imparare".
"Questo tipo di apprendimento non è per me. Non ci sono tagliato, don Juan".
"Esageri sempre".
"Non è un'esagerazione".
"Lo è. La sola difficoltà è che esageri soltanto gli aspetti sfavorevoli".
"Non ci sono aspetti favorevoli per quel che mi riguarda. Tutto quello che so è che mi fa paura".
"Non c'è nulla di male nell'aver paura. Quando hai paura vedi le cose in modo diverso".
"Ma non mi importa di vedere le cose in modo diverso. Penso che intendo abbandonare lo studio di Mescalito. Non riesco a tenerlo in mano. Per me è veramente una brutta situazione".
"Naturalmente è brutta; anche per me. Non sei il solo a essere sconcertato".
"Perché dovreste essere sconcertato voi, don Juan?".
"Sono stato a pensare a quello che ho visto l'altra notte. Mescalito ha veramente giocato con te. Questo mi ha sconcertato, perché era un'indicazione (presagio)".
"Che tipo di indicazione, don Juan?".
"Mescalito ti indicava a me".
"Perché?".
"In quel momento non mi era chiaro, ma adesso lo è. Voleva dire che tu sei il 'prescelto' (escogido). Mescalito ti ha indicato a me, e nel far ciò mi ha detto che tu eri l'uomo prescelto".
"Volete dire che io sono stato scelto tra altri per un qualche compito, o per qualcosa del genere?".
"No. Quello che voglio dire è che Mescalito mi ha detto che tu potresti essere l'uomo che sto cercando".
"Quando ve lo ha detto, don Juan?".
"Giocando con te me lo ha detto. Questo ti rende per me il prescelto".
"Che cosa vuoi dire essere il prescelto?". ,
"Conosco dei segreti (Tengo secretos). Ho dei segreti che non posso rivelare a nessuno finché non trovo il mio prescelto. L'altra notte quando ti ho visto giocare con Mescalito mi è stato chiaro che tu eri l'uomo. Ma tu non sei un indiano. Che cosa sconcertante!".
"Ma che cosa significa questo per me, don Juan? Che cosa devo fare?".
"Ho deciso, e intendo rivelarti i segreti che costituiscono la fortuna di un uomo di conoscenza".
"Intendete dire i segreti riguardanti Mescalito?".
"Sì, ma quelli non sono tutti i segreti che conosco. Ce ne sono degli altri, di tipo diverso, che vorrei trasmettere a qualcuno. Io stesso ho avuto un maestro, il mio benefattore, e anch'io sono diventato il suo prescelto dopo il compimento di un certo fatto. Mi ha insegnato tutto quello che so".
Gli chiesi ancora quali sarebbero state le esigenze di questo nuovo ruolo; disse che la sola cosa che comportava era imparare, imparare nel senso di ciò che avevo esperimentato nelle due sedute con lui.
La piega presa dalla situazione era ben strana. Avevo deciso di dirgli che intendevo abbandonare l'idea di imparare a conoscere il peyote, ed ecco che, prima che potessi veramente dire quello che intendevo, mi offriva di insegnarmi la sua 'conoscenza'. Non sapevo che cosa intendesse con questo, ma sentivo che questa svolta improvvisa era molto seria.
Dissi che non avevo qualifiche per un compito del genere, in quanto richiedeva un raro tipo di coraggio che io non possedevo. Gli dissi che il mio carattere mi portava a parlare di azioni compiute da altri. Volevo ascoltare i suoi punti di vista e le sue opinioni a proposito di tutto. Gli dissi che potevo essere felice se avessi potuto sedergli accanto e ascoltarlo parlare per intere giornate. Questo, per me, sarebbe stato imparare.
Ascoltò senza interrompermi. Parlai a lungo. Quindi disse:
"Tutto questo è molto facile da comprendere. La paura è il primo nemico naturale che un uomo deve superare lungo il suo cammino verso la conoscenza. Inoltre, tu sei curioso. Questo mette le cose in pari. E imparerai a dispetto di te stesso. Questa è la regola".
Protestai ancora un poco, cercando di dissuaderlo. Ma sembrava convinto che non ci fosse altro che io potessi fare se non imparare.
"Non stai pensando nella maniera giusta", disse. "Mescalito ha veramente giocato con te. È a questo che devi pensare. Perché non ti soffermi su questo invece che sulla tua paura?".
"È stata una cosa così insolita".
"Tu sei la sola persona che io abbia visto giocare con lui. Tu non sei abituato a questo tipo di vita; quindi le indicazioni (i presagi) ti passano accanto senza che tu te ne renda conto. Tuttavia sei una persona seria, ma la tua serietà è attaccata a quello che fai, non a quello che avviene fuori di te. Ti soffermi troppo su te stesso. Questo è il guaio. E questo produce una fatica terribile".
"Ma che cosa altro posso fare, don Juan?".
"Cercare e vedere le meraviglie tutto intorno a te. Ti stancherai di guardare solo te stesso, e quella stanchezza ti renderà sordo e muto per tutto il resto".
"Avete un bel dire, don Juan; ma come posso cambiare?".
"Pensa alla meraviglia di Mescalito che gioca con te. Non pensare anient'altro: il resto verrà da sé".

Domenica, 20 agosto, 1961
Ieri sera don Juan ha cominciato a guidarmi nel regno della sua conoscenza. Sedevamo al buio davanti alla casa. Improvvisamente, dopo un lungo silenzio, cominciò a parlare. Disse che intendeva consigliarmi con le stesse parole che il suo benefattore aveva usato il primo giorno in cui lo aveva preso come suo novizio. Don Juan aveva evidentemente imparato le parole a memoria, perché le ripeté diverse volte, per accertarsi che non ne perdessi nessuna.
"Un uomo va alla conoscenza come va alla guerra, vigile, con timore, con rispetto, e con assoluta sicurezza. Andare alla conoscenza o andare alla guerra in qualsiasi altro modo è un errore, e chiunque lo fa vivrà per rimpiangere i suoi passi".
Gli chiesi perché fosse così, e mi rispose che quando un uomo ha soddisfatto a questi quattro requisiti non ci sono errori che egli debba spiegare; in tali condizioni i suoi atti perdono l'aspetto goffo dell'atto di un folle. Se un tale uomo fallisce, o patisce una sconfitta, avrà perso solo una battaglia, e per questa non ci saranno penosi rimpianti.
Quindi disse che intendeva istruirmi su un 'alleato' nella stessissima maniera in cui gli aveva insegnato il suo benefattore. Diede molto risalto alle parole 'stessissima maniera', ripetendo più volte la frase.
Un 'alleato', disse, è un potere che un uomo può portare nella propria vita per ottenere aiuto, consiglio, e la forza necessaria per compiere azioni, sia grandi che piccole, sia buone che cattive. Questo alleato è necessario per intensificare la vita di un uomo, per guidare le sue azioni, e approfondire la sua conoscenza. In effetti un alleato è un aiuto indispensabile per il conoscere. Don Juan disse questo con gran forza e convinzione. Sembrava scegliere con cura le parole. Ripeté quattro volte la seguente frase:
"Un alleato ti farà vedere e comprendere cose sulle quali nessun essere umano potrebbe forse illuminarti".
"Un alleato è qualcosa di simile a uno spirito custode?". "Non è né un custode né uno spirito. È un aiuto". "Mescalito è il vostro alleato?".
"No. Mescalito è un altro tipo di potere. Un 'potere unico! Un protettore, un maestro".
"Che cosa è che rende Mescalito differente da un alleato?". "Non può essere domato e usato come viene domato e usato un alleato. Mescalito è esterno. Sceglie di mostrarsi in molte forme a chiunque gli stia dinnanzi, senza curarsi se questa persona è un brujo o un garzone di fattoria".
Don Juan disse con profondo fervore che Mescalito era il maestro del giusto modo di vivere. Gli chiesi come Mescalito insegnasse il 'giusto modo di vivere', e don Juan rispose che Mescalito mostrava come vivere.
"Come lo mostra?", chiesi.
"Ha molte maniere per mostrarlo. Talvolta lo mostra sulla sua mano, o sulle rocce, o sugli alberi, o proprio davanti a te".
"È come un'immagine davanti a te?".
"No. È un insegnamento davanti a te".
"Mescalito parla alla gente?".
"Sì. Ma non a parole".
"Come parla, allora?".
"Parla a ognuno in modo diverso".
Sentii che le mie domande lo infastidivano. Non domandai altro. Don Juan proseguì a spiegare che per conoscere Mescalito non esistevano dei passi determinati; quindi nessuno, se non Mescalito stesso, poteva insegnare qualcosa a proposito di se stesso. Questa qualità faceva di lui un potere unico; non era lo stesso per ognuno.
D'altra parte l'acquisto di un alleato richiedeva, disse don Juan, l'insegnamento più preciso e il seguire stadi o passi senza una singola deviazione. Disse che nel mondo ci sono molti poteri alleati del genere, ma che egli ne conosceva bene solo due. E intendeva guidarmi a loro e ai loro segreti, ma spettava a me scegliere uno solo di questi, perché potevo averne uno soltanto. L'alleato del suo benefattore era nella yerba del diablo (erba del diavolo), disse, ma a lui personalmente non piaceva, anche se il suo benefattore gliene aveva insegnato i segreti. Il suo alleato era nel humito (piccolo fumo), disse, ma non si dilungò sulla natura del fumo.
Lo interrogai su di esso. Rimase in silenzio. Dopo una lunga pausa gli chiesi :
"Che tipo di potere è un alleato?".
"È un aiuto. Te l'ho già detto".
"Come aiuta?".
"Un alleato è un potere capace di trasportare un uomo ai confini di se stesso. Questo è il modo in cui un alleato può rivelare cose che nessun essere umano potrebbe".
"Ma anche Mescalito ti porta al di là dei confini di te stesso. Questo non fa di lui un alleato?".
"No. Mescalito ti porta fuori di te stesso per insegnarti. Un alleato ti conduce fuori per darti potere".
Gli chiesi di spiegarmi questo punto più dettagliatamente, o di descrivere la differenza di effetto tra i due. Mi guardò a lungo e rise.
Disse che imparare attraverso la conversazione era non solo una perdita di tempo, ma anche una cosa stupida, perché imparare era il compito più difficile a cui un uomo potesse accingersi. Mi disse di ricordare la volta in cui avevo cercato di trovare il mio posto, e come volessi trovarlo senza fare nessuno sforzo perché mi aspettavo che lui mi fornisse tutte le indicazioni. Se lo avesse fatto, disse, non avrei mai imparato. Invece, sapere quanto fosse difficile trovare il mio posto, e soprattutto sapere che esisteva, mi avrebbe, dato un senso di sicurezza unico. Disse che finché rimanevo attaccato al mio ‘posto giusto’ nulla poteva farmi male fisicamente, perché avevo la certezza che in quel posto mi trovavo nelle mie migliori condizioni. Avevo il potere di allontanare tutto ciò che potesse essermi dannoso. Se, tuttavia, mi avesse detto dov'era, non avrei mai avuto la sicurezza necessaria per proclamarlo come vera conoscenza. La conoscenza, quindi, era davvero potere.
Don Juan disse che ogni volta che un uomo si accinge a imparare deve affaticarsi quanto mi ero affaticato io per trovare il posto, e i limiti del suo imparare sono determinati dalla sua natura. Quindi non vedeva alcuna utilità nel parlare della conoscenza. Disse che alcuni tipi di conoscenza erano troppo potenti per le mie forze, e parlarne mi avrebbe solo nuociuto. Evidentemente pensò che non c'era altro che volesse dirmi. Si alzò e si incamminò verso la casa. Gli dissi che la situazione mi schiacciava. Non era come l'avevo immaginata o come volevo che fosse.
Rispose che le paure sono naturali; che noi tutti le proviamo e che non possiamo farci nulla. Ma d'altra parte, non importa quanto possa essere terrificante imparare, è più terribile pensare a un uomo senza un alleato, o senza conoscenza.

mercoledì 24 ottobre 2012

genio e follia del Tao: uno studio


Tao né soprannaturale né meccanico - V

by Liu Bolin
On the other side, the antimaterialist claims the power of mind over matter.” That quantity can determine pattern is a precise complement for the power of mind over matter, and both are nonsense. The belief that quantities can determine patterns is surprisingly pervasive and influential. It is, of course, a basic premise in contemporary economics and therefore one of the factors which determines international chaos as well as ecological disaster on the home front. I believe that this kind of ascription of the mental to the physical so that the physical becomes now the supernatural contains the ultimate in nonsense. It is now quantities that carry the divine onus of creating pattern – presumably out of nothing. Consider on the other hand the popular verbal cliché “the power of mind over matter.” This little monster contains three combined concepts, “power,” “mind”, and “matter.” But power is a notion derived from the word of engineers and physicists. It is of the same world as the notions of energy or matter. It would therefore be quite consistent and sensible to speak, say, of the poser of a magnet over a piece of iron. All three items – the magnet, the iron, and the power – come out of the same universe of discourse. The magnet and the iron and the power can meet each other in the same statement. But mind, since Descartes split the universe in two, does not belong in that world. So in order to give physical power to mind, we must give it materialistic existence. Alternatively, we might mentalize matter and talk about “the obedience of matter to mind.” One way or another the two concepts must be made to meet in one conceptual world. The phrase “power of mind over matter” does not bridge the gulf between mind and matter, it only invokes a miracle to bring the two things together. And, of course, once a basic contradiction is admitted into a system of explanation, anything is possible. If some x is both equal and unequal to some y, then all x‘s are both equal and unequal to all y‘s and to each other. All criteria of the incredible are lost.
In any case, the combination of the two ideas we have attributed to Descartes blossomed out into an emphasis upon quantity in scientific explanation which distracted men‘s thought from problems of contrast, pattern, and gestalt. The world of Cartesian coordinates relies on continuously varying quantities, and while such analogic concepts have their place in descriptions of mental process, the emphasis on quantity distracted men‘s minds from the perception that contrast and ratio and shape are the base of mentality. Pythagoras and Plato knew that pattern was fundamental to all mind and ideation. But this wisdom was thrust away and lost in the mists of the supposedly indescribable mystery called “mind.” This was sufficient to end systematic investigation. By the middle of the nineteenth century any reference to mind in biological circles was viewed as obscurantism or simple heresy. Notably it was the Lamarckians such as Samuel Butler and Lamarck himself who carried the tradition of mental explanation through that period of quantitative materialism. I do not accept their central thesis about heredity, but they must be given credit for maintaining an all-important philosophic tradition.
Already be the nineteenth century, the biological philosophers, like the engineers and tradesmen, were soaked with the nonsense of quantitative science. Then in 1859, with the publication of Darwin‘s On the Origin of Species, they were given a theory of biological evolution that precisely matched the philosophy of the industrial revolution. It fell into place atop the Cartesian split between mind and matter, neatly fitting into a philosophy of secular reason which had been developing since the Reformation. Inquiry into mental processes was then rigidly excluded – tabooed – in biological circles. In addition to his coordinates and his dualism of mind and matter, Descartes is even better known for his famous sentence, cogito ergo sum: “I think, therefore I am.” We may wonder today exactly what his sentence meant to him, but it is clear that, in building a whole philosophy upon the premise of thought, he did not intend that the dichotomy between mind and matter should lead to an atrophy of all thinking about thought. I regard the conventional views of mind, matter, thought, and materialism, the natural and the supernatural, as totally unacceptable. I repudiate contemporary materialism as strongly as I repudiate the fashionable hankering after the supernatural. However, the dilemma between materialism and the supernatural becomes less cogent when you discover that neither of these two modes, materialism and supernaturalism, is epistemologically valid. Before you jump from the frying pan of materialism into the fire of supernaturalism, it is a good idea to take a long look at the stuff of which material science is made. This stuff is certainly not material, and there is no particular reason to call it supernatural. For lack of a better word let me call it “mental”. Let me start as close to the material as possible and state categorically (and what is a category?) that there is no such thing as, for instance, chlorine. Chlorine is a name for a class and there is no such thing as a class. It is in a sense true, of course, that if you put chlorine and sodium together, you will see a reaction of some violence and the formation of common salt. It is not the truth of that statement that is at issue. What is at issue is whether the statement is chemistry – whether the statement is material. Are there in nature such things as classes? And I submit that there are none until we get to the world of living things.
But in the world of living things, the Creatura of Jung and of the Gnostics, there are really classes. Insofar as living things contain communication, insofar as they are, as be say, “organized;” they must contain something of the nature of message, events that travel within the living thing or between one living thing and others. And in the world of communication,
there must necessarily be categories and classes and similar devices. But these devices do not correspond the physical causes by which the materialist accounts for events. There are no messages or classes in the prebiological universe. We have then to ask, what is a descriptive proposition? And to resolve this question it is reasonable to return to the scientific laboratory and look at what the scientist does in order to make descriptive propositions. His procedure is not too complicated: He devises or buys an instrument to be the interface between his mind and the presumably material world. This instrument is the analog of a sense organ, an extension of his senses. We therefore may expect that the nature of mental process, the nature of perception, will be latent in the instrument used.
This is trivially the case with the microscope. It is less obvious in the case of a balance. If we ask him, the scientist will probably tell us that the balance is a device for measuring weight, but here I believe is the first error. An ordinary beam balance with a fulcrum in the middle of the beam and pans at each end is not primarily a device for measuring weight. It is a device that compares weights – a very different matter. The balance will only become a device for measuring weights when one of the items to be compared has itself an already known (or defined) weight. In other words, it is not the balance but a further addition to the balance that enables the scientist to speak of measuring weight. When the scientist makes this addition, he departs from the nature of the balance in a very profound way. He changes the basic epistemology of his tool. The balance itself is not a device for measuring weights, it is a device for comparing forces exerted by weights through levers. The beam is a lever and if the lengths of the beam on each side of the fulcrum are equal and if the weights are equal in the pans, then it is possible to say there is no difference between the weights in the pans. A more exact translation of what the balance tells us would be: “The ration between the weights in the pans is unity.” What I am getting at is that the balance is primarily a device for measuring ratios, that it is only secondarily a device for detecting subtractive differences; and that these are very different concepts. Our entire epistemology will take different shape as we look for subtractive or ratio differences. A subtractive difference has certain of the characteristics of material. To the language of applied mathematics a subtractive difference between two weights is of the dimension weight (measured in ounces or grams). It is one degree closer to materialism than the ration between two weights which is of zero dimensions. In this sense, then, the ordinary chemical balance in the laboratory, functioning between a man and an unknown quantity of “material,” contains within itself the whole paradox of the boundary between the mental and the physical.
On the one hand it is a sense organ responsive to the nonmaterial concepts of ration and contrast, and on the other hand it comes to be used by the scientist to perceive something he thinks is closer to being material, namely a quantity with real dimensions. In sum, the weighing scale does to (shall I say) truth exactly what the scientist does to the truth of psychological process. It is a device form constructing a science that ignores the true nature of sense organs of any organism, including the scientist. The Negative purpose of this book is to brush away some of the more ludicrous and dangerous epistemological fallacies fashionable in our civilization today. But this is not my only purpose, nor indeed my principal purpose. I believe that when some of the nonsense is cleared away, it will be possible to look at many matters which at present are deemed to be as fuzzy as “mind” and therefore outside the ken of science. Aesthetics, for example, will become accessible to serious thought. The beautiful and the ugly, the literal and the metaphoric, the sane and the insane, the humorous and the serious … all these and even love and hate are matters that science presently avoids. But in a few years, when the split between problems of mind and problems of matter ceases to be a central determinant of what is impossible to think about, they will become accessible to formal thought. At present most of these matters are simply inaccessible, and scientists – even in anthropology and psychiatry – will step aside, and for good reason. My colleagues and I are still incapable of investigating such delicate matters. We are leaded down with fallacies such as those I have mentioned and – like angels – we should fear to tread such regions, but not forever. As I write this book, I find myself still between the Scylla of established materialism, with its quantitative thinking, applied science, and “controlled” experiments on one side, and the Charybdis of romantic supernaturalism on the other. My task is to explore whether there is a sane and valid place for religion, somewhere between these two nightmares of nonsense. Whether, if neither muddleheadedness nor hypocrisy is necessary for religion, there might be found in knowledge and in art the basis to support an affirmation of the sacred that would celebrate natural history. Would such a religion offer a new kind of unity? And could it breed a new and badly needed humility?

Tao né soprannaturale né meccanico - IV

martedì 23 ottobre 2012

101 Tao: 62


62. Nelle mani del destino.

Un grande guerriero giapponese che si chiamava Nobunaga decise di attaccare il nemico sebbene il suo esercito fosse numericamente soltanto un decimo di quello avversario. Lui sapeva che avrebbe vinto, ma i suoi soldati erano dubbiosi.
Durante la marcia si fermò a un tempio shintoista e disse ai suoi uomini: «Dopo aver visitato il tempio butterò una moneta. Se viene testa vinceremo, se viene croce perderemo Siamo nelle mani del destino».
Nobunaga entrò nel tempio e pregò in silenzio. Uscì e gettò una moneta. Venne testa. I suoi soldati erano così impazienti di battersi che vinsero la battaglia senza difficoltà.
«Nessuno può cambiare il destino» disse a Nobunaga il suo aiutante dopo la battaglia.
«No davvero» disse Nobunaga, mostrandogli una moneta che aveva testa su tutt'e due le facce.