Esiste un tempo e un luogo per il controllo, ma se lo poniamo a capo delle nostre vite, finiamo per essere totalmente rigidi. Questa figura è ingabbiata negli angoli delle piramidi che la circondano. La luce brilla e risplende dalle sue superfici lucenti, ma non penetra. È come se fosse praticamente mummificata all'interno della struttura che ha costruito intorno a sé. I pugni sono chiusi, lo sguardo è vuoto, quasi cieco. La parte inferiore del corpo, sotto la tavola, è a punta di spada, una punta tagliente che divide e separa. Il suo mondo è ordinato e perfetto, ma non è viva - non può lasciar spazio ad alcuna spontaneità o vulnerabilità. L'immagine del Re di Nuvole ci ricorda di fare un respiro profondo, allentare la cravatta e prendere le cose alla leggera. Se accadono degli errori, va bene così. Se le cose sfuggono un po' di mano, probabilmente è ciò che il dottore ha prescritto. Nella vita c'è molto, molto di più che avere tutto sotto controllo.
Le persone controllate sono sempre nervose, poiché in cuor loro è ancora nascosto un profondo subbuglio. Se non ti controlli, se fluisci, sei vivo, allora non sei nervoso. Non si pone il problema del nervosismo: ciò che accade, accade. Non hai aspettative per il futuro, non reciti, perché mai dovresti essere nervoso? Per controllare la mente si deve restare così rigidi e freddi da impedire lo scorrere nelle membra e nel corpo di qualsiasi energia vitale. Se permetti all'energia di fluire, quelle repressioni affioreranno. Ecco perché la gente ha imparato a essere fredda, a toccare gli altri senza toccarli veramente, a vedere le persone senza vederle. La gente vive in base a dei cliché: "Ciao, come stai?". Parole prive di significato che servono solo a evitare l'incontro tra due persone. Le gente non si guarda negli occhi, non si tiene per mano, non cerca di sentire l'energia dell'altro, non permette un vicendevole riversarsi nell'altro - terrorizzata, riesce a cavarsela appena, fredda e morta, chiusa in una camicia di forza.
Professore, Lei sostiene giustamente che gli individui hanno bisogno di identità. Però la novità è che, mentre una volta l’identità era una sola, oggi – afferma – si cambia identità più volte nella vita. Secondo Lei, l’identità si rinegozia continuamente. Dunque, l’identità è un processo che non dipende soltanto dalla scelta dell’individuo, ma anche dalla società, perché l’individuo la rinegozia anche a partire dal contesto sociale che lo circonda. Essendo chiamato a cambiare più volte identità nella propria vita, l’individuo incorpora una certa dose di ansia. È inevitabile quest’ansia, secondo Lei? Oppure la rinegoziazione dell’identità potrebbe essere un fatto liberatorio?
È una domanda molto importante, direi cruciale per la nostra situazione contemporanea. L’identità entra nella consapevolezza sociale in tempi molto recenti.
I miei contemporanei non erano affatto preoccupati di queste questioni. In realtà, non so se si siano mai posti il problema o se mai abbiano dovuto rispondere alla domanda: chi sono? La risposta che avrebbero dato sarebbe stata: l’identità è la comunità in cui siamo nati. E la comunità balza alla consapevolezza sociale come un problema laddove la comunità ha perso tante delle sue caratteristiche peculiari, cioè laddove ha perso il suo ruolo lasciando all’individuo il compito di darsi certe risposte. La risposta alla domanda “Chi sono io?” è stata lasciata ai singoli. Oggi gli individui sono chiamati ad autodeterminarsi con le proprie forze.
Non amo molto il concetto di identità, preferisco quello di identificazione perché mette in evidenza il fatto che si tratta di un processo con dei risvolti pratici; un processo costante, senza fine. Citerò Jean Paul Sartre, uno dei filosofi più influenti in Europa. Sartre ci ha spronato a organizzare le nostre vite, insegnandoci che dobbiamo costruire da soli il nostro “progetto di vita”. Fatto questo, tutto il resto è semplice. Perché per qualunque forma di vita l’appartenenza, per esempio, a una classe sociale – quella borghese, quella dei lavoratori… – fornisce un codice di comportamento che si può imparare a memoria. Questo codice di comportamento, queste istruzioni, questi consigli, cambiano costantemente di giorno in giorno. L’oggi è completamente diverso da ieri. Quindi il processo di identificazione deve essere portato avanti. Non si tratta solo di identificazione, ma piuttosto di riidentificazione. Per questo nei miei libri ho parlato di una modernità liquida.
E perché parlo di liquidità? Voi sapete bene quali sono le caratteristiche dei liquidi: si distinguono per una caratteristica fondamentale, e cioè non conservano la stessa forma per troppo tempo, hanno la tendenza a cambiare di continuo. Possono condensarsi – in un contenitore assumeranno una certa forma – ma possono anche fuoriuscire. Cambiano, e l’impatto è imprevedibile. L’obbligo di ri-identificazione porta a uno stato di ansia acuta. Due sono gli aspetti fondamentali: l’uno attraente, l’altro invece molto doloroso. L’elemento attraente di questa dinamica è che questa situazione non è determinata, non è pienamente definita, quindi è aperta a esiti inattesi, e c’è soprattutto l’opzione di scelta. C’è dunque la prospettiva di poter cambiare la propria condizione, di migliorarla. D’altro canto, nella stessa situazione ci si sente molto a disagio, si ha una sensazione di incertezza, di insicurezza personale, perché non si può prevedere il futuro. I grandi cambiamenti degli ultimi cento anni erano imprevisti e inattesi. Il collasso del sistema dei crediti, per esempio, non era previsto. Ci confrontiamo quindi con un costante senso di inconsapevolezza, non solo perché i grandi eventi sono imprevedibili, ma perché la nostra stessa vita quotidiana non può essere facilmente prevista: per esempio, l’azienda per la quale lavorate e da cui dipende il vostro sostentamento quotidiano potrebbe fondersi con un’altra azienda e quindi chiudere i cancelli del vostro stabilimento e spostarsi in un altro paese in cui ci sono più prospettive di guadagno e più vantaggi.
Pensate al vostro compagno o alla vostra compagna di vita, o a un amico o un’amica. Un mio caro amico inglese, Anthony Giddens, un altro sociologo, ha coniato il concetto di relazioni pure, esaltando la libertà di scelta. Abbiamo quindi relazioni pure, a cui non è connessa alcuna forma di vincolo. Le persone, cioè, decidono di formare una coppia o un rapporto perché si aspettano delle gratificazioni, ma nessun altro impegno è implicato in questa scelta. È un lusso di cui i nostri antenati non hanno mai potuto godere. Questa “purezza” di rapporti senza impegno ha creato però una situazione di forte ansia. Per poter stabilire dei rapporti puri abbiamo bisogno di due persone, mentre per poter infrangere questo rapporto ne basta una. Quindi, se una delle due persone è sufficiente per rompere il rapporto, le due persone vanno a letto la sera svegliandosi al mattino con un senso di paura: che cosa deciderà il mio partner? si sarà stancato? C’è dunque una persona che ha un ruolo preminente rispetto all’altra: di nuovo, l’incertezza. Oltre a questa incertezza, c’è un altro flagello: la sensazione di impotenza. Se anche potessimo prevedere quello che succederà, saremmo incapaci di agire per contrastare questa evoluzione. Non abbiamo il potere, non abbiamo la forza di farlo. Questa è la ragione per cui la negoziazione dell’identità, oggi, è un processo senza fine.
Da: Vite liquide: vivere felici e moderni, Padova, 27 maggio 2011
L’Etica degli Affari nella Modernità Liquida
“L’etica ha bisogno del sentimento di appartenenza comune,
di solidarietà, di una responsabilità mutua
che ci faccia prendere consapevolezza di questa responsabilità.”
…
La modernità nasce sotto il segno della managerialità: le cose devono cambiare e un nuovo ordine, diverso dall’esistente, deve essere edificato (diverso, non migliore, sebbene ogni manager possa essere convinto di lavorare per quello migliore).
È così che due giovanotti di 22 e 27 anni, dalla loro casa sul Reno, scrissero il “Manifesto del partito comunista”, osservando le magnifiche forze della borghesia all’opera per “sciogliere” tutto quanto era solido, per rimpiazzarlo con qualcos’altro. Quello che quei due giovanotti non dissero, e non potevano dire perché avrebbero dovuto aspettare altri 130 anni, è che quello “scioglimento” era diverso da quello che è in corso ai giorni nostri. Lo scioglimento della modernità solida non era infinito: aveva un principio e una fine, era un processo necessario alla creazione di un altro ordine.
Gli imprenditori, i manager di allora scioglievano i solidi non tanto perché a loro non piacessero, quanto perché non erano abbastanza solidi e quindi andavano rimpiazzati con altri che potessero durare per sempre e fossero perfetti. La perfezione era dunque uno stato nel quale qualsiasi cambiamento sarebbe stato un peggioramento. Nessun miglioramento sarebbe stato più possibile: la modernità solida era tutta concentrata nella costruzione dell’ordine perfetto. Il mondo era visto come un ammasso di problemi da risolvere: se c’erano mille problemi, ogni problema risolto significava un problema in meno da risolvere. La modernità è dunque “solida” se agisce per creare altri solidi che non si possano sciogliere. Nella scienza e in ogni altro campo d’indagine è possibile scoprire ogni segreto dell’universo affinché l’ordine costituito sia perfetto e indistruttibile. Funzionale a questa visione era un’idea di etica basata su diritti e doveri duraturi, se non eterni, almeno lunghi quanto il proprio tempo di vita, che permettessero a ciascuno di elaborare un progetto di vita. Una volta che si fosse avuto un tale progetto, ogni passo per realizzarlo diveniva chiaro. A un ventenne di oggi tutto ciò pare comico e impossibile, gli sembrerebbe tanto avere un progetto per il prossimo anno. Un tempo un lavoratore della Ford, la fabbrica paradigmatica del periodo “solido”, poteva considerarsi tale a vita. Oggi, un giovane sogna di andare a lavorare nella Silicon Valley, oppure per Bill Gates, dove guadagnerà una fortuna ma non sarà in grado di prevedere i possibili sviluppi del suo lavoro, del suo ruolo come lavoratore, negli anni successivi.
Cos’è cambiato? Nella modernità solida era innanzitutto il capitale a essere solido. Non solo le fabbriche non potevano essere trasportate ma gli stessi capitalisti dipendevano per la loro fortuna dai lavoratori. Lavoratori e capitalisti erano legati indissolubilmente fra loro e al territorio. Era come nella formula matrimoniale “finché morte non ci separi.”
Perché la vita fosse sopportabile, bisognava trovare un modus vivendi valido per ogni componente dell’unione. Per questo motivo, la modernità solida fu un tempo di conflittualità incredibilmente bassa; si cercava piuttosto la continua stipula di accordi.
Un importante sociologo ha scritto che la vita di fabbrica tendeva a decomporre le capacità individuali ma, allo stesso tempo, rafforzava le capacità sociali. Tutte le invenzioni del tempo erano soggette alla stessa logica.
…
Da: “L’etica degli affari nella modernità liquida”, 27 marzo 2004, Milano.
Jeroen Anthoniszoon van Aken detto Hieronymus Bosch, il Maestro di Hertogenbosch Nave dei folli olio su tavola, 1494 Musée du Louvre, Paris
Angels Fear Revisited: Gregory Bateson’s Cybernetic Theory of Mind Applied to Religion-Science Debates
Mary Catherine Bateson
Bateson and Religion
Gregory used to quote Kipling’s lines, “There are nine and sixty ways of constructing tribal lays, And—every—single—one—of—them—is—right.”. That is, I think, a fairly interesting way of talking about religion: to say that there is something that human religions are trying to get at that matters. And they get at some of it in many different ways which include vast amounts of nonsense, much of it dangerous, but we perhaps do not yet have a better way of getting at it, whatever it is. For Gregory, that something could be approached by describing mind in cybernetic terms and recognized aesthetically in the similarities of living systems, the pattern that connects.
Gregory was profoundly ambivalent about what we generally call religion, but deeply concerned with the alienation created by the Cartesian mind–body partition that has been so liberating for science and yet leads to a whole series of isomorphic dualisms separating the sacred from the secular and our species from the rest of nature . He said that he “had always hated muddle-headedness and always thought it was a necessary condition for religion”. He grew up exposed to religious texts, reading the Bible in order – it was hoped – to avoid “empty-headed atheism”, and exposed to the art that surrounds religion, great master drawings and above all the works of William Blake collected by his father. There was an extraordinary Blake water color of “Satan Exulting over Eve” hanging in the dining room in his childhood (now in the Tate Gallery in London).
According to David Lipset, William Bateson, the pioneering geneticist who was Gregory’s father, was not a great student of the prophetic books of Blake – but Gregory went on to read them and other religious texts and poetry, puzzling over the content as well as the aesthetic value. Gregory grew up in a family that sturdily insisted that orthodox religion was nonsense, and at the same time he was stimulated by exposure to religious images, metaphors and poetry that demanded a different kind of understanding.
Gregory planned the book that became Angels Fear to discuss religion and aesthetics as ways of knowing that might prove to be indispensable to human survival and to that recognition of the larger interactive system of the biosphere he called wisdom. “The sacred (whatever that means) is surely related (somehow) to the beautiful (whatever that means)”. For him, as a scientist, to begin to talk about religion and aesthetics was to step onto dangerous ground – Where Angels Fear to Tread – places he felt it was essential to venture, but where he was going to get into trouble with his colleagues, and he knew it. Yet the exclusion of certain ideas – the Cartesian partition of ways of knowing – seemed to him damaging.
"Il cuore della saggezza" (o Sutra del cuore della perfezione della saggezza, più brevemente Sutra del cuore; datazione incerta, posteriore al I secolo d.c.; si ha menzione di una versione cinese circa del 200-250 d.c., di probabile origine indiana) é uno dei più conosciuti e popolari sūtra del buddhismo Mahāyāna. E' un breve testo nella forma di un dialogo spontaneo tra il bodhisattva-mahāsattvaAvalokiteśvara e l'arhatŚāriputra in presenza del Buddha (qui nominato come "il Vittorioso"). Il testo discute della vacuità - assenza di una propria intrinseca natura - dei cinqueaggregati (skandha) costituenti ogni persona.
Così ho udito una volta. Il Vittorioso si trovava a Rajagrha sul Picco dell’Avvoltoio insieme ad una vasta comunità di monaci e ad una vasta comunità di bodhisattva.
In quell’occasione, il Vittorioso stava serenamente assorto nella meditazione sulle varietà dei fenomeni detta “Visione profonda”. E contemporaneamente il bodhisattva-mahasattva nobile signore Avalokitesvara – praticando completamente la profonda Perfezione della Saggezza – vedeva i cinque aggregati mondani e vedeva che essi erano totalmente vuoti di una propria intrinseca natura.
Allora, grazie al potere del Buddha, il venerabile Sariputra disse queste parole al bodhisattva-mahasattva nobile signore Avalokitesvara: “Quale metodo dovrà apprendere un figlio di nobile lignaggio che desideri impegnarsi nella pratica della profonda Perfezione della Saggezza?”
A queste parole, il bodhisattva-mahasattva nobile signore Avalokitesvara così rispose al venerabile figlio di Saradvati:
“Sariputra, un figlio o una figlia di nobile lignaggio che desideri impegnarsi nella pratica della profonda Perfezione della Saggezza, dovrebbe riflettere esattamente in questo modo: vedere che i cinque aggregati stessi sono completamente vuoti di una propria intrinseca natura.
La forma è vuota, la vacuità è forma. La forma non è diversa dalla vacuità, e la vacuità non differisce dalla forma. Di tale natura sono anche la sensazione, la discriminazione, le formazioni mentali e la coscienza.
Similmente, Sariputra, tutti i fenomeni sono vuoti, sono privi di caratteristiche, non nascono e non cessano, non sono contaminati né privi di contaminazione, non diminuiscono né aumentano.
In tal modo, Sariputra, in (termini di) vacuità non esiste forma né sensazione né discriminazione né formazione mentale né coscienza; né occhio né orecchio né naso né lingua né corpo né mente; né forma visiva né suono né odore né sapore né sensazione tattile né oggetto mentale; né sfera visiva e (così via) fino a quella mentale e a quella della coscienza mentale. Non esiste l’ignoranza, né l’estinzione dell’ignoranza e così via fino alla vecchiaia-e-morte e all’estinzione di vecchiaia-e-morte.
Di tale natura (vuota) sono anche la sofferenza, l’origine, la cessazione ed il sentiero.
Non vi è saggezza né realizzazione né mancanza di realizzazione.
In questo modo, Sariputra, a causa della mancanza di realizzazioni, tutti i bodhisattva si basano fermamente sulla Perfezione della Saggezza, senza oscurazioni mentali, senza paura; essi trascendono realmente ogni azione erronea ed alla fine raggiungono il nirvana.
Tutti i buddha che dimorano nei tre tempi sono divenuti buddha perfetti dell’insuperabile, completa e perfetta Illuminazione basandosi fermamente sulla Perfezione della Saggezza.
Perciò, il mantra della Perfezione della Saggezza – il mantra della grande conoscenza, il mantra insuperabile, il mantra uguale all’ineguagliabile, il mantra che placa veramente ogni sofferenza – va davvero considerato come non ingannevole e saggio.
Viene enunciato il mantra della Perfezione della Saggezza:
Sariputra, è così che i bodhisattva-mahasattva insegnano la profonda Perfezione della Saggezza.”
In quel momento, il Vittorioso – riemergendo dalla profonda concentrazione – lodò in questo modo il bodhisattva-mahasattva nobile signore Avalokitesvara per avere bene agito: “Bene, bene! è così, figlio di nobile lignaggio; è così, figlio di nobile lignaggio. Praticando in tal modo la profonda Perfezione della Saggezza, si diventa realizzati. Per questo, tutti i Tathāgata si rallegrano.”
A queste parole del Vittorioso, il venerabile figlio di Saradvati, il bodhisattva-mahasattva nobile signore Avalokitesvara, l’intero sèguito e il mondo dei deva, degli uomini, degli asura e dei gandharva si rallegrarono e lodarono le parole del Vittorioso.
Qui si conclude il cuore della nobile Perfezione della Saggezza.
Oh Shariputra, la forma non è che vuoto, il vuoto non è che forma;
ciò che è forma è vuoto, ciò che è vuoto è forma;
lo stesso è per sensazione, percezione, discriminazione e coscienza.
Tutte le cose sono vuote apparizioni, Shariputra.
Non sono nate, non sono distrutte, non sono macchiate, non sono pure;
non aumentano e non decrescono.
Perciò nella vacuità non c'è forma né sensazione, né percezione, né discriminazione, né coscienza;
Non ci sono occhi né orecchi, naso, lingua, corpo, mente;
Non ci sono forma né suono, odore, gusto, tatto, oggetti;
né c'è un regno del vedere,
e così via fino ad arrivare a nessun regno della coscienza;
non vi è conoscenza, né ignoranza,
né fine della conoscenza, né fine dell'ignoranza,
e così via fino ad arrivare a né vecchiaia né morte;
né estinzione di vecchiaia e morte;
non c'è sofferenza, karma, estinzione, via;
non c'è saggezza né realizzazione.
Dal momento che non si ha nulla da conseguire, si è un bodhisattva.
Poiché ci si è interamente affidati alla prajna paramita,
la mente non conosce ostacoli;
dal momento che la mente non conosce ostacoli
non si conosce la paura, si è oltre il pensiero illusorio,
e si raggiunge il Nirvana.
Poiché tutti i Buddha
del passato, del presente e del futuro
si affidano interamente alla prajna paramita, conseguono la suprema illuminazione.
Sappi dunque che la prajna paramita è il grande mantra,
il mantra più alto,
il mantra supremo e incomparabile,
capace di placare ogni sofferenza.
Ciò è vero.
Non è falso.
Perciò io recito il mantra della prajna paramita,
Che dice:
Gate, gate, paragate, parasamgate, bodhi, svaha!
(andate, andate, andate insieme all'altra sponda, completamente sull'altra sponda, benvenuto risveglio!)
Sono morta, si disse Makina quando tutto davanti a lei si imbizzarrì: un uomo con il bastone attraversava la strada, all’improvviso uno schianto secco spaccò l’asfalto, l’uomo rimase come in attesa che gli ripetessero una domanda mentre il suolo si spalancava sotto i suoi piedi: inghiottì l’uomo, e con lui un’auto e un cane, tutto l’ossigeno nell’aria attorno e persino le urla dei passanti. Sono morta, si disse Makina, e appena lo ebbe mormorato tra sé, il corpo reagì alla sentenza e si mise a sbattere disperatamente i piedi all’indietro, ogni passo a pochi centimetri dal precipizio, finché la voragine divenne un cerchio perfetto e Makina fu in salvo.
Maledetta città infida, pensò, sempre sul punto di finire sottoterra.
Era la prima volta che le toccava quel delirio tellurico. La Cittadina era crivellata di gallerie e buchi scavati nell’arco di cinque secoli di voracità mineraria per colpa dell’argento e ogni tanto qualche malcapitato scopriva a proprie spese come fossero stati ricoperti alla meno peggio. Alcune case avevano già traslocato nell’aldilà, assieme a un campo di calcio e mezza scuola, fortunatamente vuota. Certe cose succedono sempre agli altri, finché non succedono a te, pensò. Gettò un’occhiata alla voragine, provò compassione per lo sventurato finito all’altro mondo, Buon viaggio, disse senza alcuna ironia, poi mormorò: Sarà meglio che mi sbrighi a fare questa commissione.
Il senso di insoddisfazione che deriva dal distacco degli approccicognitivista ed emergentista alla cognizione dall'esperienza diretta pone le basi per una rifondazione del cuore delle teorie e modelli delle scienze cognitive: il concetto di "rappresentazione":
Steps to a Middle Way
The Cartesian Anxiety
A Sense of Dissatisfaction
Why should it be threatening to question the idea that the world has pregiven properties that we represent? Why do we become nervous when we call into question the idea that there is some way that the world is “out there," independent of our cognition, and that cognition is a re-presentation of that independent world?
Our spontaneous and unreflective common sense would deny that these questions are scientific, perhaps by thinking, “How else could the mind and the world be related?” The realist in us claims that our questions are simply “phiiosophical"-a polite way of making them seem interesting, yet also irrelevant. It is true. that they are partly philosophical, but we can also rephrase them as questions in cognitive science. What actually is the scientific basis for the idea that the mind is some kind of information-processing device that responds selectively to pregiven features of the environment? Why do we assume that cognitive science cannot call into question these notions of representation and information processing not just philosophically but in its day-to-day research?
To think that we cannot raise such issues is a blindness in contemporary common sense, deeply entrenched in our Western tradition and recently reinforced by cognitivism. Thus even when the very ideas of representation and information processing change considerably, as they do in the study of connectionist networks, self-organization, and emergent properties, some form of the realist assumption remains. In cognitivism, the realism is at least explicit and defended; in the emergence approach, however, it often becomes simply tacit and unquestioned. This unreflective stance is one of the greatest dangers facing the field of cognitive science; it limits the range of theories and ideas and so prevents a broader vision and future for the field.
A growing number of researchers in all areas of cognitive science have expressed dissatisfaction with the varieties of cognitive realism. This dissatisfaction derives from a deeper source than the search for alternatives to symbol processing or even mixed "society of mind" theories: it is a dissatisfaction with the very notion of a representational system. This notion obscures many essential dimensions of cognition not just in human experience but when we try to explain cognition scientifically. These dimensions include the understanding of perception and language, as well as the study of evolution and life itself.
Our discussion so far has focused on linking the two poles of science and human experience. This part will continue this task, but by developing a nonrepresentationist alternative from within the heart of cognitive science. We now need to pause and reflect on the scientific and philosophical roots of the very idea of representation. We are thinking not merely of the current notions in cognitive science of computation and information processing but of the entire philosophical tendency to view the mind as a "mirror of nature."
Giorgio: "Il Grande Fratello" ha fatto 16 milioni di ascoltatori e questo lo hai visto: tu non credi che i colpevoli, che sono Gori, gli inventori, gli autori, coinvolgano la gente a tirar fuori il loro peggio ma che un bisogno di senso la gente ce l'abbia ancora? Adriano: Ma guarda che io non ne dubito affatto, anzi sono convinto che quella che chiamiamo la "gente" sia come noi; questo che tu dici bisogno di senso, piacere nel trovare un senso alla propria vita e al rapporto con gli altri, sia la cosa che anima le persone, comprese le stronzate. Guarda, io che sono un moderato disfatto… Giorgio: Un moderato disfatto? Adriano: Sì, in via di disfacimento; che ci fossero delle cose che facessero simpatia anche nel "Grande Fratello", dei meccanismi che nonostante la formula, che era veramente tesa a far dare alle persone il peggio di sé, e questo lo si vede praticamente quando le persone escono e nelle orrende trasmissioni televisive cui partecipano sono già migliori di se stessi dentro la casa. Quello è il meccanismo della cosa, un esperimento sadico che altrove solo gli psicologi hanno fatto chiudendo le persone in laboratorio, e che ora diventa la cosa cui aspirano tutti i ragazzi. Per esempio in galera, che è un posto così abominevole che qualunque attenuazione del rifiuto di questo posto, del disprezzo assoluto, dell'odio assoluto per questo posto, qualunque uso metaforico della galera vanno combattuti. Io sono qui dentro da quattro anni, con una pausa di qualche mese durante il quale ho vissuto il processo che è ancora peggio che stare qui, perché aspettavo sempre una tappa invece adesso ho chiuso: nei rapporti interni ad un posto come questo, tutti da quelli con i carcerieri, a quelli naturalmente con i carcerati, con questa popolazione che è una specie di deposito di feccia finale del bicchiere, i malati gravi, i ragazzi italiani tossicomani, i cosiddetti extracomunitari, giovani, poveri, senza nessuno, senza avvocati, c'è una specie di dimostrazione in negativo di che cosa potrebbe essere la vita delle persone in situazioni in cui la vita sembra pregiudicata, senza scampo. In tutti gli ultimi anni della mia vita ho fatto, un po' per scelta e un po' per costrizione, comunella con persone che si trovavano in questa situazione: ho passato tre anni a Sarajevo, un lungo periodo in Cecenia, poi sono stato in posti meno tragici ma simili. Dunque con persone la cui vita era destituita di ogni dignità proprio dalle radici minime, materiali, alimentari, sanitarie, igieniche, la cui incolumità personale era messa a repentaglio momento dietro momento; anche qui dentro. E contemporaneamente persone nei cui comportamenti, nei cui pensieri e nella cui condizione c'è l'eventualità che la vita sia altra, che una specie di chiarezza maggiore su come potrebbe essere la vita emerge fortissima, che è la ragione per cui uno ci va volentieri, tranne la galera ovviamente. Il mio era un privilegio, io andavo in questi posti con un biglietto di ritorno in tasca, mentre qui c'è solo l'entrata. Giorgio: Per questa gente è normale che ci sia la ricerca di un senso, però anche quelli che hanno goduto al "Grande Fratello" hanno bisogno di dare un senso alle cose, e sentono che il "Grande Fratello" non ha senso. Adriano: Non so se lo sentono. Il mondo in cui noi siamo accontenta le persone persino imponendo dei desideri di cui poi si accontentano, desideri deviati, fessi, ottusi; però appena arriva una minaccia seria allora torna una specie di superstizione. Io a volte considero superstiziosi anche loro, questi nostri amici: questa specie di combinazione squadernata delle ultime pagine della rivista "Re Nudo", questo mercatino di tutte le cose collegate tra loro per rappresentare una vita alternativa, delle abitudini alternative, una cultura alternativa; anche questa a volte mi sembra "superstiziosa". Certo la più benevola nei confronti del proprio prossimo, quindi la meno incriminabile. Gli animali umani sono sempre, come diceva il tragico greco, meravigliosi e orribili. La vera differenza sta nel fatto che noi ad un certo punto abbiamo pensato che si potesse scegliere un corno del dilemma e darsi da fare perché le cose fossero meravigliose, rifiutandone l'orribilità. Dopodiché, forse per ragioni di pura fisiologia, come sostiene qualcuno, forse per ragioni molto più ragionevoli, come io penso, purtroppo abbiamo dovuto accorgerci che bisogna scegliere aggettivi meno estremi, misure più premurose, più affabili, persino che limitassero il danno piuttosto che cercarne il massimo. Il punto mi pare è che quando si rinuncia alla rivoluzione, come io ho fatto avendovi molto investito e contando veramente di farla, avrei dato la vita, come si dice (e in un certo senso l'ho data ma con una scadenza sbagliata!)… Giorgio: Ma tu hai pensato veramente che si facesse la rivoluzione? Adriano: È difficile dire; c'è una cosa che scrivevo l'altro giorno a Guido Viale. A quell'epoca noi non avremmo potuto discutere una domanda come quella che stai ponendo adesso tu, era una specie di tabù perché non l'avremmo discussa tra noi e noi, cioè avremmo represso dentro di noi il dubbio che non si dovesse fare la rivoluzione. Questa era la premessa, dopo di cui veniva il decalogo dei comandamenti. Ciascuno, ancora di più noi che eravamo i cosiddetti leader, io poi ero uno di una sicurezza straordinaria, ero l'incarnazione fisica e simbolica della rassicurazione data ad altri ma naturalmente dentro di me sentivo fortissimo questo peso ottundente della responsabilità e naturalmente del dubbio, cercava di essere all'altezza del ruolo, ma anche che la cosa fosse all'altezza di se stessa. Dicevo che Guido Viale mi ha mandato una cosa da leggere, lui è sempre molto intelligente, uno dei più bravi e poi gli voglio molto bene, una sorta di memoria di tutta la sua vita, bella: mi è tornato in mente che una delle rarissime volte, ma anche con Mauro Rostagno una volta successe (erano poche le persone con cui poteva succedere allora), che una notte alla fine di chissà quale impegno di questi che ci tenevano a fare gli straordinari (la nostra vita era un unico straordinario), eravamo rimasti, non so perché se per qualche macchina che ci aveva dimenticati o benzina che non c'era, seduti sul bordo di un marciapiede sfiniti, io e lui. Un po' prima dell'alba, in una città vuota, mi ricordo che, non so per iniziativa di chi, credo mia, quella volta esplicitamente noi ci siamo detti: ma può succedere veramente questa cosa? Dopo non siamo andati molto avanti, però la cosa era stata detta, il seme della dissoluzione era stato non gettato ma era caduto lì. Giorgio: Io ho sempre avuto un'idea diversa, io non ho mai pensato alla rivoluzione, ho sempre pensato ad una rivoluzione culturale, questo mi aveva affascinato di voi, essendo un po' più grande, io mi ero accostato e voi eravate già partiti. La cosa che più mi aveva affascinato era l'atteggiamento mentale diverso rispetto al resto e quindi pensavo che questo avrebbe cambiato le cose. Majid: Però scusa, questo c'è stato: adesso è finito, però ha influenzato e modificato una generazione. Adriano: Sì, però modificato non vuol dire la rivoluzione; la rivoluzione a cui noi pensavamo era accontentarci, postumamente, dei cambiamenti che ci sono stati e che spesso sono avvenuti nonostante noi. Per esempio i cambiamenti nella vita sessuale, nelle libertà: noi eravamo contemporaneamente molto più liberi della società in cui ci muovevamo, ma molto più pieni di pregiudizi di qualunque persona venuta da altre esperienze o arrivata dopo. Io sono contrario ad abbellire le cose, per esempio per quel che riguarda me, che ero pieno di pregiudizi, ma la cosa principale è che noi veramente pensavamo alla rivoluzione come ad una radicale conversione: quando noi diciamo l'"Uomo Nuovo", come diceva peraltro mezzo socialismo internazionale usando un linguaggio tipicamente cristiano di rinascita, di rinnovamento, di conversione, cioè un mutamento radicale di sé, era una cosa in cui credevamo fortissimamente. Noi pensavamo davvero che il mondo, e noi stessi con lui, potessero essere rifatti da capo a fondo; e questa è una cosa tipica delle esperienze rivoluzionarie e di rinnovamento radicale che ciclicamente si sono presentate. Quando tu scopri che questa cosa non solo non succede ma rischia di provocare dei guai disastrosi, cioè che un'utopia così forte rischia di tramutarsi in una cosa violenta, totalitaria, in una sopraffazione, in una perdita di sé, il rischio è che tu tramuti in buon senso questa specie di ragionevolezza anti chirurgica che ti prende ad un certo punto, omeopatica, cauta, circospetta, perché sei un convalescente. Il rischio è che questa convalescenza, assolutamente salutare, necessaria, si tramuti a sua volta in un eccesso, in troppa grazia; e cioè che ci faccia accettare l'assurdità del mondo così com'è. Il mondo così com'è è assolutamente intollerabile, se tu ci pensi per due ore di seguito diventi matto, devi interrompere ogni cinque minuti, la fame nel mondo, i bambini, l'Africa, l'aids, le guerre: puoi prenderne solo un pezzetto e amministrarlo nella tua vita normale in questa parte del mondo perché altrimenti puoi solo darti fuoco oppure correre nudo con la dinamite intorno alla pancia contro un sottosegretario. Io temo che in questa convalescenza molti abbiano lasciato le penne, in un certo senso anch'io forse in una certa misura. Giorgio: Siamo guariti insomma… Adriano: Siamo guariti a tal punto da diventare rassegnati apologeti; io voglio bene anche a quelli di bocca buona e i più facili, quelli più amaramente rassegnati a questo, persone così spaventate della chirurgia da non accettare di operarsi nemmeno quando non riescono più a muoversi. Quando tu descrivi il mondo, come hai cominciato a fare quasi per scherzo adesso qui, e lo descrivi facendo due passi di lato e vedendo a quale punto di assurdità, di iniquità, di violenza, di sofferenza è arrivata la macchina che nessuno più guida (perché tu puoi dire le multinazionali, puoi dire Clinton, puoi dire Bush, ma non la guida nessuno), una macchina la cui inerzia è superiore a qualunque capacità non solo di controllo ma anche di comprensione, e contemporaneamente sai che se affronti questo problema, se dichiari in tutta la sua portata la malvagità e la perversione del mondo così come va, ti privi della possibilità di mettere un po' di riparo alle cose che hai di fronte. Cioè sei rimesso di fronte all'eventualità della rivoluzione avendo scoperto che non funziona, che non ce la fa, perché questa forza d'inerzia della macchina che fa sì che altri allegramente trascinati verso l'abisso proprio ma soprattutto altrui, è una forza d'inerzia superiore alla tua stessa capacità di guidarla da un'altra parte. Dunque una generazione come la nostra, la generazione dei viventi di oggi in questa misura spropositata, superiore, dicono, all'esistenza di tutte le generazioni precedenti (quando si fa il giudizio universale i vivi sono più di tutti i morti che sono venuti prima) non può porsi nei confronti del destino della terra, di se stessa, degli altri animali se non il fine della riparazione. Cioè non può immaginarsi né soluzioni dei problemi, né ricreazioni, né rivoluzioni, mentre questo mondo, questa macchina, nel suo percorso centrale ha trovato la propria parola d'ordine invincibile e trionfale nella "rottamazione". La rottamazione è esattamente il contrario, tu pigli e butti via, aumenti la discarica che si sta ingrandendo e mangiando quella parte che non è di discarica, a scapito della riparazione. Io sono uno, alla mia età, che ha memoria e immediatamente nostalgia per il calzolaio che risuola le scarpe, della vecchia automobile (io non ho mai avuto la patente) scassata e riparata con i pezzi di ricambio trovati dallo sfasciacarrozze. Leggevo oggi sul "Sole 24 ore" (non perdo niente qua dentro, non ho più la cultura ma ho una quantità di notizie vertiginosa, chiuso in quella cella) le notizie sulle vendite di automobili in Italia, che ha superato tutti i record nell'anno trascorso; è abbastanza impressionante ma il mercato dell'usato è ormai ridotto al lumicino e tutti quanti comprano auto nuove: e c'è una crescita di cilindrata, di velocità, poi tutti fermi per 130 chilometri. Io con le auto non ho avuto bisogno di pentimenti perché non ho mai cominciato la carriera, ero felicissimo quando noi bloccavamo la carriera. Questa è la cosa: un mondo assolutamente pieno dalla nostra parte; noi abbiamo la caduta demografica ma quello è un criterio assolutamente sbagliato per valutare il rapporto fra esseri e spazi a loro destinati. Noi abbiamo un incremento di automobili che è la vera natura della nostra longevità e caduta di natalità; abbiamo due automobili a testa, ferme, che occupano spazio, e contemporaneamente cessiamo di riparare l'automobile precedente anche se è ancora nuova e può andare per altri 300.000 chilometri, troviamo tutti gli argomenti, gli sconti favorevoli alla rottamazione e all'acquisto di nuove auto. Giorgio: Quindi la "rottamazione" in contrapposizione alla "riparazione". Adriano: Secondo me sono i due criteri opposti della vita di ciascuno di noi; naturalmente si applica anche a noi, che possiamo personalmente essere rottamati (come succede ad una grandissima parte della popolazione umana mondiale) cioè buttati via, calpestati, ridotti ad un pacchettino perché non ingombri e sostituito da un altro. Per esempio la tecnica dei trapianti: è promettente, non me la sento di prendermela con gli studi sul genoma che permetteranno di superare le malattie genetiche (ho delle persone care che potrebbero essere curate con queste cose qui; il papa se gli dicono che con le cellule embrionali del nostro fratello surgelato si potrebbe risolvere il Parkinson pensi che non ci penserebbe? Io ci penso per lui). Dunque la rottamazione è il criterio vincente di una società che sa benissimo che moltiplicare per il numero dei cinesi l'esistenza di automobili, ferme in parcheggio o ferme in coda, significa immediatamente la fine del mondo. In Cina, che forse sono un miliardo e trecento milioni, ma forse di più, come dicono altri, perché non si fa il censimento da tempo e perché da tempo è del tutto occultata la presenza di neonati per via di questa tassa anti crescita demografica, da una decina di anni a questa parte hanno cominciato ad essere applicati nei centri metropolitani i divieti alla circolazione delle biciclette perché intralciano il traffico automobilistico. Questo per dire che questa assurdità o la guardi in faccia e allora puoi solo ritirarti, impazzire, morire, diventare santo, qualunque cosa, fare come te un concerto dei tuoi, sostanzialmente diventare matto, oppure non la guardi in faccia e fai il tuo pezzo di cosa, ripari il tuo pezzetto di cosa. Giorgio: Ti aggiusti. Adriano: Ti aggiusti, salvi la vita di quello, adotti quell'altro, disinfetti le ferite. Secondo me il problema della rivoluzione era questo. Per questo io penso che siamo stati l'ultima generazione, tra l'altro attardata, che ha potuto desiderare la rivoluzione, e immaginarsi il cambiamento in forma di rivoluzione. Giorgio: Scusa se torno su questo argomento, ma tu non ha la sensazione che il Movimento parta non legato alla rivoluzione marxista, ma parta abbastanza spontaneamente antiautoritaristico, anticonsumistico e poi diventi decisamente di sinistra? Adriano: Essere di sinistra allora era abbastanza automatico, ma è ovvio che non eri marxista. Giorgio: Ma il tuo comunismo da dove viene? Adriano: Qui le storie erano diverse. Il mio comunismo non era male. Ero anti-stalinista dall'infanzia per una specie di merito familiare. Giorgio: Non intendevo chiederti questo. Tu sei in quell'epoca del rifiuto. Questo rifiuto è immediatamente politico oppure passa attraverso un rifiuto più generico che poi diventa politico? Adriano: Sicuramente. La politicizzazione nel senso in cui parli tu è stata una cosa progressivamente imposta a questo Movimento che ha finito per soffocarlo. Siamo stati stupidi, abbiamo accettato di irrigidire sempre di più questa cosa con una dinamica abbastanza usuale che non ci faceva migliori di altri. Accettando come inevitabili i condizionamenti esterni, cioè che il nemico, invece di essere semplicemente un nemico con cui poter confrontare modelli diversi dell'esistenza umana e di organizzazione sociale, ammazzava la gente, e quindi bisognava essere in grado di contrastare un nemico che metteva una bomba a Piazza Fontana. E però era un alibi anche questo, solo che noi non lo sapevamo; eravamo stupidi, limitati. Giorgio: Vietnam, Piazza Fontana, queste cose hanno portato verso quella parte. Io stavo pensando se questo Movimento non avesse ricevuto un condizionamento di tipo vecchio. Nasce con l'idea di un rifiuto. Adriano: A differenza che oggi, per i più interessanti ragazzi di oggi, nasce da una voglia di rivolgimento, di rifiuto dell'ingiustizia, di rifiuto della mancanza di libertà. Secondo me erano due le cose: la fame nel mondo, l'intollerabilità di questo dolore, e la voglia di libertà. C'era questa volontà d'identificazione con il molto distante, con gli antipodi, e anche questo aveva i suoi pregi, ma alla lunga il suo grande difetto, la perdita di vicinanza, di carità per il prossimo, per quello vicino a te. A me pare che i ragazzi più interessanti di oggi abbiano invece fin dall'inizio questa specie di delimitazione del loro orizzonte verso il prossimo, che è quello del sapere di chi ti stai prendendo cura, e chi si sta prendendo cura di te. Majid: C'è una cosa che non mi torna nella liquidazione del fenomeno culturale del Sessantotto, che non è fenomeno politico. Per quanto riguarda il fenomeno politico io in parte concordo con il paradosso di Mauro (Rostagno) che diceva "per fortuna che abbiamo perso", mentre dal punto di vista della modificazione della cultura, intesa dal punto di vista esistenziale, della ricerca, del mettersi in gioco, io credo che un segno forte ci sia stato, che ha modificato una generazione in modo preciso. È vero che adesso tutto è sfumato. Io con i "papa-boys" non sento nessun collegamento, anche se è vero che in molti di loro ci sono le istanze ed i bisogni che giustamente gli attribuivi. Però come comportamento di massa, di individui tutti insieme, io sento l'assonanza al pubblico dello stadio, sento l'assonanza al "Cantagiro", al fan, al meccanismo d'identificazione con la grande regia dello stadio, la grande regia vaticana, che ha mixato la politica con lo spettacolo, ed ha creato questa gigantesca macchina di consenso. Non ci sento assonanza con quella energia che pervadeva le piazze, gli stadi ed i palalido dell'epoca, anche se accompagnati dal nostro delirio ideologico. Ci sento la grande diversità tra chi facendo errori era comunque protagonista e ricercatore di qualcosa, pur nel suo essere massa, e chi è spettatore. Adriano: Secondo me siete troppo unilaterali e temo che questo dipenda dal fatto che noi siamo troppo disillusi, troppo ingenerosi; questi ragazzi, proprio quei due milioni li, ai miei occhi somigliano molto di più a "Re Nudo" di Parco Lambro che ai raduni di fedeli nell'altro anno santo che io mi ricordo, portati dalla Federconsorzi, da Bonomi, capisci? Quei ragazzi, che sicuramente hanno una regia… ma sono dei ragazzi che stanno nei sacchi a pelo, che cantano, e tutto questo veniva strumentalizzato, eterodiretto, tutto quello che vuoi, ma quella notte lì, mi hanno detto che hanno scopato in numerosissimi nei sacchi a pelo… Giorgio: Questa è una delle poche buone notizie. Adriano: Buonissima; moltissimi di loro erano arrivati a Tor Vergata non in comitive organizzate ma come persone che fanno insieme delle cose con una forte identificazione. C'è un aspetto prevalente che è quello che dici tu ma c'è anche un altro aspetto, e uno deve vederlo, altrimenti rischia di considerare avvenuta una mutazione antropologica tale che stai avendo a che fare con un altro genere vivente. E secondo me non è così. Questa storia del gregarismo e delle masse fa veramente impressione: guarda gli stadi oggi. Il fascismo e le guerre in Europa hanno oggi come incubatrici gli stadi di calcio. Nella ex Jugoslavia, che io conosco molto bene, è così che si sono organizzati; ancora oggi le cose più importanti lì avvengono, negli stadi di calcio ed in subordine in quelli di pallacanestro. Questa impressione allarmante che fanno i musulmani, cioè gli appartenenti a Paesi musulmani, non i musulmani di religione, è in parte giustificata secondo me: dev'essere trattata senza posizioni di principio, ma è al tempo stesso spaventosamente maltrattata da questa specie di semirazzismo invalso, alla Biffi. Però, ad esempio, l'influenza dell'immagine della preghiera musulmana è impressionante: queste schiene che si piegano e questi piedi, la scomparsa delle facce in un unico genuflettersi; io andai in Iran al tempo della cosiddetta rivoluzione e vidi lo spettacolo dei milioni di persone, maschi, che si genuflettevano così; è una rappresentazione come mai si è avuta nella storia del mondo di questo gregarismo e di questa massificazione di cui parlavamo. Stalin, la Piazza Rossa, persino Tien An Men non sono niente di fronte a questo spettacolo che tiene insieme un mondo in cui la grande maggioranza della popolazione ha meno di quindici anni, questa specie di spettro demografico con questi comportamenti. Questo punto è assolutamente essenziale nel misurare il fantasma che oggi è, come si diceva, "uno spettro si aggira oggi per l'Europa". Sulla regia volevo dire questo, una cosa che mi ha fatto molto piacere pensare all'indomani di Tor Vergata: in questa cosa da fans, che non è assolutamente dissimulata ma quasi scontata, col papa che fa l'uomo dello show più importante del mondo, anche lì con una certa ambivalenza, si paga un certo prezzo. Questo papa ha potuto fare questo non perché ogni papa può fare questo o perché ogni regia accorta può fare questo: l'ha fatto nonostante l'imbecillità dei suoi manager. Quando questo papa morirà, cosa che forse non succederà mai, e bisognerà sostituirlo, la Chiesa cattolica, cioè questa grande Istituzione della potenza terrena, sarà messa di fronte a questo dilemma, cioè lo Spirito Santo dovrà risolvere questo problema: o nominare un papa che segni la riappropriazione completa, che sta avvenendo già in questo periodo, della Curia, della gerarchia e degli apparati messi in difficoltà dal personalismo travolgente e carismatico di questo papa (e fare questa cosa significa sicuramente perdere gli spettatori, cioè al prossimo spettacolo non si vendono i biglietti), oppure sceglierne uno che possa far sperare che possa portare due milioni di ragazzi, o come a Manila tre milioni, si dice il più grosso raduno mai avvenuto, cioè l'incubo più grosso. Per fare questo devi sceglierne uno che sia così, in una storia diversa ma che abbia caratteristiche tali che possa far ballare due milioni di persone. Majid: C'è la congiuntura che questo papa s'è sostituito alla mancanza di politica verso il Sud del mondo da parte della Sinistra. Adriano: Ma perché dici una mancanza di politica verso i Paesi poveri? Lui s'è sostituito a tutto! S'è sostituito all'inefficienza dell'anticomunismo, dando una bella botta al fortunatissimo crollo del Comunismo; s'è sostituito alla critica del Capitalismo e del Consumismo diventando il capofila di Rifondazione; s'è sostituito a quello che dicevi tu. Majid: E poi ha rilanciato sul piano della conservazione, sulla morale, coprendo anche a Destra, ha raccolto dappertutto, creando il totale appiattimento (quello che io chiamo il partito papista, il 90% della politica italiana, per non parlare poi del mondo), per cui non può uscire niente se non dal grande vecchio e isolato intellettuale che può dire quello che vuole, e c'è un'omertà, una banalità spaventosa. Vasco Rossi era stato invitato anche lui a fare un concerto per il papa, e lui ha detto di no, che non ci pensava nemmeno. Era una notizia giornalistica, ma non è uscita da nessuna parte! Giorgio: Hai fatto prima un parallelismo tra questo raduno di Tor Vergata e i raduni di "Re Nudo"… Adriano: Ho detto che, se tu li confronti, questi due milioni da una parte con il massimo che a lui [Majid, n.d.r.] sta a cuore, perché io a Parco Lambro li avrei fatti bastonare (scherzo ovviamente), anche se ovviamente allora ero, come dire, reazionario, non dei più ma abbastanza: scherzo però allora avevamo una formazione ed una cultura mostruosa per esempio sulle cose sessuali, lasciamo perdere… Io non ho nessuna colpa per le incriminazioni per cui sono oggi in galera, però poi le vere colpe le ho in quel campo lì; alcuni di noi erano veramente nemici di "Re Nudo", scandalizzati, indignati, altri di noi erano più protettivi, tra cui io, anche perché io ero molto più amico, di loro, di Mauro. Quando qualcuno se la prendeva con quest'ala allora intervenivo, ma io ero un bischero che faceva il segretario. Giorgio: Io a quell'epoca feci anche qualche concerto per Lotta Continua, diedi qualche soldo, mi ricordo di Gigi Noia… Adriano: Gigi Noia è l'assassino di Calabresi. Quasi tutti quelli di Lotta Continua sono assassini di Calabresi ma Gigi Noia sarebbe in galera con me oggi, perché era imputato dell'omicidio Calabresi, se non avesse avuto un colpo di fortuna spaventoso, e cioè delle fotografie con data, di quelle che si facevano con la Kodak e che sono state ritrovate, che hanno fatto da alibi perché Marino aveva detto che era lui il basista dell'omicidio Calabresi, descrivendolo glabro, mentre lui aveva queste fotografie con un barbone come ha sempre avuto e con la data. Capisci?
Qual è la struttura che connette
il granchio con l’aragosta,
l'orchidea con la primula
e tutti quattro con me?
E me con voi?
E tutti noi
con l’ameba da una parte
e lo schizofrenico dall’altra?
"I maggiori problemi nel mondo risultano dalla differenza tra come funziona la natura e come la gente pensa."
A very schematic view of the history of umanity;poorlydrawnlines
E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell’aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio.
Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio
Coloro che ci hanno lasciati non sono degli assenti, sono solo degli invisibili: tengono i loro occhi pieni di gloria puntati nei nostri pieni di lacrime.
Agostino d'Ippona
Avrei voluto mettermi a piangere forte, ma non potevo. Non avevo più l'età per versare lacrime, avevo fatto troppe esperienze. Esiste anche questo al mondo, la tristezza di non poter piangere a calde lacrime. È una di quelle cose che non si può spiegare a nessuno, e anche se si potesse, nessuno la capirebbe. È una tristezza che non può prendere forma, si accumula quietamente nel cuore come la neve in una notte senza vento.
Una volta, quando ero più giovane, avevo provato a esprimerla a parole. Ma non ne avevo trovata una che potesse trasmettere il mio sentimento ad altri, anzi nemmeno a me stesso, così avevo rinunciato. E avevo chiuso sia le mie parole sia il mio cuore. La tristezza troppo profonda non può prendere la forma delle lacrime.
Murakami Haruki, La fine del mondo e il paese delle meraviglie
"Non è come nasci, ma come muori, che rivela a quale popolo appartieni."
Alce Nero, 1890
Tra la notte che cessa
e l'inizio del giorno,
il mio cuore ha urgenza
della tua nostalgia.
Non è che ti desideri
o ti voglia avere,
o in sogno, volando, baci
il sogno di vederti.
Vuole solo nostalgia di te;
ama il ricordarti, e non
l'ombra della verità
o il corpo dell'illusione.