martedì 29 aprile 2014

sulla leggerezza e pesantezza del Tao



L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?
Il mito dell’eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un’ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla.
Non occorre tenerne conto, come di una guerra fra due Stati africani del quattordicesimo secolo che non ha cambiato nulla sulla faccia della terra, benché trecentomila negri vi abbiano trovato la morte tra torture indicibili.
E anche in questa guerra fra due Stati africani del quattordicesimo secolo, cambierà qualcosa se si ripeterà innumerevoli volte nell’eterno ritorno?
Sì, qualcosa cambierà: essa diventerà un blocco che svetta e perdura, e la sua stupidità non avrà rimedio.
Se la Rivoluzione francese dovesse ripetersi all’infinito, la storiografia sarebbe meno orgogliosa di Robespierre. Dal momento, però, che parla di qualcosa che non ritorna, gli anni di sangue si sono trasformati in semplici parole, in teorie, in discussioni, sono diventati più leggeri delle piume, non incutono paura. C’è un’enorme differenza tra un Robespierre che si è presentato una sola volta nella storia e un Robespierre che torna eternamente a tagliare la testa ai francesi.
Diciamo quindi che l’idea dell’eterno ritorno indica una prospettiva dalla quale le cose appaiono in maniera diversa da come noi le conosciamo: appaiono prive della circostanza attenuante della loro fugacità.
Questa circostanza attenuante ci impedisce infatti di pronunciare un qualsiasi verdetto. Si può condannare ciò che è effimero? La luce rossastra del tramonto illumina ogni cosa con il fascino della nostalgia: anche la ghigliottina.
Or non è molto, mi sono sorpreso a provare una sensazione incredibile: stavo sfogliando un libro su Hitler e mi sono commosso alla vista di alcune sue fotografie: mi ricordavano la mia infanzia; io l’ho vissuta durante la guerra; parecchi miei familiari hanno trovato la morte nei campi di concentramento hitleriani; ma che cos’era la loro morte davanti a una fotografia di Hitler che mi ricordava un periodo scomparso della mia vita, un periodo che non sarebbe più tornato?
Questa riconciliazione con Hitler tradisce la profonda perversione morale che appartiene a un mondo fondato essenzialmente sull’esistenza del ritorno, perché in un mondo simile tutto è già perdonato e quindi tutto è cinicamente permesso.
Se ogni secondo della nostra vita si ripete un numero infinito di volte, siamo inchiodati all’eternità come Gesù Cristo alla croce. È un’idea terribile. Nel mondo dell’eterno ritorno, su ogni gesto grava il peso di una insostenibile responsabilità. Ecco perché Nietzsche chiamava l’idea dell’eterno ritorno il fardello più pesante (das schwerste Gewicht).
Se l’eterno ritorno è il fardello più pesante, allora le nostre vite su questo sfondo possono apparire in tutta la loro meravigliosa leggerezza.
Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza è meravigliosa?
Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma nella poesia d’amore di tutti i tempi la donna desidera essere gravata dal fardello del corpo dell’uomo. Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l’immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica.
Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato.
Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza o la leggerezza?
Questa domanda se l’era posta Parmenide nel sesto secolo avanti Cristo. Egli vedeva l’intero universo diviso in coppie di opposizioni: luce-buio, spesso-sottile, caldo-freddo, essere-non essere. Uno dei poli dell’opposizione era per lui positivo (la luce, il caldo, il sottile, l’essere), l’altro negativo. Questa suddivisione in un polo positivo e in uno negativo può apparirci di una semplicità puerile. Salvo in un caso: che cos’è positivo, la pesantezza o la leggerezza?
Parmenide rispose: il leggero è il positivo, il pesante è negativo.
Aveva ragione oppure no? Questo è il problema. Una sola cosa era certa: l’opposizione pesante-leggero è la più misteriosa e la più ambigua tra tutte le opposizioni.


















Dedicherò la prima conferenza all'opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d'aver più cose da dire. Dopo quarant'anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l'ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio. In questa conferenza cercherò di spiegare - a me stesso e a voi - perché sono stato portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto; quali sono gli esempi tra le opere del passato in cui riconosco il mio ideale di leggerezza; come situo questo valore nel presente e come lo proietto nel futuro. Comincerò dall'ultimo punto. Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l'imperativo categorico d'ogni giovane scrittore. Pieno di buona volontà, cercavo d'immedesimarmi nell'energia spietata che muove la storia del nostro secolo, nelle sue vicende collettive e individuali. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l'agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c'era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l'inerzia, l'opacità del mondo: qualità che s'attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle. In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa. L'unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati, Perseo che non rivolge il suo sguardo sul volto della Gorgone ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo. Ecco che Perseo mi viene in soccorso anche in questo momento, mentre mi sentivo già catturare dalla morsa di pietra, come mi succede ogni volta che tento una rievocazione storico-autobiografica. Meglio lasciare che il mio discorso si componga con le immagini della mitologia. Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un'immagine catturata da uno specchio. Subito sento la tentazione di trovare in questo mito un'allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione del metodo da seguire scrivendo. Ma so che ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori. Il rapporto tra Perseo e la Gorgone è complesso: non finisce con la decapitazione del mostro. Dal sangue della Medusa nasce un cavallo alato, Pegaso; la pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario; con un colpo di zoccolo sul Monte Elicona, Pegaso fa scaturire la fonte da cui bevono le Muse. In alcune versioni del mito, sarà Perseo a cavalcare il meraviglioso Pegaso caro alle Muse, nato dal sangue maledetto di Medusa. (Anche i sandali alati, d'altronde, provenivano dal mondo dei mostri: Perseo li aveva avuti dalle sorelle di Medusa, le Graie dall'unico occhio). Quanto alla testa mozzata, Perseo non l'abbandona ma la porta con sé, nascosta in un sacco; quando i nemici stanno per sopraffarlo, basta che egli la mostri sollevandola per la chioma di serpenti, e quella spoglia sanguinosa diventa un'arma invincibile nella mano dell'eroe: un'arma che egli usa solo in casi estremi e solo contro chi merita il castigo di diventare la statua di se stesso. Qui certo il mito vuol dirmi qualcosa, qualcosa che è implicito nelle immagini e che non si può spiegare altrimenti. Perseo riesce a padroneggiare quel volto tremendo tenendolo nascosto, come prima l'aveva vinto guardandolo nello specchio. E' sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello. Sul rapporto tra Perseo e la Medusa possiamo apprendere qualcosa di più leggendo Ovidio nelle Metamorfosi. Perseo ha vinto una nuova battaglia, ha massacrato a colpi di spada un mostro marino, ha liberato Andromeda. E ora si accinge a fare quello che ognuno di noi farebbe dopo un lavoraccio del genere: va a lavarsi le mani. In questi casi il suo problema è dove posare la testa di Medusa. E qui Ovidio ha dei versi (Iv, 740-752) che mi paiono straordinari per spiegare quanta delicatezza d'animo sia necessaria per essere un Perseo, vincitore di mostri:

"Perché la ruvida sabbia non sciupi la testa anguicrinita (anguiferumque caput dura ne laedat harena), egli rende soffice il terreno con uno strato di foglie, vi stende sopra dei ramoscelli nati sott'acqua e vi depone la testa di Medusa a faccia in giù".

Mi sembra che la leggerezza di cui Perseo è l'eroe non potrebbe essere meglio rappresentata che da questo gesto di rinfrescante gentilezza verso quell'essere mostruoso e tremendo ma anche in qualche modo deteriorabile, fragile. Ma la cosa più inaspettata è il miracolo che ne segue: i ramoscelli marini a contatto con la Medusa si trasformano in coralli, e le ninfe per adornarsi di coralli accorrono e avvicinano ramoscelli e alghe alla terribile testa. Anche questo incontro d'immagini, in cui la sottile grazia del corallo sfiora l'orrore feroce della Gorgone, è così carico di suggestioni che non vorrei sciuparlo tentando commenti o interpretazioni. Quel che posso fare è avvicinare a questi versi d'Ovidio quelli d'un poeta moderno, Piccolo testamento di Eugenio Montale, in cui troviamo pure elementi sottilissimi che sono come emblemi della sua poesia ("traccia madreperlacea di lumaca o smeriglio di vetro calpestato") messi a confronto con uno spaventoso mostro infernale, un Lucifero dalle ali di bitume che cala sulle capitali dell'Occidente. Mai come in questa poesia scritta nel 1953, Montale ha evocato una visione così apocalittica, ma ciò che i suoi versi mettono in primo piano sono quelle minime tracce luminose che egli contrappone alla buia catastrofe ("Conservane la cipria nello specchietto quando spenta ogni lampada la sardana si farà infernale..."). Ma come possiamo sperare di salvarci in ciò che è più fragile? Questa poesia di Montale è una professione di fede nella persistenza di ciò che più sembra destinato a perire, e nei valori morali investiti nelle tracce più tenui: "il tenue bagliore strofinato laggiù non era quello d'un fiammifero". Ecco che per riuscire a parlare della nostra epoca, ho dovuto fare un lungo giro, evocare la fragile Medusa di Ovidio e il bituminoso Lucifero di Montale. E' difficile per un romanziere rappresentare la sua idea di leggerezza, esemplificata sui casi della vita contemporanea, se non facendone l'oggetto irraggiungibile d'una quête senza fine. E' quanto ha fatto con evidenza e immediatezza Milan Kundera. Il suo romanzo L'Insostenibile Leggerezza dell'Essere è in realtà un'amara constatazione dell'Ineluttabile Pesantezza del Vivere: non solo della condizione d'oppressione disperata e all-pervading che è toccata in sorte al suo sventurato paese, ma d'una condizione umana comune anche a noi, pur infinitamente più fortunati. Il peso del vivere per Kundera sta in ogni forma di costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che finisce per avvolgere ogni esistenza con nodi sempre più stretti. Il suo romanzo ci dimostra come nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell'intelligenza sfuggono a questa condanna: le qualità con cui è scritto il romanzo, che appartengono a un altro universo da quello del vivere. Nei momenti in cui il regno dell'umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell'irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un'altra ottica, un'altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro... Nell'universo infinito della letteratura s'aprono sempre altre vie da esplorare, nuovissime o antichissime, stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo... Ma se la letteratura non basta ad assicurarmi che non sto solo inseguendo dei sogni, cerco nella scienza alimento per le mie visioni in cui ogni pesantezza viene dissolta... Oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime: come i messaggi del Dna, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall'inizio dei tempi... Poi, l'informatica. E' vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza del hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo d'elaborare programmi sempre più complessi. La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d'acciaio, ma come i bits d'un flusso d'informazione che corre sui circuiti sotto forma d'impulsi elettronici. Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso. E' legittimo estrapolare dal discorso delle scienze un'immagine del mondo che corrisponda ai miei desideri? Se l'operazione che sto tentando mi attrae, è perché sento che essa potrebbe riannodarsi a un filo molto antico nella storia della poesia. Il De rerum natura di Lucrezio è la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero. Lucrezio vuole scrivere il poema della materia ma ci avverte subito che la vera realtà di questa materia è fatta di corpuscoli invisibili. E' il poeta della concretezza fisica, vista nella sua sostanza permanente e immutabile, ma per prima cosa ci dice che il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi. La più grande preoccupazione di Lucrezio sembra quella di evitare che il peso della materia ci schiacci. Al momento di stabilire le rigorose leggi meccaniche che determinano ogni evento, egli sente il bisogno di permettere agli atomi delle deviazioni imprevedibili dalla linea retta, tali da garantire la libertà tanto alla materia quanto agli esseri umani. La poesia dell'invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, così come la poesia del nulla nascono da un poeta che non ha dubbi sulla fisicità del mondo. Questa polverizzazione della realtà s'estende anche agli aspetti visibili, ed è là che eccelle la qualità poetica di Lucrezio: i granelli di polvere che turbinano in un raggio di sole in una stanza buia (Ii, 114-124); le minute conchiglie tutte simili e tutte diverse che l'onda mollemente spinge sulla bibula harena, sulla sabbia che s'imbeve (Ii, 374-376); le ragnatele che ci avvolgono senza che noi ce ne accorgiamo mentre camminiamo (Iii, 381-390). Ho già citato le Metamorfosi d'Ovidio, un altro poema enciclopedico (scritto una cinquantina d'anni più tardi di quello di Lucrezio) che parte, anziché dalla realtà fisica, dalle favole mitologiche. Anche per Ovidio tutto può trasformarsi in nuove forme; anche per Ovidio la conoscenza del mondo è dissoluzione della compattezza del mondo; anche per Ovidio c'è una parità essenziale tra tutto ciò che esiste, contro ogni gerarchia di poteri e di valori. Se il mondo di Lucrezio è fatto d'atomi inalterabili, quello d'Ovidio è fatto di qualità, d'attributi, di forme che definiscono la diversità d'ogni cosa e pianta e animale e persona; ma questi non sono che tenui involucri d'una sostanza comune che, - se agitata da profonda passione - può trasformarsi in quel che vi è di più diverso. E' nel seguire la continuità del passaggio da una forma a un'altra che Ovidio dispiega le sue ineguagliabili doti: quando racconta come una donna s'accorge che sta trasformandosi in giuggiolo: i piedi le rimangono inchiodati per terra, una corteccia tenera sale a poco a poco e le serra le inguini; fa per strapparsi i capelli e ritrova la mano piena di foglie. O quando racconta delle dita di Aracne, agilissime nell'agglomerare e sfilacciare la lana, nel far girare il fuso, nel muovere l'ago da ricamo, e che a un tratto vediamo allungarsi in esili zampe di ragno e mettersi a tessere ragnatele. Tanto in Lucrezio quanto in Ovidio la leggerezza è un modo di vedere il mondo che si fonda sulla filosofia e sulla scienza: le dottrine di Epicuro per Lucrezio, le dottrine di Pitagora per Ovidio (un Pitagora che, come Ovidio ce lo presenta, somiglia molto a Budda). Ma in entrambi i casi la leggerezza è qualcosa che si crea nella scrittura, con i mezzi linguistici che sono quelli del poeta, indipendentemente dalla dottrina del filosofo che il poeta dichiara di voler seguire. Da quanto ho detto fin qui mi pare che il concetto di leggerezza cominci a precisarsi; spero innanzitutto d'aver dimostrato che esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca. Non potrei illustrare meglio questa idea che con una novella del Decameron (Vi, 9) dove appare il poeta fiorentino Guido Cavalcanti. Boccaccio ci presenta Cavalcanti come un austero filosofo che passeggia meditando tra i sepolcri di marmo davanti a una chiesa. La jeunesse dorée fiorentina cavalcava per la città in brigate che passavano da una festa all'altra, sempre cercando occasioni d'ampliare il loro giro di scambievoli inviti. Cavalcanti non era popolare tra loro, perché, benché fosse ricco ed elegante, non accettava mai di far baldoria con loro e perché la sua misteriosa filosofia era sospettata d'empietà: Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d'Orto San Michele e venutosene per lo Corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, e egli essendo tralle colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, vedendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: "Andiamo a dargli briga"; e spronati i cavalli, a guisa d'uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra e cominciarongli a dire: "Guido, tu rifiuti d'esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu avrai trovato che Idio non sia, che avrai fatto?". A' quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: "Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace"; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fusi gittato dall'altra parte, e sviluppatosi da loro se n'andò. Ciò che qui ci interessa non è tanto la battuta attribuita a Cavalcanti, (che si può interpretare considerando che il preteso "epicureismo" del poeta era in realtà averroismo, per cui l'anima individuale fa parte dell'intelletto universale: le tombe sono casa vostra e non mia in quanto la morte corporea è vinta da chi s'innalza alla contemplazione universale attraverso la speculazione dell'intelletto). Ciò che ci colpisce è l'immagine visuale che Boccaccio evoca: Cavalcanti che si libera d'un salto "sì come colui che leggerissimo era". Se volessi scegliere un simbolo augurale per l'affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l'agile salto improvviso del poeta- filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d'automobili arrugginite. Vorrei che conservaste quest'immagine nella mente, ora che vi parlerò di Cavalcanti poeta della leggerezza. Nelle sue poesie le "dramatis personae" più che personaggi umani sono sospiri, raggi luminosi, immagini ottiche, e soprattutto quegli impulsi o messaggi immateriali che egli chiama "spiriti". Un tema niente affatto leggero come la sofferenza d'amore, viene dissolto da Cavalcanti in entità impalpabili che si spostano tra anima sensitiva e anima intellettiva, tra cuore e mente, tra occhi e voce. Insomma, si tratta sempre di qualcosa che è contraddistinto da tre caratteristiche:

1) è leggerissimo;
2) è in movimento;
3) è un vettore d'informazione.

In alcune poesie questo messaggio-messaggero è lo stesso testo poetico: nella più famosa di tutte, il poeta esiliato si rivolge alla ballata che sta scrivendo e dice: "Va tu, leggera e piana dritt'a la donna mia". In un'altra sono gli strumenti della scrittura - penne e arnesi per far la punta alle penne - che prendono la parola: "Noi siàn le triste penne isbigottite, le cesoiuzze e'l coltellin dolente...". In un sonetto la parola "spirito" o "spiritello" compare in ogni verso: in un'evidente autoparodia, Cavalcanti porta alle ultime conseguenze la sua predilezione per quella parola-chiave, concentrando nei 14 versi un complicato racconto astratto in cui intervengono 14 "spiriti" ognuno con una diversa funzione. In un altro sonetto, il corpo viene smembrato dalla sofferenza amorosa, ma continua a camminare come un automa "fatto di rame o di pietra o di legno". Già in un sonetto di Guinizelli la pena amorosa trasformava il poeta in una statua d'ottone: un'immagine molto concreta, che ha la forza proprio nel senso di peso che comunica. In Cavalcanti, il peso della materia si dissolve per il fatto che i materiali del simulacro umano possono essere tanti, intercambiabili; la metafora non impone un oggetto solido, e neanche la parola "pietra" arriva ad appesantire il verso. Ritroviamo quella parità di tutto ciò che esiste di cui ho parlato a proposito di Lucrezio e di Ovidio. Un maestro della critica stilistica italiana, Gianfranco Contini, la definisce "parificazione cavalcantiana dei reali". L'esempio più felice di "parificazione dei reali", Cavalcanti lo dà in un sonetto che s'apre con una enumerazione d'immagini di bellezza, tutte destinate a essere superate dalla bellezza della donna amata: Biltà di donna e di saccente core e cavalieri armati che sien genti; cantar d'augelli e ragionar d'amore; adorni legni 'n mar forte correnti; aria serena quand'apar l'albore e bianca neve scender senza venti; rivera d'acqua e prato d'ogni fiore; oro, argento, azzurro 'n ornamenti: Il verso "e bianca neve scender senza venti" è stato ripreso con poche varianti da Dante nell'Inferno (Xiv, 30): "come di neve in alpe sanza vento". I due versi sono quasi identici, eppure esprimono due concezioni completamente diverse. In entrambi la neve senza vento evoca un movimento lieve e silenzioso. Ma qui si ferma la somiglianza e comincia la diversità. In Dante il verso è dominato dalla specificazione del luogo ("in alpe"), che evoca uno scenario montagnoso. Invece in Cavalcanti l'aggettivo "bianca", che potrebbe sembrare pleonastico, unito al verbo "scendere", anch'esso del tutto prevedibile, cancellano il paesaggio in un'atmosfera di sospesa astrazione. Ma è soprattutto la prima parola a determinare il diverso significato dei due versi. In Cavalcanti la congiunzione "e" mette la neve sullo stesso piano delle altre visioni che la precedono e la seguono: una fuga di immagini, che è come un campionario delle bellezze del mondo. In Dante l'avverbio "come" rinchiude tutta la scena nella cornice d'una metafora, ma all'interno di questa cornice essa ha una sua realtà concreta, così come una realtà non meno concreta e drammatica ha il paesaggio dell'Inferno sotto una pioggia di fuoco, per illustrare il quale viene introdotta la similitudine con la neve. In Cavalcanti tutto si muove così rapidamente che non possiamo renderci conto della sua consistenza ma solo dei suoi effetti; in Dante, tutto acquista consistenza e stabilità: il peso delle cose è stabilito con esattezza. Anche quando parla di cose lievi, Dante sembra voler rendere il peso esatto di questa leggerezza: "come di neve in alpe sanza vento". Così come in un altro verso molto simile, la pesantezza d'un corpo che affonda nell'acqua e scompare è come trattenuta e attutita: "come per acqua cupa cosa grave" (Paradiso Iii, 123). A questo punto dobbiamo ricordarci che l'idea del mondo come costituito d'atomi senza peso ci colpisce perché abbiamo esperienza del peso delle cose; così come non potremmo ammirare la leggerezza del linguaggio se non sapessimo ammirare anche il linguaggio dotato di peso. Possiamo dire che due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l'una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d'impulsi magnetici; l'altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni. Alle origini della letteratura italiana - e europea - queste due vie sono aperte da Cavalcanti e da Dante. L'opposizione vale naturalmente nelle sue linee generali, ma richiederebbe innumerevoli specificazioni, data l'enorme ricchezza di risorse di Dante e la sua straordinaria versatilità. Non è un caso che il sonetto di Dante ispirato alla più felice leggerezza ("Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io") sia dedicato a Cavalcanti. Nella Vita nuova, Dante tratta la stessa materia del suo maestro e amico, e vi sono parole, motivi e concetti che si trovano in entrambi i poeti; quando Dante vuole esprimere leggerezza, anche nella Divina Commedia, nessuno sa farlo meglio di lui; ma la sua genialità si manifesta nel senso opposto, nell'estrarre dalla lingua tutte le possibilità sonore ed emozionali e d'evocazione di sensazioni, nel catturare nel verso il mondo in tutta la varietà dei suoi livelli e delle sue forme e dei suoi attributi, nel trasmettere il senso che il mondo è organizzato in un sistema, in un ordine, in una gerarchia dove tutto trova il suo posto. Forzando un po' la contrapposizione potrei dire che Dante dà solidità corporea anche alla più astratta speculazione intellettuale, mentre Cavalcanti dissolve la concretezza dell'esperienza tangibile in versi dal ritmo scandito, sillabato, come se il pensiero si staccasse dall'oscurità in rapide scariche elettriche. L'essermi soffermato su Cavalcanti m'è servito a chiarire meglio (almeno a me stesso) cosa intendo per "leggerezza". La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l'abbandono al caso. Paul Valéry ha detto: "Il faut être léger comme l'oiseau, et non comme la plume". Mi sono servito di Cavalcanti per esemplificare la leggerezza in almeno tre accezioni diverse:

1) un alleggerimento del linguaggio per cui i significati vengono convogliati su un tessuto verbale come senza peso, fino ad assumere la stessa rarefatta consistenza. Lascio a voi trovare altri esempi in questa direzione. Per esempio Emily Dickinson può fornircene quanti vogliamo: A sepal, petal, and a thorn Upon a common summer's morn - A flask of Dew - a Bee or two - A Breeze - a caper in the trees - And I'm a Rose! Un sepalo ed un petalo e una spina In un comune mattino d'estate, Un fiasco di rugiada, un'ape o due, Una brezza, Un frullo in mezzo agli alberi - Ed io sono una rosa!
2) la narrazione d'un ragionamento o d'un processo psicologico in cui agiscono elementi sottili e impercettibili, o qualunque descrizione che comporti un alto grado d'astrazione. E qui per cercare un esempio più moderno possiamo provare con Henry James, anche aprendo un suo libro a caso: It was as if these depths, constantly bridged over by a structure that was firm enough in spite of its lightness and of its occasional oscillation in the somewhat vertiginous air, invited on occasion, in the interest of their nerves, a dropping of the plummet and a measurement of the abyss. A difference had been made moreover, once for all, by the fact that she had, all the while, not appered to feel the need of rebutting his charge of an idea within her that she didn't dare to express, uttered just before one of the fullest of their later discussions ended. (The Beast in the Jungle) Queste profondità, costantemente unite da un ponte abbastanza solido malgrado la sua levità e le sue occasionali oscillazioni nell'aria alquanto vertiginosa, richiedevano ogni tanto, nell'interesse dei loro nervi, la calata dello scandaglio e la misurazione dell'abisso. Una differenza, inoltre, era stata creata una volta per sempre dal fatto che May, durante tutto il tempo, non parve sentire la necessità di respingere l'accusa di celare un'idea, che non osava esprimere, accusa che Marcher le mosse proprio alla fine di una delle loro ultime discussioni.
3) una immagine figurale di leggerezza che assuma un valore emblematico, come, nella novella di Boccaccio, Cavalcanti che volteggia con le sue smilze gambe sopra la pietra tombale. Ci sono invenzioni letterarie che s'impongono alla memoria per la loro suggestione verbale più che per le parole. La scena di Don Quijote che infilza con la lancia una pala del mulino a vento e viene trasportato in aria occupa poche righe del romanzo di Cervantes; si può dire che in essa l'autore non ha investito che in minima misura le risorse della sua scrittura; ciononostante essa resta uno dei luoghi più famosi della letteratura di tutti i tempi.

Penso che con queste indicazioni posso mettermi a sfogliare i libri della mia biblioteca in cerca d'esempi di leggerezza. In Shakespeare vado subito a cercare il punto in cui Mercuzio entra in scena: "You are a lover; borrow Cupid's wings and soar with them above a common bound" (Tu sei innamorato: fatti prestare le ali da Cupido e levati più alto d'un salto). Mercuzio contraddice subito Romeo che ha appena detto: "Under love's heavy burden do I sink" (io sprofondo sotto un peso d'amore). Il modo di Mercuzio di muoversi nel mondo è definito dai primi verbi che usa: to dance, to soar, to prickle (ballare, levarsi, pungere). La sembianza umana è una maschera, a visor. E' appena entrato in scena e già sente il bisogno di spiegare la sua filosofia, non con un discorso teorico, ma raccontando un sogno: la Regina Mab. Queen Mab, the fairies' midwife, appare su una carrozza fatta con "an empty hazel-nut" (La Regina Mab, levatrice delle fate ?appare su una carrozza fatta con: "un guscio di nocciola"); Her waggon-spokes made of long spinners' legs; The cover, of the wings of grasshoppers; The traces, of the smallest spider's web; The collars, of the moonshine's watery beams; Her whip, of cricket's bone; the lash, of film; Lunghe zampe di ragno sono i raggi delle sue ruote; d'elitre di cavalletta è il mantice; di ragnatela della più sottile i finimenti; roridi raggi di luna i pettorali; manico della frusta un osso di grillo; sferza, un filo senza fine e non dimentichiamo che questa carrozza è "drawn with a team of little atomies" (scarrozzata da un equipaggio d'atomi impalpabili): un dettaglio decisivo, mi sembra, che permette al sogno della Regina Mab di fondere atomismo lucreziano, neoplatonismo rinascimentale e celtic-lore. Anche il passo danzante di Mercuzio vorremmo che ci accompagnasse fin oltre la soglia del nuovo millennio. L'epoca che fa da sfondo a Romeo and Juliet ha molti aspetti non troppo dissimili da quelli dei nostri tempi: le città insanguinate da contese violente non meno insensate di quelle tra Capuleti e Montecchi; la liberazione sessuale predicata dalla Nurse che non riesce a diventare modello d'amore universale; gli esperimenti di Friar Laurence condotti col generoso ottimismo della sua "filosofia naturale" ma che non si è mai sicuri se verranno usati per la vita o per la morte. Il Rinascimento shakespeariano conosce gli influssi eterei che connettono macrocosmo e microcosmo, dal firmamento neoplatonico agli spiriti dei metalli che si trasformano nel crogiolo degli alchimisti. Le mitologie classiche possono fornire il loro repertorio di ninfe e di driadi, ma le mitologie celtiche sono certo più ricche nella imagerie delle più sottili forze naturali coi loro elfi e le loro fate. Questo sfondo culturale (penso naturalmente agli affascinanti studi di Francis Yates sulla filosofia occulta del Rinascimento e sui suoi echi nella letteratura) spiega perché in Shakespeare si possa trovare l'esemplificazione più ricca del mio tema. E non sto pensando solo a Puck e a tutta la fantasmagoria del Dream, o a Ariel e a tutti coloro che "are such stuff As dreams are made on," (noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni,) ma soprattutto a quella speciale modulazione lirica ed esistenziale che permette di contemplare il proprio dramma come dal di fuori e dissolverlo in malinconia e ironia. La gravità senza peso di cui ho parlato a proposito di Cavalcanti riaffiora nell'epoca di Cervantes e di Shakespeare: è quella speciale connessione tra melanconia e umorismo, che è stata studiata in Saturn and Melancholy da Klibansky, Panofsky, Saxl. Come la melanconia è la tristezza diventata leggera, così lo humour è il comico che ha perso la pesantezza corporea (quella dimensione della carnalità umana che pur fa grandi Boccaccio e Rabelais) e mette in dubbio l'io e il mondo e tutta la rete di relazioni che li costituiscono. Melanconia e humour mescolati e inseparabili caratterizzano l'accento del Principe di Danimarca che abbiamo imparato a riconoscere in tutti o quasi i drammi shakespeariani sulle labbra dei tanti avatars del personaggio Amleto. Uno di essi, Jaques in As You Like It, così definisce la melanconia (atto Iv, scena I): ...but it is a melancholy of my own, compounded of many simples, extracted from many objects, and indeed the sundry contemplation of my travels, which, by often rumination, wraps me in a most humorous sadness. ...è la mia peculiare malinconia composta da elementi diversi, quintessenza di varie sostanze, e più precisamente di tante differenti esperienze di viaggi durante i quali quel perpetuo ruminare mi ha sprofondato in una capricciosissima tristezza. Non è una melanconia compatta e opaca, dunque, ma un velo di particelle minutissime d'umori e sensazioni, un pulviscolo d'atomi come tutto ciò che costituisce l'ultima sostanza della molteplicità delle cose. Confesso che la tentazione di costruirmi uno Shakespeare seguace dell'atomismo lucreziano è per me molto forte, ma so che sarebbe arbitrario. Il primo scrittore del mondo moderno che fa esplicita professione d'una concezione atomistica dell'universo nella sua trasfigurazione fantastica, lo troviamo solo alcuni anni dopo, in Francia: Cyrano de Bergerac. Straordinario scrittore, Cyrano, che meriterebbe d'essere più ricordato, e non solo come primo vero precursore della fantascienza, ma per le sue qualità intellettuali e poetiche. Seguace del sensismo di Gassendi e dell'astronomia di Copernico, ma soprattutto nutrito della "filosofia naturale" del Rinascimento italiano - Cardano, Bruno, Campanella - Cyrano è il primo poeta dell'atomismo nelle letterature moderne. In pagine la cui ironia non fa velo a una vera commozione cosmica, Cyrano celebra l'unità di tutte le cose, inanimate o animate, la combinatoria di figure elementari che determina la varietà delle forme viventi, e soprattutto egli rende il senso della precarietà dei processi che le hanno create: cioè quanto poco è mancato perché l'uomo non fosse l'uomo, e la vita la vita, e il mondo un mondo.
Vous vous étonnez comme cette matière, brouillèe pêle- mêle, au gré du hasard, peut avoir constitué un homme, vu qu'il y avait tant de choses nécessaires à la construction de son être, mais vous ne savez pas que cent milions de fois cette matière, s'acheminant au dessein d'un homme, s'est arrêtée à former tantôt une pierre, tantôt du plomb, tantôt du corail, tantôt une fleur, tantôt une comète, pour le trop ou trop peu de certaines figures qu'il fallait ou ne fallait pas à désigner un homme? Si bien que ce n'est pas merveille qu'entre une infinie quantité de matière qui change et se remue incessamment, elle ait rencontré à faire le peu d'animaux, de végétaux, de minéraux que nous voyons; non plus que ce n'est pas merveille qu'en cent coups de dés il arrive une rafle. Aussi bien est-il impossible que de ce remuement il ne se fasse quelque chose, et cette chose sera toujours admirée d'un étourdi qui ne saura pas combien peu s'en est fallu qu'elle n'ait pas été faite. (Voyage dans la Lune)
Vi meravigliate come questa materia mescolata alla rinfusa, in balia del caso, può aver costituito un uomo, visto che c'erano tante cose necessarie alla costruzione del suo essere, ma non sapete che cento milioni di volte questa materia, mentre era sul punto di produrre un uomo, si è fermata a formare ora una pietra, ora del piombo, ora del corallo, ora un fiore, ora una cometa, per le troppe o troppo poche figure che occorrevano o non occorrevano per progettare un uomo. Come non fa meraviglia che tra un'infinita quantità di materia che cambia e si muove incessantemente, sia capitato di fare i pochi animali, vegetali, minerali che vediamo, così come non fa meraviglia che su cento colpi di dadi esca una pariglia. E' pertanto impossibile che da questo lieve movimento non si faccia qualcosa, e questa cosa sarà sempre fonte di stupore per uno sventato che non pensa quanto poco è mancato perché non fosse fatta. Per questa via Cyrano arriva a proclamare la fraternità degli uomini con i cavoli, e così immagina la protesta d'un cavolo che sta per essere tagliato: "Homme, mon cher frère, que t'ai-je fait qui mérite la mort? (...) Je me lève de terre, je m'épanouis, je te tends les bras, je t'offre mes enfants en graine, et pour récompense de ma courtoisie, tu me fais trancher la tête!". "mio caro fratello uomo, che cosa ho fatto per meritare la morte? (...) Mi sollevo da terra, mi schiudo, stendo le braccia, ti offro i miei figli in seme e, per ricompensa della mia cortesia, tu mi fai tagliare la testa!". Se pensiamo che questa perorazione per una vera fraternità universale è stata scritta quasi centocinquant'anni prima della Rivoluzione francese, vediamo come la lentezza della coscienza umana a uscire dal suo parochialism antropocentrico può essere annullata in un istante dall'invenzione poetica. Tutto questo nel contesto d'un viaggio sulla luna, dove Cyrano de Bergerac supera per immaginazione i suoi più illustri predecessori, Luciano di Samosata e Ludovico Ariosto. Nella mia trattazione sulla leggerezza, Cyrano figura soprattutto per il modo in cui, prima di Newton, egli ha sentito il problema della gravitazione universale; o meglio, è il problema di sottrarsi alla forza di gravità che stimola talmente la sua fantasia da fargli inventare tutta una serie di sistemi per salire sulla luna, uno più ingegnoso dell'altro: con fiale piene di rugiada che evaporano al sole; ungendosi di midollo di bue che viene abitualmente succhiato dalla luna; con una palla calamitata lanciata in aria verticalmente ripetute volte da una navicella. Quanto al sistema della calamita, sarà sviluppato e perfezionato da Jonathan Swift per sostenere in aria l'isola volante di Laputa. E' un momento, quello dell'apparizione di Laputa in volo, in cui le due ossessioni di Swift sembra si annullino in un magico equilibrio: dico l'astrazione incorporea del razionalismo contro il quale egli dirige la sua satira, e il peso materiale della corporeità. gradations of Galleries and Stairs, at certain intervals, to descend from one to the other. In the lowest Gallery I beheld some People fishing with long Angling Rods, and others looking on. ...ond'io potei vederne i fianchi cinti di parecchie serie di corridoi e scalinate, a certi dati intervalli, per poter discendere da uno in altro corridoio. Nella più bassa di queste gallerie, vidi alcuni uomini che pescavano con certe lunghe canne, ed altri che stavano a guardare. Swift è contemporaneo e avversario di Newton. Voltaire è un ammiratore di Newton, e immagina un gigante, Micromégas, che all'opposto di quelli di Swift, è definito non dalla sua corporeità ma da dimensioni espresse in cifre, da proprietà spaziali e temporali enunciate nei termini rigorosi e impassibili dei trattati scientifici. In virtù di questa logica e di questo stile, Micromégas riesce a viaggiare nello spazio da Sirio a Saturno alla Terra. Si direbbe che nelle teorie di Newton ciò che colpisce l'immaginazione letteraria non sia il condizionamento d'ogni cosa e persona alla fatalità del proprio peso, bensì l'equilibrio delle forze che permette ai corpi celesti di librarsi nello spazio. L'immaginazione del secolo Xviii è ricca di figure sospese per aria. Non per nulla agli inizi del secolo la traduzione francese delle Mille e una Notte di Antoine Galland aveva aperto alla fantasia occidentale gli orizzonti del meraviglioso orientale: tappeti volanti, cavalli volanti, geni che escono da lampade. Di questa spinta dell'immaginazione a superare ogni limite, il secolo Xviii conoscerà il culmine col volo del Barone di Münchausen su una palla di cannone, immagine che nella nostra memoria si è identificata definitivamente con l'illustrazione che è il capolavoro di Gustave Doré. Le avventure di Münchausen, che come le Mille e una Notte non si sa se abbiano avuto un autore, molti autori o nessuno, sono una continua sfida alla legge della gravitazione: il Barone è portato in volo dalle anatre, solleva se stesso e il cavallo tirandosi su per la coda della parrucca, scende dalla luna tenendosi a una corda più volte tagliata e riannodata durante la discesa. Queste immagini della letteratura popolare, insieme a quelle che abbiamo visto della letteratura colta, accompagnano la fortuna letteraria delle teorie di Newton. Giacomo Leopardi a quindici anni scrive una storia dell'astronomia di straordinaria erudizione, in cui tra l'altro compendia le teorie newtoniane. La contemplazione del cielo notturno che ispirerà a Leopardi i suoi versi più belli non era solo un motivo lirico; quando parlava della luna Leopardi sapeva esattamente di cosa parlava. Leopardi, nel suo ininterrotto ragionamento sull'insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell'aria, e soprattutto la luna. La luna, appena s'affaccia nei versi dei poeti, ha avuto sempre il potere di comunicare una sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo. In un primo momento volevo dedicare questa conferenza tutta alla luna: seguire le apparizioni della luna nelle letterature d'ogni tempo e paese. Poi ho deciso che la luna andava lasciata tutta a Leopardi. Perché il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare. Le numerose apparizioni della luna nelle sue poesie occupano pochi versi ma bastano a illuminare tutto il componimento di quella luce o a proiettarvi l'ombra della sua assenza. Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. (...) O graziosa luna, io mi rammento che, or volge l'anno, sovra questo colle io venia pien d'angoscia a rimirarti: e tu pendevi allor su quella selva siccome or fai, che tutta la rischiari. (...) O cara luna, al cui tranquillo raggio danzan le lepri nelle selve... (...) Già tutta l'aria imbruna, torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre giù da' colli e da' tetti, al biancheggiar della recente luna. (...) Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi. Molti fili si sono intrecciati nel mio discorso? Quale filo devo tirare per trovarmi tra le mani la conclusione? C'è il filo che collega la Luna, Leopardi, Newton, la gravitazione e la levitazione... C'è il filo di Lucrezio, l'atomismo, la filosofia dell'amore di Cavalcanti, la magia rinascimentale, Cyrano... Poi c'è il filo della scrittura come metafora della sostanza pulviscolare del mondo: già per Lucrezio le lettere erano atomi in continuo movimento che con le loro permutazioni creavano le parole e i suoni più diversi; idea che fu ripresa da una lunga tradizione di pensatori per cui i segreti del mondo erano contenuti nella combinatoria dei segni della scrittura: l'Ars Magna di Ramòn Llull, la Kabbala dei rabbini spagnoli e quella di Pico della Mirandola... Anche Galileo vedrà nell'alfabeto il modello d'ogni combinatoria d'unità minime... Poi Leibniz... Devo imboccare questa strada? Ma la conclusione che mi attende non suonerà troppo scontata? La scrittura modello d'ogni processo della realtà... anzi, unica realtà conoscibile... anzi, unica realtà tout-court... No, non mi metterò su questo binario obbligato che mi porta troppo lontano dall'uso della parola come io la intendo, come inseguimento perpetuo delle cose, adeguamento alla loro varietà infinita. Resta ancora un filo, quello che avevo cominciato a svolgere all'inizio: la letteratura come funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere. Forse anche Lucrezio, anche Ovidio erano mossi da questo bisogno: Lucrezio che cercava - o credeva di cercare - l'impassibilità epicurea; Ovidio che cercava - o credeva di cercare - la resurrezione in altre vite secondo Pitagora. Abituato come sono a considerare la letteratura come ricerca di conoscenza, per muovermi sul terreno esistenziale ho bisogno di considerarlo esteso all'antropologia, all'etnologia, alla mitologia. Alla precarietà dell'esistenza della tribù, - siccità, malattie, influssi maligni - lo sciamano rispondeva annullando il peso del suo corpo, trasportandosi in volo in un altro mondo, in un altro livello di percezione, dove poteva trovare le forze per modificare la realtà. In secoli e civiltà più vicini a noi, nei villaggi dove la donna sopportava il peso più grave d'una vita di costrizioni, le streghe volavano di notte sui manici delle scope e anche su veicoli più leggeri come spighe o fili di paglia. Prima di essere codificate dagli inquisitori queste visioni hanno fatto parte dell'immaginario popolare, o diciamo pure del vissuto. Credo che sia una costante antropologica questo nesso tra levitazione desiderata e privazione sofferta. E' questo dispositivo antropologico che la letteratura perpetua. Prima, la letteratura orale: nelle fiabe il volo in un altro mondo è una situazione che si ripete molto spesso. Tra le "funzioni" catalogate da Propp nella Morfologia della fiaba esso è uno dei modi del "trasferimento dell'eroe" così definito: "Di solito l'oggetto delle ricerche si trova in un "altro" "diverso" reame, che può essere situato molto lontano in linea orizzontale o a grande altezza o profondità in senso verticale". Propp passa in seguito a elencare vari esempi del caso "L'eroe vola attraverso l'aria": "a dorso di cavallo o d'uccello, in sembianza d'uccello, su una nave volante, su un tappeto volante, sulle spalle d'un gigante o d'uno spirito, nella carrozza del diavolo, ecc'". Non mi pare una forzatura connettere questa funzione sciamanica e stregonesca documentata dall'etnologia e dal folklore con l'immaginario letterario; al contrario penso che la razionalità più profonda implicita in ogni operazione letteraria vada cercata nelle necessità antropologiche a cui essa corrisponde. Vorrei chiudere questa conferenza ricordando un racconto di KafKa, Der Kübelreiter (Il cavaliere del secchio). E' un breve racconto in prima persona, scritto nel 1917 e il suo punto di partenza è evidentemente una situazione ben reale in quell'inverno di guerra, il più terribile per l'impero austriaco: la mancanza di carbone. Il narratore esce col secchio vuoto in cerca di carbone per la stufa. Per la strada il secchio gli fa da cavallo, anzi lo solleva all'altezza dei primi piani e lo trasporta ondeggiando come sulla groppa d'un cammello. La bottega del carbonaio è sotterranea e il cavaliere del secchio è troppo in alto; stenta a farsi intendere dall'uomo che sarebbe pronto ad accontentarlo, mentre la moglie non lo vuole sentire. Lui li supplica di dargli una palata del carbone più scadente, anche se non può pagare subito. La moglie del carbonaio si slega il grembiule e scaccia l'intruso come caccerebbe una mosca. Il secchio è così leggero che vola via col suo cavaliere, fino a perdersi oltre le Montagne di Ghiaccio. Molti dei racconti brevi di Kafka sono misteriosi e questo lo è particolarmente. Forse Kafka voleva solo raccontarci che uscire alla ricerca d'un po' di carbone, in una fredda notte del tempo di guerra, si trasforma in quête di cavaliere errante, traversata di carovana nel deserto, volo magico, al semplice dondolio del secchio vuoto. Ma l'idea di questo secchio vuoto che ti solleva al di sopra del livello dove si trova l'aiuto e anche l'egoismo degli altri, il secchio vuoto segno di privazione e desiderio e ricerca, che ti eleva al punto che la tua umile preghiera non potrà più essere esaudita, - apre la via a riflessioni senza fine. Avevo parlato dello sciamano e dell'eroe delle fiabe, della privazione sofferta che si trasforma in leggerezza e permette di volare nel regno in cui ogni mancanza sarà magicamente risarcita. Avevo parlato delle streghe che volavano su umili arnesi domestici come può essere un secchio. Ma l'eroe di questo racconto di Kafka, non sembra dotato di poteri sciamanici né stregoneschi; né il regno al di là delle Montagne di Ghiaccio sembra quello in cui il secchio vuoto troverà di che riempirsi. Tanto più che se fosse pieno non permetterebbe di volare. Così, a cavallo del nostro secchio, ci affacceremo al nuovo millennio, senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi. La leggerezza, per esempio, le cui virtù questa conferenza ha cercato d'illustrare.

lunedì 28 aprile 2014

comunicazione specifica del Tao

M.C. Escher, Circle Limit III, 1959
Charles T. Tart descrive in questo capitolo come la comunicazione tra due o più individui dipenda dal loro stato di coscienza relativo:

State-Specific Communication
"According the general opinion of the uninitiated," mused Nasrudin, as he walked along the road, "dervishes are mad. According to the sages, however, they are the true masters of the world. I would like to test one, and myself, to make sure."
Then he saw a tall figure, robed like a Akldan dervish—reputed to be exceptionally enlightened men—coming towards him.
"Friend," said the Mulla, "I want to perform an experiment, to test your powers of psychic penetration, and also my sanity."
"Proceed," said the Akldan.
Nasrudin made a sudden sweeping motion with his arm, then clenched his fist. "What have I in my hand?"
"A horse, chariot, and driver," said the Akldan immediately.
"That's no real test",—Nasrudin was petulant—"because you saw me pick them up."













In d-ASCs people often claim to have exceptional and important insights about themselves or about the nature of the world that they are unable to communicate to the rest of us owing to the ineffability of the experience, the inadequacy of language, or the "lowness" of the ordinary d-SoC that makes us incapable of understanding "higher" things. The general scientific opinion, however, is that communicative ability deteriorates in various d-ASCs, such as drug-induced or mystical states. This opinion is usually based on the observation that the experimenter/observer has difficulty understanding what the person in the d-ASC is talking about; his comments make no sense by ordinary consensus reality standards.
I suspect that sometimes this judgment is based on fear, on the semiconscious recognition that what a person in a d-ASC is saying may be all too true, but somehow unacceptable. I recall the time when a friend of mine was having a psychotic breakdown: it struck me that half the things he said were clearly crazy, in the sense of being unrelated to the social situation around him and reflecting only his own internal processes, but the other half of the things he said were such penetrating, often unflattering, observations about what other people were really feeling and doing that they were threatening to most of us. Bennett makes the same observation, noting that after his wife had a cerebral hemorrhage she seemed to lose all the usual social inhibitions and said directly what she felt. This was extremely threatening to most people and was regarded as senile dementia or insanity; yet to a few who were not personally threatened by her observation, her comments were extremely penetrating. If you label someone as crazy, you need not listen to him.
How can we decide in an objective fashion whether someone in a d-ASC is able to communicate more or less clearly? Perhaps this is the wrong question. I propose that, for at least some d-ASCs, there are significant alterations in the manner in which a person communicates. Changes in various subsystems, especially the Evaluation and Decision-Making subsystem, produce a new logic, so that the grammar of communication, including the nonverbal aspects of expression, constitutes a different kind of language, one that may be just as effective in communicating with someone else in the same d-ASC as ordinary communication is in the ordinary d-Soc. We must consider this possibility in an objective manner, but be careful not implicitly to equate "objectivity' with the standards of only one d-SoC.
For a given d-ASC, then, how can we determine whether there is deterioration, improvement, or simply alteration in communication ability, or a complex combination of all three? More specifically, we must ask this question with respect to communication across d-SoCs—about communication between two persons in different d-SoCs as well as about communication between two persons in the same d-SoC. In regard to the last two situations, only theorizing is possible, for all published research deals only with the restricted situation of an experimental subject in a d-ASC and the experimenter/observer in his ordinary d-SoC.
If the grammar of communication is altered in a d-ASC, then clearly a judge in an ordinary d-SoC cannot distinguish between the hypotheses of deterioration and of alteration in the communicative style of a person in a d-ASC. The specialized argot of a subcultural group may sound, to an outside observer, like the talk of schizophrenics. A person familiar with that subculture, on the other hand, finds the communications exchanged among the group perfectly meaningful, perhaps extraordinarily rich. In this example, contextual clues may make the outsider suspect this is a subcultural argot, but if the group is in an institutional setting and is labeled "schizophrenic," he may readily conclude that its speech has indeed deteriorated, without bothering to study the matter further.
To judge adequately whether communicative patterns have altered (and possibly improved) rather than deteriorated, the judge must function in the same d-ASC as the communicator. Experienced marijuana smokers, for example, claim they can subtly communicate all sorts of things—especially humor—to each other while intoxicated. The degree to which an observer in a different d-SoC—for example, his ordinary d-SoC—can understand the same communication is interesting, but not a valid measure of the adequacy of the communication within the d-ASC. And, as explained in earlier chapters, identification of a person as being in a particular d-ASC must be based not just on the fact that he has undergone an induction procedure (for example, taken a drug) but on actual mapping of his location in experiential space.

Suppose the judge is in the same d-ASC as the subjects in the study, and reports that their communication is rich and meaningful, not at all deteriorated. How do we know that the judge's mental processes themselves are not deteriorated and that he is not just enjoying the illusion of understanding, rather than prosaically judging the subjects' communication? The question leads to general problems of measuring the accuracy and adequacy of communication, an area I know little about. All the work in this area has been done with respect to ordinary d-SoC communication, but I believe the techniques can be applied to this question of adequacy of communication in d-ASCs. I shall try to show this by describing one technique for rating ordinary d-SoC communication with which I am familiar that could be readily applied to judging d-ASC communication.
It is the Cloze technique. It measures, simultaneously, how well a written or verbal communication is both phrased (encoded) and how well it is understood by a receiver or judge. From a written message or a transcript of a spoken message, every fifth word is deleted. Judges then guess what the deleted words are, and the total number of words correct is a measure of the accuracy and meaningfulness of the communication. If a judge understands the communicator well, he can fill in a high proportion of the words correctly; if he does not understand him well he gets very few correct. This technique works because ordinary language is fairly redundant, so the overall context of the message allows excellent guesses about missing words. This technique can be applied to communications between subjects as judged both by a judge in the same d-ASC, thus testing adequacy of communication within the d-ASC, and by a judge in a different d-SoC, thus measuring transfer across states. We think of the different d-SoC, thus measuring transfer across states. We think of the different d-SoC as being the ordinary state, but other d-SoCs are possible, and we can eventually use this technique for a cross-comparison across all d-SoCs we know of and produce important information about both communication and the nature of various d-SoCs.
Two problems arise in applying the Cloze technique in investigating communications in d-ASCs. One is that a particular d-ASC may be associated with a switch to more nonverbal components of communication. This difficulty could probably be remedied by making videotapes of the procedure, and systematically deleting every fifth second, and letting the judges fill in the gap. The second problem is that communication in a d-ASC may be as adequate, but less redundant, a circumstance that would artificially lower the scores on the Cloze test without adequately testing the communication. I leave this problem as a challenge to others.
Another important methodological factor is the degree of adaptation to functioning in a particular d-ASC. I am sure techniques of the Cloze type would show deterioration in communication within d-ASCs for subjects who are relatively naive in functioning in those d-ASCs. Subjects have to adapt to the novelty of a d-ASC; they may even need specific practice in learning to communicate within it. The potential for an altered style of communication, state-specific communication, may be present and need to be developed, rather than being available immediately upon entering the d-ASC. I do not imply simply that people learn to compensate for the deterioration associated with a d-ASC, but rather that they learn the altered style of communication inherent in or more natural to that particular d-ASC.
In Chapter 16, in which I propose the creation of state-specific sciences, I assume that communication within some d-ASCs is adequate: this is a necessary foundation for the creation of state-specific sciences. In making this assumption, I depend primarily on experiential observations by people in d-ASCs. Objective verification with the Cloze technique or similar techniques is a necessary underpinning for this. As state-specific sciences are developed, on the other hand, technique for evaluating the adequacy of communication may be developed within particular states that can be agreed upon as "scientific" techniques within that state, even though they do not necessarily make sense in the ordinary d-SoC.
Another interesting question concerns transfer of communicative ability after the termination of a d-ASC to the ordinary (or any other) d-SoC. Experienced marijuana smokers, for example, claim that they can understand a subject intoxication on marijuana even when they are not intoxication themselves because of partial transfer of state-specific knowledge to the ordinary d-SoC. We need to study the validity of this phenomenon.
In earlier chapters I avoid talking about "higher" states of consciousness, as the first job of science is description, not evaluation. Here, however, I want to speculate on what one relatively objective definition of the adjective higher, applied to a d-SoC, could mean with respect to communication. If we consider that understanding many communications from other people is more valuable than understanding few of their communications, then a higher d-SoC is one in which communications form a variety of d-ASCs are adequately understood; a lower d-SoC is one in which understanding is limited, perhaps to the particular lower d-SoC itself.

feeling'allright with Tao?


mercoledì 23 aprile 2014

versioni molteplici del Tao

Divers Preparing for Work, Front cover illustration of the February 6, 1873. The Illustrated London News.
VERSIONI MOLTEPLICI DEL MONDO.

"What I tell you three times is true".
[Ciò che vi dico tre volte è vero.]


















Nel capitolo 2, “Ogni scolaretto sa che...”, sono state presentate al lettore un certo numero di idee fondamentali sul mondo, di proposizioni o verità elementari con cui deve venire a patti qualunque epistemologia o epistemologo serio.
In questo capitolo passo a generalizzazioni alquanto più complesse, poichè‚ la domanda che pongo prende la seguente forma immediata ed essoterica: “Che sovrappiù o incremento di conoscenza ne viene dal "combinare" informazioni derivanti da due o più sorgenti?”.
Il lettore può considerare questo capitolo e il capitolo 5, “Versioni molteplici della relazione”, come altre due nozioni che lo scolaretto dovrebbe sapere. E in effetti, nella prima stesura del manoscritto tutto questo materiale aveva un solo titolo: “Due descrizioni sono meglio di una”. Tuttavia, prolungandosi la stesura più o meno sperimentale di questo libro per un periodo di circa tre anni, il titolo venne a ricoprire una gamma notevolissima di paragrafi, e risultò evidente che la combinazione di informazioni diverse definiva un approccio assai possente a ciò che io chiamo “la struttura che connette”. Aspetti particolari di questa grande struttura attrassero la mia attenzione a causa del modo particolare in cui si potevano combinare due o più informazioni.
In questo capitolo, prenderò in considerazione quelle varietà di combinazioni che sembrerebbero fornire all'organismo percipiente informazioni sul mondo che lo circonda o su se stesso in quanto parte di tale mondo esterno (come quando la creatura vede il proprio dito del piede). Riserverò al capitolo 5 le combinazioni più sottili e anzi più biologiche o creaturali che fornirebbero al percipiente una maggior conoscenza delle relazioni e dei processi interni chiamati il "sè".
In ciascun esempio la domanda fondamentale da me posta riguarderà l'incremento di comprensione fornito dalla combinazione di informazioni. Tuttavia, il lettore tenga presente che dietro questa domanda semplice e superficiale si cela in parte la domanda più profonda e forse mistica: “Lo studio di questo caso particolare, in cui dalla comparazione delle fonti scaturisce comprensione, fornisce qualche lume su come è integrato l'universo?”. Il mio modo di procedere sarà quello di domandare quale sia l'incremento immediato in ciascun caso, ma il mio scopo ultimo è un'indagine sulla più ampia struttura che connette.

1. IL CASO DELLA DIFFERENZA.

Di tutti questi esempi, il più semplice, ma anche il più profondo, è il fatto che per creare una differenza occorrono almeno due cose. Per produrre notizia di una differenza, cioè "informazione", occorrono due entità (reali o immaginarie) tali che la differenza tra di esse possa essere immanente alla loro relazione reciproca; e il tutto deve essere tale che la notizia della loro differenza sia rappresentabile come differenza all'interno di una qualche entità elaboratrice di informazioni, ad esempio un cervello, o forse un calcolatore.
Vi è un problema profondo e insolubile a proposito della natura di quelle “almeno due” cose che tra loro generano la differenza che diventa informazione creando una differenza. E' chiaro che ciascuna di esse, da sola, è - per la mente e la percezione - una non-entità, un non-essere. Non è diversa dall'essere e non è diversa dal non-essere: è un inconoscibile, una "Ding an sich", il suono dell'applauso di una mano sola.
La materia prima della sensazione, dunque, è una coppia di valori di una qualche variabile, presentati in un certo arco di tempo a un organo di senso la cui risposta dipende dal rapporto tra i due elementi della coppia. (La natura della differenza sarà discussa nei particolari nel capitolo 4, secondo criterio).

2. IL CASO DELLA VISIONE BINOCULARE.

Consideriamo un altro caso semplice e assai noto di descrizione doppia. Che cosa si guadagna confrontando i dati raccolti da un occhio con quelli raccolti dall'altro? Generalmente, entrambi gli occhi sono rivolti verso la stessa area dell'universo circostante, il che potrebbe apparire come uno spreco di organi di senso. Ma l'anatomia mostra come da quest'uso debba derivare un vantaggio notevole. L'innervazione delle due retine e la creazione, nel chiasma ottico, di percorsi per la ridistribuzione delle informazioni è una operazione morfogenetica così straordinaria che deve certo denotare un grande vantaggio evolutivo.
In breve: la superficie di ciascuna retina è una coppa approssimativamente semisferica su cui una lente proietta un'immagine rovesciata di ciò che si vede. Pertanto, l'immagine di ciò che si trova davanti a sinistra verrà proiettata sulla parte esterna della retina destra e sulla parte interna della retina sinistra. Ciò che è sorprendente è che l'innervazione di ciascuna retina è divisa in due sistemi da una netta demarcazione verticale; quindi le informazioni portate dalle fibre ottiche della parte esterna dell'occhio destro s'incontrano, nell'emisfero cerebrale destro, con le informazioni portate dalle fibre provenienti dalla parte interna dell'occhio sinistro. Analogamente le informazioni della parte esterna della retina sinistra e della parte interna di quella destra si raccolgono nell'emisfero sinistro. L'immagine binoculare, che appare indivisa, è in realtà, una complessa sintesi, compiuta nell'emisfero destro, di informazioni provenienti dal lato sinistro e una corrispondente sintesi, compiuta nell'emisfero sinistro, di materiale proveniente dal lato destro. Successivamente questi due aggregati di informazioni sintetizzate vengono a loro volta sintetizzati in una singola immagine soggettiva dalla quale è scomparsa ogni traccia della demarcazione verticale.
Da questa elaborata disposizione derivano due generi di vantaggi: l'osservatore è in grado di migliorare la risoluzione ai bordi e i contrasti, ed è meglio in grado di leggere quando i caratteri sono piccoli o l'illuminazione fioca. E, ciò che più importa, viene prodotta informazione sulla profondità. In termini più formali, la "differenza" tra l'informazione fornita da una retina e quella fornita dall'altra è a sua volta informazione di "tipo logico diverso". Con questo nuovo genere di informazione l'osservatore aggiunge alla visione un'ulteriore "dimensione".

In figura sia A la classe o insieme delle componenti dell'aggregato di informazioni ottenute da una prima sorgente (per esempio l'occhio destro) e B la classe delle componenti delle informazioni ottenute da una seconda sorgente (per esempio l'occhio sinistro). AB rappresenterà allora la classe delle componenti cui si riferiscono le informazioni provenienti da entrambi gli occhi. AB deve o contenere elementi o essere vuota.
Se esistono effettivamente elementi di AB, le informazioni della seconda sorgente hanno imposto ad A una sottoclassificazione che prima era impossibile (cioè, combinandosi con A hanno fornito informazioni di un tipo logico di cui la prima sorgente da sola era incapace).
Procederemo ora nella ricerca di altri casi che rientrano nella stessa categoria, e in particolare in ciascun caso cercheremo di determinare come dalla giustapposizione di descrizioni multiple si generi informazione di tipo logico nuovo. In linea di principio, ogni volta che l'informazione relativa alle due descrizioni viene raccolta oppure codificata in modo diverso, ci si deve aspettare quella che metaforicamente potremmo definire una maggior 'profondità'.

3. IL CASO DEL PIANETA PLUTONE.

Gli organi di senso umani possono ricevere "soltanto" notizie di differenze, e per essere percettibili le differenze devono essere codificate in eventi "temporali" (cioè in "cambiamenti"). Le comuni differenze statiche, che rimangono costanti per più di pochi secondi, diventano percettibili solo mediante scansione ["scanning"]. Analogamente, variazioni molto lente diventano percettibili solo mediante una combinazione di scansione e accostamento di osservazioni compiute in momenti separati del continuo temporale.
Un esempio elegante (cioè economico) di questi princìpi è fornito dall'espediente usato da Clyde William Tombaugh, il quale nel 1930, giovane ricercatore fresco di laurea, scoprì il pianeta Plutone.
Dai calcoli basati sulle perturbazioni dell'orbita di Nettuno, pareva che queste irregolarità si potessero spiegare mediante l'attrazione gravitazionale di qualche pianeta su un'orbita esterna a quella di Nettuno. I calcoli permettevano di stabilire le zone del cielo nelle quali, con ogni probabilità, si sarebbe via via trovato il nuovo pianeta.
L'oggetto da cercare doveva certo essere molto piccolo e fioco (di magnitudine 15 circa), e distinguibile nell'aspetto dagli altri oggetti celesti solo per il suo moto lentissimo, tanto lento da essere affatto impercettibile all'occhio umano.
Questo problema fu risolto con l'impiego di uno strumento che gli astronomi chiamano "lampeggiatore". Si fotografò a intervalli piuttosto lunghi la zona prescelta del cielo, si studiarono poi le fotografie a coppie nel lampeggiatore. Questo strumento è l'inverso di un microscopio binoculare: invece di due oculari e un portaoggetti, ha un oculare e due portaoggetti, ed è costruito in modo che spostando una leva ciò che si vede in un dato istante su un portaoggetti può essere sostituito da ciò che sta sull'altro. Sui portaoggetti si collocano due fotografie in perfetta collimazione, in modo che tutte le stelle fisse ordinarie coincidano esattamente. Quando si sposta la leva, mentre per le stelle fisse non si osserva alcun movimento, un pianeta salta da una posizione a un'altra. Tuttavia, nel campo fotografico erano presenti molti altri oggetti che saltavano (asteroidi), e Tombaugh doveva trovarne uno che saltasse "meno" degli altri.
Dopo centinaia di confronti simili, Tombaugh vide saltare Plutone.

4. IL CASO DELLA SOMMAZIONE SINAPTICA.

"Sommazione sinaptica" è il termine tecnico usato in neurofisiologia per indicare quei casi in cui un neurone C è attivato solo dalla combinazione dei neuroni A e B.

A da solo e B da solo sono insufficienti per attivare C; ma se i neuroni A e B si attivano insieme entro un intervallo di pochi microsecondi, allora C viene eccitato. Si noti che il termine tradizionale per questo fenomeno, "sommazione", farebbe pensare a un'assommarsi dell'informazione proveniente da una sorgente all'informazione proveniente da un'altra. In realtà, non si tratta di una somma, ma della formazione di un prodotto logico, processo più affine alla moltiplicazione.
L'effetto di tale meccanismo sulle informazioni che il neurone A potrebbe fornire da solo è una segmentazione o ripartizione delle attivazioni di A in due classi, cioè le attivazioni di A accompagnate da B e le attivazioni di A non accompagnate da B. Analogamente le attivazioni del neurone B sono suddivise in due classi: quelle accompagnate da A e quelle non accompagnate da A.

5. IL CASO DELL'ALLUCINAZIONE DEL PUGNALE.

Macbeth sta per assassinare Duncan e, pieno di orrore per il suo atto, ha l'allucinazione di un pugnale (atto 2, scena 1):

“E' un pugnale questo che mi vedo davanti, col manico verso la mia destra? Vieni, lascia ch'io ti afferri. Non ti sento in mano, eppur ti vedo ancora. Fatale visione, non sei dunque sensibile al tatto come alla vista? o sei soltanto un pugnale dell'immaginazione, un parto menzognero del cervello eccitato dalla febbre? Ti vedo ancora e in una forma palpabile, come questo che or traggo. Tu mi guidi, come un araldo, a quella via per la quale io stesso mi mettevo; e tale, qual tu sei, è lo strumento ond'io dovevo servirmi. Gli occhi miei sono ludibrio degli altri sensi, o altrimenti essi valgono più di tutti loro messi insieme: io ti vedo ancora; e sulla tua lama e sull'impugnatura vedo stille di sangue che prima non v'erano. No, non c'è nulla di simile. E' l'atto sanguinoso che sto per compiere, il quale prende corpo, così, davanti agli occhi miei”
Questo esempio letterario servirà per tutti quei casi di descrizione doppia in cui vengono combinati i dati provenienti da due o più sensi diversi. Macbeth 'prova' che il pugnale è solo un'allucinazione verificando col senso del tatto, ma neppure questo basta. Forse i suoi occhi valgono più di tutti gli altri sensi messi insieme. E' solo quando “stille di sangue” compaiono sul pugnale immaginario che egli può respingere tutta la faccenda: “Non c'è nulla di simile”.
Il confronto tra l'informazione proveniente da un senso e quella proveniente da un altro, combinato con il cambiamento avvenuto nell'allucinazione, ha fornito a Macbeth la metainformazione che la sua esperienza era immaginaria.

6. IL CASO DEI LINGUAGGI SINONIMI.

In molti casi la perspicuità è accresciuta da un secondo linguaggio descrittivo senza che venga aggiunta alcuna ulteriore informazione cosiddetta oggettiva. Due dimostrazioni di un dato teorema di matematica possono in combinazione fornire allo studente una miglior comprensione della relazione dimostrata.
Ogni scolaretto sa che (a+b) al quadrato = a al quadrato+2ab+b al quadrato e forse non ignora che questa identità è il primo passo verso un imponente settore della matematica, detto "teoria binomiale". Per dimostrarla è sufficiente l'algoritmo della moltiplicazione algebrica, ove ciascun passo è in accordo con le definizioni e i postulati della tautologia detta "algebra", tautologia il cui oggetto è lo sviluppo e l'analisi della nozione di “qualunque”.

Ma molti scolaretti non sanno che esiste una dimostrazione geometrica dello stesso sviluppo binomiale. Si consideri il segmento XY e lo si supponga composto di due segmenti, a e b. Il segmento XY costituisce ora una rappresentazione geometrica di (a+b) e il quadrato costruito su di esso sarà (a+b) al quadrato; cioè avrà un'"area chiamata “(a+b) al quadrato”.
Si può ora ripartire questo quadrato segnando lungo la linea XY e lungo uno dei lati adiacenti del quadrato la lunghezza "a" e completando la figura mediante le opportune parallele ai lati del quadrato. Ora lo scolaretto può pensare di vedere il quadrato suddiviso in quattro pezzi: vi sono due quadrati, uno dei quali è a al quadrato e l'altro è b al quadrato, e due rettangoli, ciascuno dei quali ha area (a per b) (cioè 2 ab).
Così la nostra identità algebrica (a+b) al quadrato = a al quadrato+2ab+b al quadrato sembra essere vera anche nella geometria euclidea. Ma forse non si sperava che le componenti separate della grandezza a al quadrato+2ab+b al quadrato sarebbero rimaste nettamente separate nella traduzione geometrica. Ma che cosa si è detto? Con quale diritto abbiamo sostituito ad a una cosiddetta 'lunghezza' e a b un'altra, e abbiamo supposto che, messe una accanto all'altra, esse avrebbero formato un segmento (a+b) e così via? Siamo "sicuri" che le lunghezze dei segmenti obbediscano alle regole dell'aritmetica? Che cos'ha appreso lo scolaretto dalla nostra enunciazione della ben nota identità in un nuovo linguaggio?
In un certo senso, "nulla" è stato aggiunto. Nessuna nuova informazione è stata generata o colta dalla mia asserzione che anche in geometria come in algebra (a+b) al quadrato = a al quadrato+2ab+b al quadrato.
Un "linguaggio", come tale, non contiene dunque "nessuna" informazione?
Ma anche se, dal punto di vista della matematica, questo trucchetto matematico non ha aggiunto nulla, credo ugualmente che lo scolaretto che non sapeva di questo trucco avrà la possibilità di apprendere qualcosa quando glielo si mostrerà. E' un contributo al metodo didattico. La scoperta (se di scoperta si tratta) che i due linguaggi (dell'algebra e della geometria) si possono tradurre l'uno nell'altro è già di per sé un'illuminazione.
Un altro esempio matematico può aiutare il lettore a comprendere l'effetto dell'uso di due linguaggi.
Chiedete ai vostri amici: “Qual è la somma dei primi dieci numeri dispari?”. Probabilmente confesseranno di non saperlo, oppure cercheranno di sommare la serie:
1 + 3 + 5 + 7 + 9 + 11 + 13 + 15 + 17 + 19. Fate loro vedere che:
La somma del primo numero dispari è 1.
La somma dei primi due numeri dispari è 4. La somma dei primi tre numeri dispari è 9.
La somma dei primi quattro numeri dispari è 16.
La somma dei primi cinque numeri dispari è 25. E così via.
Ben presto i vostri amici diranno qualcosa come: “Ma allora la somma dei primi dieci numeri dispari dev'essere 100”. Hanno imparato il "trucco" per sommare la serie dei numeri dispari.
Ma chiedete loro di spiegarvi perchè‚ questo trucco "deve" funzionare, e il non matematico medio non saprà rispondere. (E lo stato dell'istruzione elementare è tale che molti non sapranno da che parte cominciare per creare una risposta). Ciò che si deve scoprire è la differenza tra il "nome ordinale" del numero dispari dato e il suo "valore cardinale" - una differenza di tipo logico! Noi siamo abituati ad aspettarci che il nome ordinale di un numero coincida col suo valore numerico. Ma in realtà, qui il nome non coincide con la cosa che esso designa.
La somma dei primi tre numeri dispari è 9: cioè la somma è il "quadrato del nome ordinale" (e in questo caso l'ordinale di 5 è '3') del numero più grande che compare nella serie da sommare. Oppure, se preferite è il quadrato del "numero dei numeri" nella serie da sommare. Questa è l'enunciazione verbale del trucco. Per dimostrare che il trucco funziona, dobbiamo far vedere che la differenza tra due somme consecutive di numeri dispari è uguale e "sempre" uguale alla differenza tra i quadrati dei loro nomi ordinali.
Ad esempio, la somma dei primi cinque numeri dispari meno la somma dei primi quattro numeri dispari dev'essere uguale a 5 al quadrato 4 al quadrato. Allo stesso tempo si deve notare che, ovviamente, la differenza tra le due somme è appunto il numero dispari aggiunto per ultimo alla fila. Ossia: il numero aggiunto per ultimo dev'essere uguale alla differenza tra i quadrati.
...
La presentazione visiva rende piuttosto facile combinare insieme gli ordinali, i cardinali e le regolarità della somma della serie.
E' avvenuto che l'uso di un sistema che si serve di una metafora geometrica ha facilitato enormemente la comprensione di "come" il trucco meccanico sia in effetti una regola o regolarità. E, ciò che più importa, lo studente è così giunto a rendersi conto della differenza che c'è tra applicare un trucco e comprendere che dietro il trucco vi è una verità necessaria. E, cosa più importante, ha sperimentato, forse inconsapevolmente, il salto tra il discorso aritmetico e il discorso sull'aritmetica. Non "numeri" ma "numeri di numeri".
Fu "allora", per dirla con Wallace Stevens,


"That the grapes seemed fatter. The fox ran out of his hole".
[Che i grappoli parvero più succosi. / La volpe corse fuori dalla tana.]

7. IL CASO DEI DUE SESSI.

Perchè‚ le macchine possano autoriprodursi, osservò una volta un po' scherzosamente von Neumann, sarebbe condizione necessaria che due macchine agissero in collaborazione.
La fissione con riproduzione è certo un requisito fondamentale della vita, vuoi per la moltiplicazione vuoi per la crescita, e ora i biochimici conoscono nelle loro linee generali i meccanismi della riproduzione del D.N.A. Subito dopo però viene la differenziazione, si tratti della generazione (sicuramente) casuale della varietà nell'evoluzione oppure della differenziazione ordinata dell'embriologia. La fissione, a quanto pare, "deve" essere frammezzata dalla fusione, una verità generale che esemplifica il principio di elaborazione dell'informazione che stiamo qui considerando, cioè che due sorgenti di informazione (spesso dotate di modi o linguaggi contrastanti) sono assai meglio di una.
A livello dei batteri e anche tra i protozoi e alcuni funghi e alghe, i gameti restano superficialmente identici; ma in tutti i metazoi e nelle piante di livello superiore ai funghi, il "sesso" dei gameti è distinguibile.
Per prima avviene la differenziazione binaria dei gameti, uno dei quali di solito è sessile e l'altro è mobile. Segue poi la differenziazione in due generi degli individui multicellulari produttori dei due generi di gameti.
Infine, in molti parassiti vegetali e animali, vi sono quei cicli più complessi chiamati "alternanza delle generazioni".
Tutti questi ordini di differenziazione sono certamente collegati all'economia informazionale della fissione, della fusione e del dimorfismo sessuale.
Così, tornando alla fissione e alla fusione più primitive, notiamo che il primo effetto o contributo della fusione all'economia dell'informazione genetica è presumibilmente una qualche sorta di "controllo".
Il processo di fusione dei cromosomi è essenzialmente lo stesso in tutte le piante e gli animali, e dovunque si presenti le corrispondenti catene di D.N.A. vengono poste l'una accanto all'altra e, in senso funzionale, vengono "confrontate". Se le differenze tra le catene di materiale proveniente dai rispettivi gameti sono troppo grandi, la (cosiddetta) fecondazione non può avvenire.
Nel processo complessivo dell'evoluzione, la fusione, che è il fenomeno fondamentale del sesso, ha la funzione di limitare la variabilità genetica. I gameti che per qualche motivo, una mutazione o altro, sono troppo diversi dalla norma statistica, s'incontreranno probabilmente, nella fusione sessuale, con gameti di sesso opposto più normali e in quest'incontro le deviazioni eccessive verranno eliminate. (Si noti, per inciso, che questa necessità di eliminare la deviazione sarà probabilmente soddisfatta in modo imperfetto nell'accoppiamento 'incestuoso' tra gameti provenienti da fonti strettamente affini).
Tuttavia, benché una funzione importante della fusione dei gameti nella riproduzione sessuale sembri essere la limitazione della devianza, è anche necessario sottolineare la funzione contraria: l'accrescimento della varietà fenotipica. La fusione di coppie casuali di gameti assicura l'omogeneità, nel senso di ben diffusa commistione, del "pool" genico della popolazione interessata. Nello stesso tempo, essa assicura la creazione di ogni combinazione vitale di geni possibile entro quel "pool". Ogni gene vitale, cioè, viene sottoposto a controllo in congiunzione con quante più costellazioni di altri geni è possibile entro i limiti della popolazione interessata.
Come accade di solito nel panorama dell'evoluzione, scopriamo che il singolo processo è, al pari di Giano, bifronte. In questo caso la fusione dei gameti pone una limitazione alla devianza individuale "e insieme" assicura la ricombinazione multipla del materiale genetico.

Moiré patterns appear when two or more periodic grids are overlaid slightly askew, which creates a new larger periodic pattern. Researchers from NIST and Georgia Tech imaged and interpreted the moiré patterns created by overlaid sheets of graphene to determine how the lattices of the individual sheets were stacked in relation to one another and to find subtle strains in the regions of bulges or wrinkles in the sheets. Credit: NIST.
Ref.: D. Miller, K. Kubista, G. Rutter, M. Ruan, W. de Heer, P. First and J. Stroscio, Structural analysis of multilayer graphene via atomic moiré interferometry, Physical Review B. 81. 125427. Published March 24, 2010.
8. IL CASO DEI BATTIMENTI E DEI FENOMENI DI MOIRE'.

Quando due o più strutture ritmiche si combinano, avvengono interessanti fenomeni che illustrano molto bene l'arricchimento di informazione che si ha quando una descrizione si combina con un'altra. Nel caso di strutture ritmiche, la combinazione di due di esse ne genera una terza. Diventa quindi possibile studiare una struttura sconosciuta combinandola con una seconda conosciuta e osservando la terza struttura che esse generano congiuntamente.
L'esempio più semplice di quelli che chiamo "fenomeni di moiré" è la ben nota produzione di battimenti quando vengono combinati due suoni di frequenza diversa.




Questo fenomeno è spiegabile con una trasposizione in semplici termini aritmetici, secondo la regola che se una nota presenta un massimo ogni "n" unità di tempo e l'altra ne presenta uno ogni "m" unità di tempo, allora la loro combinazione produrrà un "battimento" ogni "m-n" unità, quando i massimi coincidono. La combinazione è di utilità evidente nell'accordatura dei pianoforti. Analogamente è possibile combinare due suoni di frequenza elevatissima per produrre battimenti di frequenza sufficientemente bassa da essere uditi dall'orecchio umano. Oggi esistono apparecchi sonar per i ciechi che funzionano sulla base di questo principio: viene emesso un fascio sonoro ad alta frequenza e gli echi prodotti da questo fascio vengono rinviati a un 'orecchio' il quale emette nel contempo una frequenza più bassa ma ugualmente non udibile. I battimenti che ne risultano vengono inviati all'orecchio umano.
La faccenda diventa più complessa quando le strutture ritmiche, invece di essere limitate, come nel caso della frequenza, unicamente alla dimensione temporale, si sviluppano in due o più dimensioni. In questi casi, i risultati ottenuti combinando le due strutture possono essere sorprendenti.
Questi fenomeni di "moiré‚" illustrano tre princìpi. Primo, due strutture qualsiasi, se combinate opportunamente, possono generarne una terza. Secondo, di queste tre strutture, due a caso potrebbero servire da base per descrivere la rimanente. Terzo, attraverso questi fenomeni è possibile accostarsi a tutto il problema della definizione di ciò che si intende col termine "struttura". Forse in realtà ci portiamo dietro anche noi (come il cieco il suo sonar) campioni di tipi diversi di regolarità con cui confrontare le informazioni (notizie di differenze regolari) che arrivano dall'esterno? Usiamo, per esempio, le nostre abitudini di quella che si chiama “dipendenza” per saggiare le caratteristiche di altre persone?
Gli animali (e addirittura le piante) posseggono forse caratteristiche tali che entro una data nicchia qualcosa di simile al fenomeno di "moire‚" saggia la nicchia stessa? Altri problemi sorgono a proposito della natura dell'esperienza "estetica". La poesia, la danza, la musica e altri fenomeni ritmici sono certo molto arcaici e probabilmente più antichi della prosa. Inoltre è caratteristico delle percezioni e dei comportamenti arcaici che il ritmo venga continuamente modulato; cioè, la poesia o la musica contengono materiali che potrebbero essere elaborati da qualunque organismo ricevente con pochi secondi di memoria mediante "confronto per sovrapposizione".
E' possibile che questo universale fenomeno artistico, poetico e musicale sia in qualche modo connesso al "moiré"? Se così è, la mente individuale è certo organizzata in profondità in modi che un'analisi dei fenomeni di "moiré" potrebbe aiutarci a capire. Nei termini della definizione di “spiegazione” proposta nel paragrafo 9, diremo che la matematica o 'logica' formale del "moiré" può fornire una tautologia adeguata sulla quale proiettare questi fenomeni estetici.

9. IL CASO DELLA 'DESCRIZIONE', DELLA 'TAUTOLOGIA' E DELLA 'SPIEGAZIONE'