Il salto nell'abisso
C'era una sola pista che portava alla mesa. Una volta lì, mi accorsi che non era cosi ampia come mi era apparsa quando la guardavo da lontano. La vegetazione non era diversa da quella che cresceva ai piedi della montagna: legnosi cespugli di un verde smorto, con un'ambigua somiglianza con gli alberi.
Non vidi subito I'abisso; solo quando don Juan mi condusse, scoprii che la mesa terminava in un precipizio. La montagna, di forma tondeggiante, era profondamente erosa sui versanti est e sud; a nord e a ovest, invece, sembrava tagliata con un coltello. In piedi sull'orlo, vedevo il fondo del burrone, forse tremila metri più in basso. Era coperto dagli stessi cespugli che crescevano dappertutto li intorno.
Facendo il giro della mesa, scoprii che si trattava in realtà della cima piatta di una montagna di discrete dimensioni. La fila di rilievi che si allungava a nord e a sud doveva essere stata parte di un canyon gigantesco e antichissimo, scavato da un fiume scomparso da tempo.
Un'erosione aveva profondamente intaccato i bordi del canyon, in certi punti spianandoli all'altezza del terreno. L'unica area intatta era quella su cui ci trovavamo noi.
"E' roccia solida" osservò don Juan, come se avesse letto nei miei pensieri. Con il mento indicò il baratro.
"Se qualcosa dovesse cadere laggiù, si fracasserebbe sulle rocce."
Fu questo l'inizio della conversazione che avemmo quel giorno, sulla vetta della montagna. In precedenza, don Juan mi aveva spiegato che il suo tempo sulla Terra era giunto al termine. Era pronto per il viaggio supremo. Io ne ero rimasto sconvolto. Avevo perso ogni controllo sulla realtà per sprofondare in un misericordioso stato di frammentazione, simile forse a quello che segue un esaurimento nervoso. Ma un frammento centrale era intatto: me stesso bambino. Tutto il resto era incertezza, imprecisione. Ero rimasto in quello stato di frammentarietà cosi a lungo che tornarci rappresentò per me l'unica via di uscita.
Successivamente, si verificò una stranissima interazione tra livelli diversi della mia consapevolezza. Con don Juan, il suo discepolo don Genaro e i due apprendisti Pablito e Nestor, ci arrampicammo sulla cima della montagna. Pablito, Nestor e io eravamo lì per adempiere al nostro ultimo compito di apprendisti: saltare in un abisso; una faccenda quanto mai misteriosa che don Juan mi aveva illustrato su piani diversi di consapevolezza, rna che fino a quel giorno era rimasta un enigma per me.
Don Juan disse scherzando che avrei dovuto tirar fuori il mio taccuino e prendere appunti su quel nostro ultimo incontro. Mi diede una leggera gomitata alle costole e, soffocando una risata, mi assicurò che sarebbe stato del tutto adeguato, dato che proprio prendendo appunti avevo cominciato la via del guerriero-viaggiatore.
Don Genaro intervenne dicendo che prima di noi, altri guerrieri-viaggiatori erano saliti su quella montagna per affrontare il viaggio nell'ignoto. Don Juan si rivolse a me e a bassa voce disse che presto sarei entrato con le mie sole forze nell'infinito, e che lui e don Genaro erano lì solo per dirmi addio. Di nuovo don Genaro si intromise dicendo che io avrei dovuto fare lo stesso con loro.
"Una volta che sarai entrato nell'infinito" riprese don Juan, "non potrai contare su di noi per il tuo eventuale ritorno. Sarà necessaria una tua decisione. Solo tu potrai decidere se tornare o meno. Devo inoltre avvertirti che solo pochi guerrieri-viaggiatori sopravvivono a questo incontro con l'infinito. L'infinito esercita un'attrazione smisurata. Per un guerriero-viaggiatore tornare nel mondo del disordine, della compulsione, del rumore e della sofferenza, è quanto mai sgradevole. Non devi pensare all'alternativa tra il tornare o il restare come a una scelta ragionevole, bensì come a una questione di intento."
"Se sceglierai di non tornare" continuò, scomparirai come inghiottito dalla terra. Se invece deciderai di tornare, dovrai aspettare come un vero guerriero-viaggiatore finché il tuo compito, qualunque esso sia, non si sarà concluso con una vittoria o una sconfitta."
...
Con molta pazienza, don Juan mi spiegò che la solitudine non è ammissibile per un guerriero. I guerrieri-viaggiatori, disse, possono contare su un'entità su cui concentrare tutto il loro amore e le loro cure: questa terra meravigliosa, la madre, la matrice, l'epicentro di tutto quello che siamo e che f'acciamo; l'essere a cui tutti
facciamo ritorno e che permette ai guerrieri-viaggiatori di intraprendere il viaggio supremo.
Don Genaro procedette quindi a un atto di magico intento a mio beneficio. Sdraiato bocconi, eseguì una serie di movimenti, trasformandosi in un grumo di luminosità che sembrava nuotare, quasi che il terreno fosse una piscina. Don Juan disse che quello era il modo in cui don Genaro abbracciava l'immensità, della Terra e che, a dispetto delle diversità di dimensioni, la Terra prendeva atto di quel gesto. I movimenti di don Genaro e la spiegazione di don Juan bastarono a mutare la mia
tristezza in una gioia infinita.
"Non sopporto l'idea che te ne vada, don Juan" mi sentii dire, ma il suono della mia voce e le parole che avevo formulato mi precipitarono nell'imbarazzo. E quando ricominciai a piangere, pieno di autocommiserazionei, il mio sgomento aumentò. "Che cosa mi sta succedendo, don Juan?" mormorai. "Di solito non sono così."
"Quello che ti succede è che la tua consapevolezza è tornata al livello delle dita dei piedi" mi rispose ridendo.
Allora anche le ultime tracce di controllo mi abbandonarono e mi arresi alla disperazione e all'abbattimento.
"Resterò solo" dissi con voce stridula. "Cosa mi succederà? Che cosa ne sarà di me?"
"Mettiamola cosi" don Juan era calmissimo. "Per lasciare questo mondo e affrontare l'ignoto, ho bisogno di tutta la mia forza, di tutta la mia capacità di sopportazione, di tutta la mia fortuna; ma soprattutto, ho bisogno di tutto il coraggio di un gueriero-viaggiatore. E per restare e agire come un guerriero-viaggiatore, tu hai bisogno delle stesse cose. Avventurarsi là fuori, così come ci apprestiamo a fare, non è certo un gioco, ma non lo è neppure il restare."
Travolto dall'emozione, gli baciai la mano.
"Ehi, ehi, ehi!" rise lui. "II tuo prossimo passo sarà erigere un tabernacolo per i miei guaraches!"
L'autocommiserazione che mi aveva invaso si tramutò in un senso altrettanto acuto di perdita. "Te ne vai" ansimai. "Mio dio! Te ne vai per sempre!"
Allora don Juan fece quello che mi aveva fatto più volte dal giorno del nostro incontro. Il suo viso si gonfiò come dilatato da un'inspirazione profonda, mi premette con forza il palmo della mano sinistra sulla schiena e disse: "Sollevati dal livello dei tuoi piedi! Alzati!".
Un istante dopo ero di nuovo perfettamente coerente, con il pieno controllo di me. Sapevo che cosa dovevo fare e non avevo più alcuna esitazione, né timore. Non mi importava che cosa sarebbe stato di me una volta che don Juan se ne fosse andato. Sapevo che la sua partenza era imminente. Lui mi guardò, e quell'occhiata disse ogni cosa.
"Non ci incontreremo mai più" disse con dolcezza. "Non hai più bisogno del mio aiuto, né io desidero offrirtelo, perché ora sei un vero guerriero-viaggiatore e mi disprezzeresti se ci provassi. Oltre un determinato punto, la sola gioia del guerriero-viaggiatore è la sua solitudine. Né vorrei che tu tentassi di aiutare me. Una volta che me ne sarò andato, sarà per sempre. Non pensare a me, perché io non penserò a te. Se sei un guerriero-viaggiatore degno, sii perfetto! Prenditi cura del tuo mondo. Onoralo, proteggilo con la vita!"
Si allontanò. Non era più il momento per l'autocommiserazione o per le lacrime e neppure per la felicità. Scosse la testa in un gesto di congedo, o forse era un muto riconoscimento di quello che io provavo.
"Dimentica il sé e non temerai nulla, qualunque sia il livello di consapevolezza in cui ti troverai" disse ancora.
Ebbe un momento di giocosità, quasi fosse deciso a prendersi gioco di me fino all'ultimo. Alzò la mano e piegò le dita come fanno i bambini.
"Ciao" disse.
Sapevo che sarebbe stato futile provare dolore o rimpianto e che per don Juan andarsene era difficile come per me era difficile restare. Eravamo entrambi intrappolati in un'irreversibile operazione energetica che mai avremmo potuto arrestare. Eppure, avei voluto unirmi a lui, seguirlo ovunque andasse. Mi balenò alla mente il pensiero che, se fossi morto, avrebbe accettato la mia compagnia.
E allora vidi come don Juan Matus, il nagual, guidò i quindici veggenti che erano i suoi compagni, la sua corte, la sua gioia, a sparire uno a uno nella foschia che sovrastava la mesa, in direzione nord. Li vidi mutarsi in un grumo di luminosità e insieme ascendere e fluttuare al di sopra della mesa, simili a luci spettrali. Sorvolarono una volta la montagna, proprio come don Juan aveva predetto: l'ultima ricognizione, quella destinata ai loro occhi soltanto; l'ultimo sguardo a questa terra meravigliosa. Poi svanirono.
Sapevo che cosa dovevo fare. Non restava più tempo. Corsi verso l'abisso e saltai nel baratro. Per un momento sentii il vento sul mio viso, poi l'oscurità misericordiosa mi accolse come un placido fiume sotterraneo