giovedì 12 giugno 2014

Rinascita (10 di Spade)


Questa carta raffigura l'evoluzione della consapevolezza così come l'ha descritta Friedrich Nietzsche nel suo libro “Così parlò Zarathustra”. Egli parla di tre livelli: il Cammello, il Leone e il Bambino. Il cammello è sonnacchioso, ottuso, appagato. Vive nell'illusione, credendo di essere la vetta di una montagna, ma di fatto si preoccupa tanto dell'opinione altrui che gli resta ben poca energia per sé. Dal cammello emerge il leone: allorché ci rendiamo conto di ciò che ci siamo lasciati sfuggire nella vita, iniziamo a dire di no alle pretese degli altri. Ci allontaniamo dalla folla, soli e orgogliosi, ruggendo la nostra verità. Ma questa non è la conclusione: alla fine emerge il bambino, né condiscendente né ribelle, ma innocente e spontaneo, e vero rispetto al proprio essere. Qualsiasi sia lo spazio in cui ti trovi in questo momento - assonnato e depresso, oppure ruggente e ribelle - sii consapevole che, se lo permetti, si evolverà in qualcosa di nuovo. È tempo di crescere e cambiare.

Nello Zen non vieni da alcun luogo e non stai andando verso alcun luogo. Sei semplicemente qui, adesso, senza andare né venire. Ogni cosa scorre di fronte a te; la tua consapevolezza lo riflette, ma non si identifica. Quando un leone ruggisce di fronte a uno specchio, pensi che lo specchio ruggisca? E se il leone se ne va e compare un bambino che danza, lo specchio dimentica totalmente il leone e inizia a danzare col bambino - ma pensi che lo specchio balli col bambino? Lo specchio non fa nulla, si limita a riflettere. La tua consapevolezza è solo uno specchio. Tu non vieni, né vai. Le cose vanno e vengono. Diventi un giovane, invecchi; sei vivo, sei morto - tutti questi stati sono semplici riflessi in una eterna pozza di consapevolezza.

boogie Tao

mercoledì 11 giugno 2014

ecologia e flessibilità nel Tao urbano

Pitigliano, Alex Gutkin
ECOLOGIA E FLESSIBILITÀ NELLA CIVILTÀ URBANA*
* Nell' ottobre 1970 l'autore fu invitato a presiedere un convegno ristretto di cinque giornate sulla «Ristrutturazione dell'ecologia di una grande città», patrocinato dalla Wenner-Gren Foundation. Uno degli scopi del convegno era di far incontrare i partecipanti con i pianificatori nell'ufficio del sindaco di New York,]ohn Lindsay, per esaminare le parti più qualificanti della teoria ecologica. Questo saggio fu scritto per il convegno e riveduto in seguito. Il sesto paragrafo, sulla "Trasmissione della teoria», fu aggiunto più tardi e contiene riflessioni successive al convegno.

In primo luogo converrà non proporsi uno scopo preciso o definitivo, bensì avere un'idea astratta di ciò che si potrebbe intendere per salute ecologica. Questa nozione generale guiderà tanto la raccolta dei dati quanto la valutazione delle tendenze osservate.
La mia proposta consiste allora nel definire un'ecologia sana della civiltà umana più o meno a questo modo:
Un sistema unico di ambiente più una civiltà umana elevata in cui la flessibilità della civiltà si armonizzi con quella dell'ambiente per dar luogo a un complesso sistema dinamico, aperto a mutamenti graduali di caratteristiche anche fondamentali (cioè programmate rigidamente).
Passiamo ora a considerare alcuni termini di questa definizione di salute sistemica e a metterli in relazione con le condizioni che si riscontrano nel mondo esistente.

UNA CIVILTÀ ELEVATA

È evidente che l'introduzione dei metalli, della ruota e della scrittura ha reso sempre più instabile il sistema uomo-ambiente. Dimostrano questo asserto la deforestazione dell'Europa e i deserti causati dall'attività umana nel Medio Oriente e in Africa.
Le civiltà nascono e muoiono. Una nuova tecnologia per lo sfruttamento della natura o una nuova tecnica di sfruttamento degli altri uomini permette la nascita di una civiltà. Ma, quando raggiunge i limiti di ciò che può sfruttare in quel dato modo, quella civiltà è destinata prima o poi a scomparire. La nuova invenzione provvede libertà d'azione o flessibilità, ma l'esaurimento di questa flessibilità conduce alla morte.
O l'uomo è troppo intelligente, e allora siamo condannati, oppure non è stato abbastanza intelligente da limitare la sua brama a comportamenti che non distruggano il sistema dinamico complessivo. lo propendo per la seconda ipotesi.
Si rende allora necessario elaborare una definizione di civiltà 'elevata'.
a) Non sarebbe saggio (anche se fosse possibile) tornare all'innocenza degli Aborigeni australiani, degli Eschimesi e dei Boscimani, perché ciò comporterebbe la perdita della saggezza che ha spinto a questo ritorno e non farebbe che rimettere in moto daccapo tutto il processo.
b) Si deve quindi presumere che, sotto il profilo tecnico, una civiltà 'elevata' possieda tutti gli strumenti necessari a favorire, mantenere (e anche incrementare) questo tipo generale di saggezza. Questi strumenti potrebbero benissimo comprendere anche calcolatori e complesse apparecchiature di comunicazione.
c) Una civiltà 'elevata' deve possedere (nelle istituzioni educative e religiose) tutto ciò che è necessario per mantenere nella popolazione la saggezza necessaria e per fornire alle persone soddisfazione fisica, estetica e creativa. Ci dev'essere armonia tra la flessibilità delle persone e quella della civiltà. Nella civiltà dev' esserci diversità, non solo per accogliere la diversità genetica e di esperienza delle persone, ma anche per creare la flessibiltà e il 'preadattamento' necessari ad affrontare mutamenti imprevedibili.
d) Una civiltà 'elevata' dovrebbe limitare le proprie interazioni con 1'ambiente. Dovrebbe consumare risorse naturali non rinnovabili solo allo scopo di facilitare i mutamenti necessari (come una crisalide in metamorfosi deve vivere dei propri lipidi). Per il resto il metabolismo della civiltà deve dipendere dall'energia che l'astronave Terra riceve dal Sole. Di conseguenza è necessario un grande progresso tecnico. E' probabile che, se si usassero come fonti di energia solo la fotosintesi, i venti, le maree e l'energia idrica, il pianeta potrebbe mantenere, con la tecnologia attuale, solo una piccola frazione dell'attuale popolazione umana.


LA FLESSIBILITÀ

Per conseguire nello spazio di poche generazioni qualcosa che somigli al sistema sano ora immaginato, o anche solo per uscire dal solco fatale del destino di cui la nostra civiltà è oggi prigioniera, sarà necessaria una grandissima flessibilità. Conviene dunque esaminare con una certa attenzione questo concetto, che è assolutamente cruciale. Dovremmo valutare non tanto i valori e le tendenze delle variabili attinenti quanto la relazione tra queste tendenze e la flessibilità ecologica.
Rifacendomi a Ross Ashby, supporrò che qualsiasi sistema biologico (per esempio l'ambiente ecologico, la civiltà umana e il sistema che risulta dalla combinazione dei due) si possa descrivere in termini di variabili interconnesse, ciascuna delle quali abbia una soglia di tolleranza superiore e una inferiore, oltre le quali non possono non presentarsi disagi, patologie e da ultimo la morte. Entro questi limiti la variabile può modificarsi (e di fatto si modifica) per conseguire l'adattamento. Se, per effetto di una qualche tensione, una variabile è obbligata ad assumere un valore prossimo al suo limite di tolleranza superiore o inferiore, diremo che il sistema è 'alle strette' rispetto a questa variabile, ovvero che manca di 'flessibilità' sotto questo aspetto.
Ma, poiché le variabili sono interconnesse, se una variabile è alle strette, di solito le altre non possono essere modificate senza forzare la variabile alle strette. Quindi la perdita di flessibilità si diffonde in tutto il sistema. In casi estremi il sistema accetta solo quei mutamenti che modificano i limiti di tolleranza della variabile alle strette. Per esempio una società sovrappopolata ricerca quei cambiamenti (aumento di cibo, nuove strade, più case, e cosi via) che possono rendere più accettabili le condizioni patologiche e patogene della sovrappopolazione. Ma proprio queste modificazioni ad hoc possono portare, alla lunga, a patologie ecologiche più fondamentali.
In sostanza si può dire che le patologie della nostra epoca sono il risultato cumulativo di questo processo, l' esaurimento della flessibilità in risposta a tensioni di vario genere (specie quella dovuta al sovraccarico demografico) e al rifiuto di accettare quei sottoprodotti della tensione (per esempio epidemie e carestie) che sono da sempre i correttivi del sovraccarico demografico.
L'ecologo teorico si trova di fronte a un dilemma: da una parte, se vuole che i suoi consigli siano ascoltati, deve in primo luogo raccomandare tutto ciò che può dare al sistema un contributo positivo di flessibilità; dall'altra, le persone e le istituzioni con cui ha a che fare hanno una naturale propensione a divorare tutta la flessibilità esistente. L'ecologo deve insomma creare flessibilità e impedire che la civiltà la invada consumandola immediatamente.
Ne segue che mentre il suo fine è quello di accrescere la flessibilità, e quindi egli è meno dispotico dei pianificatori sociali (che in genere tendono a incrementare i controlli di legge), l'ecologo deve anche esercitare una certa autorità per conservare la flessibilità già esistente o quella che può essere creata. Su questo punto (come per le risorse naturali non rinnovabili) le sue raccomandazioni debbono essere dispotiche.
La flessibilità sociale è una risorsa preziosa quanto il petrolio o il titanio e dev' essere amministrata in modo opportuno, onde essere sfruttata (come i lipidi) per i mutamenti necessari. Grosso modo, poiché l'esaurimento della flessibilità è dovuto a sottosistemi rigenerativi (che cioè si esaltano) interni alla civiltà, in ultima analisi sono questi sottosistemi che devono essere tenuti sotto controllo.
A questo punto è importante osservare che la flessibilità sta alla specializzazione come l'entropia sta all'entropia negativa. La flessibilità può essere definita come potenziale non impegnato di cambiamento.
Un centralino telefonico presenta il massimo di entropia negativa, di specializzazione, di carico d'informazione e di rigidità quando tanti dei suoi circuiti sono usati che una sola chiamata in più potrebbe bloccare il sistema. Il centralino presenta un massimo di entropia e di flessibilità quando nessuno dei suoi circuiti è impegnato. (In questo esempio lo stato di non uso non è uno stato impegnato).
Si osservi che la contabilità della flessibilità è frazionaria (e non sottrattiva, come quella del denaro o dell'energia).


LA DISTRIBUZIONE DELLA FLESSIBILITÀ

Ancora secondo Ashby, la distribuzione della flessibilità tra le molte variabili di un sistema è una questione di grandissima importanza.
Il sistema sano che abbiamo immaginato sopra può essere paragonato a un acrobata sulla corda. Per mantenere la verità dinamica della sua premessa fondamentale ("Sono sulla corda"), l'acrobata dev'essere libero di passare da una posizione di instabilità a un'altra; vale a dire: certe variabili, come la posizione delle braccia e la loro velocità di movimento, devono avere una grande flessibilità, che l'acrobata sfrutta per mantenere la stabilità di altre caratteristiche più fondamentali e generali. Se le sue braccia sono bloccate o paralizzate (cioè isolate dalla comunicazione), egli cade.
A questo proposito, è interessante considerare l'ecologia del nostro sistema giuridico. Per ovvie ragioni è difficile controllare per legge i princìpi etici e astratti fondamentali da cui dipende il sistema sociale. Storicamente, infatti, gli Stati Uniti vennero fondati sul principio della libertà religiosa e della libertà di pensiero, di cui è un esempio classico la separazione tra Stato e Chiesa.
D'altra parte, è abbastanza facile promulgare leggi che fissino i particolari più episodici e superficiali del comportamento umano. In altre parole, al proliferare delle leggi il nostro acrobata è sempre più limitato nel movimento delle braccia, ma gli viene dato il permesso di cadere dalla corda. Si noti di passaggio che l'analogia dell'acrobata si può applicare a un livello superiore. Durante il periodo in cui l'acrobata impara a muovere le braccia in modo appropriato, è necessario fornirgli una rete di sicurezza, cioè è necessario concedergli la libertà di cadere dalla corda. La libertà e la flessibilità rispetto alle variabili più fondamentali possono essere necessarie durante il processo di apprendimento come durante la creazione di un nuovo sistema attraverso il cambiamento sociale.
Questi sono paradossi dell'ordine e del disordine che l'ecologo teorico e il pianificatore devono valutare.
Comunque sia, non è infondato asserire che negli ultimi cent'anni, specie negli Stati Uniti, i mutamenti sociali hanno portato a una distribuzione inappropriata della flessibilità tra le variabili della civiltà. Le variabili che dovrebbero essere flessibili sono state bloccate, mentre quelle che dovrebbero essere relativamente stabili, e cambiare solo con lentezza, sono state rese più libere.
In ogni caso, il ricorso alla legge non è certo il metodo più adatto per stabilizzare le variabili fondamentali. Ciò dovrebbe avvenire grazie ai processi dell' educazione e della formazione del carattere, quelle componenti cioè del nostro sistema sociale che ora sono, e presumibilmente saranno, soggette alla massima perturbazione.

Erik Johansson
LA FLESSIBILITÀ DELLE IDEE

Una civiltà funziona sulla base di idee aventi tutti i gradi possibili di generalità. Queste idee sono presenti (alcune in forma esplicita, altre in forma implicita) nelle azioni e nelle interazioni delle persone; alcune sono consce e ben definite, altre sono vaghe e molte sono inconsce. Alcune sono largamente condivise, altre si radicano in modo differenziato nei vari sottosistemi della società.
Se riteniamo che la riserva di flessibilità sia un concetto fondamentale per comprendere come funziona il sistema ambiente-civiltà, e se è vero che tutta una categoria di patologie è collegata a un uso dissennato di questa risorsa, allora la flessibilità delle idee avrà certo una parte importante nella nostra teoria e nelle nostre pratiche.
Per chiarire questo punto diamo qualche esempio di idee fondamentali della cultura:

«La regola aurea», «Occhio per occhio» e «Giustizia».
«Il senso comune dell'economia della scarsità» contrapposto a «Il senso comune dell'abbondanza»,
«Il nome di questa cosa è "sedia"», e molte delle premesse reificanti della lingua.
«La sopravvivenza del più adatto» contrapposta a «La sopravvivenza dell' organismo-più-ambiente».
Le premesse della produzione di massa, delle sfide, del]'orgoglio, e così via.
Le premesse del transfert, le idee sulla formazione del carattere,le teorie sull'educazione, e così via.
I modelli delle relazioni interpersonali - dominanza, amore, e così via.

In una civiltà le idee (come tutte le altre variabili) sono interconnesse, in parte attraverso una sorta di 'psico-logica' e in parte attraverso un consenso generale sugli effetti quasi concreti dell'azione.
Una caratteristica di questa complessa rete di determinazione delle idee (e delle azioni) è che spesso certe maglie della rete sono deboli, ma ogni singola idea o azione è soggetta a una determinazione multipla da parte di molti fili intrecciati. Quando andiamo a letto, spegniamo la luce spinti in parte dall' economia della scarsità, in parte dalle premesse del transfert, in parte dal bisogno di privatezza, in parte dal bisogno di ridurre gli stimoli sensoriali, e così via.
Questa determinazione multipla si riscontra in tutti i settori della biologia. Di norma, ogni aspetto dell'anatomia di un animale o pianta e ogni particolare del comportamento sono determinati da molti fattori, interagenti a livello sia genetico sia fisiologico; e, allo stesso modo, i processi di qualunque ecosistema dinamico sono il risultato di una determinazione multipla.
Inoltre, in un sistema biologico, è piuttosto raro imbattersi in una funzione che sia direttamente detenninata solo dal bisogno che essa soddisfa. La nutrizione è regolata più dalla golosità, dall'abitudine e dalle convenzioni sociali che dalla fame; e la respirazione è governata più dall'eccesso di anidride carbonica che dalla carenza di ossigeno. E così via.
All'opposto, i prodotti dei pianificatori e degli ingegneri sono concepiti per soddisfare bisogni specifici in modo molto più diretto, e quindi sono meno adattabili. È probabile che le molte cause che spingono a mangiare assicurino l'esecuzione di questo atto necessario in un'ampia gamma di circostanze e di sollecitazioni, mentre se la nutrizione fosse regolata solo dall'ipoglicemia, basterebbe un disturbo di quest'unica via di regolazione per causare la morte. Le funzioni biologiche essenziali non sono controllate da variabili potenzialmente letali, e sarà bene che i pianificatori lo tengano ben presente.
Su uno sfondo tanto complesso non è facile costruire una teoria della flessibilità delle idee e formulare un'economia della flessibilità. Vi sono tuttavia due indicazioni relative al problema teorico più importante. Entrambe discendono dal processo stocastico che è alla base dell'evoluzione o dell'apprendimento e che porta alla nascita di questi sistemi interconnessi di idee. Considereremo dapprima la 'selezione naturale', che decide quali idee sopravviveranno più a lungo; poi vedremo come l'azione di questo processo porti talvolta a imboccare vicoli ciechi evolutivi.
(Più in generale io considero il destino in cui la nostra civiltà è entrata un caso particolare di vicolo cieco evolutivo. I comportamenti che offrivano vantaggi a breve scadenza sono stati prima adottati, poi sono stati programmati rigidamente e, sui periodi più lunghi, hanno cominciato a dimostrarsi disastrosi. Questo è il paradigma dell'estinzione per perdita di flessibilità. E questo paradigma è certo ancora più letale quando i comportamenti abituali vengono selezionati al fine di rendere massimi i valori di certe variabili singole).
In un semplice esperimento di apprendimento (o in qualsiasi altra esperienza), un organismo, specie un essere umano, acquisisce un'ampia varietà di informazioni. Impara qualcosa sull' odore del laboratorio; impara qualcosa sui modelli di comportamento dello sperimentatore; impara qualcosa sulla propria capacità di apprendere e su che cosa si prova a dare la risposta 'giusta' o 'sbagliata'; impara che nel mondo esistono cose 'giuste' e cose 'sbagliate'. E così via.
Se poi viene sottoposto a un altro esperimento di apprendimento (o a un'altra esperienza), l'organismo acquisisce nuove informazioni: alcune informazioni del primo esperimento sono ripetute o confermate, altre sono contraddette.
In breve, alcune delle idee acquisite nella prima esperienza sopravvivono alla seconda, e la selezione naturale ribadisce in modo 'tautologico' che le idee che sopravvivono sopravviveranno più a lungo di quelle che non sopravvivono.
Ma anche nell'evoluzione mentale vi è un'economia della flessibilità. Le idee che sopravvivono all'uso ripetuto vengono in effetti gestite in un modo speciale, che è diverso dal modo in cui la mente tratta le idee nuove. Il fenomeno della formazione delle abitudini seleziona le idee che sopravvivono all'uso ripetuto e le colloca in una categoria più o meno separata. Queste idee fidate sono allora a disposizione per l'uso immediato senza un esame approfondito, mentre le parti più flessibili della mente possono essere riservate alla gestione di problemi nuovi.
In altre parole, la frequenza d'uso di una data idea diviene un fattore determinante di sopravvivenza in quell'ecologia delle idee che chiamiamo 'Mente';  oltre a ciò, la sopravvivenza di un'idea di uso frequente è ulteriormente favorita dal fatto che la formazione di abitudini tende a rimuovere questa idea dal campo dell'esame critico.
Ma la sopravvivenza di un'idea è certamente determinata anche dalle sue relazioni con altre idee. Le idee possono sostenersi a vicenda o contraddirsi l'un l'altra; possono combinarsi con maggiore o minore facilità. Possono influire l'una sull'altra in modi complessi e sconosciuti in sistemi polarizzati.
Di solito sono le idee più generali e astratte a sopravvivere all'uso ripetuto. Le idee più generali tendono così a divenire premesse da cui dipendono altre idee. Queste premesse divengono relativamente rigide.
In altre parole, nell'ecologia delle idee si svolge un processo evolutivo legato all'economia della flessibilità, e questo processo stabilisce quali idee subiranno una programmazione rigida.
Lo stesso processo fa sì che queste idee programmate rigidamente divengano nuclei o nodi entro costellazioni di altre idee, poiché la sopravvivenza di queste idee dipende da come esse si attagliano alle idee programmate rigidamente.' Ne segue che qualsiasi cambiamento di queste ultime può comportare un cambiamento in tutta la costellazione ad esse collegata.
Ma la frequenza con cui un'idea viene confermata in un dato intervallo di tempo non costituisce una dimostrazione che essa sia vera o pragmaticamente utile a lungo termine. Scopriamo oggi che parecchie premesse profondamente radicate nel nostro stile di vita non sono affatto vere e risultano
patogene quando vengano attuate mediante la tecnologia moderna.

City Fortress by alexandreev
L'ESERCIZIO DELLA FLESSIBILITÀ

Sopra si è affermato che la flessibilità complessiva di un sistema dipende dalla circostanza che molte delle sue variabili si mantengano al centro del loro intervallo di tolleranza. Ma esiste un'inversa parziale di questa asserzione generale:
Poiché molti sottosistemi della società sono per forza di cose rigenerativi, il sistema nel suo complesso tende a 'espandersi' invadendo ogni area di libertà non sfruttata.
Un tempo si diceva che "La Natura ha orrore del vuoto", e in effetti sembra che qualcosa del genere valga per il potenziale inutilizzato di cambiamento in qualunque sistema biologico.
In altre parole, se una data variabile rimane troppo a lungo nei pressi del suo valore centrale, altre variabili finiscono con l'usurpare la sua libertà, restringendone i limiti di tolleranza, finché la sua libertà di movimento si annulla; o, più precisamente, finché, per compiere qualsiasi movimento, essa è costretta a disturbare le variabili usurpatrici.
In altre parole, la variabile che non modifica il proprio valore diviene ipso facto programmata rigidamente. In effetti, descrivere in questo modo la genesi delle variabili programmate rigidamente equivale a descrivere la formazione delle abitudini.
Come mi disse una volta un maestro giapponese Zen, «Abituarsi a qualsiasi cosa è terribile».
Da tutto ciò discende che, affinché una data variabile mantenga la propria flessibilità, o questa flessibilità viene esercitata oppure è necessario tenere sotto controllo diretto le variabili usurpatrici.
Viviamo in una società che sembra preferire i divieti alle esigenze positive e quindi tentiamo di legiferare (ad esempio con leggi antitrust) contro le variabili usurpatrici; e tentiamo di difendere le 'libertà civili' bacchettando legalmente le forze usurpatrici.
Tentiamo di proibire certe usurpazioni, ma forse sarebbe meglio incoraggiare le persone ad avere conoscenza delle loro libertà e flessibilità e a usarle più spesso.
Nella nostra civiltà persino l'esercizio fisico, la cui funzione più propria sarebbe di mantenere la flessibilità di molte variabili fisiologiche spingendole a valori estremi, diventa uno 'sport da poltrona'; e lo stesso vale per la flessibilità delle norme sociali: andiamo al cinema o nei tribunali (o leggiamo i giornali) per avere un'esperienza vicaria di comportamenti eccezionali.

Jean-Francois Rauzier
LA TRASMISSIONE DELLA TEORIA

In tutte le applicazioni della teoria alle questioni umane ci s'imbatte nel problema della formazione di quanti hanno il compito di attuare i piani. Questo articolo è in primo luogo un'esposizione della teoria ai pianificatori; è un tentativo di fornir loro almeno alcune idee teoriche. Ma nel corso della ristrutturazione di una grande città, che può richiedere da dieci a trent'anni, i piani e la loro esecuzione debbono passare per la testa e per le mani di centinaia di persone e di decine di commissioni.
È importante che le cose giuste vengano fatte per i motivi giusti? E necessario che coloro che rivedono e attuano i piani comprendano le intuizioni ecologiche che hanno guidato i pianificatori? Oppure questi ultimi devono inserire nell'ordito del loro piano incentivi collaterali che spingano in seguito gli esecutori ad agire per ragioni affatto diverse da quelle che hanno ispirato il piano?
È un vecchio problema di etica, che turba (per esempio)ogni psichiatra. Deve il terapeuta ritenersi soddisfatto se un paziente si riadatta alla vita normale per ragioni nevrotiche o sbagliate?
Il problema non è solo etico nel senso ordinario, è anche ecologico. I mezzi con cui un uomo influenza un altro uomo fanno parte dell'ecologia delle idee che governano la loro relazione e fanno parte del più ampio sistema ecologico entro il quale si colloca questa relazione.
L'affermazione più severa della Bibbia è quella di san Paolo, che rivolgendosi ai Galati dice: «Dio non può essere beffato», e quest'affermazione vale per la relazione tra l'uomo e la sua ecologia. Non serve addurre a pretesto che un certo peccato d'inquinamento o di sfruttamento in fondo è di poco conto o che è stato commesso senza intenzione o con le migliori intenzioni. Oppure dire "se non l'avessi fatto io l'avrebbe comunque fatto qualcun altro". I processi ecologici non possono essere beffati.
D'altra parte, quando il puma uccide il cervo non lo fa certo per proteggere l'erba da un'eccessiva brucatura.
In effetti il problema di come comunicare le nostre argomentazioni ecologiche a coloro che vogliamo indirizzare verso quella che a noi sembra una 'buona' direzione ecologica è a sua volta un problema ecologico. Noi non siamo fuori dell' ecologia che stiamo pianificando: ne facciamo sempre e comunque parte.
In questo sta il fascino e il terrore dell'ecologia: che le idee di questa scienza stanno diventando irreversibilmente parte' del nostro stesso sistema ecosociale.
Viviamo quindi in un mondo diverso da quello del puma, il quale non prova né il fastidio né la gioia che danno le idee sull'ecologia. Noi invece sì.
Credo che queste idee non siano malvagie e che la nostra massima necessità (ecologica) sia la loro diffusione via via che si sviluppano, e via via che si sviluppano proprio grazie al processo (ecologico) della loro diffusione.
Se questo mio giudizio è corretto, allora le idee ecologiche implicite nei nostri piani sono più importanti dei piani stessi, e sarebbe una follia sacrificare queste idee sull'altare del pragmatismo. Alla lunga non conviene 'vendere' i piani con superficiali argomentazioni ad hominem che nascondono o contraddicono l'intuizione più profonda.
Mexico City

danze del Tao


Cimetiere d'Avon, Avon, Departement de Seine-et-Marne, Île-de-France, France

martedì 10 giugno 2014

il lato attivo del Tao - II

L'ultima parte dell'ultimo libro di Carlos Castaneda riprende, per la terza volta, il momento culminate del primo ciclo di insegnamenti, il salto nell'abisso e la contemporanea dissoluzione nell'infinito del gruppo del suo maestro.



Il salto nell'abisso



C'era una sola pista che portava alla mesa. Una volta lì, mi accorsi che non era cosi ampia come mi era apparsa quando la guardavo da lontano. La vegetazione non era diversa da quella che cresceva ai piedi della montagna: legnosi cespugli di un verde smorto, con un'ambigua somiglianza con gli alberi.
Non vidi subito I'abisso; solo quando don Juan mi condusse, scoprii che la mesa terminava in un precipizio. La montagna, di forma tondeggiante, era profondamente erosa sui versanti est e sud; a nord e a ovest, invece, sembrava tagliata con un coltello. In piedi sull'orlo, vedevo il fondo del burrone, forse tremila metri più in basso. Era coperto dagli stessi cespugli che crescevano dappertutto li intorno.
Facendo il giro della mesa, scoprii che si trattava in realtà della cima piatta di una montagna di discrete dimensioni. La fila di rilievi che si allungava a nord e a sud doveva essere stata parte di un canyon gigantesco e antichissimo, scavato da un fiume scomparso da tempo.
Un'erosione aveva profondamente intaccato i bordi del canyon, in certi punti spianandoli all'altezza del terreno. L'unica area intatta era quella su cui ci trovavamo noi.
"E' roccia solida" osservò don Juan, come se avesse letto nei miei pensieri. Con il mento indicò il baratro.
"Se qualcosa dovesse cadere laggiù, si fracasserebbe sulle rocce."
Fu questo l'inizio della conversazione che avemmo quel giorno, sulla vetta della montagna. In precedenza, don Juan mi aveva spiegato che il suo tempo sulla Terra era giunto al termine. Era pronto per il viaggio supremo. Io ne ero rimasto sconvolto. Avevo perso ogni controllo sulla realtà per sprofondare in un misericordioso stato di frammentazione, simile forse a quello che segue un esaurimento nervoso. Ma un frammento centrale era intatto: me stesso bambino. Tutto il resto era incertezza, imprecisione. Ero rimasto in quello stato di frammentarietà cosi a lungo che tornarci rappresentò per me l'unica via di uscita.
Successivamente, si verificò una stranissima interazione tra livelli diversi della mia consapevolezza. Con don Juan, il suo discepolo don Genaro e i due apprendisti Pablito e Nestor, ci arrampicammo sulla cima della montagna. Pablito, Nestor e io eravamo lì per adempiere al nostro ultimo compito di apprendisti: saltare in un abisso; una faccenda quanto mai misteriosa che don Juan mi aveva illustrato su piani diversi di consapevolezza, rna che fino a quel giorno era rimasta un enigma per me.
Don Juan disse scherzando che avrei dovuto tirar fuori il mio taccuino e prendere appunti su quel nostro ultimo incontro. Mi diede una leggera gomitata alle costole e, soffocando una risata, mi assicurò che sarebbe stato del tutto adeguato, dato che proprio prendendo appunti avevo cominciato la via del guerriero-viaggiatore.
Don Genaro intervenne dicendo che prima di noi, altri guerrieri-viaggiatori erano saliti su quella montagna per affrontare il viaggio nell'ignoto. Don Juan si rivolse a me e a bassa voce disse che presto sarei entrato con le mie sole forze nell'infinito, e che lui e don Genaro erano lì solo per dirmi addio. Di nuovo don Genaro si intromise dicendo che io avrei dovuto fare lo stesso con loro.
"Una volta che sarai entrato nell'infinito" riprese don Juan, "non potrai contare su di noi per il tuo eventuale ritorno. Sarà necessaria una tua decisione. Solo tu potrai decidere se tornare o meno. Devo inoltre avvertirti che solo pochi guerrieri-viaggiatori sopravvivono a questo incontro con l'infinito. L'infinito esercita un'attrazione smisurata. Per un guerriero-viaggiatore tornare nel mondo del disordine, della compulsione, del rumore e della sofferenza, è quanto mai sgradevole. Non devi pensare all'alternativa tra il tornare o il restare come a una scelta ragionevole, bensì come a una questione di intento."
"Se sceglierai di non tornare" continuò, scomparirai come inghiottito dalla terra. Se invece deciderai di tornare, dovrai aspettare come un vero guerriero-viaggiatore finché il tuo compito, qualunque esso sia, non si sarà concluso con una vittoria o una sconfitta."
...
Con molta pazienza, don Juan mi spiegò che la solitudine non è ammissibile per un guerriero. I guerrieri-viaggiatori, disse, possono contare su un'entità su cui concentrare tutto il loro amore e le loro cure: questa terra meravigliosa, la madre, la matrice, l'epicentro di tutto quello che siamo e che f'acciamo; l'essere a cui tutti
facciamo ritorno e che permette ai guerrieri-viaggiatori di intraprendere il viaggio supremo.
Don Genaro procedette quindi a un atto di magico intento a mio beneficio. Sdraiato bocconi, eseguì una serie di movimenti, trasformandosi in un grumo di luminosità che sembrava nuotare, quasi che il terreno fosse una piscina. Don Juan disse che quello era il modo in cui don Genaro abbracciava l'immensità, della Terra e che, a dispetto delle diversità di dimensioni, la Terra prendeva atto di quel gesto. I movimenti di don Genaro e la spiegazione di don Juan bastarono a mutare la mia
tristezza in una gioia infinita.
"Non sopporto l'idea che te ne vada, don Juan" mi sentii dire, ma il suono della mia voce e le parole che avevo formulato mi precipitarono nell'imbarazzo. E quando ricominciai a piangere, pieno di autocommiserazionei, il mio sgomento aumentò. "Che cosa mi sta succedendo, don Juan?" mormorai. "Di solito non sono così."
"Quello che ti succede è che la tua consapevolezza è tornata al livello delle dita dei piedi" mi rispose ridendo.
Allora anche le ultime tracce di controllo mi abbandonarono e mi arresi alla disperazione e all'abbattimento.
"Resterò solo" dissi con voce stridula. "Cosa mi succederà? Che cosa ne sarà di me?"
"Mettiamola cosi" don Juan era calmissimo. "Per lasciare questo mondo e affrontare l'ignoto, ho bisogno di tutta la mia forza, di tutta la mia capacità di sopportazione, di tutta la mia fortuna; ma soprattutto, ho bisogno di tutto il coraggio di un gueriero-viaggiatore. E per restare e agire come un guerriero-viaggiatore, tu hai bisogno delle stesse cose. Avventurarsi là fuori, così come ci apprestiamo a fare, non è certo un gioco, ma non lo è neppure il restare."
Travolto dall'emozione, gli baciai la mano.
"Ehi, ehi, ehi!" rise lui. "II tuo prossimo passo sarà erigere un tabernacolo per i miei guaraches!"
L'autocommiserazione che mi aveva invaso si tramutò in un senso altrettanto acuto di perdita. "Te ne vai" ansimai. "Mio dio! Te ne vai per sempre!"
Allora don Juan fece quello che mi aveva fatto più volte dal giorno del nostro incontro. Il suo viso si gonfiò come dilatato da un'inspirazione profonda, mi premette con forza il palmo della mano sinistra sulla schiena e disse: "Sollevati dal livello dei tuoi piedi! Alzati!".
Un istante dopo ero di nuovo perfettamente coerente, con il pieno controllo di me. Sapevo che cosa dovevo fare e non avevo più alcuna esitazione, né timore. Non mi importava che cosa sarebbe stato di me una volta che don Juan se ne fosse andato. Sapevo che la sua partenza era imminente. Lui mi guardò, e quell'occhiata disse ogni cosa.
"Non ci incontreremo mai più" disse con dolcezza. "Non hai più bisogno del mio aiuto, né io desidero offrirtelo, perché ora sei un vero guerriero-viaggiatore e mi disprezzeresti se ci provassi. Oltre un determinato punto, la sola gioia del guerriero-viaggiatore è la sua solitudine. Né vorrei che tu tentassi di aiutare me. Una volta che me ne sarò andato, sarà per sempre. Non pensare a me, perché io non penserò a te. Se sei un guerriero-viaggiatore degno, sii perfetto! Prenditi cura del tuo mondo. Onoralo, proteggilo con la vita!"
Si allontanò. Non era più il momento per l'autocommiserazione o per le lacrime e neppure per la felicità. Scosse la testa in un gesto di congedo, o forse era un muto riconoscimento di quello che io provavo.
"Dimentica il sé e non temerai nulla, qualunque sia il livello di consapevolezza in cui ti troverai" disse ancora.
Ebbe un momento di giocosità, quasi fosse deciso a prendersi gioco di me fino all'ultimo. Alzò la mano e piegò le dita come fanno i bambini.
"Ciao" disse.
Sapevo che sarebbe stato futile provare dolore o rimpianto e che per don Juan andarsene era difficile come per me era difficile restare. Eravamo entrambi intrappolati in un'irreversibile operazione energetica che mai avremmo potuto arrestare. Eppure, avei voluto unirmi a lui, seguirlo ovunque andasse. Mi balenò alla mente il pensiero che, se fossi morto, avrebbe accettato la mia compagnia.
E allora vidi come don Juan Matus, il nagual, guidò i quindici veggenti che erano i suoi compagni, la sua corte, la sua gioia, a sparire uno a uno nella foschia che sovrastava la mesa, in direzione nord. Li vidi mutarsi in un grumo di luminosità e insieme ascendere e fluttuare al di sopra della mesa, simili a luci spettrali. Sorvolarono una volta la montagna, proprio come don Juan aveva predetto: l'ultima ricognizione, quella destinata ai loro occhi soltanto; l'ultimo sguardo a questa terra meravigliosa. Poi svanirono.
Sapevo che cosa dovevo fare. Non restava più tempo. Corsi verso l'abisso e saltai nel baratro. Per un momento sentii il vento sul mio viso, poi l'oscurità misericordiosa mi accolse come un placido fiume sotterraneo

piccolo Tao senza cielo


lunedì 9 giugno 2014

il Tao in alto è come il Tao in basso

Nella seconda parte di Stati di Coscienza Charles T. Tart discute tre argomenti speculativi sulla coscienza che derivano dalla descrizione sistemica dei suoi stati:

Speculation

As Above, So Below: Five Basic Principles Underlying Physics and Psychology

I consider the material in this chapter speculative and thus appropriate for introducing this section on speculation about consciousness. The ideas presented are not basic to the applications of the systems approach to the investigation of states of consciousness but are extensions of the approach that intrigue me. They are speculative also in that I am by no means a physicist and do not really understand mathematics, the language in which so much of physics is expressed. I intend this chapter primarily as a stimulus to prompt both physicists and psychologists to think further about some of the ideas expressed here.
Most psychologists accept the idea that reality is ultimately material, composed basically of matter and energy operating within the physical framework of space and time. This is a useful set of intellectual constructs for dealing with experiences, but most psychologists think of it as an understanding of reality rather than a philosophy. Psychologists who implicitly or explicitly accept this position (which means most psychologists) thus in effect define psychology as a derivative science, one dealing with phenomena much removed from the ultimate bases of reality. A corollary is that to be really "scientific" (to be fashionable in terms of the prevailing physicalistic philosophy), psychology must ultimately reduce psychological data to physical data.

Figure 18-1 depicts the world-view of philosophical physicalism. The ultimate structures or components of reality (top) are subatomic particles. When I was a high school student, only a few such particles were known and many scientists thought that electrons, protons, and neutrons were the basics whose arrangement in patterns accounted for the way the world was. Now literally hundreds of subatomic particles have been "discovered." The word is enclosed in quotation marks because, of course, no one has actually ever seen a subatomic particle. They are assumed to exist because their presence enables sensible interpretation of various kinds of instrumental readings. Thus modern physicists picture the universe as composed of hundreds of subatomic particles being influenced by three basic types of forces: (1) the nuclear binding forces, which operate only at the extremely tiny distances inside atomic nuclei; (2) the so-called weak forces, which determine particle interaction at extremely close distances; and (3) electromagnetic forces. These forces act on the subatomic particles within a matrix of space and time, which is still largely taken for granted as simply being "space" and "time." Physics, then, is the study of this most basic level of reality.
From this most basic level this world-view builds toward life and consciousness. From subatomic particles, it moves to atoms, primarily influenced by electromagnetic forces and studied by physics and chemistry. From atoms it moves to molecules, primarily governed by chemical forces (which are electromagnetic forces) and studied most appropriately by chemistry. Next come large molecules, which to some extent are self-sustaining, hold their molecular configuration in spite of fairly large changes in their environment. Some of these cross the mysterious dividing line into the simplest forms of life, complex molecular assemblies capable of sustaining themselves and reproducing themselves in spite of environmental changes. Chemical, electromagnetic, and now gravitational forces affect things at this level, and chemistry and biology are the sciences for studying them.
Next comes the evolutionary chain of increasingly complex organisms, which soon develop specialized nervous systems, which themselves increase greatly in complexity. Chemical, electromagnetic, and gravitational forces are active here, and chemistry, biology, and physiology are the important sciences for studying them.
The human brain is considered the epitome of development of nervous systems. I suspect that this is an unduly egocentric view, for animals such as dolphins and whales certainly have larger brains than man. But, perhaps because they do not build weapons to attack each other or us, practically no one seriously considers the idea that they may be as intelligent as we — the notable exception is John Lilly. The human brain is also affected by chemical, electromagnetic, and gravitational forces. Physiology and probably information theory are appropriate sciences for dealing with the human brain.
Finally, there is consciousness, thought of as a by-product or property of the human brain, and psychology is the science for studying it. The forces affecting consciousness are not shown because, in terms of the physicalistic philosophy, social or psychological forces are derivative, not the "real" forces that actually control the universe.
This is the conservative or orthodox view of the mind discussed briefly at the beginning of this book. It does not really explain what consciousness is, but, citing good evidence that physically affecting the brain alters consciousness, asks not further questions and simply believes that consciousness itself is a product of brain functioning. The consequence of this view is that for an ultimate explanation of consciousness, the phenomena of consciousness must be reduced to those of brain functioning; brain functioning must be reduced to basic properties of nervous systems, which must be reduced to basic properties of live molecules, which in turn must be reduced to basic properties of molecules per se, which must be reduced to properties of atoms, which must finally be reduced to properties of subatomic particles.
In practice, of course, this would be extremely tedious. Certain relatively simple phenomena can be reduced one or two levels, but if I want to predict what you are next going to do, the amount of information I must deal with, starting with the knowledge of subatomic particles and various forces and building all the way up to consciousness, is simply impossible to handle.
There is no doubt that reductionism to more basic physical levels has been extremely useful in the physical sciences; and, to a certain extent, reductionism to simpler psychological events has been useful in psychology. Finding the physiological bases of psychological events or perhaps more accurately, the physiological parallels or interactions with psychological events, has also been useful. But, by and large, the attempt to reduce psychological events to physiological events is neither the only nor the best activity for psychology.
In the radical view of the mind, discussed earlier, a person's belief about the nature of reality may actually alter the reality, not just his interpretation of it. A fundamental part of the radical view is that basic awareness may have an independently real status itself, rather than being just a derivative of physical processes.

Figure 18-2 shows the scheme I propose for understanding human consciousness. Human consciousness is shown as the result of the interaction of six dimensions, each one just as real in some ultimate sense as any of the others. The dimensions are matter, energy, space, time, awareness, and an unknown factor that may be life itself. Science, guided by a physicalistic, reductionistic philosophy, investigates finer and finer levels of the matter and energy dimensions, within a certain space-time framework; but these dimensions constitute only two of the six or more dimensions that must be examined for full understanding of human consciousness.
I have added space and time as two independent dimensions more on intuition than on a basis I can cogently argue. We tend to assume that space is some uniform thing that is just there and that time is some uniform thing that is just passing. But experiences in d-ASCs (see discussion of the Space/Time subsystem, in Chapter 8) indicate that there may be other kinds of spaces and other kinds of times. I predict that some day our procedure of simply taking space and time for granted as unitary phenomena will seem quite crude.
In the systems approach, awareness is given a real and separate status. Recall the distinction between awareness and consciousness. Awareness is that basic, obviously there but hard-to-define property that makes us cognizant of things; consciousness is awareness as it is modified by and embedded in the structure of the mind. Consciousness is awareness transformed by the brain-body machine so that awareness loses some of its own innate properties, gains certain properties from the structure (probably largely brain structure) it merges with (or arises from in the conservative view), and leads to certain gestalt properties that cannot be predicted from a knowledge of either. The unknown factor dimension is added to remind us of our ignorance and because I feel intuitively that symmetry is called for in this diagram.
The first phrase of this chapter's title, "As Above, So Below," expresses my hypotheses that there is a uniform set of basic laws running the universe. I speculate that whatever fundamental principles or laws run the universe manifest themselves similarly in one area we call psychology and in another we call physics. The idea can be extended to other areas also, but I am not expert enough to do so. Thus the laws of physics, as we currently understand them, are manifestations (of an unknown degree of directness) of the basic principles running the universe; laws and principles affecting consciousness are manifestations (of an unknown degree of directness) of these same principles. Neither manifestation may be any more basic than the other. If this hypothesis is correct, parallels to the five basic principles that seem to underlie physics should be clearly discernible in the psychological area.

First Principle: Duality

Physics distinguishes between a pure energy state and a matter state, with both energy and matter operating within the framework of space and time. A convenient abbreviation for this quaternity is MEST (matter, energy, space, time). The first principle is that whenever pure energy is converted into matter, it generally (universally?) creates a pair of particles whose properties are, in some important way, opposite. An electron and a positron may be created, for example, with opposite electrical charges, or a pair of particles may be created that spin in opposite directions. Conversely, the proper interaction of a pair of such opposite particles results in their annihilation as particles and their transformation back into pure energy. Thus the transformation of energy into matter is generally done in a dualistic manner. The principle seems so general that whenever a new particle is discovered, its exact opposite is looked for as a matter of course.
Assuming that a resulting duality in a transition from an energy state to a matter state is a general universal principle, a parallel manifestation at the psychological level is seen in a phenomenon encountered in some d-ASCs, the mystical experience of unity. This is a direct experience of a condition of consciousness in which all duality is transcended. In contrast to ordinary existence in a world dominated by opposites, there is to up and down, good and evil, creator and created, I and thou; everything is oneness. Our language, of course, cannot express the experience adequately. The experience of what may have been consciousness of the Void in William's ultradeep hypnotic state may be an example of this kind. In Buddhist literature, the highest kind of samadhi, reached by successive refinements of concentration, is described as a state in which there is neither perception nor nonperception. This state of consciousness seems analogous to the condition of pure, undifferentiated energy.
But we do not live in such a state of consciousness. Few people ever attain it, and even to them it is a transient experience, though of supreme importance. All the spiritual systems that have this realization of a transcendence of duality as an experiential basis teach that in the ordinary d-SoC (and in many d-ASCs) duality is a basic principle governing the manifestation of consciousness. Thus pleasure cannot exist without pain, hope cannot exist without despair, courage cannot exist without fear, up cannot exist without down. The state of mystical unity, of Void consciousness, seems to be the experience of pure awareness, transcending all opposites, like the pure energy state, while consciousness, the condition of awareness deeply intermeshed with and modified by the structures of the mind and brain, is a realm of duality, the analog of the matter state. This seems to be a manifestation of the principle of duality in he psychological realm.
It is an exotic example, as most of us lack an experiential basis for understanding it. When we deal with human consciousness we do not deal with undifferentiated energy manifesting as two opposite particles, the simple, primary phenomena with which physics deals, but with complex, interacting systems made up of untold numbers of more elementary systems constituting the structures of the mind and brain, activated by awareness and construction, consciousness (as opposed to pure awareness), is the experiential area with which we are most familiar. As we shall see in considering the other basic principles, the fact that our ordinary psychological experience is almost always with the complex, ongoing structure of human consciousness makes it difficult to see how these basic principles, derived for ideally simplified situations, can be applied precisely.

Second Principle: Quantum Law, the Law of Discreteness

The quantum principle in physics states that because of the nature of certain physical systems, most obviously that of the atom, certain transitions from one energy configuration to another can occur only in a complete, all-or-none jump. In an atom, for example, an electron can be in one or another precise energy state, but cannot occupy an energy level intermediate between these two. It must go from one to the other, given the requisite energy to bring this about, in an all-or-none fashion. Thus there is one state, a forbidden zone, and then a second state. There may be a third state, a fourth state, and so on, but the transition is always all-or-none. When dealing macroscopic objects or systems that are made up of large numbers of the more elementary components governed by quantum laws, the aggregate, the macroscopic system, may seem to show continuity over wide ranges of intermediate values, but this is statistical illusion from a gross level of observation. For example, an aggregate made up of units, many of which are in a quantum state that we can call two, and many of which are in a quantum state that we can call three, can have an average value anywhere between two and three, depending on the relative distribution of the quantum units.
I see the quantum principle, as stated in physics, as particular manifestation of a more general principle that various components of the universe have a "shape" or "structure" or "energy configuration." On a familiar, macroscopic level, for example, water can be in three distinct states, a solid (ice), a liquid (ordinary water), or a gas (steam). There can be mechanical mixtures of the three states, as of water droplets falling or floating in the air, but the solid, liquid, and gas states are quite distinct.
The application to consciousness of this general principle, that various components of reality have properties that therefore determine the way they can interact with other units, is outlined in Chapter 2. To recapitulate briefly, a d-SoC is a system or a pattern or an overall configuration of many psychological subsystems or structures. Each subsystem shows variation within itself within certain limits, but maintains its overall identity as a subsystem. Since identity means properties, this limits the number of possible ways a stable system can be built up from the subsystems and thus limits the number of d-SoCs possible for a human being.
The induction of a d-ASC involves the application of disrupting forces to the b-SoC to push one or more subsystems beyond their stable limits and/or to disrupt the feedback loops between subsystems that stabilize the b-SoC. When enough feedback loops have been disrupted and/or enough subsystems pushed beyond their stable, ordinary ranges of functioning, the overall organization of the b-SoC breaks down, and a transitional period of varying duration occurs, with the subsystems having only transient, unstable relationships to each other. then, with the application of appropriate patterning forces, the subsystems are reassembled in a new configuration that is stable and that we call the d-ASC.
This process constitutes a kind of quantum jump, albeit not the neat quantum jump of an electron from one discrete energy state to another in an atom. We are dealing with highly composite, complex structures, and even when such structures are made up of units that operate on quantum principles, the aggregate may show various degrees of continuity. Recall the earlier discussion of individual differences. For certain individuals, the transition from a b-SoC to a d-ASC definitely shows a quantum jump, with no consciousness during the transition period. The system properties of the d-ASC are quite different from those of the b-SoC.
The quantum jump from one d-SoC to a d-ASC may be a leap along what we conceive of as a continuum or it may be the emergence of a totally new function or pattern of functioning.
The d-ASCs of which we now have some scientific knowledge occur in human beings who have been thoroughly conditioned by enculturation processes, so the quantum jumps we have seen in investigating various d-ASCs may largely represent the results of semiarbitrary cultural conditioning. That is, in a particular culture you might have to be either straight or stoned, but in another culture you may be able to be a little of each simultaneously. However, we can postulate as a general principle that the various subsystems and structures that make up the human mind cannot be put together in just any arbitrary way: each structure has properties of its own that restrict its possible interaction with other structures into a larger structure or system. Insofar as we can learn to study the mind beyond the semiarbitrary cultural conditionings of consciousness, the study of d-ASCs may eventually tell us something about the fundamental properties of the human mind and the way in which the overall system of consciousness can thus be structured, what its basic states and forbidden zones are.

Third Principle: Relativity

In nonmathematical terms the relativity principle in physics is that there is not such thing as a neutral observer. Rather, any observer exists within a particular MST framework, and this framework affects his observations.
This is more profound than saying that an observer's sense organs affect his observations. We realize, for example, that we do not naturally know how the world looks in the ultraviolet spectrum of light, but we can build instruments to make a translation for us. What is here being said is that the observer is an inherent part of the MEST framework, and this gives the observer himself characteristics, over and above what can be compensated for by special instruments, which affect his observations of thins outside himself.
The principle of relativity applies in a variety of ways in psychological work, even though most psychologists have not seriously accepted it. Indeed, it applies to you and me in our everyday lives, even though we do not always accept it. At one level, each human being, functioning in his ordinary d-SoC (or in a d-ASC), shows selective perception, selective thinking, selective action that in turn controls his perceptions. Because of his particular culture and the consensus reality to which his ordinary d-SoC has adapted him, plus his personal idiosyncrasies, he (1) is more prone to observe certain things; (2) is unlikely to observe other kinds of things at all; and (3) may have a great many transformations and distortions of what he does sense before it reaches his consciousness. This all happens unconsciously, automatically, and smoothly in the normally functioning adult. For example, the Christian missionary of the 1800s "saw" sin in the form of public display of "lust" in a native village, when the natives would have said that they were only giving polite approval to the dancers.
This kind of relativity is becoming recognized in psychology under the topics of experimenter bias and the implicit demand characteristics of experiments. An experimenter's desire to prove the hypothesis he believes in not only can influence how he perceives his data, but also can subtly influence his subjects to cooperate in ways that will erroneously "prove" his hypothesis. Your beliefs about the nature of things around you can influence the way you see things and subtly influence others to uphold your view of reality.
In addition to this culturally and individually conditioned relativity, the fact that each person is human and therefore born with certain basic properties in his nervous system, sensory receptors, and perhaps in the nature of the awareness that enters into or comes from the operation of his nervous system, equips him with built-in biases for seeing the universe in certain kinds of ways and not other ways. This applies not only to the external universe perceived through his senses or with instrumental aids, but to his observations of his own internal experiences.
It is amazing how little recognized this idea is. The old concept of the "neutral observer," common in nineteenth century physics but now long abandoned by physicists, is alive and well within the ranks of psychologists, implicitly guiding almost all experiments. A wiser course is always to assume that an observer or experimenter has biases and selectivities in the way he perceives, evaluates, and acts, even when these are not obvious.
D-ASCs are of particular interest here. The ordinary d-SoC is a complex system incorporating various selectivities for perceiving the outside world and our own internal experiences, and functioning as a tool for coping with our external and internal worlds. Transiting to a d-ASC constitutes a qualitative as well as a quantitative restructuring of the systems, which may be looked at as a new set of filters, biases, and tools for the observer/theorizer. By observing both the external and internal worlds from a variety of d-SoCs, rather than only one, we can develop a number of state-specific sciences within various d-ASCs. This enables a complementary series of views of the external and internal universes, which may partially compensate for the limits of the view found in any one d-SoC. I emphasize partially compensate, because no matter how many different d-SoCs we observe from, we are still human, and that probably implies ultimate limits on what we can do. We have not begun to approach these ultimate limits.
Note again that the idea that we must obtain complementary (I use this term in the sense it is used in physics) views of the universe from various d-SoCs, in order to get as full as view of it as possible, collides with an implicit and pervasive assumption that the ordinary d-SoC is the optimal, most logical state of consciousness and thus the one in which ultimate understandings will occur. This powerful and implicit bias, a product of enculturation, seriously hinders our thinking. We should always be open to the possibility that there is some "higher" d-SoC of which all other d-SoCs can be seen as fully comprehensible subsets: perhaps this is what enlightenment means in some ultimate sense. The ordinary d-SoC, with all its culturally conditioned limitations, is an unlikely candidate for this high degree.
The last two basic principles of physics do not have obvious parallels in known psychological functioning because the complexity of the human mind precludes such simple analogies. It is interesting, however, to consider them and assume that they ought to be manifest in the psychological realm if they are true. In this way, we can alert ourselves to look for parallels.

Fourth Principle: Conversation

The basic expression of the principle of conservation in physics is that in any reaction nothing is lost. The sum total of what goes in is the sum total of what goes out, even if there are transformations in form. This was originally thought of as the conservation of mass: the amount of matter that went into a chemical reaction was exactly equal to the amount of matter that came out of it. Because of various theoretical prospective changes, as well as the development of extremely precise measurement techniques, this definition was seen to be too simple and the principle was rephrased in terms of the conservation of the sum of mass and energy. Thus mass can be traded for energy, for example, but the sum is still the same. Modifications of the exact quantities are put into this equivalence equation in various physical situations, but the basic principle that what goes in equals what comes out holds generally through physics.
I do not see the obvious application of this to conscious experiences that we know of, because we almost never have simple, straightforward actions of consciousness that allow this kind of input-output comparison. Even apparently simple psychological reactions may consist of many separate steps that are perceived dimly or not at all due to automatization. Also, experience at almost all times involves several things going on in rapid succession or even apparently simultaneously, and we know that important unconscious reactions can occur simultaneously with conscious ones. Thus we may have conscious experiences that seem to deplete or use up psychological energy or create psychological experience (the equivalent of mass?), and other kinds of experiences that seem to increase energy, but we do not know how to assess or measure these in a clear enough way to begin to measure what goes in and what goes out and see whether they are equivalent. We may be able to develop indirect indicators of unconscious reactions or make unconscious reactions more conscious by means of therapeutic or self-observational techniques.

Fifth Principle: Law of Least Action

The physical expression of this principle is that nature is economical: when a process can occur in several alternate ways, the one requiring the least expenditure of energy is the one used. Apparent exceptions generally turn out to conform to the principle and to have seemed exceptional because they were viewed in isolation: when considered as a part of a larger system, the principle of least action is, in fact, followed.
An initial glance at psychological experience seems to show many contradictions to this. We do all sorts of things every day in ways that, even to our own perception, are certainly not the most economical ways. An observer may detect even more wasted energy. Suppose I carry a book from here into the next room. If I observe the action carefully, I will probably find that I have not used my body in a way that requires a minimal expenditure of energy to move the book from here to there. The complicating factor in trying to apply the fifth principle to psychology is the human propensity for doing several things simultaneously, many of them not in consciousness or even available to consciousness. So while carrying the book from this room to the next I may also be thinking about what to write in this chapter an using "body English" as part of my thinking process. I may also be semiconsciously trying to improve my posture, semiconsciously rebelling against the need to try and improve myself so much of the time, and so deliberately wasting some energy, either bodily or psychological energy, in order to express my "freedom."
A claim made in many spiritual writings, supported by some experiential data from various d-ASCs, is that, with effort, we can become more and more conscious of exactly what we are doing. Whether we can become conscious of everything we are doing psychologically at a given moment is unknown. Thus it is unclear whether we can ever be in a position adequately to assess whether the law of least action applies to psychological phenomena. But it may be profitable to postulate that the fifth principle does apply and then proceed to look for manifestations.
In the history of science it has often been fruitful to postulate some principle as true before there is good evidence for it, and then to examine the subject matter of the particular science with the postulate in mind. It may be profitable to follow this plan for the fourth and fifth principles. They may be true; if they are not, the need to develop more precise ways of measuring many psychological phenomena simultaneously in order to test the truth of the principles will be a major advance in itself.
As above, so below?
17th century depiction of the Emerald Tablet from the work of Heinrich Khunrath, 1606.