domenica 6 luglio 2014

la fine del Tao e il Tao delle meraviglie


Perché il sole splende ancora?
Perché gli uccelli continuano a cantare?
Forse non lo sanno
che il mondo è finito?


The End of the World


1. Il paese delle meraviglie

Un ascensore - Silenzio - Donne grasse.

L'ascensore saliva con estrema lentezza. Presumo che salisse, cioè. Ma non ne sono affatto sicuro. Era tanto lento da farmi perdere il senso della direzione. Chissà, forse scendeva, o non si muoveva neanche. Nelle circostanze in cui mi trovavo era logico immaginare che stesse salendo. Era solo una supposizione, però. Del tutto priva di fondamento. Magari ero salito di tredici piani e poi sceso di tre, o avevo fatto il giro del mondo ed ero tornato al punto di partenza. Chi poteva dirlo?

Quell'ascensore non aveva nulla in comune col rudimentale arnese installato nel mio condominio, una semplice variante di un secchio da pozzo. I due congegni erano talmente diversi che mi era difficile pensare che fossero stati concepiti per lo stesso fine, che avessero la stessa funzione e venissero chiamati con lo stesso nome. Nella loro categoria, erano praticamente agli antipodi.

Prima di tutto per la grandezza. L'ascensore in cui mi trovavo avrebbe potuto fungere da ufficio, tanto era ampio. C'era posto per una scrivania, degli schedari, un armadio, magari un angolo cottura, e sarebbe ancora avanzato dello spazio. Volendo ci si potevano far entrare pure tre cammelli e una palma di media grandezza. Per non parlare della pulizia! Era lustro come una cassa da morto nuova. Sulle pareti e sul soffitto, in lucente acciaio inossidabile, non una macchia, non un'ombra, e il pavimento era coperto da una folta moquette verde muschio. Inoltre era incredibilmente silenzioso. Quando vi ero entrato le porte si erano richiuse adagio senza far rumore - alla lettera, senza il minimo fruscio - dopodiché non avevo udito più nulla. Al punto che non capivo nemmeno se la cabina si stesse muovendo o no. I fiumi profondi sono lenti e placidi.

Altra cosa, mancava la maggior parte dei dispositivi di cui normalmente sono provvisti gli ascensori. Tanto per cominciare, non vedevo il pannello dei comandi. Introvabili i pulsanti per scegliere il piano, aprire e chiudere le porte, azionare l'arresto d'emergenza. Insomma non c'era niente. Il che mi metteva estremamente a disagio. Perché oltre ai pulsanti mancavano anche gli indicatori di posizione, la targa con il limite di carico, le norme di sicurezza e il nome del fabbricante. L'uscita d'emergenza non si capiva dove fosse. Un vero e proprio sarcofago. Assurdo che un ascensore del genere avesse ottenuto il certificato di conformità dai vigili del fuoco. Anche gli ascensori, come ogni cosa, devono sottostare a dei precisi criteri.

Osservando quelle mute pareti in acciaio inossidabile, mi tornarono in mente le leggendarie imprese del mago Houdini, che avevo visto da bambino in un film. Legato con parecchi giri di corda, si faceva mettere in un grosso baule stretto da altri giri di robusta catena e buttare giù dalle cascate del Niagara. Oppure calare con tutto l'armamentario nei ghiacci del Mare Artico. Feci un profondo sospiro, e paragonai con calma la situazione in cui mi trovavo a quella di Houdini. Non ero legato, e questo era un punto a mio favore, però ero svantaggiato dal fatto di non conoscere il trucco.

E poi altro che trucco, non sapevo nemmeno se l'ascensore si muovesse o no! Provai a schiarirmi la gola. Ne venne fuori uno strano rumore, molto diverso da quello solito. Un suono attutito, come quando si tira una zolla di terra contro un muro di cemento. Non riuscivo a credere di averlo prodotto io. Per scrupolo riprovai: stesso risultato. Rinunciai a fare altri tentativi.

Rimasi per parecchio tempo in attesa, fermo nella posizione in cui mi trovavo. Niente, le porte non si aprivano. Silenzio e immobilità, la scena sembrava una natura morta dal titolo L'uomo e l'ascensore. Cominciavo ad avere paura.

Poteva darsi che l'ascensore fosse guasto, oppure che il manovratore - supponendo che una persona con un tale incarico esistesse - si fosse completamente dimenticato che in quella cabina c'ero io. Mi era già successo altre volte che qualcuno si dimenticasse della mia esistenza. In entrambi i casi il risultato era uguale, ero chiuso in quella prigione di acciaio inossidabile. Mi concentrai e tesi l'udito: non il minimo suono. Appoggiai l'orecchio a piatto sulla parete ma non sentii nulla, tutto quel che ottenni fu di lasciare un alone bianco sul metallo. Probabilmente quella scatola era stata costruita in una lega speciale in grado di assorbire ogni suono. Allora provai a fischiettare Danny Boy, ma riuscii a emettere soltanto un rantolo che pareva quello di un cane consunto dall'asma.

Rassegnato, mi appoggiai alla parete, e tanto per ammazzare il tempo presi a contare gli spiccioli che avevo in tasca. Per una persona che esercita la mia professione, allenarsi a far passare il tempo è importante quanto per un pugile tenere in esercizio le mani stringendo delle palle di gomma. Non si tratta di un diversivo nel puro senso del termine. Le attività ripetitive sono il solo modo di riequilibrare le tendenze maldistribuite.

Comunque sia, cerco di avere sempre parecchie monete nelle tasche dei pantaloni. Nella destra metto quelle da 100 e da 500, nella sinistra quelle da 50 e da 10. Le monete da 5 e da 1 yen le lascio invece nel taschino posteriore, perché di regola non le uso. Infilai le mani in tasca e con la destra presi a contare le monete da 100 e da 500, mentre con la sinistra contavo quelle da 50 e da 10.

Chi non ha mai provato a fare quest'operazione non può nemmeno immaginare che razza di fatica sia. L'emisfero cerebrale destro e il sinistro fanno due lavori distinti, che bisogna poi mettere insieme come le due parti di un'anguria spaccata. Impossibile riuscirci senza il dovuto allenamento.

A essere sincero, non sono del tutto sicuro che i due emisferi cerebrali funzionino separatamente. Forse uno specialista in neurofisiologia darebbe un'altra spiegazione. Ma io non ho tale qualifica, e quando mi cimento in questo tipo di calcolo ho la netta impressione di usare in maniera disgiunta le due parti del mio cervello. Anche il senso di spossatezza che mi prende alla fine di questi allenamenti è qualitativamente molto diverso dalla normale stanchezza che provo dopo aver fatto dei calcoli. Così ne traggo la ragionevole conclusione che l'emisfero destro si occupa della tasca destra, quello sinistro della tasca sinistra.

Non è facile pronunciare un giudizio su se stessi, ma credo di essere propenso a dare ai fenomeni, agli eventi e agli esseri esistenti al mondo il significato che più mi conviene. Non perché sia un opportunista - d'accordo, ammetto di avere in una certa misura anche questo difetto - ma perché al mondo si verificano spesso circostanze in cui, più che trovare una soluzione giusta, interpretare le cose nella maniera più conveniente aiuta a capire la loro natura.

Supponiamo per un momento che la Terra non sia una sfera ma un gigantesco tavolino da tè: a livello di vita quotidiana quali svantaggi ne deriverebbero? Evidentemente l'esempio è paradossale, non è che si possa prendere una cosa qualunque e ricostruirla come pare e piace. Se però adottassimo la teoria del tavolino da tè, tanti problemi triviali derivanti dal fatto che la Terra è una sfera - la gravità dei corpi, il meridiano che segna il cambiamento di data, la linea dell'equatore e altre cose che non saranno mai utili a nessuno - sparirebbero, spazzati via per incanto. Quante volte le persone che hanno un'esistenza normale hanno a che fare con la linea dell'orizzonte, in vita loro?

Di conseguenza mi sforzo, nella misura del possibile, di considerare le cose dal punto di vista della convenienza. Sono persuaso che il mondo contenga moltissime possibilità. Anzi, possibilità illimitate. E la scelta fra l'una o l'altra in una certa misura spetta alle singole persone. Il mondo è un tavolino da tè formatosi per condensazione di una possibilità fra mille.

Ma torniamo al discorso di prima. Fare contemporaneamente due calcoli diversi a destra e a sinistra è un'impresa tutt'altro che semplice. Mi ci è voluto un sacco di tempo per padroneggiare la tecnica. Ma una volta che si è presa la mano - che si è capito il sistema, cioè - non la si perde più. È come andare in bicicletta, o nuotare. Però è anche necessario allenarsi. Più ci si allena, più si migliora e ci si perfeziona. È per questo che ho sempre molte monete in tasca e appena ho un po' di tempo libero mi esercito a farne la somma.

Quella volta avevo in tasca tre monete da 500 yen, diciotto da 100, sette da 50 e sedici da 10. Totale: 3810 yen. Non ebbi nessuna difficoltà a calcolarlo. Come contare le dita delle mani. Soddisfatto, mi appoggiai alla parete in acciaio inossidabile e guardai di nuovo le porte. Non accennavano ad aprirsi.

Non capivo per quale motivo restassero chiuse per tanto tempo. Dopo averci riflettuto su, ne conclusi che potevo scartare le spiegazioni banali - un guasto o una dimenticanza da parte del manovratore. Non erano realistiche. Non perché tali incidenti non possano accadere nella realtà. Al contrario, succedono in continuazione. Ma in quella realtà particolare, cioè in quello stupido e liscio ascensore, paradossalmente conveniva considerare la mancanza di contrassegni come una caratteristica. Un ascensore tanto eccentrico e perfezionato poteva dipendere da una persona distratta al punto di trascurare la manutenzione del meccanismo o far salire i visitatori e dimenticarseli dentro?

La risposta ovviamente era no. Una tale possibilità non esisteva.

Fino a un momento prima «loro» erano stati estremamente scrupolosi e attenti, addirittura pignoli. Avevano curato i minimi dettagli, procedendo tappa dopo tappa e valutando la progressione. Quando ero entrato nel palazzo, due uomini di guardia mi avevano fermato, mi avevano chiesto da chi mi stessi recando, avevano controllato la lista delle visite in programma e la mia patente, verificato la mia identità sul computer centrale, poi mi avevano perquisito con un rivelatore elettronico e infine spinto dentro a quell'ascensore. Nemmeno alla Zecca di Stato mi avrebbero sottoposto a controlli tanto minuziosi. Era inconcepibile che a quel punto le precauzioni venissero improvvisamente meno.

Restava solo una possibilità: la situazione in cui mi trovano era voluta. Non desideravano che io mi rendessi conto dei movimenti dell'ascensore. Lo manovravano così lentamente perché io non capissi se stavo salendo o scendendo. Da qualche parte doveva essere installata una telecamera a circuito chiuso. Nella portineria, all'ingresso, avevo visto una fila di schermi televisivi, molto probabilmente uno di quelli mostrava l'interno della cabina.

Per vincere la noia, pensai di scoprire dove fosse l'occhio della telecamera, poi mi dissi che non mi sarebbe stato di alcun vantaggio. Li avrei solo messi in allarme, il che forse li avrebbe indotti a manovrare l'ascensore ancora più adagio. Ne facevo volentieri a meno. Sarei solo arrivato tardi al mio appuntamento.

In conclusione decisi di restarmene tranquillo dov'ero e aspettare. Non avevo nulla da temere, né avevo ragione di sentirmi teso.

Appoggiato alla parete, le mani in tasca, ripresi a contare le monete. 3750 yen. Elementare. Ci avevo messo meno di niente.

Come, tremilasettecentocinquanta yen? No, mi sbagliavo.

A un certo punto dovevo aver commesso un errore.

Sentii i palmi delle mani imperlarsi di sudore. Negli ultimi tre anni non mi era mai successo di sbagliarmi a contare le monete che avevo in tasca. Nemmeno una volta. Brutto segno, mi piacesse o no. Dovevo recuperare subito il terreno perduto, prima che quell'infausto presagio si concretizzasse in un palese disastro.

Chiusi gli occhi e feci il vuoto nei miei due emisferi cerebrali, come se pulissi le lenti degli occhiali. Poi estrassi le mani dalle tasche, le aprii e mi asciugai i palmi sudati. Gesti ben misurati, come Henry Fonda in Ultima notte a Warlock, quando si prepara alla sparatoria. Non c'entra niente, lo so, ma vado pazzo per quel film.

Dopo essermi assicurato che le mie mani fossero ben asciutte, le infilai di nuovo in tasca. Iniziai a calcolare per la terza volta. Se la somma fosse stata uguale a una delle due precedenti tutto era a posto. Chiunque può fare uno sbaglio. La situazione particolare in cui mi trovavo mi rendeva nervoso, inoltre - devo ammetterlo - forse avevo sopravvalutato la mia memoria. E questo era stato il mio primo errore. Bastava che rifacessi il calcolo esatto e avrei risolto tutto. Ma non ne ebbi il tempo, le porte dell'ascensore si aprirono. Di colpo scivolarono ai due lati, senza preavviso, senza rumore.

Concentrato com'ero sulle monete che avevo in tasca, non me ne accorsi subito. O per la precisione, vidi che le porte si aprivano, ma per qualche secondo non afferrai il significato concreto dell'evento. Cioè che grazie all'apertura di quelle porte due spazi fino ad allora separati diventavano comunicanti. E al tempo stesso che l'ascensore su cui mi trovavo era arrivato a destinazione.

Smisi di muovere le dita dentro le tasche e guardai al di là della soglia. Vidi un corridoio, e nel corridoio una donna. Era giovane, piuttosto grassa, indossava un tailleur rosa e calzava delle scarpe rosa con il tacco alto. Il tailleur era di buona fattura, in un tessuto serico, e altrettanto serico era il viso di lei. La donna mi guardò in faccia per assicurarsi che fossi io, poi fece un cenno di assenso. Sembrava volermi dire «da questa parte». Lasciai perdere la faccenda delle monete, tirai fuori le mani di tasca e uscii dall'ascensore. Immediatamente, come se non avessero atteso altro, le porte si richiusero alle mie spalle.

Una volta nel corridoio, gettai un'occhiata in giro, ma non vidi assolutamente nulla che potesse in qualche modo indicarmi dove fossi, non il minimo indizio. Tutto quello che sapevo era che mi trovavo in una sorta di passaggio interno del palazzo, l'avrebbe capito anche un bambino.

L'edificio era incredibilmente silenzioso e ben rifinito. Come l'ascensore, era stato costruito con materiali della migliore qualità, ma nell'insieme era del tutto anonimo. Il pavimento in marmo, tirato a lucido, splendeva, e le pareti color crema avevano la stessa sfumatura delle brioche che mangio ogni mattina a colazione. Sui due lati del corridoio si susseguivano solide porte in legno, ognuna con la sua targa in metallo recante il numero della stanza, ma senza alcun ordine logico: dopo il 936 veniva il 1213, seguito dal 26. Inconcepibile, numerare le cose in quel modo assurdo. C'era qualcosa che non quadrava.

La giovane donna non parlò, si voltò verso di me per dirmi «prego, da questa parte», ma senza emettere alcun suono, soltanto le sue labbra formarono le parole. La capii perché prima di iniziare quel lavoro avevo seguito per due mesi un corso di lettura sulle labbra. Per un attimo mi domandai se non fossero le mie orecchie a farmi degli scherzi. L'ascensore non l'avevo sentito muoversi, quando mi ero schiarito la gola e avevo provato a fischiare avevo emesso suoni strani, la mia capacità di percepire i rumori doveva essersi indebolita.

Per togliermi il dubbio mi schiarii di nuovo la gola. Ne venne fuori un suono sempre attutito, ma più forte di prima, quando mi trovavo nell'ascensore. Con un senso di sollievo ritrovai fiducia nelle mie facoltà uditive. Potevo stare tranquillo, le mie orecchie non avevano nulla che non andasse. Era la ragazza che aveva qualche problema con la voce.

Avanzai dietro di lei. Il ticchettio dei suoi tacchi a spillo riecheggiava nel corridoio vuoto, come in una cava di pietra nel primo pomeriggio. I suoi polpacci inguainati nelle calze di nylon si riflettevano nel marmo.

Aveva parecchi chili di troppo. Era giovane e bella, ma grassa. Non so perché, il fatto che quella bella ragazza fosse grassa mi turbava. Camminando dietro di lei osservavo il suo collo, le sue braccia, le sue gambe. La carne le stava attaccata al corpo come neve caduta abbondante e silenziosa durante la notte.

Quando sono in compagnia di una donna giovane, bella e grassa, mi trovo sempre in uno stato confusionale. Per quale motivo non lo so neanch'io. O forse è perché ogni volta mi viene naturale figurarmi le sue abitudini alimentari. Guardandola, automaticamente me la immagino mentre mastica le foglie d'insalata messe a guarnire il piatto o raccoglie col pane la salsa alla panna, fino all'ultima goccia. Non posso impedirmelo. E quando incomincio, è come un acido che corrode il metallo: scene di lei che mangia invadono la mia testa mettendo fuori uso tutte le altre funzioni mentali.

Nel caso di una qualunque donna grassa, non ho problemi. Una cicciona ordinaria è come una nuvola che vaga nel cielo. La sua presenza non mi tocca in alcun modo. Ma se la donna oltre a essere grassa è anche giovane e bella, è tutto un altro paio di maniche. Mi sento obbligato ad assumere un atteggiamento nei suoi confronti. Perché potremmo anche finire a letto insieme, non si sa mai. Credo sia questo che crea confusione nella mia testa. E fare l'amore con una donna quando la mente non è lucida non è una cosa semplice.

Il che non vuol dire che abbia qualcosa contro le donne grasse. Provare un senso di confusione non significa detestare. Fino a oggi sono andato a letto con un certo numero di donne giovani, belle e grasse, e nel complesso non posso certo dire che siano state esperienze sgradevoli. Se uno riesce a convogliare la confusione nella direzione giusta, può arrivare a risultati magnifici, molto più brillanti del solito. È ovvio che può accadere anche il contrario: il sesso è qualcosa di estremamente delicato, non è come andare ai grandi magazzini la domenica per comprare un thermos. Inoltre due donne ugualmente belle, giovani e grasse hanno la ciccia distribuita in modo diverso; c'è un tipo di adiposità che mi spedisce nella direzione giusta, un altro che mi getta in un temporaneo smarrimento.

In questo senso, per me fare l'amore con una donna grassa è sempre una sorta di sfida. Perché ci sono tanti modi di essere grassi, come ci sono tanti modi di morire.

Questi erano i miei pensieri mentre percorrevo il corridoio dietro quella bella cicciottella. Sotto il colletto del suo elegante tailleur rosa all'ultima moda portava una sciarpa bianca. Ai lobi paffuti e graziosi delle orecchie le pendevano degli orecchini d'oro, che a ogni suo passo dondolavano in cadenza e brillavano come segnali luminosi. Considerata la sua mole, nel complesso la ragazza aveva un'andatura piuttosto leggera. E una vita relativamente sottile, graziosa, che mi piaceva molto, pur mettendo in conto la possibilità che per fare bella figura si fosse stretta in un busto o in qualche indumento del genere. Insomma, era proprio il mio tipo di grassa.

Non è per giustificarmi, ma non sono molte le donne che mi attirano. Anzi, sono piuttosto il genere d'uomo che non si lascia sedurre facilmente. Così, quando sono attratto da una donna, mi viene da chiedermi il perché. Cerco di capire se mi piaccia veramente, e in tal caso come funzioni questa attrazione, da cosa nasca e così via.

Ad ogni modo mi portai accanto a lei e mi scusai per essere otto o nove minuti in ritardo all'appuntamento.

-Non sapevo che le formalità all'ingresso sarebbero state tanto lunghe, - mi giustificai. - E poi l'ascensore era così lento... per la verità ero arrivato con dieci minuti di anticipo.

Lei annuì leggermente come per dire che capiva. Dalla sua nuca mi arrivò un sentore di acqua di colonia. Un odore che mi dava l'illusione di trovarmi in un campo di meloni in una mattina d'estate. E mi procurava una sensazione strana. Una sorta di bizzarra, assurda nostalgia, come se due ricordi diversi si sovrapponessero, in un luogo a me ignoto. A volte mi succede di provare stati d'animo di questo genere. Ma non riesco a spiegarmi il perché.

-Davvero lungo, questo corridoio, - dissi alla ragazza per avviare la conversazione. Senza smettere di camminare, lei si voltò a guardarmi. Doveva avere una ventina d'anni. Tratti regolari, la fronte ampia, una bella pelle,

-Proust, - fece fissandomi in viso. O meglio, non lo disse veramente, semplicemente le sue labbra mi dettero l'impressione di formare quella parola. Ma come prima non udii alcun suono. Neanche il rumore del suo respiro. Sembrava che mi parlasse dall'altra parte di una vetrata.

Proust?

-Marcel Proust? - le chiesi.

Lei mi guardò con espressione stupita. Poi ripeté: - Proust -. Rassegnato, tornai a mettermi dietro di lei e ripresi a seguirla, mentre cercavo tutte le parole che potevano adattarsi al movimento delle sue labbra. «Fusto», provai a dire sottovoce, «posto», «mosto» e altri vocaboli privi di nesso, l'uno dopo l'altro, senza trovarne uno convincente. Pareva che lei avesse detto proprio «Proust». Ma che nesso poteva mai esserci tra Marcel Proust e quel lungo corridoio?

Che avesse tirato fuori Proust come metafora della lunghezza? In tal caso, che modo singolare e irriverente di esprimersi! Avrei ancora capito se avesse portato a esempio il corridoio per rappresentare la lunghezza dell'opera di Proust. Fare il contrario, però, era davvero strano.

Un corridoio lungo come Marcel Proust?

Ad ogni buon conto, la seguii docilmente per quell'interminabile labirinto. Che non finiva mai, formava svolte, saliva e scendeva con brevi scale di pochi gradini. Percorremmo cinque o sei volte la lunghezza di un normale palazzo. Mi chiesi se non stessimo girando in tondo, come in un quadro di Escher. Potevamo camminare quanto volevamo, tanto la scenografia non variava. Pavimento di marmo, pareti color uovo sbattuto, porte di legno numerate a casaccio, pomi d'acciaio. Nessuna finestra. I tacchi a spillo della ragazza ticchettavano nel corridoio con lo stesso ritmo regolare, io la seguivo con le mie scarpe da ginnastica che facevano uno schiocco molle di gomma fusa. Molto più forte del solito, tanto che mi venne il dubbio che la suola stesse davvero fondendo. Era la prima volta in vita mia che camminavo sul marmo con delle scarpe da ginnastica, come potevo sapere se era il rumore normale o meno? Forse lo era per metà e per l'altra metà no, mi dissi. Perché a quel punto avevo l'impressione che ogni cosa mi venisse propinata in quella proporzione.

Quando la ragazza improvvisamente si fermò, ero talmente concentrato sul rumore delle mie scarpe che non vi feci caso e andai a sbattere col petto contro la sua schiena. Una schiena gradevolmente morbida, come una nuvola carica di pioggia. Dalla sua nuca mi arrivò l'odore d'acqua di colonia al melone di prima. A causa dell'urto lei stava per cadere in avanti, ma io fui svelto a trattenerla per le spalle.

- Mi scusi, - dissi. - Ero immerso nei miei pensieri.

La ragazza arrossi leggermente e mi guardò. Non ci avrei messo la mano sul fuoco, ma non mi parve in collera. - Tasselli, - rispose con un accenno di sorriso. Poi si raddrizzò e aggiunse: - Sela -. È chiaro che non pronunciò davvero quelle parole, le formò soltanto con le labbra.

-Tasselu? - provai a dire sottovoce fra me e me. - Sela?

-Sela, - ripeté allora lei con aria più convinta.

Poteva essere turco. Peccato che io il turco non l'avessi mai sentito in vita mia. Di conseguenza forse era un'altra cosa. A poco a poco nella mia testa la confusione cresceva, così decisi di lasciar perdere. Fine della conversazione. La mia capacità di leggere sulle labbra era ancora insufficiente. È un'operazione delicata leggere sulle labbra, mica una tecnica che si riesce a padroneggiare perfettamente in due mesi di lezioni al Centro Comunale.

La ragazza tirò fuori dalla tasca della giacca una chiave elettronica ovale e la introdusse per metà nel pomo della porta numero 728. Si sentì uno scatto e la serratura si aprì. Mirabile congegno. Ferma sulla soglia lei spinse il battente con la mano. Poi rivolta a me fece: - Somuto, sela.

Ovviamente annuii ed entrai.

2. La fine del mondo

Bestie color oro.

Con l'arrivo dell'autunno, le bestie si coprirono di un lungo mantello color oro. Oro nel puro senso della parola. Senza la minima traccia di altre tinte o sfumature, venuto al mondo in quanto tale, e in quanto tale esistente. Oro purissimo di cui, nell'intervallo fra cielo e terra, le bestie si erano ammantate.

Quando ero arrivato nella città - in primavera - il loro pelo era corto, di tanti colori. Nero, marrone, bianco, bruno-rossastro. A volte a chiazze variopinte. Rivestite di quei mantelli tutti diversi l'uno dall'altro, le bestie vagavano quietamente, come spinte dal vento, sulla terra dov'era cresciuta l'erba nuova. Erano animali tranquilli, si potrebbe quasi dire meditabondi. Perfino il loro fiato era lieve come nebbia mattutina. Mangiavano in silenzio l'erba dei prati, poi, una volta sazie, piegavano le reni, si sdraiavano a terra e facevano un breve sonno.

Passata la primavera, finita l'estate, quando la luce aveva preso una sfumatura trasparente e il primo vento autunnale increspava di piccole onde la superficie del fiume, il loro aspetto cominciò a mutare. All'inizio nel pelo spuntarono qua e là fili dorati, come germogli nati fuori stagione per qualche caso fortuito, poi i fili divennero tentacoli innumerevoli che invasero il mantello corto, fino a trasformarlo in oro splendente. La muta durò una settimana. Quasi tutte insieme, in sette giorni, le bestie divennero tutte dorate, dalla prima all'ultima. Quando il sole si alzò, il mondo si era tinto d'oro nuovo, e sulla Terra era arrivato l'autunno.

Soltanto il corno che spuntava loro in mezzo alla fronte, lungo e flessibile, era bianco. La sua pericolosa sottigliezza faceva pensare, più che a un corno, a un frammento d'osso che avesse lacerato la pelle e si fosse solidificato all'esterno. A parte il bianco del corno e l'azzurro degli occhi, le bestie erano completamente dorate. Come per provare quell'abito nuovo, scuotevano su e giù la testa, spingendo la punta del corno verso l'alto cielo autunnale. Poi entravano con le zampe nell'acqua del fiume già più fredda e allungavano il collo per mangiare le bacche rosse degli alberi.

Quando calò la notte tingendo di blu la città, salii sulla torre di guardia occidentale del muro di cinta e osservai il Guardiano dare fiato al corno per chiamare a raccolta le bestie. Una nota lunga e tre corte. Un segnale invariabile. Ogni volta che sentivo quel suono chiudevo gli occhi e lasciavo che la sua dolcezza mi pervadesse. Perché non era paragonabile a nessun altro. Come un pallido pesce trasparente, attraversava quietamente la città immersa nel buio. La sua risonanza si propagava sotto gli archi delle strade lastricate, fra i muri di pietra delle case, lungo gli argini edificati del fiume, si diffondeva in tutta la città, da un capo all'altro, come se scivolasse in una faglia di tempo invisibile contenuta nell'atmosfera.

Quando il suono del corno riecheggiava, le bestie alzavano la testa, rivolte verso memorie di tempi primordiali. Erano più di mille, e guardavano tutte nella direzione da cui proveniva il suono, prendendo la stessa posa. Alcune cessavano riverentemente di masticare le foglie di ginestra; altre, accovacciate sul selciato delle strade collegate da archi, smettevano di raspare per terra con gli zoccoli; altre ancora si svegliavano dal loro sonno nella luce del tramonto, e ognuna protendeva il capo nell'aria.

In quell'istante tutto si fermava. Solo il pelo delle bestie si muoveva, sollevato dal vento serale. Chissà a cosa pensavano in quel momento, chissà cosa vedevano. Si immobilizzavano con il collo inclinato allo stesso angolo, nella stessa direzione, lo sguardo perso nel vuoto. E tendevano le orecchie verso il suono del corno. Poi, quando infine l'ultima eco si dissolveva nella lieve oscurità, si alzavano e si mettevano in marcia verso una stessa meta, come se all'improvviso si fossero ricordate di qualcosa. L'incantesimo di un momento si rompeva, e la città risuonava del rumore di innumerevoli zoccoli. Un rumore che faceva sempre nascere nella mia mente l'immagine di infinite gocce di schiuma che salissero dal suolo e invadessero le strade, scavalcando i recinti delle case e coprendo perfino la Torre dell'Orologio.

Ma si trattava di un'illusione ottica dovuta all'oscurità. Se aprivo gli occhi la schiuma svaniva di colpo. Restava solo il rumore degli zoccoli delle bestie, la città non era cambiata. La processione scorreva come un fiume lungo le tortuose strade di pietra. Non esisteva un capobranco, un animale che guidasse gli altri. Le bestie si limitavano a seguire quel flusso silenzioso tremando un poco con le spalle, lo sguardo basso. Eppure fra una bestia e l'altra si intuiva il forte legame di una memoria segreta e indelebile, benché non si riflettesse negli occhi.

Arrivavano da nord, attraversavano il Ponte Vecchio, si univano al branco proveniente da est e procedevano insieme lungo la sponda meridionale del fiume. Poi attraversavano il quartiere industriale seguendo un canale, giravano a destra e, infilandosi in un passaggio sotto la fonderia, arrivavano ai piedi della collina occidentale. Lì, ad aspettarle sui declivi, c'erano le bestie anziane e i piccoli, che non potevano allontanarsi troppo dal cancello. A quel punto tutte insieme cambiavano direzione, proseguivano verso nord, attraversavano il ponte a ovest della città e raggiungevano il cancello.

Il Guardiano lo apriva appena vedeva arrivare le bestie. Le ante, rinforzate da spesse sbarre di ferro orizzontali, sembravano pesantissime e quasi impossibili da spostare. Alte dai quattro ai cinque metri, sul bordo superiore erano irte di innumerevoli chiodi acuminati, in modo che nessuno le scavalcasse. Una delle due restava sempre chiusa: il Guardiano apriva soltanto quella di destra. La spingeva in avanti con facilità, poi faceva uscire le bestie a gruppi. Quando l'ultima era passata, chiudeva e metteva il chiavistello.

Per quel che ne sapevo, quel cancello a ovest era l'unica uscita della città, sigillata dal muro di cinta: una lunga muraglia alta sette o otto metri che nessuno, tranne gli uccelli, poteva superare.

Sul far del giorno, di nuovo il Guardiano apriva il cancello e suonava il corno, e le bestie entravano. Quando erano tutte dentro, il cancello veniva richiuso.

-In realtà non ci sarebbe bisogno di mettere il chiavistello, - mi spiegò l'uomo. -

Chiavistello o meno, nessuno oltre a me è in grado di spingere quelle ante. Nemmeno unendo le forze di parecchie persone. Lo metto solo perché questa è la regola.

Pronunciate quelle parole, il Guardiano si tirò il berretto sugli occhi e non disse più nulla. Era un uomo grande e grosso, più di chiunque avessi mai visto in vita mia. Era così ben in carne che la camicia e la giacca parevano sul punto di strapparsi ogni volta che muoveva un muscolo. Ogni tanto, all'improvviso, chiudeva gli occhi e sprofondava in un silenzio sconfinato. Non riuscivo a capire se lo cogliesse una sorta di malinconia o se gli si bloccasse qualche funzione interna. In ogni caso, quando cadeva nel silenzio non potevo fare altro che aspettare che riprendesse consapevolezza. Quando la sua coscienza si risvegliava, apriva lentamente gli occhi, mi fissava con uno sguardo che tornava da lontano e si strofinava parecchie volte le dita sulle ginocchia, come se si sforzasse di capire la ragione della mia presenza lì.

-Perché il mattino fa uscire le bestie e la sera le fa rientrare? - gli chiesi vedendo che si rianimava.

Lui mi osservò per qualche secondo con occhi del tutto privi di emozione.

-Perché così è stato deciso, - rispose poi. - Seguo semplicemente la regola. Come il sole sorge a est e tramonta a ovest.

Il tempo che non dedicava all'apertura e alla chiusura del cancello, il Guardiano sembrava passarlo ad affilare lame. Lame di ogni sorta. Nella sua baracca aveva ammassato accette, roncole e coltelli di varie misure, e appena aveva un momento libero si metteva con impegno a strofinarli sull'apposita pietra.

Una volta affilate, le lame prendevano un innaturale bagliore bianco, come di ghiaccio, e più che riflettere la luce che ricevevano, davano l'impressione di nascondere un qualche corpo luminoso interno.

Ogni volta che guardavo la collezione dei suoi attrezzi, sulle labbra del Guardiano, che mi seguiva attentamente con lo sguardo, affiorava un sorriso soddisfatto.

-Stia attento. Basta sfiorarli per tagliarsi seriamente, - disse indicando quell'arsenale con le dita spesse come paletti di legno. - Attrezzi così mica si trovano dappertutto. Li ho fabbricati e affilati io uno per uno, con le mie mani. È il mio mestiere, un tempo facevo il fabbro. Sono tenuti con cura e ben bilanciati. Non è facile adattare il manico al peso della lama. Provi a prenderne uno in mano facendo attenzione a non tagliarsi.

Scelsi fra gli attrezzi posati sul tavolo l'ascia più piccola e provai a manovrarla due o tre volte con prudenza. Benché avessi messo poca forza nel polso, o perlomeno questa era la mia intenzione, l'ascia rispose con la prontezza di un cane ben addestrato e tagliò l'aria con un sibilo asciutto.

-Anche quella l'ho fabbricata io. Ho usato del legno di frassino vecchio di dieci anni. Ognuno ha i suoi metodi nel fabbricare le asce, io preferisco il frassino di dieci anni. Quello più giovane non va bene, e nemmeno quello troppo vecchio e spesso. Dieci anni sono il tempo giusto. È legno forte, umido, flessibile. Se ne trova di ottimo nei boschi a oriente.

-Ma cosa se ne fa di tutti questi attrezzi da taglio?

-Servono a tante cose, - disse il Guardiano. - Quando viene l'inverno, ce n'è gran bisogno. Aspetti e vedrà anche lei. Qui dura a lungo l'inverno.

Fuori dal cancello della città c'era uno spazio dove le bestie passavano la notte. Potevano bere l'acqua di un torrentello che vi scorreva. Al di là si vedevano meli a perdita d'occhio, ovunque. Frutteti che si estendevano all'infinito.

Sul lato occidentale della muraglia si trovavano tre torri di guardia alle quali si accedeva per mezzo di una scala a pioli. In cima, una semplice tettoia per ripararsi dalla pioggia e una finestra provvista di sbarre di ferro da cui si potevano vedere in basso le bestie.

- Non viene nessuno a guardarle, a parte lei, - disse il Guardiano. - Ma è normale, è appena arrivato: quando avrà vissuto qui per un po', vedrà che non le interesseranno più. Fanno tutti così. Tranne che nella prima settimana all'inizio della primavera.

In quella settimana, la gente saliva sulle torri per guardare i combattimenti fra i maschi, mi spiegò il Guardiano. Era l'epoca dell'anno in cui diventavano aggressivi, la muta del mantello invernale era appena avvenuta e le femmine ben presto avrebbero partorito. Quegli animali solitamente tanto placidi si ferivano l'uno con l'altro, a vederli in tempi normali non lo si sarebbe mai immaginato. E da tutto quel sangue che scorreva sul terreno sarebbero nate nuove vite e un nuovo ordine.

Ora era l'autunno, e le bestie se ne stavano tranquillamente accovacciate qua e là, il lungo pelo dorato splendente nella luce del tramonto. Perfettamente immobili, come statue saldamente avvitate al terreno, attendevano quiete con la testa alzata che gli ultimi raggi di sole sprofondassero nei boschi di meli. Quando alla fine il sole tramontava e la luce azzurrata della sera le copriva, abbassavano il capo, posavano il corno bianco sulla terra e chiudevano gli occhi.

Così finiva la giornata nella città.

sabato 5 luglio 2014

meta Tao design - II: Tecnologia e Realtà

Trampoline of odd imaginings, Mandelwerk
METADESIGN

Humberto Maturana


PART II

* Technology and Reality.

Technology.

Technology is operation according to the structural coherences of the different domains of doings in which one may participate as a human being. As such technology can be lived as an instrument for effective intentional action, or as a value that justifies or gives orientation to a manner of living in which all is subordinated to the pleasure lived through doing it. When it is lived in this last manner, technology becomes an addiction whose presence those addicted wish to justify through rational arguments founded on the historical reality of its great expansion in modern times.

Lived as an instrument for effective action technology has led to the progressive expansion of our operational abilities in all the domains in which there is knowledge and understanding of their structural coherences. Biotechnology is a case in which such an expansion has had recursive consequences. Thus, the expansion of biotechnology has resulted in an expansion of the knowledge of living systems as structure determined systems, and the reverse, the expansion of the knowledge of living systems as structure determined systems has led to the expansion of biotechnology. However, the expansion of biotechnology has not expanded our understanding of living systems as systems, nor has it expanded our understanding of ourselves as human beings. Quite on the contrary. The expansion of biotechnology interlaced with the explicit or implicit belief in a reductionistic genetic determination, as well as our immersion in a mercantile culture that penetrates all dimensions of our psychic existence, has obscured our view of ourselves as living beings of systemic identity that can become one kind of being or another according to how they live. In these circumstances we modern human beings live under two basic and penetrating cultural inspirations, one is that the market justifies everything, the other is that progress is a value that transcends human existence. This appears expressed in that practically all that we modern humans do is done in relation to its market value, and we talk and act as if we were carried by a trend of progress to which we must submit.

Thus, for example, now days there is much work and research in relation to the design of anthropomorphic machines, and much is argued that we humans should adapt to a time in which evolution is entering a technologic-scientific phase, looking at evolution as a process that carries us regardless of our awareness of it. Does this means that we must surrender to a cosmic force in which we are irrelevant and will disappear? What are we?

Much is said about a trend towards the technomorphisation of human existence, namely, a trend towards the reorganization of the organic in terms of the model of intelligent machines. May be this is so because the confidence in that what was considered as properly human, like the soul, the spirit, autonomous thought, the condition of self-consciousness, could not be realized through machines is eroding away in face of what seems the triumph of technology and science. In the invitation to write this article it is said: "According to Paul Virilo (a French writer) the new brain frame that is shaped by the adaptation to the electronic media (metadesign), penetrates the human neurological structures more deeply than older formations (relational processes?). Metadesign regenerates the impulses of neural transmission in a living subject and thus creates a sort of cognitive ergonomics. The result is a new anaesthetized relation between the human and the machine. Metadesign is a way of dumbing the infrastructure of human behavior." But, where are we individual responsible humans in all this that we can be so easily manipulated by other humans through their claims of generating progress in the development of the power of the machine while they satisfy their own ambitions, desires or fantasies?

No doubt that as structure determined systems we exist through our structural dynamics. No doubt as dynamic structure determined systems we exist in continuous structural change and our structure can be manipulated intentionally in order to obtain some intended consequences in our living. In that sense we are machines, molecular machines. But our human existence, our human identity does not take place in our structure. And this statement is valid for any machines as it exists as a totality in a relational space. As I have shown above, we exist as human beings as systemic entities in a relational space under continuous structural change. Furthermore, we are the kind of beings that we are as human beings, Homo sapiens amans or Homo sapiens aggressan, only as long as we participate of the systemic dynamics in which we arise and are conserved as that kind of human beings by living with other human beings. We are not predetermined genetically or otherwise to become the kind of human being that we become in our living.

We become according to how we live in a systemic manner by contributing with our living to conserve the kind of being that we become. Furthermore, what we think that we are, recursively forms part of the systemic dynamics in which we become and conserve the identity that we become. Moreover, since what we think forms part of the network of conversations that constitutes our living, we become according to our emotioning interlaced with our doings in the flow of our languaging. So, since our emotions specify the relational domain in which we are at any instant, it is our emotioning what defines the course of our individual living as well as the course of our cultural history, not our reason. This central role of emotions in defining the course of history, is not peculiar to us as cultural beings. Indeed it is the nature of the evolutionary process that it occurs in the constitution of lineages through the reproductive conservation of manners of living that are in fact defined by the relational preferences or choices of the organisms. Biological evolution is not entering a new phase with the growth of technology and science, but the evolution of human beings is following a course more and more defined by what we chose to do in front of the pleasures and fears that we live in our enjoyment or distaste of that which we produce through science and technology. This is why the question of what do we want is the central one, not the question about technology or reality.

Thus, since we are structure determined systems we are open to any structural manipulation that respects the structural coherences proper to the structural domain in which it takes place. Or, the same said in more general terms, and in a way that results more remarkable and at the same time more terrifying: anything that we may choose to design can be implemented, if the design respects the structural coherences of the domain in which it takes place.

Reality.

The notion of reality is changing but not our living in relation to it. Reality is a proposition that we use as an explanatory notion to explain our experiences. Moreover, we use it in different ways according to our emotions. This is why there are different notions of reality in different cultures or in different moments of history. Yet, we live in the same manner as the fundament of the validity of our experience that which we connote with the word real when we are not using it as an argument, that is, we live the "real" as the presence of our experience. I saw it, ... I heard it, ... I touched it, ... Indeed, this is why I claim that it is a fundamental condition in our existence as structure determined systems that we cannot distinguish in the experience itself between what we call our daily living perception and illusion. The distinction between perception and illusion is done a posteriori by devaluating an experience in relation to another that is accepted as valid without knowing if it will or will not be devaluated later in relation to another one. In fact, this is why virtual realities are called realities. Yes, what we now call virtual realities have a special character because they are associated to modern technology, and are design to involve many of our sensory dimensions, and ideally all possible ones. But in the strict sense they are nothing special, unless we use them as a powerful procedure to cheat and manipulate the lives of others. In these circumstances, what we call real, that is, that with respect to which virtual realities are virtual, are those experiences that we use as the grounding reference for our explanation of those other experiences that we live equally as real in the flow of our living, but we want to devaluate.

Our human life takes place in the relational dynamics in which we live it by living in conversations as languaging beings. As a consequence of our condition of living in conversations, our history as human beings has occurred in the continuous generation of domains of coordinations of coordinations of behaviors that float on the conservation of our living as biological entities, in a flow of shifting human realities that is possible because it does not matter how our biological living is conserved as long as it is conserved. And this historical dynamics has occurred in a way in which the biological realization of our being continuously disappears from our view as an invisible background in our daily operation as human beings unless it is directly interfered with. So, our history as human beings that begun when our ancestors begun to live in conversations, has been one of recursive creations of new realities which are all virtual with respect to the basic one of our biological existence, but which become real (non-virtual) in the flow of our human living as through their operational binding with our basic biological living they become the grounding for some new virtual reality. Therefore, that which should concern us, if we want that concern, is what do we want of our human existence, what course do we want that our humanness should follow.

Reality, when it is not just a manner of explaining our human experience, is that which in our living as human beings we live as the fundament of our living. Under these circumstances, reality is not energy, not information, however powerful these notions may appear to us in the explanation of our experiences. We explain our experiences with our experiences and with the coherences of our experiences. That is, we explain our living with our living, and in that sense we human beings are constitutively the fundament for all that exists, or may exist in our domains of cognition.

Expansions of basic reality.

Changes in the dimensions of structural coupling occurring along the evolutionary history of the different kinds of living systems, have constituted evolutionary transformations of the domains of basic reality in which they exist. The same can occur through design, in the intentional use of prosthetic means that create new dimensions of interactions for an organism which thus become new sensory domains for them. Due to its operation as a closed network of changing relations of activities, the nervous system has no intrinsic limitation for dealing with the expansion of the basic reality of the organism that it integrates. Nor does the nervous system have any intrinsic limitation for dealing with novel sensory dimension that may appear in the lives of organisms if their domains of interactions result expanded as a consequence of some independent structural changes of the medium.

If the manner of living that defines the class identity of a particular living system is conserved through the transformation of the basic biological reality in which it exists, the living system remains of the same kind, but its particular characteristics, and the relational space in which it lives, change. But if the manner of living that defines the class identity of a particular living system is not conserved, the living system disappears as a living system of that kind, and a new one appears in a new relational space.

Human bodyhood.

The love, the spirit, our consciousness and self-consciousness, responsibility, autonomous thought, are central to our existence as human beings, but not only they, also our bodyhood. The present human bodyhood is the result of the history of transformation of the bodyhood of the members of our human lineage as an outcome of their living in conversations, so it is not just any. If we modern humans were to make a robot that in its behavior is not different from us showing spiritual concerns, self-consciousness, emotions and autonomous rational thought, it would still be a robot and not a human being due to the history of its bodyhood. In the history of the cosmos such a robot may replace us and we may disappear completely as many other animal species that have become extinct, and that will be our end and the end of humanness in the cosmos. Does it matter? For me, since I do not consider progress or technology as values in themselves, it matters and I do not want that to happen!

It is possible that we human beings are becoming adapted to the interference with the natural processes in our lives through the medical use of organ transplants, artificial organs, or artificial initiation of embryonic development. May be that we accept those practices because it seems to us that they do not alter our human condition as they appear to conserve it. But at the same time it is becoming apparent that what threatens our humanness is in fact the commercial psychic space in which we now live, and in which we are ready to subordinate everything that we do to commerce as if it did not matter what happens in the flow of human history. In a commercial psychic existence, the commercial value is the first and most fundamental concern.

But, is this relation to the bodyhood in humanness essential to humanness? I think it is because those features that make us the kind of beings that we are, namely, love, social responsibility, cosmic consciousness, spirituality, ethical behavior, and expanding reflexive thought, arise in us as dynamic features of our human bodyhood conserved and cultivated in a relational human living that conserves that bodyhood. Humanness is not an expression of some computer program that specifies certain ways of operation, it is a manner of relational living that entails its being grounded on a basic bodyhood. Yes, many of our organs can be replaced by artificial ones, but they will be replacement only if they replace the original organs in the realization of the human living. Yes, it is possible to eventually make robots that openly behaves like us, but their history will be tied to their bodyhood, and as they will exist as composite entities in different domains of components than us, the domains of basic realities that they will generate will be different from ours.

* Art and design.

Art arises in design, but the aesthetic experience occurs in the wellbeing and joy that we live in being in coherence with our circumstances. So art has the artificiality of intention, expression or purpose, and everything can be a means for its realization. As such art exists in the psychic domain of the culture in which it occurs, unless there is the intention or purpose of breaking with it bringing forth some relational dimensions to human life, or some opportunity for reflection. We humans live aesthetic experiences in all the relational domains in which we dwell. It is due to the biological foundation of aesthetic experience, as well as to the fact that all that we live as human beings belongs to our relational existence, that art intertwines with our social existence and our technological present at all times.

I claim that the emotion that constitutes social coexistence is love. And love is the domain of those relational behaviors through which another being arises as a legitimate other in coexistence with oneself. As different technologies open and close different relational dimensions, they offer different possibilities for social and nonsocial coexistence, as well as different possibilities for the artist to create the relational experience that he or she may want to evoke. In all cases, though, whatever he or she does, the artist will be a participant creator of some virtual reality that may or not become a grounding reality in the course of human history. The artist is not unique in this, of course. We all human beings, and regardless of whether we are aware of this or not, are cocreators in flow of the changing realities that we live, but artists are in a very peculiar situations. Artists are poets of daily life that more than other human beings act in intended design, and, hence, what they do to the course of the history of humanness is usually not trivial. Artists as poets of daily life see or grasp the coherences of the present that the human community to which they belong lives, revealing them, according to their preferences and choices of a manner of living.

* Desires and responsibility.

We human beings always do what we want, even when we say that we are forced to do something that we do not like. What happens in this last case, is that we want the consequences that will take place as we do what we claim that we do not want to do. This is why our desires, our conscious and unconscious desires, determine the course of our lives, and the course of our human history. What we conserve, what we wish to conserve in our living, is what determines what can and what cannot change in our lives. At the same time this is why we frequently we do not want to reflect on our desires. If we do not see our desires, we can live feeling no responsibility for most of the consequences of what we do.

Artists, poets of daily life, are some of those people that can be, and frequently are aware of the course that human existence is following. This is particularly evident in science fiction writers that reveal a future that arises from their extrapolations of the coherences of our relational present. At the same time artists can be, and frequently are aware of what is missing in present human relations, such as love, honesty, social responsibility, and mutual respect, but the works in which they reveal or evoke what they see, are frequently dismissed as utopia. But in both cases it is not the medium what is central for the work of the artist, it is what they want to do. The medium is always a domain of possibilities that can be used with great or little knowledge of what can be done with it, but it is always a matter of dedication and aesthetics whether one manages or not to use it at will. What concerns me however, is the purpose, the emotioning that the artist wants to evoke.
Hommage to Benoit Mandelbrot, Mandelwerk
meta Tao design - I: Sistemi viventi

venerdì 4 luglio 2014

ri-Omaggio al Tao senza Tempo



http://www.alessandracelletti.com/







"Sono venuto al mondo molto giovane in un tempo molto vecchio."

"Quand’ero giovane, mi dicevano: «Vedrà quando avrà 50 anni». Ho 50 anni. Ma non vedo niente."

"Non leggo mai un giornale della mia opinione: la troverei deformata."

"L’esperienza è una forma di paralisi."

"Chi sono io - Tutti vi diranno che non sono un musicista. È vero. Fin dall’inizio della mia carriera, mi sono, immediatamente, situato tra i fonometrografi. Le mie opere sono pura fonometria... nessuna idea musicale ha presieduto alla [loro] creazione... Il pensiero scientifico le domina. Del resto, a me piace di più misurare un suono che ascoltarlo. Così fonometro alla mano, opero allegramente e senza indugi. C’è qualcosa ch'io non abbia pesato e misurato? Tutto Beethoven, tutto Verdi, eccetera. È molto strano."

Omaggio al Tao: Erik Satie

Tao senza tempo

Giorgio Faletti
Asti, 25 novembre 1950 – Torino, 4 luglio 2014

giovedì 3 luglio 2014

Tao Paradoxico-Philosophicus 26-29



    Un dieu donne le feu     
     Pour faire l'enfer;      
      Un diable, le miel     
       Pour faire le ciel.  
   



TRACTATUS PARADOXICO-PHILOSOPHICUS

26 Propositions and interactions: while playing language-games, paradoxical observers treat propositions (including this one) and sets of propositions (books, texts, etc.) as paradoxical contexts for interactions, considering all possibilities..
26.1 These observers think and converse about tentative objects and events, tentative ethics, tentative aesthetics, tentative beliefs, etc., thereby offering propositions as paradoxical contexts for interactions, as if the world (tentative realities) beheld the observer of the world.
26.11 These observers neither adopt a language nor theorize.
26.12 This leads to knowledge inspired by paradoxical and logical reasoning, to meaning, to uncertainty and to philosophical understanding, to comprehension and to skepticism about logical reasoning alone.
26.2 For these observers any proposition must contemplate its counter-proposition so that proposition and counter-proposition blend into a paradoxical context where the observers make tentative distinctions.
26.21 The same applies to books, texts, etc.



27 Delusions: consider a belief that contradicts an accepted classification of beliefs into true or false.
27.01 Delusions do not affect paradoxical observers since they ponder and contemplate beliefs as true and false.
27.02 Delusions, however, affect logical observers since they only explain and communicate, do not ponder and consider beliefs as true or false.
27.021 Consequently, other observers (or themselves) may easily delude them, singly or collectively.
27.1 For example, the delusion of different observers sharing the same thoughts affects only logical observers who also suffer from similar delusions: that they can share their beliefs, dreams, imaginations, etc., as well as the same truth, the same religion, the same god, etc.
27.11 These delusions, harmless in the mind of one individual, can reach pandemic proportions when, stimulated by hierarchies, they invade the minds of many observers.
27.2 Deprived of an education, humans seek refuge in religion and/or rule following to avoid despair; thus they loose their diversity of interactions.
27.21 And societies replace their dynamic stabilities and instabilities with static stabilities without a future.



28 Humans in society: consider multi-cellular organisms such as ants or bees that ensnare the living cells that compose them; anthills and beehives, as new living organisms, trap the ants and bees that constitute them.
28.01 So it happens with the population of humans in society who increasingly serves the goals of entities made of ensnared, predictable and expendable humans.
28.02 These humans do not notice these changes.
28.1 Most, if not all, past and present societies of humans have used hierarchies, religion and all kinds of persuasion to keep their populations in check, thus reducing or suppressing thinking altogether, and fostering rule following.
28.11 This approach will lead, without doubt, to a new living organism that will ensnare everyone, including those who have proposed and support it.
28.12 As every living organism, the new organism will also encounter death in one way or another (including suicide) carrying everyone along.
28.3 Aware that hierarchies take away their humanity and also their lives, young minds must, with courage and caution, reject, and by all available means, prevent or dismantle hierarchical societies, corporations and institutions, beginning with those based on accumulated wealth.
28.31 This they can achieve by encouraging humans to think and converse, to change from rule followers to rule pondering observers.



29 Thinking and conversing: what observers may not explain or communicate, they may think and converse, e.g., they may:
1 Postulate nothing: no observer, no distinction (e.g., object, event), not even dimensions (e.g., space, time) ...

Tractatus Paradoxico-Philosophicus

A Philosophical Approach to Education
Un Acercamiento Filosófico a la Educación
Une Approche Philosophique à l'Education
Eine Philosophische Annäherung an Bildung

Ricardo B. Uribe

Copyright © by a collaborating group of people including the author, editing consultants, translators, and printers. All rights reserved.





Tao Paradoxico-Philosophicus 23-25

mercoledì 2 luglio 2014

canti del Tao























I. 13. "mo ko kahân dhûnro bande"

O SERVANT, where dost thou seek Me?
Lo! I am beside thee.
I am neither in temple nor in mosque: I am neither in Kaaba nor in Kailash:
Neither am I in rites and ceremonies, nor in Yoga and renunciation.
If thou art a true seeker, thou shalt at once see Me: thou shalt meet Me in a moment of time.
Kabîr says, "O Sadhu! God is the breath of all breath."

O SERVO, dove Mi cerchi?
Guarda! Io sono vicino a te.
Non sono nel tempio, né nella moschea; non sono nel Kaaba nè nel Kailash;
Non sono nei riti, né nelle cerimonie; non sono nello Yoga, nella rinuncia.
Se tu sei un buon cercatore Mi vedrai immediatamente: Mi incontrerai in un attimo.
Kabir dice: "O Santo! Iddio è il respiro di ogni respiro".


I. 57. "sadho bhai, jivat hi karo asa"

O Amico! spera in Lui finché vivi; finché vivi, conosciLo; finché vivi, comprendiLo; poiché, nella vita c'è liberazione.
Se i tuoi legami non saranno spezzati mentre vivi, come potrai sperare liberazione nella morte?
E' vano sogno il credere che l'anima si unirà a Lui soltanto perché uscita dal corpo.
Se lo troveremo ora, Lo troveremo poi; se no, andremo a dimorare nel Regno della Morte.
Se ora hai l'unione anche dopo l'avrai.
Immergiti nella verità; conosci il vero Guru; abbi fede nel vero Nome.
Kabir dice: "E' lo Spirito della Ricerca che aiuta, e di questo Spirito io sono lo schiavo".

I. 58. "bago na ja re na ja"

Non andare nel giardino fiorito!
O Amico! Non andarci.
Il giardino fiorito è nella tua persona.
Siediti sui mille petali del loto e contempla la Bellezza Infinita.

I. 101. "is ghat antar bag bagice"

Dentro questo vaso d'argilla vi sono pergolati e boschetti, e dentro c'è pure il Creatore.
Dentro questo vaso vi sono i sette oceani e le innumerevoli stelle.
Vi sono la pietra di paragone e lo stimatore del gioiello. Dentro questo vaso l'Eterno risuona e la fonte sgorga.
Kabir dice: "Ascoltami, amico! Il mio Diletto Signore è lì dentro."

II. 37. "angadhiya deva"

O Signore Increato, chi Ti servirà? Ogni fedele offre il suo culto al Dio della propria creazione: ogni giorno, Egli riceve il servizio divino.
Ma nessuno cerca Lui, il Perfetto, Brahma, l'Indivisibile Signore.
Essi credono in dieci Avatar, ma lo Spirito Infinito non può assolutamente essere un Avatar, poiché l'Avatar soffre le conseguenze delle proprie azioni.
Ben altra cosa deve essere l'Altissimo. Lo Yoghi, il Sannyasi e l'Asceta ne disputano insieme. Kabir dice: "O fratello!Salvo è colui che ha visto quella radiosità d'amore".

II. 56. "dariya ki lahar dariyao hai ji"

Il fiume e le sue onde sono lo stesso flutto: dove è la differenza?
Quando l'onda si solleva, non è che acqua, e quando ricade è sempre la stessa acqua.
Dimmi, Signore, dov'è la differenza?
Forse perché si chiama onda non si deve più considerare come acqua?
Nel supremo Brahma i mondi si contano come i chicchi di un rosario: E tu quel rosario guarda con gli occhi della sapienza.

II. 20. "paramatam guru nikat virajain"

O mio cuore! Lo Spirito Eccelso, il grande Maestro è vicino a te!
Destati, oh, destati!
Gettati ai piedi dell'Amato, poiché il tuo Signore sta ritto presso al tuo capo.
Hai dormito per innumerevoli evi; e neanche stamane vuoi destarti?

II. 33. "ghar ghar dipak barai"

Lampade ardono in ogni casa, o cieco!
E tu non puoi vederle.
Un giorno, improvvisamente, i tuoi occhi si apriranno e vedrai; e i ceppi della morte cadranno da te.
Non v'è nulla da dire, o da udire; nulla da fare: è colui che, sebbene vivente, è già morto, che non più morrà.
Poiché vive nella solitudine, lo Yoghi dice che la sua casa è lontana.
Il tuo Signore è vicino, eppure ti arrampichi sul palmizio per cercarLo.
Il sacerdote di Brahma va di casa in casa ed inizia le genti alla fede.
Ahimè! la vera fonte di Vita è presso di te, e tu hai inalzata sull'altare una pietra per adorarla!
Kabir dice: " Non potrò mai esprimere quanto sia dolce il mio Signore.Yoga e recitazione di rosari, virtù e vizi sono nulla al paragone di Lui"

II. 38. "sadho, so satgur mohi bhawai"

O Fratello, il mio cuore brama quel santo Guru, che, ricolmata la coppa del vero amore, prima ne beve Egli Stesso e, poi, me l'offre.
Egli allontana il velo dai miei occhi e mi dà la vera visione di Brahma; Egli in Se Stesso rivela i mondi e mi fa udire una Musica, suonata senza strumenti; Egli mi dimostra che gioia e dolore sono una sola cosa; Egli riempie d'amore ogni espressione.
Kabir dice: "In verità non teme chi ha un tale Guru, che lo guida all'asilo di salvezza".

II. 45. "Hari ne apna ap chipaya"

Il mio Signore Si nasconde; il mio Signore Si rivela meravigliosamente; Il mio Signore mi ha circondato di avversità; il mio Signore mi ha abbattuto ogni barriera innanzi a me.
Il mio Signore mi porta parole di dolore e parole di gioia: ed Egli Stesso risana il loro contrasto.
Al mio Signore voglio offrire il corpo e la mente. Rinuncerò alla vita, ma non dimenticherò mai il mio Signore!

II. 81. "satgur soi daya kar dinha"

E' la misericordia del mio verace Guru che mi ha fatto conoscere l'ignoto.
Ho appreso da Lui a camminare senza piedi, a vedere senza occhi, a udire senza orecchi, a bere senza bocca, a volare senza ali.
Ho portato il mio amore e la mia meditazione in quella terra dove non sono, né sole, né luna, né giorno, né notte.
Senza mangiare ho gustato la dolcezza del nettare, e senza acqua ho spenta la mia sete.
Dove è corrispondenza di delizia, la gioia è perfetta.
Innanzi a chi può essere espressa quella gioia?
Kabir dice: "Il Guru è grande oltre ogni parola; e grande è la buona fortuna del discepolo".

The Songs of Kabir, tr. by Rabindranath Tagore, introduction by Evelyn Underhill, [1915]


Kabir crede nella vita, non in dio. La vita è il divino. E lasciate che vi dica: la vita con la “v” minuscola... la vita di tutti i giorni: dormire, svegliarsi, mangiare, camminare, amare. Questa vita ordinaria è il divino. Se non riesci a trovarlo in questa vita ordinaria, non lo troverai mai da nessuna parte.

martedì 1 luglio 2014

meta Tao design - I: Sistemi viventi

Brainchamber of a surreal mind, Mandelwerk
METADESIGN

Humberto Maturana

Human beings versus machines, or machines as instruments of human designs?

The answers to these two questions would have been obvious years ago: Human beings, of course, machines are instruments of human design! But now days when we speak so much of progress, science and technology as if progress, science and technology were in themselves values to be venerated, there are many people that think that machines as they become more and more complex and intelligent through human design, may in fact become alive so that they may supplant us as a natural outcome of that very venerated progress and expansion of intelligence. Also many people seems to think that evolution is changing its nature so that technology is becoming the guiding force in the flow of the cosmic change in relation to us. I do not hold this view. I do not look at progress, science or technology as if they were values in themselves, nor do I think that biological or cosmic evolution is changing its nature or character. I think that the question that we human beings must face is that of what do we want to happen to us, not a question of knowledge or progress. The question that we must face is not about the relation of biology with technology, or about the relation between art and technology, nor about the relation between knowledge and reality, nor even about whether or not metadesign shapes our brains. I think that the question that we must face at this moment of our history is about our desires and about whether we want or not to be responsible of our desires.

I wish to speak about this question, but in order to do so I want first to say a few things about living systems, human beings, technology, reality, robots, design and art as the general fundaments for what I shall say in relation to desires and responsibility. Let us proceed

PART I

* Living systems.

Conditions of existence.

Living systems are structure determined systems, that is, they are systems such that all that happens to them at any instant depends on their structure (which is how they are made at that instant). Structure determined systems are systems such that any agent impinging on them only triggers in them structural changes determined in them. This we know from daily life. Furthermore, structural determinism is an abstraction that we make from the regularities and coherences of our daily living as we explain our daily living with the regularities and coherences of our daily living. So, the notion of structural determinism reflects the regularities and coherences of our living as we explain our living with the regularities and coherences of our living, and not any transcendental aspect of an independent reality.

No doubt we frequently speak as if what we see as an external agent impinging on a system did determine what happens in the system on which it impinges, but at the same time we also know that this is not so. Furthermore, we also know from our daily life that as we listen to someone else what we hear is as an internal happening in us, not what the other says, although what we hear is triggered by him or her. No doubt we would like that the other hears what we say, but that does not happen unless we have been interacting recursively with each other sufficiently long to have become structurally congruent in a way that results in that we become capable of coherent behavior through talking with each other. When that happens we say that we understand each other. Structural determinism is so basic a feature of our existence, that even the catholic church recognizes it by accepting as miraculous a happening that violates structural determinism.

In this sense living systems are machines. Yet, they are a particular kind of machines: they are molecular machines that operate as closed networks of molecular productions such that the molecules produced through their interactions produce the same molecular network that produced them, specifying at any instant its extension. In a previous publication with Francisco Varela (The tree of Knowledge) I have called this kind of systems, autopoietic systems. Living systems are molecular autopoietic systems. As molecular systems living systems are open to the flow of matter and energy. As an autopoietic systems living systems are systems closed in their dynamics of states in the sense that they are alive only while all their structural changes are structural changes that conserve their autopoiesis. That is, a living system dies when its autopoiesis stops being conserved through its structural changes.

Living systems have a plastic structure, and the course that their structural changes follows while they stay alive is contingent to their own internal dynamics of structural change modulated by the structural changes triggered in them by their interactions in the medium they exist as such. What I have just said means that a living system remains alive only as long as it slides in the medium following a path of interactions in which the structural changes triggered in it are structural changes that conserve its autopoiesis ( its living). Furthermore, what I have said also means that while a living system lives both the living system and the circumstances in which it operates appear to an observer as changing together congruently. In fact, this is a general condition for structure determined systems, namely: the conservation of the operational congruence between a particular structure determined system and the medium in which it exists in recursive interactions, as well as the conservation of the system's identity (its defining organization), are both at the same time conditions for the spontaneous arising and spontaneous conservation of a structure determined system, and the systemic result of its actual existing in recursive interactions in the medium while its defining organization is conserved.

Domains of existence.

Living systems exist in two operational domains, namely: the domain of their composition that is where their autopoiesis exists and in fact operates as a closed network of molecular productions, and the domain or medium where they arise and exist as totalities in recursive interactions. The first domain is domain where the observer sees them in their anatomy and physiology, the second domain is where the observer distinguishes them as organisms or living systems. These two domains do not intersect, and cannot be deduced one from the other, although the composition of the living system as an autopoietic system by constituting it as a bounded or singular totality, makes possible the other as the domain in which it operates as such totality or discrete entity. That is, as the two domains of existence of living systems (or of composite entities in general) do not intersect, there is no causal relation, or what an observer could call causal relations, between them, all that there is reciprocal generative relations that the observer may see as he or she distinguishes dynamic correlations between the operations, phenomena or processes that take place in them. And what the observer sees, is that the structural changes in the domain of composition (anatomy and physiology) of a living system result in changes in its dynamic configuration as a totality, and therefore in changes in the manner in which it interacts with the medium, and that the interactions of the living system with the medium trigger in it structural changes in its composition which result in turn in changes in the configuration of the living system as a totality ..... Indeed, I have described in the previous section this dynamics and some of its consequences for the constitution and conservation of composite entities (systems) in general.

The operational domain in which living systems exist as wholes or totalities is where each living system exists in the realization of its living as the particular kind of discrete or singular entity that we distinguish as we distinguish it. In these circumstances, what is fundamental to remark after all that I have said in relation to the existence of living systems, is that all that occurs in or to a living system is operationally subordinated to the conservation of the manner of living that defines and realizes it in the domain in which it operates as a whole or totality. Or in other words, the bodyhood which is where the autopoiesis of the living system in fact occurs, is the condition of possibility of the living system, but the manner of its constitution and continuous realization is itself continuously modulated by the flow of the living of the living system in the domain in which it operates as a totality. It is, for example, in that operational domain where an elephant exists as an elephant, and it is in that operational domain where we human beings exist as human beings. Therefore, bodyhood and manner of operating as a totality are intrinsically dynamically interlaced; so that none is possible without the other, and both modulate each other in the flow of living. The body becomes according to the manner the living system (organism) operates as a whole, and the manner the organism operates as a whole depends on the way the bodyhood operates.

The medium.

The medium as the space in which a system operates as whole, has a structural dynamics independent of the structural dynamics of the systems that it contains, although it is modulated through its encounters with them. So, the medium and the systems that it contains are in continuous structural changes, each according to its own structural dynamics, and each modulated by the structural changes that they trigger on each other through their recursive encounters. In these circumstances all systems that interact with a living system constitute its medium. Furthermore, according to the recursive dynamics of reciprocal interactions described above, all systems in recursive interactions change together congruently.

* Human beings.

Languaging.

We human beings as living systems are structure determined systems, and all that applies to structure determined systems also applies to us. What is peculiar to us human beings though, is that we exist as such in language as the operational space in which we realize our living as such. That is, we exist in the flow of living together in the recursive coordinations of behavior that language is. Let me expand this.

Language is a manner of living together in a flow of consensual coordination of coordinations of consensual behaviors, and it is as such a domain of coordinations of coordinations of doings. So, all that we human beings do we do it in language. Thus, objects arise in language as manners of coordination of our doings in language; the different worlds that we live arise in language as different domains of doings in coordinations of our doings in language; the different domains of doings that we live as different kinds of human activities, be these concrete or abstract, manipulative or imagined, practical o theoretical, occur as domains of consensual coordinations of coordinations of doings in the different domains of doings that arise in our living in language. So, languaging is our manner of existence as human beings.
At the same time our bodyhood is that of languaging primates, and it is as such both our condition of possibility as the languaging beings that we are, and the outcome of the particular evolutionary history of living in languaging to which we belong. That history must have begun at more than 3 millions of years ago as living in consensual coordinations of coordinations of behavior begun to be conserved generation after generation through the learning of the children. Our ancestors of 3 million years ago had a biological life very similar to ours now, but lived a different world and had a different brain. What defines a lineage in biological evolutionary history is the conservation generation after generation of a way or manner of living which remains constant while everything else becomes open to change through the succession of generations. As this was happening in the constitution of our lineage through the conservation of living in language, the bodies of our ancestors changed, and the worlds that they lived changed too. So that we are in our bodyhoods as we are now, and we live as we live now, as a result of the history of living in language that begun 3 million years ago. But there is something more.

When our ancestors begun to live in language, their living in language occurred interlaced with their living in the flow of their emotions. Previous to the recursive coordinations of consensual behaviors of language, our ancestors as all non-languaging animals do, coordinated their behaviors through their consensual and innate emotioning. That which we connote as we claim that we distinguish an emotion in other human beings, in non-languaging animals, or in ourselves, is the domain of relational behaviors in which we think that we are, or that that other being is. That is, we connote in the others or in ourselves the kind of relational behaviors that the others or ourselves may generate, and not any particular behavior. Therefore, in the flow of our emotions (that is, in our emotioning) we move from one kind or class of relational behaviors to another. If we change emotion, we go from one class of relational behaviors to another. Moreover, most animals learn the manner of the emotioning that they live along their individual lives in the flow of their interactions, and if they live in recurrent interactions in a community, they learn their manner of flowing in their emotions as a feature of their consensual living together. So, non-languaging animals coordinate their behavior through their innate or consensual emotioning. I call the consensual braiding of language and emotions, conversation.

As humanness begun with the conservation generation after generation of living in language as the basic relational feature that defined our lineage, what indeed begun was the transgenerational conservation of living in conversations. We human beings live in conversations, and all that we do as such we do it in conversations as networks of consensual braiding of emotions and coordinations of coordinations of consensual behaviors. In these circumstances, a culture is a closed network of conversations which is learned as well as conserved by the children that live in it. Accordingly, the worlds that we live as human beings arise through our living in conversations as particular domains of consensual coordinations of coordinations of consensual behaviors and emotions, and whatever configuration of conversations that begins to be conserved in our living, becomes henceforth the world that we live, or one of the world that we live. This is what has happened and happens in the course of our history as human beings. Moreover, in the course of this history, we live in the conservation of each world that we live as if it were the very ground of our existence, and we do so in a dynamics of conservation that results in that all in us begins to change around the conserved manner of living that the conserved world entails.

But what we require to remain human beings is not very different in the different worlds that we live. The difference is in the kind of human being that we become in each of them because we become one kind of being or another according to how we live.

Identity.

The identity of a system, that is, that which defines a system as a system of a particular kind, is not a feature intrinsic to it. The identity of a system is constituted and is conserved as a manner of operating as a whole in the system's recursive interactions in the medium that contains it. The constitution and the conservation of the identity of a system, are dynamic systemic phenomena that occur through the recursive interactions of the system with the elements of the medium. Furthermore, a system arises when the configuration of relations and interactions that define it begins to be systemically conserved through the same system's interactions in the medium, in a process that I call spontaneous organization. As this occurs, the flow of the internal of structural changes in the system becomes subordinated to the conservation of the operation of the system as a whole in the terms I described above as I spoke about our human origin. In the flow of the successive generations of living systems the result of this is that the inner structure (the bodyhood) of the members of a particular lineage becomes more and more subordinated to the realization of the identity conserved in the lineage.

In us human beings the culture in which we live constitutes the medium in which we are realized as human beings, and we become transformed in our bodyhoods in the course of the history of our culture according to the human identity that arises and is conserved in that culture. But, at the same time, as human beings that live in conversations we are reflective beings that can become aware of the way they live, and of the kind of human beings that they become. And as we become aware we may chose the course that our living follows according to our aesthetic preferences, and live in one way or another according to the human identity we wish to conserve. So, our human identity is constituted as well as conserved in a systemic dynamics defined by the network of conversations of the culture that we live. Thus we can be Homo sapiens sapiens, Homo sapiens amans, Homo sapiens aggressans or Homo sapiens arroggans, according to the culture that we live and conserve in our living, but at the same time we may stop being human beings of one kind or another as we change culture depending on the configuration of emotions that gives the culture that we live its particular character.

Emotions and rationality.


Emotions are kinds of relational behaviors, I have said above. As such our emotions guide moment after moment our doings by specifying the relational domain in which we operate at any instant, and give to our doings their character as actions. It is the configuration of emotioning that we live as Homo sapiens what specifies our human identity, not our rational behavior or our use of one kind of technology or another. Rational behavior begun as a feature of the living of our ancestors with language in the use that they made of the abstractions of the coherences of their daily living as they operated as languaging beings. But it was then as it is now emotions what specified the domain of rational behavior in which they operated at any instant. They were not aware of this then, but now we know that every rational domain is founded on basic premises accepted a priory, that is, on emotional grounds, and that it is our emotions what determines the rational domain in which we operate as rational beings at any instant. Similarly, we use different technologies as different domains of operational coherences according to what we want to obtain with our doings, that is, we use different technologies according to our preferences or desires. Thus, it is our emotions what guides our technological living not technology itself, even though we speak as if technology did determine our doings regardless of our desires. I maintain that we can see this in the technological history of our ancestors. Indeed, I claim that if we are careful we can see that different technological procedures were used by our ancestors for thousands of years, and that the technological changes that they made were related to changes in their desires, taste, or aesthetic preferences, regardless of how their manner of living changed afterwards.

Two things happen with our rational living, though. One is that that we use our reason to support or to hide our emotions, and we do so frequently not being aware of what we do. The other is that usually we are not fully aware of the emotions under which we chose our different rational arguments. The result of this is that we are rarely aware of the fact that it is our emotions what guides our living even when we claim that we are being rational.

And, as we do not understand the emotional fundaments of our doings, we become trapped in the belief that human conflicts and problems are rational and, therefore, must be solved through reason, as well as in the belief that emotions destroy rationality and are a source of arbitrariness and disorder in human life. And in the long run we do not understand our cultural existence.

The nervous system.

In general, a nervous system is a closed network of interacting elements that operates as a closed network of changing relations of activities, and exists as such in structural intersection with a larger system at the sensory and effector areas through which this interacts in a medium in which it is a dynamic totality. In multi- cellular animals, one usually finds a nervous system composed as a closed network of neuronal elements some of which intersect structurally with the sensory and effector surfaces of the animal. I shall call this kind of nervous system, neuronal nervous system. Unicellular living systems such as organisms like protozooans, have a molecular nervous system. Let me now describe some of the operational consequences of the manner of constitution of a nervous system, and let me do so by speaking in general terms of the neuronal nervous system.

  1. The nervous system operates as a closed network of active neuronal elements that interact with each other in such a way that any change in the relations of activity between the neuronal elements in one part of the network gives rise to changes in the relations of activities of the neuronal elements in other parts of it. Moreover, this happens in the operation of the nervous system in a manner determined at every instant by its total cellular and molecular structure (architectural connectivity, features of the membrane of the neuronal elements, etc.).
  2. The nervous system as a component of a multicellular living system intersects structurally with the sensors and effectors of the latter's sensory and effector surfaces. As a result, the sensors and effectors of a multicellular organism have a dual character and operate both as elements components of the organism and as elements components of the nervous system. Yet, their manner of operation is not confused, and they operate differently when they operate as components of the organism and when they operate as components of the nervous system. Thus, acting as components of the organism "sensors" and "effectors" operate in the interactions of the organism in its domain of existence as its sensors and its effectors, but acting as components of the nervous system they operate in its closed dynamics of changing relations of activities as other neuronal elements. The fundamental result of this situation, is that the organism interacts with the medium, but the nervous system does not.
  3. Organism and nervous system exist operationally in different non intersecting domains, namely: the organism in the domain in which the living system exits as such, that is, as a totality (as an elephant or as a human being, for example), and the nervous system in the domain in which it exists as a closed neuronal network, that is, in the domain in which it operates as a closed network of changing relations of activities. The interrelation or connection between these two domains takes place at the sensory and effector elements where organism and nervous system are in structural intersection. At the sensory elements what happens is, a) that as the organism encounters the medium at its sensory surfaces, b) that encounter triggers in sensory elements of the organism structural changes that trigger structural changes in the neuronal elements that intersect with them, and finally, c) those structural changes result in changes in the manner of participation of those neuronal element in the closed dynamics of changing relations of activities that they integrate as components of the nervous system. At the effector surfaces what happens is, a) that as the neuronal elements that intersect with the effector elements change their state of activity, they trigger in these a structural change that, b) changes the structural configuration through which they act on the medium as the organism interacts in it.
  4. The nervous system as a closed neuronal network does only one kind of things, it generates changes of relations of activities between the neuronal elements components that compose it. That is, the nervous system does not operate with information about the medium or with representations of it. All that the nervous system does as a component of the organism, is to generate in it sensory/effector correlations that will give rise to the behavior of the organism in the course of the latter's interactions with the medium. Furthermore, the sensory/effector correlations that the nervous system generates change as the flow of activity of the nervous system changes, and the flow of activity of the nervous system changes as its structure changes.
  5. The structure of the nervous system is not fixed, and changes continuously in the following ways: a) at the level of its neuronal elements that intersect with the internal and external sensors of the organism through the structural changes triggered in them either through the interactions of the organism in the external medium, or through the latter's internal organic activity as its internal medium; b) through the structural changes triggered in its neuronal components by hormones secreted by the endocrine cells of the organism, or by other neuronal elements that operate as neuroendocrine cells; c) through recursive structural changes triggered in its neuronal components as a result of their own participation in its operation as a closed network of changing relations of activities; and d) as a result of its intrinsic growth and differentiation structural dynamics.
The fundamental consequence of the structural and dynamic aspects of the operation of the nervous system is that although the nervous system does not interact with the medium, the structure of the nervous system follows a path of change that is contingent to the flow of the interactions of the organism in the realization and conservation of its living. A consequence of this consequence, is that is that although all that the nervous system does as a component of the organism is to generate moment after moment sensory/effector correlations that result in the generation of the adequate behavior of the organism in its domain of existence in a manner determined at every moment by its structure, it remains doing so through its continuous change because it changes in a manner contingent to realization of the living of the organism. I call this historical dynamics of coherent structural changes of the organism and the medium as well as their condition of dynamic structural congruence, structural coupling.

Due to the manner of operation of the nervous system, all occurs in it as processes of the same kind, namely, dynamics of changing relations of neuronal activities. In the operation of the nervous system, to walk or to talk about the name of a flower are processes of the same kind, even though they are different flows of changing relations of neuronal activities that eventually give rise to different sensory effector correlations. Yet, to walk and to talk about the name of a flower, are different phenomena in the relational dynamics of the organism, and are seen by an observer as different behaviors. Due to its manner of operation the nervous system does not act on representations of the medium, and the operational congruence between organism and medium is the result of the structural coupling between medium and organism (nervous system included) that results of their evolutionary and ontogenic history of coherent structural changes. Finally, due to the nature of the dynamics of structural between organism and medium, any dimension of structural interaction of the organism and the medium that couples with the flow of structural changes of the nervous system can become a sensory dimension, and an expansion of the behavioral space of the organism.

* Organisms and Robots.

Both, the living system (organism) as a natural entity, and a robot as a product of human design, are structure determined systems in dynamic operational coherences with the structure determined medium or circumstance in which they exist as what they are. The difference between them is in the way in which their respective operational coherences with their circumstance arose in their history of origin. The robot arises through design. An artist or an engineer makes a design by disposing a set of elements and a configuration of relations between them in a way that they constitute a dynamic totality in dynamic congruence with a medium that has also been designed as such ad hoc. So, the robot, the medium or circumstances in which it operates, and the dynamic congruence between the two is the consequence of an intended design in what one might say is an ahistorical process. Robots, therefore, are ahistorical entities. Yet, since they are the product of an attempt to obtain some operational result in the future, they exist in a historical domain.

Living systems originated in a different manner. All living systems living now on the earth, are the present of a still going on history of production of lineages of living systems through the reproductive conservation of living as well as of variations in the manner of realization of the living. This historical process is what is usually called biological or philogenic evolution. In this history, and according to what I have said above as I was talking about structural determinism, the living systems and the circumstances in which they lived changed together congruently, so that they always find themselves spontaneously in dynamic congruence with the medium in the realization of their living. Living systems are historical systems. Yet, even though living systems are historical systems in their manner of existing in a philogenic evolution, as they exist in the flow of their living in circumstances that change congruently with them, they exist in no-time in a continuously changing present.

It is their historical character what makes living systems different from robots, and not that they are molecular autopoietic systems. It is that robots are ahistorical in their origin, what makes them basically different from living systems, not only that they are not autopoietic systems. At the same time, that living systems are molecular systems makes them manipulable in the same way that any other molecular system is, if the operational coherences of their constitution as such are respected.

That we living systems are structure determined systems, is both our possibility for wellbeing if we so desire, and our bane if we careless and irresponsible of our condition of historical beings that exist in a changing present.
Dimension Attractor Thirteen, Mandelwerk