mercoledì 9 luglio 2014

il Te del Tao: LXXX - ISOLARSI


LXXX - ISOLARSI

Piccoli regni con pochi abitanti:
arnesi da lavoro in luogo d'uomini
(sian dieci o cento) il popolo non usi.
Tema la morte e fuori non emigri.
Se anche vi son navigli e vi son carri,
il popolo non tenti di salirvi;
se anche vi son corrazze e vi son armi,
mai e poi mai le tiri fuori il popolo.
E ritorni ad usar nodi di corda;
e trovi gusto in cibi e vesti suoi;
ed ami la sua casa, i suoi costumi.
Se stati vi vedessero vicini
tanto che cani e galli se ne udissero,
invecchino così, fino alla morte
quei due popoli: senza alcun contatto.

martedì 8 luglio 2014

la fine del Tao è l'inizio del Tao


FOLCO: Allora, Babbo, hai proprio accettato di morire?
TIZIANO: Vedi, questa di “morire” è una cosa che vorrei evitare. Mi piace molto di più l'espressione indiana, che conosci come me, “lasciare il corpo”. Infatti, il mio sogno è di scomparire come se non esistesse questo momento del distacco. L'ultimo atto della vita, che è quello che si chiama morte, non mi preoccupa perché mi ci sono preparato. Ci ho pensato. Ora, non dico che sarebbe la stessa cosa alla tua età. Ma alla mia! Ho sessantasei anni, ho fatto tutto quel che volevo fare, ho vissuto intensissimamente, per cui non ho alcun rimpianto.
Non ho da dire “Ah, mi ci vorrebbe ancora tempo per fare questo!” E poi non mi preoccupo grazie alle due o tre cose, secondo me fondamentali, che tutti i grandi e i saggi del passato avevano ben capito.
Che cos'è che ci fa così spavento della morte?
Quello che ci fa paura, che ci congela davanti a quel momento è l'idea che scomparirà in quell'attimo tutto quello a cui noi siamo tanto attaccati. Prima di tutto il corpo. Del corpo ne abbiamo fatto un'ossessione. Tu pensa: uno cresce con questo corpo, ci si identifica. Guarda te, sei giovane, sei forte, pieno di muscoli. Oh, ero così anch'io! Ogni giorno correvo dei chilometri per tenermi in forma, facevo ginnastica, avevo delle gambe dritte, avevo i baffi e la testa piena di capelli corvini. Ero un bel ragazzo. Uno dice “TIZIANO Terzani” e pensa a quel corpo lì.
Tutto da ridere! Guardami ora. Pelle e ossa, magrissimo, le gambe gonfie, la pancia come un pallone. Mi si è rovesciata la geometria del corpo. Prima uno ha le spalle larghe e la vita stretta; ora ho delle spalline strette strette e una vita enorme. Allora non posso essere attaccato a questo corpo. E poi, quale corpo? Un corpo che cambia tutti i giorni, che perde i capelli, che si azzoppa, che si acciacca, che viene tagliato a pezzi dal chirurgo?
Il corpo non siamo noi. Allora cosa siamo?
Crediamo di essere tutte le cose che ci preoccupa di perdere morendo. Con l'identità – giornalista, avvocato, direttore di banca – ti ci sei identificato e l'idea che tutto questo scompaia, che tu non sia più il grande giornalista, il bravo direttore di banca, che la morte ti porti via tutto questo ti sconvolge.
Tu possiedi la bicicletta, l'automobile, un bel quadro che hai comprato con i risparmi di tutta una vita, un campo, una casetta al mare. E tua E ora muori e la perdi. La ragione per la quale si ha tanta paura della morte è che con quella bisogna rinunciare a tutto quel che ci stava tanto a cuore, proprietà, desideri, identità. Io l'ho già fatto. Negli ultimi anni non ho fatto che buttare a mare tutto questo e non c'è più nulla a cui sono legato.
Perché ovviamente tu non sei il tuo nome, tu non sei la tua professione, non sei la casetta al mare che possiedi. E se impari a morire vivendo, come hanno ben insegnato i saggi del passato – i sufi, i greci, i nostri amati rishi dell'Himalaya – allora ti abitui a non riconoscerti in queste cose, a riconoscerne il valore estremamente limitato, transitorio, ridicolo, impermanente. Se la casa che ti sei comperato al mare un giorno -vrumm! viene portata via dalla marea; se un figlio, uno come te che sei stato mio per così tanto tempo e a cui ho dedicato pensieri, a volte sofferenze e angosce, esce di casa, gli casca un tegolo in testa e -vrumm, finito! allora capisci che non è possibile che tu sia quelle cose che scompaiono così semplicemente.
E se, vivendo, incominci a capire che non sei quelle cose, allora piano piano te ne stacchi, le abbandoni. Abbandoni anche le cose che ti paiono le più care, come l'amore che io ho per tua madre, Io ho amato tua madre per i quarantasette anni in cui siamo stati assieme e quando dico che me ne stacco non voglio dire che non la amo più, ma che questo amore non è più una schiavitù; che non sono più dipendente da questo amore; che sono, anche da questo, distaccato. Questo amore è parte della mia vita, ma io non sono quell'amore.
Sono tante altre cose... o forse nulla. Ma non sono quella cosa lì. E l'idea che morendo perdo quell'amore, perdo questa casa all'Orsigna, perdo te e la Saskia, perdo la mia identità, non mi preoccupa più, non mi fa più assolutamente paura, perché mi ci sono abituato. E qui, l'Himalaya, la solitudine lassù, la natura, la fortuna di questo malanno che mi ha dato l'occasione di riflettere su tutto questo è stata una grande maestra.
L'altra cosa che mi pare fondamentale nella vita di un uomo che cresce e che matura, come spero che in qualche modo mi sia successo, è il rapporto con i desideri. I desideri sono la nostra grande molla. Se Colombo non avesse desiderato di trovare una nuova strada per le Indie non avrebbe scoperto l'America. Tutto il progresso, se lo vuoi chiamare così, o il regresso, tutta la civilizzazione o la decivilizzazione dell'uomo è dovuta al desiderio. Desiderio di ogni tipo, a partire dal più semplice, quello carnale, quello di possedere la carne di un altro.
Il desiderio è una grande molla, non lo nego. È importante e ha determinato la storia dell'umanità. Ma se tu cominci a guardare bene, di nuovo, cosa sono questi desideri, questi desideri dai quali non sfuggi mai? Specie oggi, in questa nostra società che ci spinge solo a desiderare e fra i desideri a scegliere solo i più banali, quelli materiali, in altre parole quelli del supermercato. Il desiderio di quelle scelte lì è inutile, è banale, è irrisorio.
Il vero desiderio, se uno ne vuole uno, è quello di essere se stessi. L'unica cosa che uno può desiderare è di non avere più scelte, perché la scelta vera non è quella fra due dentifrici, fra due donne, fra due macchine. La scelta vera è quella di essere te stesso. Se ti abitui o fai degli esercizi, se rifletti, rifletti! vedi che quei desideri sono una forma di schiavitù. Perché più tu desideri e più limitazioni ti crei. Desideri una cosa al punto che non pensi ad altro, non fai altro, diventi schiavo di quel desiderio.
Allora tu puoi, nell'età matura, più adulta, cominciare a vedere tutto questo ...ride... e metterti a ridere dei desideri che hai, a ridere dei desideri che hai avuto, a ridere nel vedere che questi desideri non servono a niente, che sono effimeri come tutto il resto che è la vita. Così cominci a imparare a toglierteli, a toglierli di mezzo. Compreso quel desiderio ultimo, che tutti hanno, della longevità. Uno dice “Va bene, non voglio più soldi, non voglio più fama, non voglio più comprare niente; ma voglio almeno una pillola che mi fa vivere altri dieci anni!”
Anche questo desiderio io non l'ho più, proprio non l'ho più.
Sono fortunato. Perché gli anni di solitudine in quella casetta nell'Himalaya mi hanno fatto vedere che non avevo niente da desiderare. Avevo bisogno di un po' d'acqua per bere ed era lì, nella fonte dove bevevano gli animali. Mangiavo un po' di riso e qualche verdura cotta sul fuoco. Quali altri desideri potevo avere? Non quello di andare al cinema a vedere l'ultimo film. Che me ne importa?! Cosa cambia nella mia vita? Niente a questo punto, niente. Perché quella che ora mi sta davanti è forse la cosa più strana, curiosa, nuova che mi sia mai capitata.
Per questo dico che non ho più voglia di stare in questa vita, perché questa vita non mi incuriosisce più. L'ho vista di fuori e di dentro, l'ho vista da ogni suo lato e i desideri che mi dovrebbe suscitare non mi interessano più.
Allora la morte diventa davvero...ride... l'unica cosa nuova che mi può succedere, perché questa non l'ho mai vista, non l'ho mai vissuta. L'ho solo vista negli altri.
Può darsi che non sia niente, che sia come l'addormentarsi la sera. Perché in verità noi moriamo ogni sera, no? Quella coscienza dell'uomo sveglio che lo fa, appunto, identificare con il suo corpo e con il suo nome, che lo fa desiderare, che lo fa telefonare e andare a un appuntamento a pranzo, nell'attimo in cui ti addormenti — puff! scompare.
Pur nel sonno in qualche modo rimanendo, perché sogni.
Ma chi è il sognatore?
Chi è il testimone silenzioso del tuo sogno?
Be', forse nella morte avviene qualcosa di simile al sonno. O forse non avviene niente. Ma ti assicuro che mi avvicino a questo appuntamento non come a un incontro con una signora vestita di nero, con una falce che miete, che è sempre stata una visione dell'orrore. Mi avvicino a questo appuntamento di quiete, secondo me, a cuor leggero, come davvero non l'ho mai avuto prima. E forse lo debbo proprio alla combinazione di fatti che ti ho spiegato: quello di avere un po' imparato a morire prima di morire, quello di aver rinunciato ai desideri, e quello di aver succhiato dal terreno sacro dell'India la sensazione che l'India ti dà: che è nata, è morta, è nata e morta tanta gente; e che quest'esperienza del nascere, vivere e morire è quella più comune agli uomini.
Perché il morire ci deve far così paura? E la cosa che hanno fatto tutti! Miliardi e miliardi e miliardi di uomini, gli assiro-babilonesi, gli ottentotti, tutti ci sono passati. E quando tocca a noi, ah! siamo persi.
Ma come?! L'hanno fatto tutti.
Se ci pensi bene, questa è una bella riflessione che molti hanno fatto ovviamente: la terra sulla quale viviamo in verità è un grande cimitero. Un grande, immenso cimitero pieno di tutto quello che è stato. Se scavassimo, troveremmo dovunque ossa ormai ridotte in polvere, resti di vita. Ti immagini i miliardi di miliardi di miliardi di esseri che sono morti su questa terra? Sono tutti lì! Noi camminiamo continuamente su un enorme cimitero. È strano, perché i cimiteri come noi li concepiamo sono luoghi di dolore, di sofferenza, di pianto, circondati da cipressi neri. Mentre in verità il grande cimitero della terra è bellissimo, perché è la natura. Ci crescono sopra i fiori, ci corrono sopra le formiche, gli elefanti.
Ride.
Se la vedi così e torni a far parte di tutto questo, forse quel che resta di te è quella vita indivisibile, quella forza, quella intelligenza a cui puoi mettere una barba e chiamarla Dio, ma che è qualcosa che la nostra mente non riesce a capire e che forse è la grande mente che tiene tutto assieme.
Che cosa tiene tutto assieme?
Allora vado a questo appuntamento – perché tale lo sento e mi dispiacerebbe mancarlo, perché è come se mi fossi già vestito a festa – a cuor leggero e con una certa quasi giornalistica curiosità. Io che ormai ho smesso da tempo di fare del giornalismo sento che ho una curiosità che chiamo giornalistica per sorridere, ma che è la curiosità umana di “Che cos'è questa cosa?”
La si prova nella vita quando muore il padre. Io ricordo che, quando morì il mio, quello che mi colpì era che ora ero in prima fila io. Sai, alla guerra c'è sempre uno che è avanti a te, c'è una prima linea, come nella Prima guerra mondiale, una prima trincea. E morto tuo padre non c'è più quella trincea, tocca a te.
Be', ora tocca proprio a me. E quando io morirò ti sentirai tu in prima trincea. Ma intanto tu sei venuto a tenermi per mano e questo ci dà l'occasione di parlare del viaggio di quel ragazzino, nato in un letto in via Pisana, un quartiere popolare di Firenze, che si ritrova nelle grandi storie del suo tempo – la guerra in Vietnam, la Cina, la caduta dell'impero sovietico – poi va sull'Himalaya, e adesso è qui, in una sua piccola Himalaya, ad aspettare questa ora secondo me piacevole.
Allora questa è la fine, ma è anche l'inizio di una storia che è la mia vita e di cui mi piacerebbe ancora parlare con te per vedere insieme se, tutto sommato, c'è un senso.

lunedì 7 luglio 2014

Morale (Regina di Spade)


La morale ha ristretto il nettare e l'energia della vita ai ristretti confini della mente. Lì non può fluire, pertanto la figura è diventata una vera “vecchia prugna rinsecchita”. Il suo comportamento riflette buone maniere, rigidità e severità. È una persona sempre pronta a vedere ogni situazione come bianca o nera, come il gioiello che porta intorno al collo. La Regina di Nuvole è annidata nella mente di ognuno di noi, poiché siamo stati allevati con idee rigide di ciò che è bene e di ciò che è male, di peccato e virtù, di accettato e di inaccettabile, di morale e di immorale. È importante ricordare che tutti questi giudizi della mente non sono altro che frutti dei nostri condizionamenti. E, sia che i nostri giudizi siano riferiti a noi stessi o agli altri, impediscono l'esperienza del bello e del divino che dimora in ognuno di noi. Solo quando spezziamo la gabbia dei nostri condizionamenti e raggiungiamo la verità dei nostri cuori, possiamo iniziare a vedere la vita per ciò che è realmente.

Bodhidharma trascende di gran lunga i moralisti, i puritani, le cosiddette “brave persone”, i benefattori. Ha toccato il problema alla radice. Se in te non prende vita la consapevolezza, tutta la tua morale è falsa, tutta la tua cultura non è altro che uno strato sottile che può essere distrutto da chiunque. Ma se la tua morale sgorga dalla tua consapevolezza, e non da una precisa disciplina, allora è una questione del tutto diversa. In questo caso, risponderai a ogni situazione in base alla tua consapevolezza. E qualsiasi cosa farai sarà buona. La consapevolezza non può fare alcunché di male. Questa è la sua suprema bellezza: qualsiasi cosa scaturisca dalla consapevolezza è bella, è giusta - e senza che si debbano fare sforzi, senza pratica alcuna. Pertanto, anziché potare le foglie e i rami, taglia le radici. E per tagliare le radici esiste un solo e unico metodo: essere all'erta, essere consapevoli, essere coscienti.
Edvard Munch, Sera sul viale Karl Johan, 1892, Commune Rasmus Meters Collection

domenica 6 luglio 2014

la fine del Tao e il Tao delle meraviglie


Perché il sole splende ancora?
Perché gli uccelli continuano a cantare?
Forse non lo sanno
che il mondo è finito?


The End of the World


1. Il paese delle meraviglie

Un ascensore - Silenzio - Donne grasse.

L'ascensore saliva con estrema lentezza. Presumo che salisse, cioè. Ma non ne sono affatto sicuro. Era tanto lento da farmi perdere il senso della direzione. Chissà, forse scendeva, o non si muoveva neanche. Nelle circostanze in cui mi trovavo era logico immaginare che stesse salendo. Era solo una supposizione, però. Del tutto priva di fondamento. Magari ero salito di tredici piani e poi sceso di tre, o avevo fatto il giro del mondo ed ero tornato al punto di partenza. Chi poteva dirlo?

Quell'ascensore non aveva nulla in comune col rudimentale arnese installato nel mio condominio, una semplice variante di un secchio da pozzo. I due congegni erano talmente diversi che mi era difficile pensare che fossero stati concepiti per lo stesso fine, che avessero la stessa funzione e venissero chiamati con lo stesso nome. Nella loro categoria, erano praticamente agli antipodi.

Prima di tutto per la grandezza. L'ascensore in cui mi trovavo avrebbe potuto fungere da ufficio, tanto era ampio. C'era posto per una scrivania, degli schedari, un armadio, magari un angolo cottura, e sarebbe ancora avanzato dello spazio. Volendo ci si potevano far entrare pure tre cammelli e una palma di media grandezza. Per non parlare della pulizia! Era lustro come una cassa da morto nuova. Sulle pareti e sul soffitto, in lucente acciaio inossidabile, non una macchia, non un'ombra, e il pavimento era coperto da una folta moquette verde muschio. Inoltre era incredibilmente silenzioso. Quando vi ero entrato le porte si erano richiuse adagio senza far rumore - alla lettera, senza il minimo fruscio - dopodiché non avevo udito più nulla. Al punto che non capivo nemmeno se la cabina si stesse muovendo o no. I fiumi profondi sono lenti e placidi.

Altra cosa, mancava la maggior parte dei dispositivi di cui normalmente sono provvisti gli ascensori. Tanto per cominciare, non vedevo il pannello dei comandi. Introvabili i pulsanti per scegliere il piano, aprire e chiudere le porte, azionare l'arresto d'emergenza. Insomma non c'era niente. Il che mi metteva estremamente a disagio. Perché oltre ai pulsanti mancavano anche gli indicatori di posizione, la targa con il limite di carico, le norme di sicurezza e il nome del fabbricante. L'uscita d'emergenza non si capiva dove fosse. Un vero e proprio sarcofago. Assurdo che un ascensore del genere avesse ottenuto il certificato di conformità dai vigili del fuoco. Anche gli ascensori, come ogni cosa, devono sottostare a dei precisi criteri.

Osservando quelle mute pareti in acciaio inossidabile, mi tornarono in mente le leggendarie imprese del mago Houdini, che avevo visto da bambino in un film. Legato con parecchi giri di corda, si faceva mettere in un grosso baule stretto da altri giri di robusta catena e buttare giù dalle cascate del Niagara. Oppure calare con tutto l'armamentario nei ghiacci del Mare Artico. Feci un profondo sospiro, e paragonai con calma la situazione in cui mi trovavo a quella di Houdini. Non ero legato, e questo era un punto a mio favore, però ero svantaggiato dal fatto di non conoscere il trucco.

E poi altro che trucco, non sapevo nemmeno se l'ascensore si muovesse o no! Provai a schiarirmi la gola. Ne venne fuori uno strano rumore, molto diverso da quello solito. Un suono attutito, come quando si tira una zolla di terra contro un muro di cemento. Non riuscivo a credere di averlo prodotto io. Per scrupolo riprovai: stesso risultato. Rinunciai a fare altri tentativi.

Rimasi per parecchio tempo in attesa, fermo nella posizione in cui mi trovavo. Niente, le porte non si aprivano. Silenzio e immobilità, la scena sembrava una natura morta dal titolo L'uomo e l'ascensore. Cominciavo ad avere paura.

Poteva darsi che l'ascensore fosse guasto, oppure che il manovratore - supponendo che una persona con un tale incarico esistesse - si fosse completamente dimenticato che in quella cabina c'ero io. Mi era già successo altre volte che qualcuno si dimenticasse della mia esistenza. In entrambi i casi il risultato era uguale, ero chiuso in quella prigione di acciaio inossidabile. Mi concentrai e tesi l'udito: non il minimo suono. Appoggiai l'orecchio a piatto sulla parete ma non sentii nulla, tutto quel che ottenni fu di lasciare un alone bianco sul metallo. Probabilmente quella scatola era stata costruita in una lega speciale in grado di assorbire ogni suono. Allora provai a fischiettare Danny Boy, ma riuscii a emettere soltanto un rantolo che pareva quello di un cane consunto dall'asma.

Rassegnato, mi appoggiai alla parete, e tanto per ammazzare il tempo presi a contare gli spiccioli che avevo in tasca. Per una persona che esercita la mia professione, allenarsi a far passare il tempo è importante quanto per un pugile tenere in esercizio le mani stringendo delle palle di gomma. Non si tratta di un diversivo nel puro senso del termine. Le attività ripetitive sono il solo modo di riequilibrare le tendenze maldistribuite.

Comunque sia, cerco di avere sempre parecchie monete nelle tasche dei pantaloni. Nella destra metto quelle da 100 e da 500, nella sinistra quelle da 50 e da 10. Le monete da 5 e da 1 yen le lascio invece nel taschino posteriore, perché di regola non le uso. Infilai le mani in tasca e con la destra presi a contare le monete da 100 e da 500, mentre con la sinistra contavo quelle da 50 e da 10.

Chi non ha mai provato a fare quest'operazione non può nemmeno immaginare che razza di fatica sia. L'emisfero cerebrale destro e il sinistro fanno due lavori distinti, che bisogna poi mettere insieme come le due parti di un'anguria spaccata. Impossibile riuscirci senza il dovuto allenamento.

A essere sincero, non sono del tutto sicuro che i due emisferi cerebrali funzionino separatamente. Forse uno specialista in neurofisiologia darebbe un'altra spiegazione. Ma io non ho tale qualifica, e quando mi cimento in questo tipo di calcolo ho la netta impressione di usare in maniera disgiunta le due parti del mio cervello. Anche il senso di spossatezza che mi prende alla fine di questi allenamenti è qualitativamente molto diverso dalla normale stanchezza che provo dopo aver fatto dei calcoli. Così ne traggo la ragionevole conclusione che l'emisfero destro si occupa della tasca destra, quello sinistro della tasca sinistra.

Non è facile pronunciare un giudizio su se stessi, ma credo di essere propenso a dare ai fenomeni, agli eventi e agli esseri esistenti al mondo il significato che più mi conviene. Non perché sia un opportunista - d'accordo, ammetto di avere in una certa misura anche questo difetto - ma perché al mondo si verificano spesso circostanze in cui, più che trovare una soluzione giusta, interpretare le cose nella maniera più conveniente aiuta a capire la loro natura.

Supponiamo per un momento che la Terra non sia una sfera ma un gigantesco tavolino da tè: a livello di vita quotidiana quali svantaggi ne deriverebbero? Evidentemente l'esempio è paradossale, non è che si possa prendere una cosa qualunque e ricostruirla come pare e piace. Se però adottassimo la teoria del tavolino da tè, tanti problemi triviali derivanti dal fatto che la Terra è una sfera - la gravità dei corpi, il meridiano che segna il cambiamento di data, la linea dell'equatore e altre cose che non saranno mai utili a nessuno - sparirebbero, spazzati via per incanto. Quante volte le persone che hanno un'esistenza normale hanno a che fare con la linea dell'orizzonte, in vita loro?

Di conseguenza mi sforzo, nella misura del possibile, di considerare le cose dal punto di vista della convenienza. Sono persuaso che il mondo contenga moltissime possibilità. Anzi, possibilità illimitate. E la scelta fra l'una o l'altra in una certa misura spetta alle singole persone. Il mondo è un tavolino da tè formatosi per condensazione di una possibilità fra mille.

Ma torniamo al discorso di prima. Fare contemporaneamente due calcoli diversi a destra e a sinistra è un'impresa tutt'altro che semplice. Mi ci è voluto un sacco di tempo per padroneggiare la tecnica. Ma una volta che si è presa la mano - che si è capito il sistema, cioè - non la si perde più. È come andare in bicicletta, o nuotare. Però è anche necessario allenarsi. Più ci si allena, più si migliora e ci si perfeziona. È per questo che ho sempre molte monete in tasca e appena ho un po' di tempo libero mi esercito a farne la somma.

Quella volta avevo in tasca tre monete da 500 yen, diciotto da 100, sette da 50 e sedici da 10. Totale: 3810 yen. Non ebbi nessuna difficoltà a calcolarlo. Come contare le dita delle mani. Soddisfatto, mi appoggiai alla parete in acciaio inossidabile e guardai di nuovo le porte. Non accennavano ad aprirsi.

Non capivo per quale motivo restassero chiuse per tanto tempo. Dopo averci riflettuto su, ne conclusi che potevo scartare le spiegazioni banali - un guasto o una dimenticanza da parte del manovratore. Non erano realistiche. Non perché tali incidenti non possano accadere nella realtà. Al contrario, succedono in continuazione. Ma in quella realtà particolare, cioè in quello stupido e liscio ascensore, paradossalmente conveniva considerare la mancanza di contrassegni come una caratteristica. Un ascensore tanto eccentrico e perfezionato poteva dipendere da una persona distratta al punto di trascurare la manutenzione del meccanismo o far salire i visitatori e dimenticarseli dentro?

La risposta ovviamente era no. Una tale possibilità non esisteva.

Fino a un momento prima «loro» erano stati estremamente scrupolosi e attenti, addirittura pignoli. Avevano curato i minimi dettagli, procedendo tappa dopo tappa e valutando la progressione. Quando ero entrato nel palazzo, due uomini di guardia mi avevano fermato, mi avevano chiesto da chi mi stessi recando, avevano controllato la lista delle visite in programma e la mia patente, verificato la mia identità sul computer centrale, poi mi avevano perquisito con un rivelatore elettronico e infine spinto dentro a quell'ascensore. Nemmeno alla Zecca di Stato mi avrebbero sottoposto a controlli tanto minuziosi. Era inconcepibile che a quel punto le precauzioni venissero improvvisamente meno.

Restava solo una possibilità: la situazione in cui mi trovano era voluta. Non desideravano che io mi rendessi conto dei movimenti dell'ascensore. Lo manovravano così lentamente perché io non capissi se stavo salendo o scendendo. Da qualche parte doveva essere installata una telecamera a circuito chiuso. Nella portineria, all'ingresso, avevo visto una fila di schermi televisivi, molto probabilmente uno di quelli mostrava l'interno della cabina.

Per vincere la noia, pensai di scoprire dove fosse l'occhio della telecamera, poi mi dissi che non mi sarebbe stato di alcun vantaggio. Li avrei solo messi in allarme, il che forse li avrebbe indotti a manovrare l'ascensore ancora più adagio. Ne facevo volentieri a meno. Sarei solo arrivato tardi al mio appuntamento.

In conclusione decisi di restarmene tranquillo dov'ero e aspettare. Non avevo nulla da temere, né avevo ragione di sentirmi teso.

Appoggiato alla parete, le mani in tasca, ripresi a contare le monete. 3750 yen. Elementare. Ci avevo messo meno di niente.

Come, tremilasettecentocinquanta yen? No, mi sbagliavo.

A un certo punto dovevo aver commesso un errore.

Sentii i palmi delle mani imperlarsi di sudore. Negli ultimi tre anni non mi era mai successo di sbagliarmi a contare le monete che avevo in tasca. Nemmeno una volta. Brutto segno, mi piacesse o no. Dovevo recuperare subito il terreno perduto, prima che quell'infausto presagio si concretizzasse in un palese disastro.

Chiusi gli occhi e feci il vuoto nei miei due emisferi cerebrali, come se pulissi le lenti degli occhiali. Poi estrassi le mani dalle tasche, le aprii e mi asciugai i palmi sudati. Gesti ben misurati, come Henry Fonda in Ultima notte a Warlock, quando si prepara alla sparatoria. Non c'entra niente, lo so, ma vado pazzo per quel film.

Dopo essermi assicurato che le mie mani fossero ben asciutte, le infilai di nuovo in tasca. Iniziai a calcolare per la terza volta. Se la somma fosse stata uguale a una delle due precedenti tutto era a posto. Chiunque può fare uno sbaglio. La situazione particolare in cui mi trovavo mi rendeva nervoso, inoltre - devo ammetterlo - forse avevo sopravvalutato la mia memoria. E questo era stato il mio primo errore. Bastava che rifacessi il calcolo esatto e avrei risolto tutto. Ma non ne ebbi il tempo, le porte dell'ascensore si aprirono. Di colpo scivolarono ai due lati, senza preavviso, senza rumore.

Concentrato com'ero sulle monete che avevo in tasca, non me ne accorsi subito. O per la precisione, vidi che le porte si aprivano, ma per qualche secondo non afferrai il significato concreto dell'evento. Cioè che grazie all'apertura di quelle porte due spazi fino ad allora separati diventavano comunicanti. E al tempo stesso che l'ascensore su cui mi trovavo era arrivato a destinazione.

Smisi di muovere le dita dentro le tasche e guardai al di là della soglia. Vidi un corridoio, e nel corridoio una donna. Era giovane, piuttosto grassa, indossava un tailleur rosa e calzava delle scarpe rosa con il tacco alto. Il tailleur era di buona fattura, in un tessuto serico, e altrettanto serico era il viso di lei. La donna mi guardò in faccia per assicurarsi che fossi io, poi fece un cenno di assenso. Sembrava volermi dire «da questa parte». Lasciai perdere la faccenda delle monete, tirai fuori le mani di tasca e uscii dall'ascensore. Immediatamente, come se non avessero atteso altro, le porte si richiusero alle mie spalle.

Una volta nel corridoio, gettai un'occhiata in giro, ma non vidi assolutamente nulla che potesse in qualche modo indicarmi dove fossi, non il minimo indizio. Tutto quello che sapevo era che mi trovavo in una sorta di passaggio interno del palazzo, l'avrebbe capito anche un bambino.

L'edificio era incredibilmente silenzioso e ben rifinito. Come l'ascensore, era stato costruito con materiali della migliore qualità, ma nell'insieme era del tutto anonimo. Il pavimento in marmo, tirato a lucido, splendeva, e le pareti color crema avevano la stessa sfumatura delle brioche che mangio ogni mattina a colazione. Sui due lati del corridoio si susseguivano solide porte in legno, ognuna con la sua targa in metallo recante il numero della stanza, ma senza alcun ordine logico: dopo il 936 veniva il 1213, seguito dal 26. Inconcepibile, numerare le cose in quel modo assurdo. C'era qualcosa che non quadrava.

La giovane donna non parlò, si voltò verso di me per dirmi «prego, da questa parte», ma senza emettere alcun suono, soltanto le sue labbra formarono le parole. La capii perché prima di iniziare quel lavoro avevo seguito per due mesi un corso di lettura sulle labbra. Per un attimo mi domandai se non fossero le mie orecchie a farmi degli scherzi. L'ascensore non l'avevo sentito muoversi, quando mi ero schiarito la gola e avevo provato a fischiare avevo emesso suoni strani, la mia capacità di percepire i rumori doveva essersi indebolita.

Per togliermi il dubbio mi schiarii di nuovo la gola. Ne venne fuori un suono sempre attutito, ma più forte di prima, quando mi trovavo nell'ascensore. Con un senso di sollievo ritrovai fiducia nelle mie facoltà uditive. Potevo stare tranquillo, le mie orecchie non avevano nulla che non andasse. Era la ragazza che aveva qualche problema con la voce.

Avanzai dietro di lei. Il ticchettio dei suoi tacchi a spillo riecheggiava nel corridoio vuoto, come in una cava di pietra nel primo pomeriggio. I suoi polpacci inguainati nelle calze di nylon si riflettevano nel marmo.

Aveva parecchi chili di troppo. Era giovane e bella, ma grassa. Non so perché, il fatto che quella bella ragazza fosse grassa mi turbava. Camminando dietro di lei osservavo il suo collo, le sue braccia, le sue gambe. La carne le stava attaccata al corpo come neve caduta abbondante e silenziosa durante la notte.

Quando sono in compagnia di una donna giovane, bella e grassa, mi trovo sempre in uno stato confusionale. Per quale motivo non lo so neanch'io. O forse è perché ogni volta mi viene naturale figurarmi le sue abitudini alimentari. Guardandola, automaticamente me la immagino mentre mastica le foglie d'insalata messe a guarnire il piatto o raccoglie col pane la salsa alla panna, fino all'ultima goccia. Non posso impedirmelo. E quando incomincio, è come un acido che corrode il metallo: scene di lei che mangia invadono la mia testa mettendo fuori uso tutte le altre funzioni mentali.

Nel caso di una qualunque donna grassa, non ho problemi. Una cicciona ordinaria è come una nuvola che vaga nel cielo. La sua presenza non mi tocca in alcun modo. Ma se la donna oltre a essere grassa è anche giovane e bella, è tutto un altro paio di maniche. Mi sento obbligato ad assumere un atteggiamento nei suoi confronti. Perché potremmo anche finire a letto insieme, non si sa mai. Credo sia questo che crea confusione nella mia testa. E fare l'amore con una donna quando la mente non è lucida non è una cosa semplice.

Il che non vuol dire che abbia qualcosa contro le donne grasse. Provare un senso di confusione non significa detestare. Fino a oggi sono andato a letto con un certo numero di donne giovani, belle e grasse, e nel complesso non posso certo dire che siano state esperienze sgradevoli. Se uno riesce a convogliare la confusione nella direzione giusta, può arrivare a risultati magnifici, molto più brillanti del solito. È ovvio che può accadere anche il contrario: il sesso è qualcosa di estremamente delicato, non è come andare ai grandi magazzini la domenica per comprare un thermos. Inoltre due donne ugualmente belle, giovani e grasse hanno la ciccia distribuita in modo diverso; c'è un tipo di adiposità che mi spedisce nella direzione giusta, un altro che mi getta in un temporaneo smarrimento.

In questo senso, per me fare l'amore con una donna grassa è sempre una sorta di sfida. Perché ci sono tanti modi di essere grassi, come ci sono tanti modi di morire.

Questi erano i miei pensieri mentre percorrevo il corridoio dietro quella bella cicciottella. Sotto il colletto del suo elegante tailleur rosa all'ultima moda portava una sciarpa bianca. Ai lobi paffuti e graziosi delle orecchie le pendevano degli orecchini d'oro, che a ogni suo passo dondolavano in cadenza e brillavano come segnali luminosi. Considerata la sua mole, nel complesso la ragazza aveva un'andatura piuttosto leggera. E una vita relativamente sottile, graziosa, che mi piaceva molto, pur mettendo in conto la possibilità che per fare bella figura si fosse stretta in un busto o in qualche indumento del genere. Insomma, era proprio il mio tipo di grassa.

Non è per giustificarmi, ma non sono molte le donne che mi attirano. Anzi, sono piuttosto il genere d'uomo che non si lascia sedurre facilmente. Così, quando sono attratto da una donna, mi viene da chiedermi il perché. Cerco di capire se mi piaccia veramente, e in tal caso come funzioni questa attrazione, da cosa nasca e così via.

Ad ogni modo mi portai accanto a lei e mi scusai per essere otto o nove minuti in ritardo all'appuntamento.

-Non sapevo che le formalità all'ingresso sarebbero state tanto lunghe, - mi giustificai. - E poi l'ascensore era così lento... per la verità ero arrivato con dieci minuti di anticipo.

Lei annuì leggermente come per dire che capiva. Dalla sua nuca mi arrivò un sentore di acqua di colonia. Un odore che mi dava l'illusione di trovarmi in un campo di meloni in una mattina d'estate. E mi procurava una sensazione strana. Una sorta di bizzarra, assurda nostalgia, come se due ricordi diversi si sovrapponessero, in un luogo a me ignoto. A volte mi succede di provare stati d'animo di questo genere. Ma non riesco a spiegarmi il perché.

-Davvero lungo, questo corridoio, - dissi alla ragazza per avviare la conversazione. Senza smettere di camminare, lei si voltò a guardarmi. Doveva avere una ventina d'anni. Tratti regolari, la fronte ampia, una bella pelle,

-Proust, - fece fissandomi in viso. O meglio, non lo disse veramente, semplicemente le sue labbra mi dettero l'impressione di formare quella parola. Ma come prima non udii alcun suono. Neanche il rumore del suo respiro. Sembrava che mi parlasse dall'altra parte di una vetrata.

Proust?

-Marcel Proust? - le chiesi.

Lei mi guardò con espressione stupita. Poi ripeté: - Proust -. Rassegnato, tornai a mettermi dietro di lei e ripresi a seguirla, mentre cercavo tutte le parole che potevano adattarsi al movimento delle sue labbra. «Fusto», provai a dire sottovoce, «posto», «mosto» e altri vocaboli privi di nesso, l'uno dopo l'altro, senza trovarne uno convincente. Pareva che lei avesse detto proprio «Proust». Ma che nesso poteva mai esserci tra Marcel Proust e quel lungo corridoio?

Che avesse tirato fuori Proust come metafora della lunghezza? In tal caso, che modo singolare e irriverente di esprimersi! Avrei ancora capito se avesse portato a esempio il corridoio per rappresentare la lunghezza dell'opera di Proust. Fare il contrario, però, era davvero strano.

Un corridoio lungo come Marcel Proust?

Ad ogni buon conto, la seguii docilmente per quell'interminabile labirinto. Che non finiva mai, formava svolte, saliva e scendeva con brevi scale di pochi gradini. Percorremmo cinque o sei volte la lunghezza di un normale palazzo. Mi chiesi se non stessimo girando in tondo, come in un quadro di Escher. Potevamo camminare quanto volevamo, tanto la scenografia non variava. Pavimento di marmo, pareti color uovo sbattuto, porte di legno numerate a casaccio, pomi d'acciaio. Nessuna finestra. I tacchi a spillo della ragazza ticchettavano nel corridoio con lo stesso ritmo regolare, io la seguivo con le mie scarpe da ginnastica che facevano uno schiocco molle di gomma fusa. Molto più forte del solito, tanto che mi venne il dubbio che la suola stesse davvero fondendo. Era la prima volta in vita mia che camminavo sul marmo con delle scarpe da ginnastica, come potevo sapere se era il rumore normale o meno? Forse lo era per metà e per l'altra metà no, mi dissi. Perché a quel punto avevo l'impressione che ogni cosa mi venisse propinata in quella proporzione.

Quando la ragazza improvvisamente si fermò, ero talmente concentrato sul rumore delle mie scarpe che non vi feci caso e andai a sbattere col petto contro la sua schiena. Una schiena gradevolmente morbida, come una nuvola carica di pioggia. Dalla sua nuca mi arrivò l'odore d'acqua di colonia al melone di prima. A causa dell'urto lei stava per cadere in avanti, ma io fui svelto a trattenerla per le spalle.

- Mi scusi, - dissi. - Ero immerso nei miei pensieri.

La ragazza arrossi leggermente e mi guardò. Non ci avrei messo la mano sul fuoco, ma non mi parve in collera. - Tasselli, - rispose con un accenno di sorriso. Poi si raddrizzò e aggiunse: - Sela -. È chiaro che non pronunciò davvero quelle parole, le formò soltanto con le labbra.

-Tasselu? - provai a dire sottovoce fra me e me. - Sela?

-Sela, - ripeté allora lei con aria più convinta.

Poteva essere turco. Peccato che io il turco non l'avessi mai sentito in vita mia. Di conseguenza forse era un'altra cosa. A poco a poco nella mia testa la confusione cresceva, così decisi di lasciar perdere. Fine della conversazione. La mia capacità di leggere sulle labbra era ancora insufficiente. È un'operazione delicata leggere sulle labbra, mica una tecnica che si riesce a padroneggiare perfettamente in due mesi di lezioni al Centro Comunale.

La ragazza tirò fuori dalla tasca della giacca una chiave elettronica ovale e la introdusse per metà nel pomo della porta numero 728. Si sentì uno scatto e la serratura si aprì. Mirabile congegno. Ferma sulla soglia lei spinse il battente con la mano. Poi rivolta a me fece: - Somuto, sela.

Ovviamente annuii ed entrai.

2. La fine del mondo

Bestie color oro.

Con l'arrivo dell'autunno, le bestie si coprirono di un lungo mantello color oro. Oro nel puro senso della parola. Senza la minima traccia di altre tinte o sfumature, venuto al mondo in quanto tale, e in quanto tale esistente. Oro purissimo di cui, nell'intervallo fra cielo e terra, le bestie si erano ammantate.

Quando ero arrivato nella città - in primavera - il loro pelo era corto, di tanti colori. Nero, marrone, bianco, bruno-rossastro. A volte a chiazze variopinte. Rivestite di quei mantelli tutti diversi l'uno dall'altro, le bestie vagavano quietamente, come spinte dal vento, sulla terra dov'era cresciuta l'erba nuova. Erano animali tranquilli, si potrebbe quasi dire meditabondi. Perfino il loro fiato era lieve come nebbia mattutina. Mangiavano in silenzio l'erba dei prati, poi, una volta sazie, piegavano le reni, si sdraiavano a terra e facevano un breve sonno.

Passata la primavera, finita l'estate, quando la luce aveva preso una sfumatura trasparente e il primo vento autunnale increspava di piccole onde la superficie del fiume, il loro aspetto cominciò a mutare. All'inizio nel pelo spuntarono qua e là fili dorati, come germogli nati fuori stagione per qualche caso fortuito, poi i fili divennero tentacoli innumerevoli che invasero il mantello corto, fino a trasformarlo in oro splendente. La muta durò una settimana. Quasi tutte insieme, in sette giorni, le bestie divennero tutte dorate, dalla prima all'ultima. Quando il sole si alzò, il mondo si era tinto d'oro nuovo, e sulla Terra era arrivato l'autunno.

Soltanto il corno che spuntava loro in mezzo alla fronte, lungo e flessibile, era bianco. La sua pericolosa sottigliezza faceva pensare, più che a un corno, a un frammento d'osso che avesse lacerato la pelle e si fosse solidificato all'esterno. A parte il bianco del corno e l'azzurro degli occhi, le bestie erano completamente dorate. Come per provare quell'abito nuovo, scuotevano su e giù la testa, spingendo la punta del corno verso l'alto cielo autunnale. Poi entravano con le zampe nell'acqua del fiume già più fredda e allungavano il collo per mangiare le bacche rosse degli alberi.

Quando calò la notte tingendo di blu la città, salii sulla torre di guardia occidentale del muro di cinta e osservai il Guardiano dare fiato al corno per chiamare a raccolta le bestie. Una nota lunga e tre corte. Un segnale invariabile. Ogni volta che sentivo quel suono chiudevo gli occhi e lasciavo che la sua dolcezza mi pervadesse. Perché non era paragonabile a nessun altro. Come un pallido pesce trasparente, attraversava quietamente la città immersa nel buio. La sua risonanza si propagava sotto gli archi delle strade lastricate, fra i muri di pietra delle case, lungo gli argini edificati del fiume, si diffondeva in tutta la città, da un capo all'altro, come se scivolasse in una faglia di tempo invisibile contenuta nell'atmosfera.

Quando il suono del corno riecheggiava, le bestie alzavano la testa, rivolte verso memorie di tempi primordiali. Erano più di mille, e guardavano tutte nella direzione da cui proveniva il suono, prendendo la stessa posa. Alcune cessavano riverentemente di masticare le foglie di ginestra; altre, accovacciate sul selciato delle strade collegate da archi, smettevano di raspare per terra con gli zoccoli; altre ancora si svegliavano dal loro sonno nella luce del tramonto, e ognuna protendeva il capo nell'aria.

In quell'istante tutto si fermava. Solo il pelo delle bestie si muoveva, sollevato dal vento serale. Chissà a cosa pensavano in quel momento, chissà cosa vedevano. Si immobilizzavano con il collo inclinato allo stesso angolo, nella stessa direzione, lo sguardo perso nel vuoto. E tendevano le orecchie verso il suono del corno. Poi, quando infine l'ultima eco si dissolveva nella lieve oscurità, si alzavano e si mettevano in marcia verso una stessa meta, come se all'improvviso si fossero ricordate di qualcosa. L'incantesimo di un momento si rompeva, e la città risuonava del rumore di innumerevoli zoccoli. Un rumore che faceva sempre nascere nella mia mente l'immagine di infinite gocce di schiuma che salissero dal suolo e invadessero le strade, scavalcando i recinti delle case e coprendo perfino la Torre dell'Orologio.

Ma si trattava di un'illusione ottica dovuta all'oscurità. Se aprivo gli occhi la schiuma svaniva di colpo. Restava solo il rumore degli zoccoli delle bestie, la città non era cambiata. La processione scorreva come un fiume lungo le tortuose strade di pietra. Non esisteva un capobranco, un animale che guidasse gli altri. Le bestie si limitavano a seguire quel flusso silenzioso tremando un poco con le spalle, lo sguardo basso. Eppure fra una bestia e l'altra si intuiva il forte legame di una memoria segreta e indelebile, benché non si riflettesse negli occhi.

Arrivavano da nord, attraversavano il Ponte Vecchio, si univano al branco proveniente da est e procedevano insieme lungo la sponda meridionale del fiume. Poi attraversavano il quartiere industriale seguendo un canale, giravano a destra e, infilandosi in un passaggio sotto la fonderia, arrivavano ai piedi della collina occidentale. Lì, ad aspettarle sui declivi, c'erano le bestie anziane e i piccoli, che non potevano allontanarsi troppo dal cancello. A quel punto tutte insieme cambiavano direzione, proseguivano verso nord, attraversavano il ponte a ovest della città e raggiungevano il cancello.

Il Guardiano lo apriva appena vedeva arrivare le bestie. Le ante, rinforzate da spesse sbarre di ferro orizzontali, sembravano pesantissime e quasi impossibili da spostare. Alte dai quattro ai cinque metri, sul bordo superiore erano irte di innumerevoli chiodi acuminati, in modo che nessuno le scavalcasse. Una delle due restava sempre chiusa: il Guardiano apriva soltanto quella di destra. La spingeva in avanti con facilità, poi faceva uscire le bestie a gruppi. Quando l'ultima era passata, chiudeva e metteva il chiavistello.

Per quel che ne sapevo, quel cancello a ovest era l'unica uscita della città, sigillata dal muro di cinta: una lunga muraglia alta sette o otto metri che nessuno, tranne gli uccelli, poteva superare.

Sul far del giorno, di nuovo il Guardiano apriva il cancello e suonava il corno, e le bestie entravano. Quando erano tutte dentro, il cancello veniva richiuso.

-In realtà non ci sarebbe bisogno di mettere il chiavistello, - mi spiegò l'uomo. -

Chiavistello o meno, nessuno oltre a me è in grado di spingere quelle ante. Nemmeno unendo le forze di parecchie persone. Lo metto solo perché questa è la regola.

Pronunciate quelle parole, il Guardiano si tirò il berretto sugli occhi e non disse più nulla. Era un uomo grande e grosso, più di chiunque avessi mai visto in vita mia. Era così ben in carne che la camicia e la giacca parevano sul punto di strapparsi ogni volta che muoveva un muscolo. Ogni tanto, all'improvviso, chiudeva gli occhi e sprofondava in un silenzio sconfinato. Non riuscivo a capire se lo cogliesse una sorta di malinconia o se gli si bloccasse qualche funzione interna. In ogni caso, quando cadeva nel silenzio non potevo fare altro che aspettare che riprendesse consapevolezza. Quando la sua coscienza si risvegliava, apriva lentamente gli occhi, mi fissava con uno sguardo che tornava da lontano e si strofinava parecchie volte le dita sulle ginocchia, come se si sforzasse di capire la ragione della mia presenza lì.

-Perché il mattino fa uscire le bestie e la sera le fa rientrare? - gli chiesi vedendo che si rianimava.

Lui mi osservò per qualche secondo con occhi del tutto privi di emozione.

-Perché così è stato deciso, - rispose poi. - Seguo semplicemente la regola. Come il sole sorge a est e tramonta a ovest.

Il tempo che non dedicava all'apertura e alla chiusura del cancello, il Guardiano sembrava passarlo ad affilare lame. Lame di ogni sorta. Nella sua baracca aveva ammassato accette, roncole e coltelli di varie misure, e appena aveva un momento libero si metteva con impegno a strofinarli sull'apposita pietra.

Una volta affilate, le lame prendevano un innaturale bagliore bianco, come di ghiaccio, e più che riflettere la luce che ricevevano, davano l'impressione di nascondere un qualche corpo luminoso interno.

Ogni volta che guardavo la collezione dei suoi attrezzi, sulle labbra del Guardiano, che mi seguiva attentamente con lo sguardo, affiorava un sorriso soddisfatto.

-Stia attento. Basta sfiorarli per tagliarsi seriamente, - disse indicando quell'arsenale con le dita spesse come paletti di legno. - Attrezzi così mica si trovano dappertutto. Li ho fabbricati e affilati io uno per uno, con le mie mani. È il mio mestiere, un tempo facevo il fabbro. Sono tenuti con cura e ben bilanciati. Non è facile adattare il manico al peso della lama. Provi a prenderne uno in mano facendo attenzione a non tagliarsi.

Scelsi fra gli attrezzi posati sul tavolo l'ascia più piccola e provai a manovrarla due o tre volte con prudenza. Benché avessi messo poca forza nel polso, o perlomeno questa era la mia intenzione, l'ascia rispose con la prontezza di un cane ben addestrato e tagliò l'aria con un sibilo asciutto.

-Anche quella l'ho fabbricata io. Ho usato del legno di frassino vecchio di dieci anni. Ognuno ha i suoi metodi nel fabbricare le asce, io preferisco il frassino di dieci anni. Quello più giovane non va bene, e nemmeno quello troppo vecchio e spesso. Dieci anni sono il tempo giusto. È legno forte, umido, flessibile. Se ne trova di ottimo nei boschi a oriente.

-Ma cosa se ne fa di tutti questi attrezzi da taglio?

-Servono a tante cose, - disse il Guardiano. - Quando viene l'inverno, ce n'è gran bisogno. Aspetti e vedrà anche lei. Qui dura a lungo l'inverno.

Fuori dal cancello della città c'era uno spazio dove le bestie passavano la notte. Potevano bere l'acqua di un torrentello che vi scorreva. Al di là si vedevano meli a perdita d'occhio, ovunque. Frutteti che si estendevano all'infinito.

Sul lato occidentale della muraglia si trovavano tre torri di guardia alle quali si accedeva per mezzo di una scala a pioli. In cima, una semplice tettoia per ripararsi dalla pioggia e una finestra provvista di sbarre di ferro da cui si potevano vedere in basso le bestie.

- Non viene nessuno a guardarle, a parte lei, - disse il Guardiano. - Ma è normale, è appena arrivato: quando avrà vissuto qui per un po', vedrà che non le interesseranno più. Fanno tutti così. Tranne che nella prima settimana all'inizio della primavera.

In quella settimana, la gente saliva sulle torri per guardare i combattimenti fra i maschi, mi spiegò il Guardiano. Era l'epoca dell'anno in cui diventavano aggressivi, la muta del mantello invernale era appena avvenuta e le femmine ben presto avrebbero partorito. Quegli animali solitamente tanto placidi si ferivano l'uno con l'altro, a vederli in tempi normali non lo si sarebbe mai immaginato. E da tutto quel sangue che scorreva sul terreno sarebbero nate nuove vite e un nuovo ordine.

Ora era l'autunno, e le bestie se ne stavano tranquillamente accovacciate qua e là, il lungo pelo dorato splendente nella luce del tramonto. Perfettamente immobili, come statue saldamente avvitate al terreno, attendevano quiete con la testa alzata che gli ultimi raggi di sole sprofondassero nei boschi di meli. Quando alla fine il sole tramontava e la luce azzurrata della sera le copriva, abbassavano il capo, posavano il corno bianco sulla terra e chiudevano gli occhi.

Così finiva la giornata nella città.

sabato 5 luglio 2014

meta Tao design - II: Tecnologia e Realtà

Trampoline of odd imaginings, Mandelwerk
METADESIGN

Humberto Maturana


PART II

* Technology and Reality.

Technology.

Technology is operation according to the structural coherences of the different domains of doings in which one may participate as a human being. As such technology can be lived as an instrument for effective intentional action, or as a value that justifies or gives orientation to a manner of living in which all is subordinated to the pleasure lived through doing it. When it is lived in this last manner, technology becomes an addiction whose presence those addicted wish to justify through rational arguments founded on the historical reality of its great expansion in modern times.

Lived as an instrument for effective action technology has led to the progressive expansion of our operational abilities in all the domains in which there is knowledge and understanding of their structural coherences. Biotechnology is a case in which such an expansion has had recursive consequences. Thus, the expansion of biotechnology has resulted in an expansion of the knowledge of living systems as structure determined systems, and the reverse, the expansion of the knowledge of living systems as structure determined systems has led to the expansion of biotechnology. However, the expansion of biotechnology has not expanded our understanding of living systems as systems, nor has it expanded our understanding of ourselves as human beings. Quite on the contrary. The expansion of biotechnology interlaced with the explicit or implicit belief in a reductionistic genetic determination, as well as our immersion in a mercantile culture that penetrates all dimensions of our psychic existence, has obscured our view of ourselves as living beings of systemic identity that can become one kind of being or another according to how they live. In these circumstances we modern human beings live under two basic and penetrating cultural inspirations, one is that the market justifies everything, the other is that progress is a value that transcends human existence. This appears expressed in that practically all that we modern humans do is done in relation to its market value, and we talk and act as if we were carried by a trend of progress to which we must submit.

Thus, for example, now days there is much work and research in relation to the design of anthropomorphic machines, and much is argued that we humans should adapt to a time in which evolution is entering a technologic-scientific phase, looking at evolution as a process that carries us regardless of our awareness of it. Does this means that we must surrender to a cosmic force in which we are irrelevant and will disappear? What are we?

Much is said about a trend towards the technomorphisation of human existence, namely, a trend towards the reorganization of the organic in terms of the model of intelligent machines. May be this is so because the confidence in that what was considered as properly human, like the soul, the spirit, autonomous thought, the condition of self-consciousness, could not be realized through machines is eroding away in face of what seems the triumph of technology and science. In the invitation to write this article it is said: "According to Paul Virilo (a French writer) the new brain frame that is shaped by the adaptation to the electronic media (metadesign), penetrates the human neurological structures more deeply than older formations (relational processes?). Metadesign regenerates the impulses of neural transmission in a living subject and thus creates a sort of cognitive ergonomics. The result is a new anaesthetized relation between the human and the machine. Metadesign is a way of dumbing the infrastructure of human behavior." But, where are we individual responsible humans in all this that we can be so easily manipulated by other humans through their claims of generating progress in the development of the power of the machine while they satisfy their own ambitions, desires or fantasies?

No doubt that as structure determined systems we exist through our structural dynamics. No doubt as dynamic structure determined systems we exist in continuous structural change and our structure can be manipulated intentionally in order to obtain some intended consequences in our living. In that sense we are machines, molecular machines. But our human existence, our human identity does not take place in our structure. And this statement is valid for any machines as it exists as a totality in a relational space. As I have shown above, we exist as human beings as systemic entities in a relational space under continuous structural change. Furthermore, we are the kind of beings that we are as human beings, Homo sapiens amans or Homo sapiens aggressan, only as long as we participate of the systemic dynamics in which we arise and are conserved as that kind of human beings by living with other human beings. We are not predetermined genetically or otherwise to become the kind of human being that we become in our living.

We become according to how we live in a systemic manner by contributing with our living to conserve the kind of being that we become. Furthermore, what we think that we are, recursively forms part of the systemic dynamics in which we become and conserve the identity that we become. Moreover, since what we think forms part of the network of conversations that constitutes our living, we become according to our emotioning interlaced with our doings in the flow of our languaging. So, since our emotions specify the relational domain in which we are at any instant, it is our emotioning what defines the course of our individual living as well as the course of our cultural history, not our reason. This central role of emotions in defining the course of history, is not peculiar to us as cultural beings. Indeed it is the nature of the evolutionary process that it occurs in the constitution of lineages through the reproductive conservation of manners of living that are in fact defined by the relational preferences or choices of the organisms. Biological evolution is not entering a new phase with the growth of technology and science, but the evolution of human beings is following a course more and more defined by what we chose to do in front of the pleasures and fears that we live in our enjoyment or distaste of that which we produce through science and technology. This is why the question of what do we want is the central one, not the question about technology or reality.

Thus, since we are structure determined systems we are open to any structural manipulation that respects the structural coherences proper to the structural domain in which it takes place. Or, the same said in more general terms, and in a way that results more remarkable and at the same time more terrifying: anything that we may choose to design can be implemented, if the design respects the structural coherences of the domain in which it takes place.

Reality.

The notion of reality is changing but not our living in relation to it. Reality is a proposition that we use as an explanatory notion to explain our experiences. Moreover, we use it in different ways according to our emotions. This is why there are different notions of reality in different cultures or in different moments of history. Yet, we live in the same manner as the fundament of the validity of our experience that which we connote with the word real when we are not using it as an argument, that is, we live the "real" as the presence of our experience. I saw it, ... I heard it, ... I touched it, ... Indeed, this is why I claim that it is a fundamental condition in our existence as structure determined systems that we cannot distinguish in the experience itself between what we call our daily living perception and illusion. The distinction between perception and illusion is done a posteriori by devaluating an experience in relation to another that is accepted as valid without knowing if it will or will not be devaluated later in relation to another one. In fact, this is why virtual realities are called realities. Yes, what we now call virtual realities have a special character because they are associated to modern technology, and are design to involve many of our sensory dimensions, and ideally all possible ones. But in the strict sense they are nothing special, unless we use them as a powerful procedure to cheat and manipulate the lives of others. In these circumstances, what we call real, that is, that with respect to which virtual realities are virtual, are those experiences that we use as the grounding reference for our explanation of those other experiences that we live equally as real in the flow of our living, but we want to devaluate.

Our human life takes place in the relational dynamics in which we live it by living in conversations as languaging beings. As a consequence of our condition of living in conversations, our history as human beings has occurred in the continuous generation of domains of coordinations of coordinations of behaviors that float on the conservation of our living as biological entities, in a flow of shifting human realities that is possible because it does not matter how our biological living is conserved as long as it is conserved. And this historical dynamics has occurred in a way in which the biological realization of our being continuously disappears from our view as an invisible background in our daily operation as human beings unless it is directly interfered with. So, our history as human beings that begun when our ancestors begun to live in conversations, has been one of recursive creations of new realities which are all virtual with respect to the basic one of our biological existence, but which become real (non-virtual) in the flow of our human living as through their operational binding with our basic biological living they become the grounding for some new virtual reality. Therefore, that which should concern us, if we want that concern, is what do we want of our human existence, what course do we want that our humanness should follow.

Reality, when it is not just a manner of explaining our human experience, is that which in our living as human beings we live as the fundament of our living. Under these circumstances, reality is not energy, not information, however powerful these notions may appear to us in the explanation of our experiences. We explain our experiences with our experiences and with the coherences of our experiences. That is, we explain our living with our living, and in that sense we human beings are constitutively the fundament for all that exists, or may exist in our domains of cognition.

Expansions of basic reality.

Changes in the dimensions of structural coupling occurring along the evolutionary history of the different kinds of living systems, have constituted evolutionary transformations of the domains of basic reality in which they exist. The same can occur through design, in the intentional use of prosthetic means that create new dimensions of interactions for an organism which thus become new sensory domains for them. Due to its operation as a closed network of changing relations of activities, the nervous system has no intrinsic limitation for dealing with the expansion of the basic reality of the organism that it integrates. Nor does the nervous system have any intrinsic limitation for dealing with novel sensory dimension that may appear in the lives of organisms if their domains of interactions result expanded as a consequence of some independent structural changes of the medium.

If the manner of living that defines the class identity of a particular living system is conserved through the transformation of the basic biological reality in which it exists, the living system remains of the same kind, but its particular characteristics, and the relational space in which it lives, change. But if the manner of living that defines the class identity of a particular living system is not conserved, the living system disappears as a living system of that kind, and a new one appears in a new relational space.

Human bodyhood.

The love, the spirit, our consciousness and self-consciousness, responsibility, autonomous thought, are central to our existence as human beings, but not only they, also our bodyhood. The present human bodyhood is the result of the history of transformation of the bodyhood of the members of our human lineage as an outcome of their living in conversations, so it is not just any. If we modern humans were to make a robot that in its behavior is not different from us showing spiritual concerns, self-consciousness, emotions and autonomous rational thought, it would still be a robot and not a human being due to the history of its bodyhood. In the history of the cosmos such a robot may replace us and we may disappear completely as many other animal species that have become extinct, and that will be our end and the end of humanness in the cosmos. Does it matter? For me, since I do not consider progress or technology as values in themselves, it matters and I do not want that to happen!

It is possible that we human beings are becoming adapted to the interference with the natural processes in our lives through the medical use of organ transplants, artificial organs, or artificial initiation of embryonic development. May be that we accept those practices because it seems to us that they do not alter our human condition as they appear to conserve it. But at the same time it is becoming apparent that what threatens our humanness is in fact the commercial psychic space in which we now live, and in which we are ready to subordinate everything that we do to commerce as if it did not matter what happens in the flow of human history. In a commercial psychic existence, the commercial value is the first and most fundamental concern.

But, is this relation to the bodyhood in humanness essential to humanness? I think it is because those features that make us the kind of beings that we are, namely, love, social responsibility, cosmic consciousness, spirituality, ethical behavior, and expanding reflexive thought, arise in us as dynamic features of our human bodyhood conserved and cultivated in a relational human living that conserves that bodyhood. Humanness is not an expression of some computer program that specifies certain ways of operation, it is a manner of relational living that entails its being grounded on a basic bodyhood. Yes, many of our organs can be replaced by artificial ones, but they will be replacement only if they replace the original organs in the realization of the human living. Yes, it is possible to eventually make robots that openly behaves like us, but their history will be tied to their bodyhood, and as they will exist as composite entities in different domains of components than us, the domains of basic realities that they will generate will be different from ours.

* Art and design.

Art arises in design, but the aesthetic experience occurs in the wellbeing and joy that we live in being in coherence with our circumstances. So art has the artificiality of intention, expression or purpose, and everything can be a means for its realization. As such art exists in the psychic domain of the culture in which it occurs, unless there is the intention or purpose of breaking with it bringing forth some relational dimensions to human life, or some opportunity for reflection. We humans live aesthetic experiences in all the relational domains in which we dwell. It is due to the biological foundation of aesthetic experience, as well as to the fact that all that we live as human beings belongs to our relational existence, that art intertwines with our social existence and our technological present at all times.

I claim that the emotion that constitutes social coexistence is love. And love is the domain of those relational behaviors through which another being arises as a legitimate other in coexistence with oneself. As different technologies open and close different relational dimensions, they offer different possibilities for social and nonsocial coexistence, as well as different possibilities for the artist to create the relational experience that he or she may want to evoke. In all cases, though, whatever he or she does, the artist will be a participant creator of some virtual reality that may or not become a grounding reality in the course of human history. The artist is not unique in this, of course. We all human beings, and regardless of whether we are aware of this or not, are cocreators in flow of the changing realities that we live, but artists are in a very peculiar situations. Artists are poets of daily life that more than other human beings act in intended design, and, hence, what they do to the course of the history of humanness is usually not trivial. Artists as poets of daily life see or grasp the coherences of the present that the human community to which they belong lives, revealing them, according to their preferences and choices of a manner of living.

* Desires and responsibility.

We human beings always do what we want, even when we say that we are forced to do something that we do not like. What happens in this last case, is that we want the consequences that will take place as we do what we claim that we do not want to do. This is why our desires, our conscious and unconscious desires, determine the course of our lives, and the course of our human history. What we conserve, what we wish to conserve in our living, is what determines what can and what cannot change in our lives. At the same time this is why we frequently we do not want to reflect on our desires. If we do not see our desires, we can live feeling no responsibility for most of the consequences of what we do.

Artists, poets of daily life, are some of those people that can be, and frequently are aware of the course that human existence is following. This is particularly evident in science fiction writers that reveal a future that arises from their extrapolations of the coherences of our relational present. At the same time artists can be, and frequently are aware of what is missing in present human relations, such as love, honesty, social responsibility, and mutual respect, but the works in which they reveal or evoke what they see, are frequently dismissed as utopia. But in both cases it is not the medium what is central for the work of the artist, it is what they want to do. The medium is always a domain of possibilities that can be used with great or little knowledge of what can be done with it, but it is always a matter of dedication and aesthetics whether one manages or not to use it at will. What concerns me however, is the purpose, the emotioning that the artist wants to evoke.
Hommage to Benoit Mandelbrot, Mandelwerk
meta Tao design - I: Sistemi viventi

venerdì 4 luglio 2014

ri-Omaggio al Tao senza Tempo



http://www.alessandracelletti.com/







"Sono venuto al mondo molto giovane in un tempo molto vecchio."

"Quand’ero giovane, mi dicevano: «Vedrà quando avrà 50 anni». Ho 50 anni. Ma non vedo niente."

"Non leggo mai un giornale della mia opinione: la troverei deformata."

"L’esperienza è una forma di paralisi."

"Chi sono io - Tutti vi diranno che non sono un musicista. È vero. Fin dall’inizio della mia carriera, mi sono, immediatamente, situato tra i fonometrografi. Le mie opere sono pura fonometria... nessuna idea musicale ha presieduto alla [loro] creazione... Il pensiero scientifico le domina. Del resto, a me piace di più misurare un suono che ascoltarlo. Così fonometro alla mano, opero allegramente e senza indugi. C’è qualcosa ch'io non abbia pesato e misurato? Tutto Beethoven, tutto Verdi, eccetera. È molto strano."

Omaggio al Tao: Erik Satie

Tao senza tempo

Giorgio Faletti
Asti, 25 novembre 1950 – Torino, 4 luglio 2014

giovedì 3 luglio 2014

Tao Paradoxico-Philosophicus 26-29



    Un dieu donne le feu     
     Pour faire l'enfer;      
      Un diable, le miel     
       Pour faire le ciel.  
   



TRACTATUS PARADOXICO-PHILOSOPHICUS

26 Propositions and interactions: while playing language-games, paradoxical observers treat propositions (including this one) and sets of propositions (books, texts, etc.) as paradoxical contexts for interactions, considering all possibilities..
26.1 These observers think and converse about tentative objects and events, tentative ethics, tentative aesthetics, tentative beliefs, etc., thereby offering propositions as paradoxical contexts for interactions, as if the world (tentative realities) beheld the observer of the world.
26.11 These observers neither adopt a language nor theorize.
26.12 This leads to knowledge inspired by paradoxical and logical reasoning, to meaning, to uncertainty and to philosophical understanding, to comprehension and to skepticism about logical reasoning alone.
26.2 For these observers any proposition must contemplate its counter-proposition so that proposition and counter-proposition blend into a paradoxical context where the observers make tentative distinctions.
26.21 The same applies to books, texts, etc.



27 Delusions: consider a belief that contradicts an accepted classification of beliefs into true or false.
27.01 Delusions do not affect paradoxical observers since they ponder and contemplate beliefs as true and false.
27.02 Delusions, however, affect logical observers since they only explain and communicate, do not ponder and consider beliefs as true or false.
27.021 Consequently, other observers (or themselves) may easily delude them, singly or collectively.
27.1 For example, the delusion of different observers sharing the same thoughts affects only logical observers who also suffer from similar delusions: that they can share their beliefs, dreams, imaginations, etc., as well as the same truth, the same religion, the same god, etc.
27.11 These delusions, harmless in the mind of one individual, can reach pandemic proportions when, stimulated by hierarchies, they invade the minds of many observers.
27.2 Deprived of an education, humans seek refuge in religion and/or rule following to avoid despair; thus they loose their diversity of interactions.
27.21 And societies replace their dynamic stabilities and instabilities with static stabilities without a future.



28 Humans in society: consider multi-cellular organisms such as ants or bees that ensnare the living cells that compose them; anthills and beehives, as new living organisms, trap the ants and bees that constitute them.
28.01 So it happens with the population of humans in society who increasingly serves the goals of entities made of ensnared, predictable and expendable humans.
28.02 These humans do not notice these changes.
28.1 Most, if not all, past and present societies of humans have used hierarchies, religion and all kinds of persuasion to keep their populations in check, thus reducing or suppressing thinking altogether, and fostering rule following.
28.11 This approach will lead, without doubt, to a new living organism that will ensnare everyone, including those who have proposed and support it.
28.12 As every living organism, the new organism will also encounter death in one way or another (including suicide) carrying everyone along.
28.3 Aware that hierarchies take away their humanity and also their lives, young minds must, with courage and caution, reject, and by all available means, prevent or dismantle hierarchical societies, corporations and institutions, beginning with those based on accumulated wealth.
28.31 This they can achieve by encouraging humans to think and converse, to change from rule followers to rule pondering observers.



29 Thinking and conversing: what observers may not explain or communicate, they may think and converse, e.g., they may:
1 Postulate nothing: no observer, no distinction (e.g., object, event), not even dimensions (e.g., space, time) ...

Tractatus Paradoxico-Philosophicus

A Philosophical Approach to Education
Un Acercamiento Filosófico a la Educación
Une Approche Philosophique à l'Education
Eine Philosophische Annäherung an Bildung

Ricardo B. Uribe

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Tao Paradoxico-Philosophicus 23-25