martedì 12 aprile 2011

lezioni di Tao inglese



omaggio al Tao: William Blake


"Without Contraries is no progression.
Attraction and Repulsion, Reason and Energy, Love and Hate, are necessary to Human existence.
From these contraries spring what the religious call Good & Evil.
Good is the passive that obeys Reason.
Evil is the active springing from Energy.
Good is Heaven.
Evil is Hell." 

lunedì 11 aprile 2011

red Tao dragon


The Great Red Dragon and the Woman Clothed in Sun

William Blake

acquarello 54.6 per 43.2, c. 1805

And behold a great red dragon, having seven heads and ten horns, and seven crowns upon his heads. And his tail drew the third part of the stars of heaven, and did cast them to the earth.
— (Rev. 12:3-4)

Metalogo: perchè il Tao ha contorni?


Figlia. Papà, perché le cose hanno contorni?
Padre. Davvero? Non so. Di quali cose parli?
F. Sì, quando disegno delle cose, perché hanno i contorni?
P. Be’, e le cose di altro tipo.., un gregge di pecore? O una conversazione? Queste cose hanno contorni?
F. Non dire sciocchezze. Non si può disegnare una conversazione. Dico le cose.
P. Sì... stavo solo cercando di capire che cosa volevi dire. Vuoi dire: "Perché quando disegniamo le cose diamo loro dei contorni? ", oppure vuoi dire che le cose hanno dei contorni, che noi le disegniamo oppure no?
F. Non lo so, papà, devi dirmelo tu. Che cosa voglio chiederti?
P. Non lo so, tesoro. C’era una volta un artista molto arrabbiato che scribacchiava cose di ogni genere, e dopo la sua morte guardarono nei suoi quaderni e videro che in un posto aveva scritto: "I savi vedono i contorni e perciò li disegnano", ma in un altro posto aveva scritto: "I pazzi vedono i contorni e perciò li disegnano".
F. Ma che cosa voleva dire? Non capisco.
P. Be’, William Blake - questo era il suo nome - era un grande artista e un uomo molto arrabbiato. E a volte arrotolava le sue idee, facendone palline di carta che poi gettava alla gente.
F. Ma perché era tanto arrabbiato, papà?
P. Perché era tanto arrabbiato? Be’... molta gente pensava che lui fosse matto - proprio matto - pazzo, quando era arrabbiato. E questa era una delle cose che lo facevano arrabbiare da matti. E poi si arrabbiava con certi artisti che dipingevano le figure come se le cose non avessero contorni. Li chiamava "la scuola sbavacchiante".
F. Non era molto tollerante, vero, papà?
P. Tollerante? Dio santo... Sì, lo so... questo è quello che ti ficcano in testa a scuola. No, Blake non era molto tollerante. Non pensava neppure che la tolleranza fosse una buona cosa. Pensava che confondesse tutti i contorni e impantanasse tutto.., che rendesse tutti i gatti grigi. Così che nessuno fosse più in grado di vedere nulla in modo chiaro e netto.
F. Sì, papà.
P. No, questa non è una risposta. Cioè, ’Sì, papà’ non è una risposta. Quello che mi fa capire questa risposta è solo che tu non sai qual è la tua opinione.., e quello che dico io o che dice Blake non vale un fico secco per te e che la scuola ti ha così intontito coi discorsi sulla tolleranza che non sai più vedere la differenza tra una cosa e l’altra.
F. (Piange).
P. Santo cielo, scusami, ma mi sono arrabbiato. Ma non proprio con te. Mi sono arrabbiato per l’approssimazione con cui la gente pensa e agisce... e poi predicano la confusione e la chiamano tolleranza.
F. Ma, papà...
P. Sì?
F. Non so. Mi pare di nomi essere capace di pensare molto bene. È tutto così confuso.
P. Mi spiace. Credo di essere stato io a confonderti quando ho cominciato a sfogarmi.

F. Papà?
P. Dimmi.
F. Perché è una cosa che fa arrabbiare?
P. Che cos’è che fa arrabbiare?
F. Cioè.., se le cose hanno i contorni. Hai detto che William Blake si arrabbiava per questo. E poi tu ti sei arrabbiato per questo. Perché, papà?
P. Si, credo che sia così, in un certo senso. Credo che sia importante. In un certo senso, forse è la cosa importante. E altre cose sono importanti solo perché fanno parte di questa.
F. Mi spieghi, papà?
P. Cioè, be’, parliamo della tolleranza. Quando i Gentili vogliono perseguitare gli Ebrei perché hanno ucciso Cristo, io divento intollerante. Credo che i Gentili abbiano una gran confusione in testa e confondano tutti i contorni. Perché non sono stati gli Ebrei a uccidere Cristo, sono stati gli Italiani.
F. Davvero, papà?
P. Sì, solo che ora quelli che l’uccisero vengono chiamati Romani, e per i loro discendenti usiamo una parola diversa: li chiamiamo Italiani. Vedi, ci sono due pasticci, e io ho creato il secondo apposta per poterci veder chiaro. Primo, c’è il pasticcio di cambiare la storia e dire che sono stati gli Ebrei, e poi c’è il pasticcio di affermare che i discendenti dovrebbero essere responsabili di ciò che i loro antenati non hanno fatto. È una porcheria.
F. Sì, papà.
P. D’accordo, cercherò di non arrabbiarmi di nuovo. Quello che voglio dire è che la confusione e il disordine sono cose per cui ci si deve arrabbiare.
F. Papà?
P. Sì?
F. Anche l’altro giorno parlavamo di disordine. Stiamo parlando della stessa cosa anche adesso?
P. Sì, certamente. Ecco perché è importante... quello che abbiamo detto l’altro giorno.
F. E tu hai detto che il compito della scienza è di rendere chiare le cose.
P. Sì, è ancora la stessa cosa.

F. Mi sembra di non capire troppo bene tutto questo. Oggi cosa sembra essere anche un’altra cosa, e io mi ci perdo.
P. Sì, lo so che è difficile. Il fatto è che le nostre conversazioni hanno un contorno, in un certo senso... se solo lo si potesse vedere chiaramente.

P. Tanto per cambiare, pensiamo a un vero e proprio pasticcio concreto, per vedere se serve. Ti ricordi la partita di croquet in Alice nel paese delle meraviglie?
F. Sì... coi fenicotteri?
P. Si, quella.
F. E cogli istrici al posto delle palle?
P. No, porcospini. Erano porcospini. Non ci sono istrici in Inghilterra.
F. Ah, era in Inghilterra, papà? Non lo sapevo.
P. Certo che era in Inghilterra. In America non ci sono neppure duchesse.
F. Ma c’è la duchessa di Windsor, papà.
P. Sì, ma non ha aculei, non come un vero istrice.
F. Continua con Alice, papà, e non dire sciocchezze.
P. Sì, stavamo parlando dei fenicotteri. Il fatto è che l’uomo che scrisse Alice pensava alle stesse cose cui pensiamo noi. E si divertì con la piccola Alice immaginando una partita a croquet che fosse tutto un pasticcio, un assoluto pasticcio. Così stabilì che si dovessero usare fenicotteri invece di mazze, perché i fenicotteri potevano piegare il collo e così il giocatore non avrebbe saputo se la sua mazza avrebbe colpito la palla né come.
F. D’altra parte la palla poteva andarsene per conto suo, perché era un porcospino.
P. Certo. Così ogni cosa è talmente ingarbugliata che nessuno ha la minima idea di ciò che può accadere.
F. E poi anche gli archi se ne andavano in giro, perché erano soldati.
P. Certo.., ogni cosa poteva muoversi e nessuno poteva dire come si sarebbe mossa.
F. Per far questo pasticcio assoluto era necessario che ogni cosa fosse viva?
P. No... avrebbe potuto fare un pasticcio... no, forse hai ragione. Ecco, questo è interessante. Sì, sì, doveva essere proprio così. Aspetta un momento. È curioso, ma hai ragione. Perché se avesse creato il pasticcio in un altro modo qualunque, i giocatori avrebbero potuto imparare a cavarsela. Cioè, se il campo di croquet fosse stato accidentato, o se le palle avessero avuto una forma bizzarra, o se le teste delle mazze fossero state semplicemente oscillanti, allora i giocatori avrebbero potuto lo stesso imparare e il gioco sarebbe stato solo più difficile, ma non impossibile. Ma una volta che ci si fanno entrare esseri viventi, diventa impossibile. Questo non me l’aspettavo.
F. Davvero, papà? Io si. A me sembra naturale.
P. Naturale? Certo.., abbastanza naturale. Ma non mi sarei aspettato che le cose andassero a quel modo.
F. Perché no? Invece è proprio quello che io mi sarei aspettata.
P. Sì. Ma la cosa che non mi sarei aspettato è questa. Che gli animali, che sono essi stessi in grado di prevedere un poco le cose, e di agire sulla base di ciò che pensano che stia per accadere - un gatto può acchiappare un topo saltando proprio sul punto dove il topo probabilmente sarà quando il gatto avrà completato il salto - ma è proprio il fatto che gli animali sono capaci di prevedere e imparare che li rende le uniche cose veramente imprevedibili del mondo. E pensare che noi facciamo leggi come se le persone fossero del tutto regolari e prevedibili!
F. O forse si fanno le leggi proprio perché le persone non sono prevedibili e quelli che fanno le leggi vorrebbero che gli altri fossero prevedibili?
P. Sì, forse è così.

1953



















IL CROQUET DELLA REGINA

Un gran cespuglio di rose stava presso all'ingresso del giardino. Le rose germogliate erano bianche, ma v'erano lì intorno tre giardinieri occupati a dipingerle rosse. «È strano!» pensò Alice, e s'avvicinò per osservarli, e come fu loro accanto, sentì dire da uno: - Bada, Cinque! non mi schizzare la tua tinta addosso!
- E che vuoi da me? - rispose Cinque in tono burbero. - Sette mi ha urtato il braccio.
Sette lo guardò e disse: - Ma bene! Cinque dà sempre la colpa agli altri!
- Tu faresti meglio a tacere! - disse Cinque. - Proprio ieri la Regina diceva che tu meriteresti di essere decapitato!
- Perché? - domandò il primo che aveva parlato.
- Questo non ti riguarda, Due! - rispose Sette.
Sì, che gli riguarda! - disse Cinque; - e glielo dirò io... perché hai portato al cuoco bulbi di tulipani invece di cipolle.
Sette scagliò lontano il pennello, e stava lì lì per dire: - Di tutte le cose le più ingiuste... - quando incontrò gli occhi di Alice e si mangiò il resto della frase. Gli altri similmente si misero a guardarla e le fecero tutti insieme una profonda riverenza.
Volete gentilmente dirmi, - domandò Alice, con molta timidezza, - perché state dipingendo quelle rose?
Cinque e Sette non risposero, ma diedero uno sguardo a Due. Due disse allora sottovoce: - Perché questo qui doveva essere un rosaio di rose rosse. Per isbaglio ne abbiamo piantato uno di rose bianche. Se la Regina se ne avvedesse, ci farebbe tagliare le teste a tutti. Così, signorina, facciamo il possibile per rimediare prima ch'essa venga a...
In quell'istante Cinque che guardava attorno pieno d'ansia, gridò: - La Regina! la Regina! - e i tre giardinieri si gettarono immediatamente a faccia a terra. Si sentì un gran scalpiccìo, e Alice si volse curiosa a veder la Regina.
Prima comparvero dieci soldati armati di bastoni: erano della forma dei tre giardinieri, bislunghi e piatti, le mani e i piedi agli angoli: seguivano dieci cortigiani, tutti rilucenti di diamanti; e sfilavano a due a due come i soldati. Venivano quindi i principi reali, divisi a coppie e saltellavano a due a due, tenendosi per mano: erano ornati di cuori.
Poi sfilavano gli invitati, la maggior parte re e regine, e fra loro Alice riconobbe il Coniglio Bianco che discorreva in fretta nervosamente, sorridendo di qualunque cosa gli si dicesse. Egli passò innanzi senza badare ad Alice. Seguiva il fante di cuori, portando la corona reale sopra un cuscino di velluto rosso; e in fondo a tutta questa gran processione venivano IL RE E LA REGINA DI CUORI.
Alice non sapeva se dovesse prosternarsi, come i tre giardinieri, ma non poté ricordarsi se ci fosse un costume simile nei cortei reali.
«E poi, a che servirebbero i cortei, - riflettè, - se tutti dovessero stare a faccia per terra e nessuno potesse vederli?»
Così rimase in piedi ad aspettare.
Quando il corteo arrivò di fronte ad Alice, tutti si fermarono e la guardarono; e la Regina gridò con cipiglio severo: - Chi è costei? - e si volse al fante di cuori, il quale per tutta risposta sorrise e s'inchinò.
- Imbecille! - disse la Regina, scotendo la testa impaziente; indi volgendosi ad Alice, continuò a dire: - Come ti chiami, fanciulla?
- Maestà, mi chiamo Alice, - rispose la fanciulla con molta garbatezza, ma soggiunse fra sé: «Non è che un mazzo di carte, dopo tutto? Perché avrei paura?»
- E quelli chi sono? - domandò la Regina indicando i tre giardinieri col viso a terra intorno al rosaio; perché, comprendete, stando così in quella posizione, il disegno posteriore rassomigliava a quello del resto del mazzo, e la Regina non poteva distinguere se fossero giardinieri, o soldati, o cortigiani, o tre dei suoi stessi figliuoli.
- Come volete che io lo sappia? - rispose Alice, che si meravigliava del suo coraggio. - È cosa che non mi riguarda.
La Regina diventò di porpora per la rabbia e, dopo di averla fissata selvaggiamente come una bestia feroce, gridò: - Tagliatele la testa, subito!...
- Siete matta! - rispose Alice a voce alta e con fermezza; e la Regina tacque.
Il Re mise la mano sul braccio della Regina, e disse timidamente: - Rifletti, cara mia, è una bambina!
La Regina irata gli voltò le spalle e disse al fante: - Voltateli!
Il fante obbedì, e con un piede voltò attentamente i giardinieri.
- Alzatevi! - gridò la Regina, e i tre giardinieri, si levarono immediatamente in piedi, inchinandosi innanzi al Re e alla Regina, ai principi reali, e a tutti gli altri.
- Basta! - strillò la regina. - Mi fate girare la testa. - E guardando il rosaio continuò: - Che facevate qui?
- Con buona grazia della Maestà vostra, - rispose Due umilmente, piegando il ginocchio a terra, tentavamo...
- Ho compreso! - disse la Regina, che aveva già osservato le rose, - Tagliate loro la testa! - E il corteo reale si rimise in moto, lasciando indietro tre soldati, per mozzare la testa agli sventurati giardinieri, che corsero da Alice per esserne protetti.
- Non vi decapiteranno! - disse Alice, e li mise in un grosso vaso da fiori accanto a lei. I tre soldati vagarono qua e là per qualche minuto in cerca di loro, e poi tranquillamente seguirono gli altri.
- Avete loro mozzata la testa? - gridò la Regina.
- Maestà, le loro teste se ne sono andate! - risposero i soldati.
- Bene! - gridò la Regina. - Si gioca il croquet?
I soldati tacevano e guardavano Alice, pensando che la domanda fosse rivolta a lei.
- Sì! - gridò Alice.
Venite qui dunque! - urlò la Regina. E Alice seguì il corteo, curiosa di vedere il seguito.
- Che bel tempo! - disse una timida voce accanto a lei. Ella s'accorse di camminare accanto al Coniglio bianco, che la scrutava in viso con una certa ansia.
- Bene, - rispose Alice: - dov'è la Duchessa?
- St! st! - disse il Coniglio a voce bassa, con gran fretta. Si guardò ansiosamente d'intorno levandosi in punta di piedi, avvicinò la bocca all'orecchio della bambina: - È stata condannata a morte.
- Per qual reato? - domandò Alice.
- Hai detto: «Che peccato?» - chiese il Coniglio.
- Ma no, - rispose Alice: - Ho detto per che reato?
- Ha dato uno schiaffo alla Regina... -cominciò il coniglio.
Alice ruppe in una risata.
- Zitta! - bisbigliò il Coniglio tutto tremante. - Ti potrebbe sentire la Regina! Sai, è arrivata tardi, e la Regina ha detto...
- Ai vostri posti! - gridò la Regina con voce tonante. E gl'invitati si sparpagliarono in tutte le direzioni, l'uno rovesciando l'altro: finalmente, dopo un po', poterono disporsi in un certo ordine, e il giuoco cominciò. Alice pensava che in vita sua non aveva mai veduto un terreno più curioso per giocare il croquet; era tutto a solchi e zolle; le palle erano ricci, i mazzapicchi erano fenicotteri vivi, e gli archi erano soldati vivi, che si dovevano curvare e reggere sulle mani e sui piedi.
La principale difficoltà consisteva in ciò, che Alice non sapeva come maneggiare il suo fenicottero; ma poi riuscì a tenerselo bene avviluppato sotto il braccio, con le gambe penzoloni; ma quando gli allungava il collo e si preparava a picchiare il riccio con la testa, il fenicottero girava il capo e poi si metteva a guardarla in faccia con una espressione di tanto stupore che ella non poteva tenersi dallo scoppiare dalle risa: e dopo che gli aveva fatto abbassare la testa, e si preparava a ricominciare, ecco che il riccio si era svolto, e se n'andava via. Oltre a ciò c'era sempre una zolla o un solco là dove voleva scagliare il riccio, e siccome i soldati incurvati si alzavano e andavan vagando qua e là, Alice si persuase che quel giuoco era veramente difficile.
I giocatori giocavano tutti insieme senza aspettare il loro turno, litigando sempre e picchiandosi a cagion dei ricci; e in breve la Regina diventò furiosa, e andava qua e là pestando i piedi e gridando:
- Mozzategli la testa! - oppure: - Mozzatele la testa! - almeno una volta al minuto.
- Alice cominciò a sentirsi un po' a disagio: e vero che non aveva avuto nulla da dire con la Regina; ma poteva succedere da un momento all'altro, e pensò: «Che avverrà di me? Qui c'è la smania di troncar teste. Strano che vi sia ancora qualcuno che abbia il collo a posto!»
E pensava di svignarsela, quando scorse uno strano spettacolo in aria. Prima ne restò sorpresa, ma dopo aver guardato qualche istante, vide un ghigno e disse fra sé: «È Ghignagatto: potrò finalmente parlare con qualcuno.»
- Come va il giuoco? - disse il Gatto, appena ebbe tanto di bocca da poter parlare.
Alice aspettò che apparissero gli occhi, e poi fece un cenno col capo. «È inutile parlargli, - pensò, - aspettiamo che appaiano le orecchie, almeno una.» Tosto apparve tutta la testa, e Alice depose il suo fenicottero, e cominciò a raccontare le vicende del giuoco, lieta che qualcuno le prestasse attenzione. Il Gatto intanto dopo aver messa in mostra la testa, credé bene di non far apparire il resto del corpo.
- Non credo che giochino realmente, - disse Alice lagnandosi. - Litigano con tanto calore che non sentono neanche la loro voce... non hanno regole nel giuoco; e se le hanno, nessuno le osserva... E poi c'è una tal confusione con tutti questi oggetti vivi; che non c'è modo di raccapezzarsi. Per esempio, ecco l'arco che io dovrei attraversare, che scappa via dall'altra estremità del terreno... Proprio avrei dovuto fare croquet col riccio della Regina, ma è fuggito non appena ha visto il mio.
- Ti piace la Regina? - domandò il Gatto a voce bassa.
- Per nulla! - rispose Alice; - essa è tanto... - Ma s'accorse che la Regina le stava vicino in ascolto, e continuò -...abile al giuoco, ch'è inutile finire la partita.
La Regina sorrise e passò oltre.
- Con chi parli? - domandò il Re che s'era avvicinato ad Alice, e osservava la testa del Gatto con grande curiosità.
- Con un mio amico... il Ghignagatto, - disse Alice; - vorrei presentarlo a Vostra Maestà.
- Quel suo sguardo non mi piace, - rispose il Re; - però se vuole, può baciarmi la mano.
- Non ho questo desiderio, - osservò il Gatto.
- Non essere insolente, - disse il Re, - e non mi guardare in quel modo. - E parlando si rifugiò dietro Alice.
- Un gatto può guardare in faccia a un re, - osservò Alice, - l'ho letto in qualche libro, ma non ricordo dove.
- Ma bisogna mandarlo via, - disse il Re risoluto; e chiamò la Regina che passava in quel momento:
- Cara mia, vorrei che si mandasse via quel Gatto!
La Regina conosceva un solo modo per sciogliere tutte le difficoltà, grandi o piccole, e senza neppure guardare intorno, gridò: - Tagliategli la testa!
- Andrò io stesso a chiamare il carnefice, - disse il Re, e andò via a precipizio.
Alice pensò che intanto poteva ritornare per vedere il progresso del gioco, mentre udiva da lontano la voce della Regina che s'adirava urlando. Ella aveva sentito già condannare a morte tre giocatori che avevano perso il loro turno. Tutto ciò non le piaceva, perché il gioco era diventato una tal confusione ch'ella non sapeva più se fosse la sua volta di tirare o no. E si mise in cerca del suo riccio.
Il riccio stava allora combattendo contro un altro riccio; e questa sembrò ad Alice una buona occasione per batterli a croquet l'uno contro l'altro: ma v'era una difficoltà: il suo fenicottero era dall'altro lato del giardino, e Alice lo vide sforzarsi inutilmente di volare su un albero. Quando le riuscì d'afferrare il fenicottero e a ricondurlo sul terreno, la battaglia era finita e i due ricci s'erano allontanati. «Non importa, - pensò Alice, - tanto tutti gli archi se ne sono andati dall'altro lato del terreno.» E se lo accomodò per benino sotto il braccio per non farselo scappare più, e ritornò dal Gatto per riattaccare discorso con lui.
Ma con sorpresa trovò una gran folla raccolta intorno al Ghignagatto; il Re, la Regina e il carnefice urlavano tutti e tre insieme, e gli altri erano silenziosi e malinconici.
Quando Alice apparve fu chiamata da tutti e tre per risolvere la questione. Essi le ripeterono i loro argomenti; ma siccome parlavano tutti in una volta, le fu difficile intendere che volessero.
Il carnefice sosteneva che non si poteva tagliar la testa dove mancava un corpo da cui staccarla; che non aveva mai avuto da fare con una cosa simile prima, e che non voleva cominciare a farne alla sua età.
L'argomento del Re, era il seguente: che ogni essere che ha una testa può essere decapitato, e che il carnefice non doveva dire sciocchezze.
L'argomento della Regina era questo: che se non si fosse eseguito immediatamente il suo ordine, avrebbe ordinato l'esecuzione di quanti la circondavano. (E quest'ingiunzione aveva dato a tutti quell'aria grave e piena d'ansietà.)
Alice non seppe dir altro che questo: - Il Gatto è della Duchessa: sarebbe meglio interrogarla.
- Ella è in prigione, - disse la Regina al carnefice: - Conducetela qui. - E il carnefice volò come una saetta.
Andato via il carnefice, la testa del Gatto cominciò a dileguarsi, e quando egli tornò con la Duchessa non ce n'era più traccia: il Re e il carnefice corsero qua e là per ritrovarla, mentre il resto della brigata si rimetteva a giocare.

Tributo al Tao: Raymond Carver

© Kevin Scanlon
Una pacchia
Non c’è altra parola. Perché proprio quello è stata. Una pacchia.
Una pacchia, questi ultimi dieci anni.
Vivo, sobrio, ha lavorato, ha amato,
riamato, una brava donna. Undici anni
fa gli avevano detto che aveva solo sei mesi da vivere
se continuava così. E non poteva che
peggiorare. Così cambiò vita,
in qualche modo. Smise di bere! E per il resto?
Dopo, fu tutta una pacchia, ogni minuto,
fino a quando e anche quando gli dissero che,
be’, c’era qualcosa che non andava e qualcosa
che gli cresceva dentro la testa. “Non piangete per me”,
disse ai suoi amici. “Sono un uomo fortunato.
Ho campato dieci anni di più di quanto io o chiunque altro
si aspettasse. Una vera pacchia. Non ve lo scordate”.
Gravy
No other word will do. For that’s what it was.
Gravy.
Gravy, these past ten years.
Alive, sober, working, loving, and
being loved by a good woman. Eleven years
ago he was told he had six months to live
at the rate he was going. And he was going
nowhere but down. So he changed his ways
somehow. He quit drinking! And the rest?
After that it was all gravy, every minute
of it, up to and including when he was told about,
well, some things that were breaking down and
building up inside his head. “Don’t weep for me,”
he said to his friends. “I’m a lucky man.
I’ve had ten years longer than I or anyone
expected. Pure Gravy. And don’t forget it.

« E hai ottenuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos'è che volevi?
Sentirmi chiamare amato, sentirmi
amato sulla terra. »


“. . . The places where water comes together
with other water. Those places stand out
in my mind like holy places..."

“Where Water Comes Together With Other Water”

di cosa parliamo quando parliamo di Tao
























 

 Vicini

Bill e Arlene Miller erano una coppia felice. Ma ogni tanto avevano come l'impressione di essere i soli, nella loro cerchia, a essere rimasti in qualche modo fuori: Bill, perso nel suo lavoro di ragioniere e Arlene, impegnata nei suoi compiti segretariali. Qualche volta ne discutevano, facendo dei confronti soprattutto con la vita dei loro vicini, Harriet e Jim Stone. Ai Miller pareva che gli Stone conducessero una vita più intensa e brillante della loro. I vicini andavano sempre a cena fuori, invitavano gente a casa o viaggiavano per tutto il paese in occasione di impegni di lavoro di Jim.
Gli Stone abitavano nell'appartamento di fronte a quello dei Miller. Jim faceva il rappresentante per una ditta che fabbricava pezzi di macchinari e riusciva spesso a combinare le trasferte di lavoro con i viaggi di piacere. Ora, per esempio, si sarebbero assentati per dieci giorni, andando prima a Cheyenne e poi a Saint
Louis, a trovare certi parenti. In loro assenza, i Miller avrebbero badato all'appartamento degli Stone, dato da mangiare a Kitty e annaffiato le piante. Bill e Jim si scambiarono una stretta di mano accanto alla macchina. Harriet e Arlene si tennero a vicenda per i gomiti mentre si sfioravano le labbra con un bacio.
"Divertitevi", Bill disse a Harriet.
"Come no", rispose Harriet. "Anche voi, ragazzi!"
Arlene annuì.
Jim le strizzò l'occhio. "Ciao, Arlene. Mi raccomando, trattalo bene il tuo vecchio".
"Come no", disse Arlene.
"Divertitevi", ripeté Bill.
"Ci puoi scommettere", disse Jim, colpendo scherzosamente Bill sul braccio. "E grazie ancora, ragazzi".
Gli Stone agitarono le mani in segno di saluto dalla macchina mentre si allontanavano e i Miller risposero al saluto.
"Be', mi piacerebbe essere al posto loro", disse Bill.
"Dio solo sa se non farebbe bene anche a noi una vacanza", disse Arlene. Mentre risalivano nel loro appartamento, prese il braccio del marito e se lo mise attorno alla vita.
Dopo cena Arlene disse: "Non ti scordare. La prima sera Kitty deve mangiare il cibo a base di fegato". Rimase in piedi sulla soglia della cucina a piegare la tovaglietta fatta a mano che Harriet le aveva portato da Santa Fe l'anno prima. Entrando nell'appartamento degli Stone, Bill trasse un respiro profondo. L'aria s'era già fatta pesante e vagamente dolce. L'orologio a forma di sole sopra al televisore segnava le otto e mezza.
Ricordava ancora quando Harriet aveva portato a casa quell'orologio e aveva attraversato il pianerottolo per mostrarlo ad Arlene, cullandone la cassa d'ottone tra le braccia e parlandogli attraverso la carta velina che lo avvolgeva quasi fosse un bambino.
Kitty gli si strofinò contro le pantofole e si sdraiò su un fianco, ma saltò su subito appena lui si diresse in cucina e scelse una delle scatolette allineate in bell'ordine sul piano immacolato del lavello. Lasciò la gatta a sbocconcellare il cibo e si diresse in bagno. Si guardò nello specchio, chiuse gli occhi e si guardò di nuovo. Aprì lo sportello dei medicinali. Trovò un flacone di pillole e ne lesse l'etichetta - Harriet Stone. Una compressa al giorno come da ricetta - quindi se l'infilò in tasca. Tornò in cucina, riempì la brocca d'acqua e andò in soggiorno. Finito di annaffiare le piante, poggiò la brocca sulla moquette e aprì la credenza dove erano conservati i liquori. Allungò una mano fino in fondo e ne tirò fuori la bottiglia di Chivas Regal. Prese due sorsi attaccandosi alla bottiglia, si asciugò le labbra sulla manica e ripose la bottiglia nella credenza.
Kitty s'era messa a dormire sul divano. Bill spense le luci e lentamente si tirò la porta alle spalle, controllando che fosse chiusa bene. Aveva come la sensazione di essersi scordato qualcosa.
"Come mai ci hai messo tanto?", gli chiese Arlene. Guardava la televisione con le gambe piegate sotto di sé.
"Niente. Mi sono messo a giocare un po' con Kitty", rispose lui, poi andò da lei e le carezzò i seni.
"Andiamocene a letto, tesoro", le disse.
Il giorno dopo Bill si prese solo dieci dei venti minuti di pausa previsti nel pomeriggio e staccò un quarto d'ora prima delle cinque. Parcheggiò la macchina nel posto riservato a lui proprio mentre Arlene scendeva dall'autobus. Attese che lei entrasse nell'edificio e poi corse su per le scale per sorprenderla all'uscita dall'ascensore.
"Bill! Oddio, a momenti mi fai prendere un colpo. Sei in anticipo", disse.
Lui si strinse nelle spalle. "Non c'era niente da fare, in ufficio", disse.
Lei gli diede la sua chiave per aprire la porta. Bill lanciò un'occhiata alla porta dell'appartamento di fronte prima di seguirla in casa.
"Andiamocene a letto", disse lui.
"Adesso?", Arlene fece una risatina. "Ma Bill, che t'ha preso?"
"Niente. Togliti i vestiti". Cercò goffamente di afferrarla e lei esclamò: "Dio Santo, Bill!"
Lui si slacciò la cintura.
Dopo, ordinarono cibo cinese per telefono e quando arrivò lo mangiarono con appetito, senza parlare, e si misero ad ascoltare dei dischi.
"Non ci scordiamo di dare da mangiare a Kitty", disse lei.
"Stavo proprio pensando la stessa cosa", disse lui. "Vado subito".
Scelse una scatoletta al gusto di pesce per la gatta, poi riempì la brocca e andò ad annaffiare. Quando tornò in cucina, la gatta grattava la sabbia della lettiera. Lo fissò intensamente prima di rimettersi a grattare. Aprì tutti gli sportelli e passò in rassegna le scatolette, le scatole di cereali, il cibo confezionato, i bicchieri da cocktail e da vino, tazze, bricchi, piatti, piattini, pentole e padelle. Aprì il frigo. Annusò un gambo di sedano, staccò due morsi di cheddar e mangiucchiò una mela avviandosi in camera da letto. Il letto sembrava immenso, con una sovra coperta bianca e morbida che arrivava fino a terra. Aprì un cassetto del comodino, vi trovò un pacchetto di sigarette semivuoto e se l'infilò in tasca. Si avvicinò quindi al guardaroba e stava per aprirlo quando sentì bussare alla porta d'ingresso.
Mentre andava ad aprire si fermò in bagno e tirò lo sciacquone.
"Ma come mai ci metti tanto?", chiese Arlene. "È più di un'ora che sei qui".
"Ah, sì?", disse lui.
"Eh, già".
"Sono dovuto andare in bagno".
"Guarda che il bagno ce l' hai anche a casa", disse lei.
"Era urgente", disse lui.
Quella sera fecero di nuovo l'amore.

La mattina dopo chiese ad Arlene di chiamare l'ufficio per avvertire che non sarebbe andato al lavoro. Si fece una doccia, si vestì e si preparò una colazione leggera. Provò a cominciare a leggere un libro. Uscì a fare una passeggiata e si sentì meglio. Però dopo un po' se ne tornò a casa con le mani in tasca. Si fermò davanti alla porta degli Stone per sentire se per caso la gatta gironzolava dentro l'appartamento. Poi aprì la porta di casa sua e andò in cucina a prendere la chiave dei vicini.
Una volta all'interno gli parve che facesse più fresco qui che a casa sua; era pure più scuro. Si chiese se le piante avessero qualcosa a che fare con la temperatura dell'aria. Guardò fuori dalla finestra e poi attraversò lentamente ciascuna delle stanze esaminando qualsiasi cosa cadesse sotto il suo sguardo, con attenzione, una cosa alla volta. Guardò posacenere, mobili, utensili di cucina, l'orologio. Tutto. Alla fine entrò in camera da letto e la gatta apparve ai suoi piedi. La carezzò una volta, la portò in bagno e la chiuse dentro.
Si stese sul letto e fissò il soffitto. Rimase lì a occhi chiusi qualche minuto, poi s'infilò una mano sotto la cintura. Cercò di ricordarsi che giorno era. Cercò di ricordare quand'era che gli Stone dovevano tornare e poi si chiese se sarebbero mai tornati. Non ricordava già più che faccia avevano e neanche come si vestivano o come parlavano. Con un sospiro e qualche difficoltà rotolò sul letto per alzarsi e si appoggiò al comò per guardarsi allo specchio.
Aprì il guardaroba e scelse una camicia hawaiana. Rovistò finché non trovo un paio di bermuda, ben stirati e appesi sopra un paio di calzoni di gabardine marroni. Si tolse i vestiti che portava e s'infilò i calzoncini e la camicia. Si riguardò nello specchio.
Andò in soggiorno e si versò da bere. Tornando in camera da letto, sorseggiò dal bicchiere. Provò una camicia azzurra, un completo scuro, una cravatta bianca e blu, scarpe nere eleganti. Intanto il bicchiere s'era svuotato e andò a versarsene un altro. Tornato di nuovo in camera da letto, si sedette su una poltroncina, accavallò le gambe e sorrise, osservandosi allo specchio. Il telefono squillò un paio di volte e poi tacque. Svuotò di nuovo il bicchiere e si tolse il completo. Rovistò nei cassetti superiori finché non trovò un paio di mutandine e un reggiseno. S'infilò le mutandine e si agganciò il reggiseno, poi frugò nel guardaroba in cerca di un vestitino. Si mise una gonna a scacchi e cercò di chiudere la cerniera. Indossò una camicetta bordeaux con l'abbottonatura davanti. Esaminò le scarpe di Harriet, ma capì subito che non gli sarebbero entrate. Passò parecchio tempo dietro le tende della finestra del soggiorno a guardare fuori. Poi tornò in camera da letto e rimise a posto ogni cosa.
Non aveva appetito. Neanche lei mangiò molto, del resto. Si scambiarono uno sguardo impacciato e un sorriso. Arlene si alzò da tavola e andò a controllare che la chiave dei vicini fosse al suo posto sulla mensola, poi sparecchiò in tutta fretta.
Lui rimase in piedi sulla soglia della cucina a fumare, poi la vide prendere la chiave.
"Mettiti comodo intanto che vado di là", disse lei. "Leggiti il giornale o qualcosa del genere". Strinse la chiave in pugno. Aveva un'aria stanca, gli disse lei.
Lui cercò di concentrarsi sulle notizie. Lesse il giornale e accese la televisione. Alla fine andò di là anche lui. La porta era chiusa.
"Sono io. Sei ancora lì, amore?", chiamò.
Dopo un po' la serratura scattò e Arlene uscì e si chiuse la porta alle spalle. "Sono stata via tanto?", chiese.
"Be', insomma, sì", rispose lui.
"Sul serio?", disse lei. "Credo di avere giocato tutto il tempo con Kitty".
Lui la scrutò, ma lei distolse lo sguardo, la mano ancora poggiata sul pomello.
"È strano, sai?", disse lei. "Voglio dire... entrare così, in casa d'altri..."
Lui annuì, le tolse la mano dal pomello e la guidò verso la loro porta. Entrarono nel proprio appartamento.
"Infatti è strano", disse lui.
Notò della lanugine bianca attaccata sul retro del golf di Arlene e che aveva le guance molto colorite. Cominciò a baciarle il collo e i capelli. Lei si girò e cominciò a baciarlo a sua volta.
"Oh, accidenti!", esclamò di colpo Arlene. "Accidenti, accidenti!", si mise a cantilenare come una bambina, battendo le mani.
"Mi sono appena ricordata di una cosa. Non ci crederai, ma mi sono dimenticata di fare quello che ero andata a fare. Non ho dato da mangiare alla gatta né ho annaffiato le piante". Lo guardò. "Si può essere più stupidi?"
"Ma no, dai", la rassicurò lui. "Aspetta un attimo. Prendo le sigarette e torniamo di là insieme".
Lei attese che lui chiudesse la porta di casa loro per attaccarglisi al braccio, poco sopra al gomito, e disse: "Mi sa che è meglio che te lo dica subito. Sai, ho trovato delle foto".
Lui si fermò in mezzo al pianerottolo. "Che genere di foto?"
"Adesso le vedrai", disse e lo guardò negli occhi.
"Ma va!" Sorrise. "E dove?"
"In un cassetto", disse lei.
"Ma va!", disse lui.
E poi lei disse: "Magari non tornano più", e rimase subito stupefatta da quello che aveva appena detto.
"Potrebbe succedere", disse lui. "Potrebbe succedere di tutto".
"O magari, per tornare tornano, ma..." Non finì la frase.
Attraversarono il pianerottolo tenendosi per mano e quando lui le parlò, lei quasi non lo udì.
"La chiave", disse lui. "Dalla a me".
"Cosa?", chiese lei. Si mise a fissare la porta.
"La chiave", disse lui. "Ce l'hai tu".
"Oddio mio!", disse lei. "L'ho lasciata dentro!"
Lui provò a girare il pomello. Ma era bloccato. Non girava affatto. Lei era rimasta a bocca aperta e ansimava un po', in attesa. Lui spalancò le braccia e lei ci si rifugiò.
"Non ti preoccupare", le disse all'orecchio. "Per l'amor di Dio, non ti preoccupare".
Rimasero lì. Si tenevano stretti. Si appoggiarono contro la porta, come per ripararsi dal vento, e si fecero forza.

il Te del Tao: XV - APPALESA LA VIRTÙ


XV - APPALESA LA VIRTÙ

Quelli che in antico eccellevano come adepti del Tao
penetravano l'arcano e comunicavano col mistero,
erano profondi da non poter essere compresi.
Proprio perché non possono essere compresi
io mi sforzerò di darne i tratti.
Irresoluti erano come chi d'inverno guada un fiume,
guardinghi erano come chi teme i vicini ai quattro lati,
rispettosi erano come chi è ospite,
frammentati erano come ghiaccio che si va fondendo,
schietti erano come legno non ancora sgrossato,
vuoti erano come valli,
torbidi erano come acqua motosa.
Chi è capace d'esser motoso
per fare illimpidire piano piano riposando?
Chi è capace d'esser placido
per far vivere pian piano rimuovendo a lungo?
Chi s'attiene a questa Via
non brama d'esser pieno,
e proprio perché non si riempie
può starsene nell'ombra senza innovar l'antico.