giovedì 10 novembre 2011

martedì 8 novembre 2011

la Coscienza (il Carro) - VII Major


Il velo dell'illusione, o māyā, che ti ha impedito di percepire la realtà così com'è, inizia a bruciare e a svanire. Il fuoco non è il calore incandescente della passione, ma la fiamma quieta della coscienza. Man mano che essa incenerisce il velo, affiora il volto di un Buddha estremamente delicato e simile a un bimbo. La coscienza che sta crescendo in te in questo momento non è frutto di alcun "fare" consapevole, né devi lottare per far accadere qualcosa. Qualsiasi sensazione che puoi aver avuto in passato di brancolare nel buio si sta dissolvendo, o si dissolverà in breve. Lasciati acquietare, e ricorda che in profondità dentro di te sei solo un testimone, eternamente silente, cosciente e immutabile. Ora si sta aprendo un canale dalla circonferenza di azione e attività verso il centro che testimonia. Ti aiuterà a diventare distaccato; una nuova coscienza solleverà il velo dai tuoi occhi.

La mente non potrà mai essere intelligente - solo la nonmente è intelligente. Solo la nonmente è originale ed è radicale. Solo la nonmente è rivoluzionaria - rivoluzione in azione. Questa mente ti dà una sorta di intontimento. Appesantito dal peso dei ricordi del passato, gravato dalle proiezioni del futuro, vivi al minimo, non al massimo. La tua fiamma resta estremamente fioca. Allorché inizi a lasciar cadere i pensieri - la polvere che hai raccolto in passato - la fiamma si anima, limpida, chiara, viva e giovane. Tutta la tua vita diventa una fiamma, e una fiamma priva di fumo. Questa è la coscienza.

mucca Tao - Tao cow

Shahid Bhagat Singh Rd, Colaba Causeway, Mumbai

parole, gesti e Tao


LA PAROLA NON SOSTITUISCE I GESTI

Quando l’esecuzione di una data funzione è affidata a qualche metodo nuovo e più efficace, il vecchio metodo va in disuso e decade. La tecnica di fabbricare armi lavorando la selce decadde quando vennero in uso i metalli.
Questo decadimento di organi e abilità per effetto della sostituzione evolutiva è un fenomeno sistemico necessario e inevitabile. Se, dunque, il linguaggio verbale fosse in un qualche senso un sostituto evolutivo della comunicazione cinetica e paralinguistica, ci si dovrebbe aspettare che i vecchi sistemi prevalentemente iconici fossero notevolmente decaduti. Ma evidentemente non è stato così. Al contrario, la cinetica dell’uomo è diventata più ricca e complessa, e il paralinguaggio è riccamente fiorito parallelamente all’evoluzione del linguaggio verbale. Tanto la comunicazione cinetica quanto il paralinguaggio sono stati elaborati in complesse forme artistiche, musicali, poetiche, di danza e via dicendo, e, anche nella vita quotidiana, le sottigliezze della comunicazione cinetica umana, della mimica facciale e dell’intonazione vocale superano di gran lunga tutto ciò che, per quanto se ne sa, possa fare qualunque altro animale. Il sogno dei logici, cioè che gli uomini debbano comunicare tra loro soltanto per mezzo di segnali discreti non ambigui, non si è avverato e probabilmente non si avvererà.
Avanzo l’ipotesi che questa fiorente evoluzione della cinetica e del paralinguaggio separata ma parallela a quella del linguaggio verbale indichi che la nostra comunicazione iconica provvede a funzioni del tutto diverse da quelle del linguaggio, e, di fatto, svolge funzioni che il linguaggio verbale non è adatto a svolgere.
Quando un giovane dice a una ragazza: «Ti amo», egli impiega delle parole per esprimere ciò che, in modo più convincente, è espresso dal tono della sua voce e dai suoi movimenti; e la ragazza, se ha un briciolo di buon senso, presterà più attenzione a quei segni accompagnatori che alle parole. Vi sono persone — attori professionisti, imbroglioni, e altri — capaci di usare la mimica e la comunicazione paralinguistica con un grado di controllo volontario paragonabile al controllo volontario che tutti noi riteniamo di possedere sull’impiego delle parole. Per queste persone, che possono mentire con la cinetica, la particolare utilità della comunicazione non verbale è ridotta. Per loro è un po’ più difficile essere sinceri, e ancora più difficile esser creduti sinceri. Essi sono intrappolati in un processo di restituzioni decrescenti, tale che, quando non sono creduti, cercano di aumentare la loro abilità nella simulazione della sincerità paralinguistica e cinetica. Sennonché è stata proprio quest’abilità che ha portato gli altri a diffidare di loro.
A quanto sembra, il discorso della comunicazione non verbale riguarda precisamente questioni di relazione — amore, odio, rispetto, timore, dipendenza, ecc. — tra l’io e un interlocutore, o tra l’io e l’ambiente, e la natura della società umana è tale che la falsificazione di questo discorso fa rapidamente insorgere patologie. Dal punto di vista dell’adattamento, è quindi importante che tale discorso venga svolto mediante tecniche relativamente inconscie e solo parzialmente soggette a controllo volontario. Nel linguaggio della neurofisiologia, i controlli di questo discorso debbono essere posti nel cervello in appendice ai controlli del linguaggio vero e proprio.
Se questa visione generale del problema è corretta, ne segue che la traduzione in parole di messaggi cinetici o paralinguistici introdurrà probabilmente una grossolana falsificazione dovuta sia all’umana propensione a tentare di falsificare le asserzioni relative ai ‘sentimenti’ e alle relazioni, sia alle distorsioni che insorgono quando i prodotti di un sistema di codificazione sono notomizzati in base alle premesse di un altro, sia — e in particolar modo — al fatto che tutte le traduzioni di questo tipo debbono dare al messaggio iconico, più o meno inconscio e involontano, l’aspetto di un’intenzione conscia.

Tao in G major


«Essere un pianista e un musicista non è una professione. E' una filosofia, uno stile di vita che non può basarsi né sulle buone intenzioni né sul talento naturale. Bisogna avere prima di tutto uno spirito di sacrificio inimmaginabile.»




















Cimetière de Neuville sur Essone, La Neuville-sur-Essonne, Departement du Loiret
Centre, France

venerdì 4 novembre 2011

il Te del Tao: XXVI - LA VIRTÙ DEL GRAVE


XXVI - LA VIRTÙ DEL GRAVE

Il grave è radice del leggero,
il quieto è signore dell'irrequieto.
Per questo il santo viaggia tutto il giorno
senza discostarsi dal bagaglio,
anche se possiede palazzi regali
placidamente se ne sta distaccato.
Che sarà se il signore di diecimila carri
leggero si fa nel mondo?
Se è leggero perde il fondamento,
se è irrequieto perde la sua signoria.


la grammatica del Tao


Improvvisamente, un giorno, il signor Remo iniziò a odiare il suo cane.
Non era un uomo cattivo. Ma qualcosa si era rotto dentro di lui quando era rimasto vedovo. Aveva perso la moglie e gli era restato il cane, un botolo salcicciometiccio, grasso e nerastro, con orecchioni da pipistrello. Si chiamava Bum, ovvero Boomerang, perché riportava indietro qualsiasi cosa gli tirassero, con prontezza e perseveranza.
Un tempo il signor Remo e Bum avevano fatto lunghe passeggiate insieme e conversato del mondo umano e canino, di Cartesio e Rin Tin Tin. C’era grande intesa tra loro. Ma ora non si parlavano più. Il signore stava seduto in poltrona guardando il vuoto e Bum si accucciava ai suoi piedi, guardandolo con smisurato affetto.
Era quello sguardo di assoluta dedizione e totale fiducia che il signor Remo soprattutto detestava.
Il mondo non era che perdita, solitudine e dolore. Che senso aveva in questo pianeta orribile quella creatura incongrua, che scodinzolava e uggiolava di gioia, e riempiva del suo peloso,
sovrabbondante amore una casa desolata?
Il padrone iniziò a non dar più da mangiare al cane. Lo lasciava anche due giorni senza cibo. Ma Bum continuava a seguirlo amorosamente. Quando il signor Remo si sedeva a tavola per il suo pasto, il cane non chiedeva nulla, né si avvicinava. Guardava con mite curiosità, e negli occhi aveva scritto: se tu mangi, ebbene anche io mi sazio. E più il padrone si ingozzava, ostentatamente e rumorosamente, più tenero diveniva lo sguardo di Boomerang. E quando finalmente il cane veniva sfamato, non correva frenetico alla ciotola, no... scodinzolava composto e riconoscente come per dire: avrai le tue buone ragioni se mi hai fatto digiunare, ti ringrazio oggi che ti sei ricordato.
Il padrone, forse avvelenato dall’ultima stilla di rimorso, si ammalò. Gli venne la febbre alta e Bum lo vegliò. Nella notte, quasi nel delirio, il signor Remo si destava e vedeva gli occhi spalancati e amorevoli del cane, e le lunghe orecchie dritte, come antenne. E sembrava dire: anche la morte morderò, padrone mio, se si avvicina a te.
Nell’anima ormai riarsa del signor Remo, l’odio per quell’amore smisurato crebbe. Non portò fuoriil cane per quattro giorni.
Bum aprì con la zampa la porta del terrazzo e lì pisciò con discrezione. Contrasse il suo metabolismo a venti gocce di urina e un cece fecale ogni due giorni. Non guaì, né diede segni di nervosismo, solo ogni tanto guardava il giardino fuori dalla finestra emettendo un piccolo sbuffo, come un sospiro di nostalgia, ma niente più.
Il padrone guarì e, appena rimessosi in piedi, senza una ragione, tirò un calcio al cane.
Bum si nascose sotto il letto e il signor Remo si vergognò.
Lo chiamò, il cane venne. Il padrone gli fece una carezza falsa e forzata e disse: – Bum, devo abbandonarti. Mi dispiace. Non riesco più a occuparmi di te. Anzi, ma questo tu non lo puoi capire, ti detesto.
Il cane lo guardò con infinito affetto e dedizione.
Perché non lo affidò a un canile o a qualche conoscente? Per pigrizia, anzitutto. Ma anche perché ricordava una frase della moglie. Gli aveva detto: Remo, se io morissi, mi raccomando, non lasciare solo il nostro Bum.
Allora Remo si era arrabbiato per quella frase: come si poteva dubitare di questo?
E invece, povera Dora, lei conosceva bene il grumo di cattiveria dentro al cuore del marito.
Lei lo aveva abbandonato.
E abbandonando il cane, ora lui si prendeva una folle rivincita sul destino.
Così il signor Remo prese la macchina e portò Boomerang fuori città, in un grande prato dove spesso giocavano insieme.
Il padrone camminava dietro e il cane davanti.
Remo notò la caratteristica camminata aritmica di Bum. Ogni dodici passi ne zoppicchiava uno, alzando la zampetta posteriore come se il terreno bruciasse.
Spesso lui e la moglie avevano trovato buffa e irresistibile questa andatura.
Ora il padrone guardava ondeggiare il grasso sedere di Bum con disgusto.
Perciò, quando furono lontani da occhi indiscreti, legò il cane a un albero e senza voltarsi se ne andò.
Tornò a casa, e cucinò con cura, come non faceva da tempo.
Calciò la ciotola di Bum in un angolo.
Prese il guinzaglio e la museruola, e li buttò nella spazzatura.
Ma quella notte verso le tre, sentì grattare alla porta. Era Boomerang.
Un po’ sporco e bagnato, gli saltò addosso festoso, e fece il giro della casa per manifestare la sua gioia. Non sospettava nulla. Non c’era posto per il tradimento, nel suo cuore semplice e quadrupede.
Il signor Remo quasi non dormì per la rabbia. Sognò massacri di foche e colbacchi di barboncino.
[…]