martedì 21 maggio 2013

TaoZen























"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone" 
Yun Men

«Le opere di Daisetz Teitaro Suzuki sullo Zen sono da annoverare tra i più alti contributi del secolo allo studio del Buddhismo attuale, così come lo stesso Zen rappresenta il frutto migliore germogliato dall'albero le cui radici sono raccolte nel Canone Pali. Non possiamo essere abbastanza grati all'autore sia perché egli ha reso lo Zen più accessibile alla cultura occidentale sia per il modo con cui egli ha raggiunto lo scopo.»
Carl Gustav Jung Introduzione in D.T. Suzuki. An Introduction to Zen Buddhism, Kyoto: Eastern Buddhist Soc. 1934. In italiano: Introduzione al buddhismo zen. Roma, Ubaldini, 1970.

«The man I am going to mention is not recognized as enlightened because there was nobody to recognize him. Only an enlightened person can recognize another. This man’s name is D.T. Suzuki. This man has done more than anybody else in the modern world to make meditation and Zen available. Suzuki worked for his whole life to introduce to the West the innermost core of Zen.
’Zen’ is only the Japanese pronunciation of the Sanskrit word dhyāna – meditation. Buddha never used Sanskrit; he hated it, for the simple reason that it had become the language of the priests, and the priest is always in the service of the devil. Buddha used a very simple language, that used by his people in the valley of Nepal. The name of his language is Pali. In Pali dhyana is pronounced ch’ana.
Simple, illiterate, ordinary people cannot appreciate the subtleties of any language. They make it according to themselves. It is like a stone rolling down the river, it becomes round. That’s how every word used by the people starts having a beautiful roundness, a particular simplicity. Dhyana is difficult for the ordinary people to pronounce; they pronounced it ch’ana. When it reached China, from ch’ana it became ch’an, and when it traveled to Japan it became Zen. You can see – it happens everywhere – people always make words simple.»






Il buddhismo zen come purificazione e liberazione
trad. Julius Evola

Nella sua essenza lo Zen è l'arte di vedere nella propria natura. Esso indica la via che dalla servitù conduce alla libertà. Facendoci attingere direttamente alla fonte della vita, esso ci emancipa dai gioghi sotto i quali noi, quali esseri finiti, di solito soffriamo in questo mondo. Può dirsi che lo Zen libera tutte quelle energie naturalmente immagazzinate in ciascuno di noi che nelle circostanze normali sono contratte e deviate, tanto da non trovare un modo adeguato di esplicazione.
Il nostro essere lo si può paragonare ad una batteria elettrica che racchiude, allo stato latente, un potere misterioso. Quando non è portato all'atto in modo conveniente questo potere intristisce, ovvero, alterandosi, va a manifestarsi in forme anormali. Ora, Io scopo dello Zen è di preservarci sia dalla follia che da una interna mutilazione. Ciò io intendo per libertà: dar libero giuoco a tutti gli impulsi creativi e benefici insiti nel nostro animo. In genere, siamo ciechi di fronte al fatto che noi possediamo le facoltà necessarie per essere felici e per amarci gli uni con gli altri. Tutte le lotte che vediamo intorno a noi derivano da siffatta ignoranza. Perciò lo Zen vuole che in noi un «terzo occhio» - come i buddhisti lo chiamano - si apra su quella regione insospettata da cui siamo esclusi a causa della nostra ignoranza. Quando la nube dell'ignoranza si dissipa, si manifesta l'infinito dei cieli e per la prima volta noi scorgiamo la vera natura dello stesso essere. Allora noi conosciamo il significato della vita, comprendiamo che essa non è un cieco tendere, né un mero dispiegamento di forze brute; pur non conoscendone esattamente lo scopo ultimo, sentiamo in essa qualcosa che ci rende infinitamente felici di viverla, che ci fa restare contenti in ogni sviluppo di essa di là da ogni problema e da ogni dubbio pessimistico.
Finché siamo pieni di attività e non ancora desti alla conoscenza della vita possiamo non sentire la serietà di tutti i conflitti che essa racchiude e che sul momento sembrano essere risolti per essere in uno stato di quiescenza. Ma prima o poi verrà il tempo in cui dovremo metterci senz'altro faccia a faccia con la vita e sciogliere i suoi enigmi più incalzanti e preoccupanti. Confucio dice: «A quindici anni la mia mente era dedicata allo studio e a trenta sapevo a che punto mi trovavo». Questo è uno dei detti più interessanti del Saggio cinese. Ogni psicologo converrà nella sua verità. Infatti, in genere è verso i quindici anni che si comincia a considerare con serietà quanto ci è d'intorno ed a cercare il senso della vita. Tutte le energie spirituali fino ad allora nascoste nella parte inconscia della psiche prorompono quasi simultaneamente. E quando questa emergenza è troppo brusca e violenta la mente può perdere in modo più o meno permanente il proprio equilibrio: di fatto, tanti casi di prostrazione nervosa che si verificano durante l'adolescenza sono principalmente dovuti a questa rottura dell'equilibrio mentale. In molti, gli effetti non sono tanto gravi e la crisi può passare senza lasciare tracce profonde; ma in certi caratteri, per via di tendenze innate o dell'influenza dell'ambiente su di una costituzione interna poco salda, il risveglio spirituale sommuove gli strati più profondi della personalità. Questo è il momento nel quale si impone lo scegliere fra un «eterno No» e un «eterno Sì». Per «studio» Confucio intende tale scelta: non la lettura dei classici, ma il sondare i misteri della vita.
Normalmente la lotta si conclude con l'«eterno Sì » o con il «sia fatta la tua volontà», perché, dopo tutto, la vita è sempre una forma di affermazione, per negativo che sia il modo con cui i pessimisti la concepiscono. Però non possiamo negare il fatto, che in questo mondo esistono molte cose atte a spingere uno spirito troppo sensibile nell'altra direzione e a fargli esclamare, come Andreieff nella Vita dell'uomo: «Maledico ogni cosa che mi hai data. Maledico il giorno in cui sono nato. Maledico il giorno in cui morirò. Maledico tutta la mia vita. Ogni cosa, la rigetto contro la tua faccia crudele, o Fato assurdo! Sii maledetto, sii per sempre maledetto! Con la mia maledizione, io ti vinco. Che puoi fare più contro di me?... Col mio ultimo pensiero io griderò nelle tue orecchie bestiali: Sii maledetto! sii maledetto!». Questa è una terribile accusa contro la vita, una completa negazione della vita, l'imagine più sinistra del destino dell'uomo su questa terra. «Senza lasciare una traccia» - è vero perché non sappiamo nulla del nostro avvenire, salvo che noi tutti spariremo, insieme alla stessa terra che ci ha generati. Certo, vi sono abbastanza cose che giustificano il pessimismo.
Come la gran parte di noi la vive, la vita è un dolore. Questo fatto non può essere contestato. Finché la vita è una forma di lotta, essa non può non essere sofferenza. La lotta non significa forse lo scontro di due forze che cercano ognuna di sopraffare l'altra? Se si perde la battaglia, l'esito è la morte, e la morte è la cosa che più si teme al mondo. Anche se si evita la morte, può attenderci la solitudine, talvolta più intollerabile della stessa morte. Si può non essere coscienti di tutto ciò e continuare a darsi ai piaceri passeggeri che i sensi ci procurano. Ma questa incoscienza non cambia nulla nella realtà della vita. Il cieco può insistere nel negare l'esistenza del sole, ma non potrà annientarlo. Il caldo tropicale continuerà a bruciarlo senza pietà e se egli non se ne difende sarà spazzato via dalla superficie della terra.
Il Buddha aveva perfettamente ragione nel proclamare le «quattro nobili verità», la prima delle quali è che la vita è dolore. Forse che ognuno di noi non è venuto al mondo gridando e, in un certo modo, protestando? Il meno che si possa dire è che il passaggio da un dolce, caldo grembo materno ad un ambiente freddo e nemico è un accidente doloroso. La crescenza è sempre accompagnata dal dolore. La dentizione è un processo più o meno doloroso. La pubertà è generalmente connessa a disturbi sia fisici che psichici. Lo sviluppo di quell'organismo superiore che noi chiamiamo società è esso stesso contrassegnato da tragici cataclismi, e noi attualmente assistiamo proprio ad una di queste convulsioni da parto. Possiamo ragionare freddamente e dire che tutto ciò è inevitabile, che, nella misura in cui ogni ricostruzione implica la distruzione della situazione precedente, non possiamo fare a meno di attraversare stati dolorosi. Ma la fredda analisi intellettuale non allevia in alcun modo queste sofferenze che non si possono evitare, inflitte inesorabilmente al nostro essere. Dopo ogni ragionamento, resta pur fermo che la vita è una lotta commista a dolore.
Senonché proprio in ciò sta qualcosa di provvidenziale. Quanto maggiore è il dolore, tanto più il carattere si sviluppa in profondità e questo approfondirsi del carattere mette in grado di leggere in modo più penetrante i segreti della vita. Tutti i grandi artisti, tutti i grandi capi religiosi si sono formati attraverso dure lotte da essi combattute intrepidamente, spessissimo presso alle maggiori sofferenze. Prima di cibarsi del pane del dolore e della tristezza non si può conoscere il gusto della vita reale. Mencio ha ragione nel dire che il Cielo, quando vuole formare un grande uomo, lo prova in ogni modo, finché egli sorge trionfante di là da tutte le sue esperienze dolorose.
A me sembra che Oscar Wilde abbia sempre posato, preoccupandosi soltanto di far colpo; può essere stato un grande artista, ma vi è in lui qualche cosa che me lo allontana. Eppure nel De Profundis egli scrive: «In questi ultimi mesi, dopo difficoltà e lotte terribili, sono stato in grado di comprendere alcune delle lezioni nascoste nel profondo della sofferenza. I preti e le persone che usano frasi prive di sapienza parlano talvolta della sofferenza come di un mistero. Essa è in realtà una rivelazione. Si discernono cose che prima non si erano mai intraviste. Si guarda tutta la propria storia da un diverso punto di vista». Dal che si vede quali effetti trasfiguranti abbia avuto, sul carattere di Wilde, la sua vita in prigione. Se egli fosse passato attraverso una simile prova all'inizio della sua carriera avrebbe di certo creato opere ben più grandi di quelle che ci ha lasciato.
Noi siamo troppo centrati nel nostro Io. Il guscio dell'Io entro cui viviamo è la cosa più difficile a superare durante la nostra crescenza. Lo portiamo continuamente con noi, dalla fanciullezza fino al momento del nostro trapasso. Eppure ci sono date molte occasioni per far saltare questo guscio, e la prima, la più grande di esse, ci si offre appunto quando raggiungiamo l'adolescenza. È allora che l'lo, per la prima volta, va a riconoscere l'«altro». Intendo riferirmi al destarsi dell'amore sessuale. Un lo prima intero e indiviso comincia ora ad avvertire una specie di frattura. L'amore dormiente nel profondo del suo essere alza la testa e suscita in lui le forti emozioni. Una volta destatosi, l'amore chiede sia l'affermazione dell'Io che la sua distruzione. L'amore fa perdere l'Io nell'oggetto amato e, nello stesso tempo, esige il possesso di questo oggetto. È, questa, una contraddizione e una tragedia della vita. Un tale sentimento elementare deve essere una delle forze divine dalle quali l'uomo è spinto verso un cammino ascendente. Dio manda tragedie all'uomo perfetto. La massima parte della letteratura prodotta in questo mondo, altro non è che una ripetizione del tema dell'amore: tema, di cui sembriamo non essere mai sazi. Ma non è propriamente questo il soggetto che, qui, desidero trattare. Ho solo, voluto mettere in rilievo che col destarsi dell'amore si ha una breve visione dell'infinito e che codesta visione spinge i giovani verso il romanticismo o verso il razionalismo - a seconda del temperamento, dell'ambiente e dell'educazione.
Una volta che il guscio dell'Io si è spezzato e che I'«altro» viene assunto nel nostro stesso essere, possiamo dire che l'Io ha negato se stesso, ovvero che l'Io ha fatto il suo primo passo verso l'infinito. Sul piano religioso ne segue un'aspra lotta fra il finito e l'infinito, fra l'intelletto e un potere più alto, o, più semplicemente, fra la carne e lo spirito. Questo è il problema dei problemi, che ha spinto più di un giovane fra le mani di Satana. Quando un adulto rievoca questi giorni della sua giovinezza, non può fare a meno di sentire una specie di brivido in tutto il suo essere. La lotta, da combattere in sincerità, può protrarsi sino all'età di trent'anni, che è quella in cui Confucio dichiara di aver saputo a che punto si trovava. Ormai la coscienza religiosa è completamente desta e vengono provate con serietà in ogni direzione, le vie possibili per sottrarsi alla lotta o per mettere fine ad essa. Si leggono libri, si assiste a conferenze, si ascolta con avidità la parola di religiosi, si prova ogni specie di esercizi o di discipline spirituali. Ed è naturale che si venga anche a chiedere che cosa sia lo Zen.
 
Lo Zen come risolve il problema dei problemi?
Anzitutto lo Zen per la sua soluzione si appella direttamente a certi fatti dell'esperienza personale, e non a conoscenze libresche. Una facoltà più alta dell'intelletto deve cogliere la natura del proprio essere, ove sembra prorompere il conflitto fra il finito e l'infinito. Infatti lo Zen afferma che all'intelletto è proprio il far sorgere un problema che lui stesso non è in grado risolvere; per cui, esso va messo da parte e bisogna ricorrere a qualcosa di più alto e di più luminoso. Si è che I'intelletto ha in proprio una peculiare qualità perturbatrice. Pone abbastanza problemi per alterare la serenità dell'animo, ma, fin troppo spesso, è incapace di dare ad essi delle soluzioni soddisfacenti. Distrugge la felice pace dell'ignoranza senza saper ristabilire il precedente stato di equilibrio con l'offrire qualcosa d'altro. Poiché svela l'ignoranza, esso spesso viene considerato come una facoltà illuminatrice; di fatto, esso invece disturba, senza portare sempre e necessariamente della luce sul cammino. Esso non rappresenta l'ultima istanza: esso aspetta sempre qualcosa di più alto per la soluzione di tutti i problemi che usa far sorgere senza preoccuparsi affatto delle conseguenze. Se fosse capace di portare un ordine nuovo di là dallo sconvolgimento che causa e di stabilirlo una volta per tutte, non vi sarebbe stato più bisogno di filosofia dopo i sistemi creati da grandi pensatori, come Aristotele o Hegel. Ma la storia del pensiero prova che ogni nuovo edificio costruito da una mente eccezionale è destinato ad essere abbattuto da coloro che vengono dopo. Finché si tratta di semplice filosofia, non vi è nulla da eccepire contro questo continuo demolire e ricostruire; infatti la natura intrinseca dell'intelletto, quale io lo concepisco, l'esige, e noi non possiamo arrestare il processo dell'indagine filosofica più di quel che possiamo arrestare il nostro stesso respiro. Ma se è della stessa vita che è quistione, non possiamo aspettare la soluzione ultima che l'intelletto, quand'anche ne sia capace potrà offrire. Non, possiamo sospendere nemmeno per un istante la nostra attività vitale nell'attesa che la filosofia ce ne sveli i misteri. I misteri restino pur tali: noi dobbiamo vivere. L'affamato non può attendere che sia' finita una analisi completa del cibo, che determini il valore nutritivo di ogni elemento. Per chi è morto, questa conoscenza scientifica del cibo non sarà di alcun valore. Così lo Zen non si affida all'intelletto per la soluzione dei suoi problemi più profondi.
Ho parlato di esperienza personale; per essa devesi intendere un rapporto diretto, senza intermediari, coi fatti, qualunque essi siano. Una imagine prediletta dello Zen è che indicare la luna col dito è necessario, ma guai a coloro che scambiano il dito per la luna. Un cesto è certo, utile per portare a casa il pesce, ma una volta che il pesce sta sulla tavola non ha senso continuare a pensare al paniere. Qui sono i fatti: afferrarli a mani nude, a che non ci sfuggano - ecco ciò che lo Zen si propone. Come la natura ha orrore per il vuoto, così lo Zen aborre tutto ciò che può inserirsi fra noi e i dati immediati dell'esperienza. Secondo lo Zen, se ci si riferisce ai fatti in quanto tali non esistono conflitti, come quello fra il finito e l'infinito o fra la carne e lo spirito. A base di codesti conflitti stanno distinzioni vane, tracciate fittiziamente dall'intelletto per i propri usi. Chi le prende troppo sul serio o chi cerca di ritrovarle dentro il fatto stesso della vita rasomiglia a chi scambia il dito per la luna. Quando abbiamo fame mangiamo; quando abbiamo sonno ci stendiamo - in tutto ciò che c'entra il finito o l'infinito? Non siamo forse completi, ciascuno in se stesso? La vita quale viene vissuta basta. Solo quando il potere disturbatore dell'intelletto interviene e cerca di ucciderla noi cessiamo di vivere e ci imaginiamo che qualcosa ci manchi. Si lasci in pace l'intelletto; utile nella sua propria sfera, esso non deve interferire nella corrente della vita. Se volete scrutare la vita, fatelo mentre fluisce e lasciandola fluire. In nessun caso se ne deve arrestare il flusso o immischiarsi in esso, perché nel punto in cui vi immergerete le mani la sua trasparenza sarà alterata, esso cesserà di riflettere il volto che aveste fin dalle origini e che continuerete a portare sino alla fine dei tempi.
Più o meno in corrispondenza con le «Quattro Massime» della scuola Nichire, lo Zen ha in proprio quattro principi:
«Una trasmissione speciale al difuori delle Scritture;
Indipendenza dalle parole e dalla lettera;
Riferimento diretto all'anima dell'uomo;
Visione della propria natura e conseguimento dello stato di Buddha».
Ciò riassume tutto quel che lo Zen vuole, in quanto religione. Naturalmente, non si deve dimenticare che vi è tutto uno sfondo storico, dietro a questa audace presa di posizione. Al tempo dell'introduzione dello Zen in Cina, la maggior parte dei buddhisti era dedita alla discussione di grandi problemi metafisici, o si limitava alla mera osservanza dei precetti etici statuiti dal Buddha o, ancora, coltivava una vita letargica nel segno della contemplazione della contingenza delle cose di questo mondo. Ad essi tutti mancava la presa sul gran fatto costituito dalla stessa vita, che fluisce di là da tali vane esercitazioni dell'intelletto o dell'imaginazione. Riconoscendo questo deprecabile stato delle cose, Bodhidarma e i suoi successori proclamarono le «Quattro Grandi Massime» dello Zen dianzi riferite. In una parola, esse significano che lo Zen ha un proprio modo di avviare ognuno verso la natura profonda del proprio essere e che usando tale modo si raggiunge lo stato di Buddha, nel quale tutte le contradizioni e tutti i dissidi creati dall'intelletto si risolvono senza residuo in una superiore unità.
Per questo lo Zen non «spiega» mai ma indica soltanto; non usa circonlocuzioni e non generalizza. Tratta sempre di fatti concreti e tangibili. Dal punto di vista logico, lo Zen può apparire pieno di contradizioni e di ripetizioni. Di fatto, esso si tiene al disopra di tutto ciò e procede calmo per la sua via. Secondo l'espressione acconcia di un maestro Zen, «portando sulla spalla il bastone che ci si è fatto a casa, va dritto fra i monti innalzantisi l'uno dietro l'altro». Non vuole misurarsi con la logica, procede semplicemente sul cammino dei fatti lasciando il resto al proprio destino. Solo quando la logica, disconoscendo la propria funzione, cerca di por piede nella via dello Zen, esso proclama i suoi principi e mette rudemente fuori l'intrusa. In sé lo Zen non è però nemico di nulla. Non vi è ragione a che esso si faccia l'antagonista dell'intelletto, questo potendo essere talvolta utilizzato per la causa stessa dello Zen. Volendo dare qualche esempio del modo con cui lo Zen si rifà direttamente ai fatti fondamentali dell'esistenza, riferirò il seguente episodio:
Una volta Lin-chi [2] (Rinzai) [3] tenne un discorso, dicendo: «Su di una massa di carne rossastra sta seduto un uomo vero senza titoli; di continuo esso entra nei vostri organi dei sensi e ne esce. Se ancora non vi siete resi conto di questo fatto, guardate! guardate!». Un monaco si fece avanti e domandò: «Chi è questo uomo vero senza titoli?». Lin-chi scese d'un balzo dal suo seggio e afferrando il monaco esclamò: «Parla! Parla!». Il monaco restò perplesso, senza saper che dire. Allora il maestro lo lasciò esclamando: «Ma di che roba senza valore è fatto questo uomo vero senza titoli!» e senz'altro si ritirò nella sua stanza.
Lin-chi era noto per il suo modo rude e diretto di trattare i discepoli. Disprezzava le maniere approssimative che generalmente caratterizzano i metodi di maestri privi di fuoco. Un tale stile inattenuato egli deve averlo ereditato dal suo maestro Huang-nieh (Obaku), da cui fu bastonato tre volte perché gli aveva chiesto quale è il principio fondamentale del buddhismo. Non occorre dire che lo Zen non consiste nel battere o scuotere brutalmente chi fa delle domande. Chi vedesse in ciò un elemento essenziale dello Zen, commetterebbe lo stesso errore grossolano di colui che scambia il dito per la luna. Più che in qualsiasi altra dottrina, nello Zen tutte le manifestazioni o dimostrazioni esteriori non vanno considerate in se stesse. Esse indicano solo la direzione lungo la quale si debbono cercare certi fatti. Come indicazioni, sono importanti, ed è difficile farne a meno. Ma se ci si lascia prendere nelle loro maglie si è perduti, perché non si comprenderà più lo Zen. Alcuni pensano che lo Zen cerchi di prendervi nella rete della logica o al laccio delle denominazioni. Se fate un falso passo, vi attende l'eterna dannazione, mai raggiungerete quella libertà che il vostro cuore così ardentemente desidera. Per questo Lin-chi afferra a mani nude ciò che si presenta direttamente a ciascuno di noi. Se il nostro terzo occhio si apre storbidato, riconosceremo subito, senza errore possibile, dove Lin-chi vuole condurci. Per prima cosa, dobbiamo penetrare nello spirito stesso del maestro e parlare all'uomo interiore che vi risiede. Non vi è spiegazione a parole che possa farci mai penetrare la natura, del nostro Io. Sarebbe come cercare di afferrare la propria ombra. Correndo dietro ad essa, l'ombra si allontanerà alla stessa velocità. Nel punto in cui vi renderete conto di ciò, leggerete profondamente nello spirito di un Lin-chi o di un Huang-nieh e comincerete a scoprire quale è effettivamente il loro animo.
Yu-men (Ummon) [4] fu un altro grande maestro dello Zen, vissuto verso la fine della dinastia T'ang. Egli pagò con una gamba la visione del principio di vita dal quale scaturisce l'intero universo, inclusavi la sua stessa umile esistenza. Tre volte egli dovette recarsi dal suo maestro, Mu-chou (Bokuju), che era stato un discepolo anziano di Lin-chi sotto Huang-nieh, prima che gli fosse concesso di vederlo. Il maestro gli chiese: «Chi sei?». «Sono Bun-yen», rispose il monaco. (Bun-yen era il suo nome, mentre Yu-men era quello del monastero ove in seguito si stabilì). Il monaco in cerca della verità fu autorizzato a varcare la soglia dell'abitazione del maestro: ma questi lo afferrò nello stesso istante per il petto chiedendogli: «Parla! Su, parla!». Yu-men esitò allora il maestro lo scaraventò daccapo fuori gridando: «Oh, che essere buono a nulla!» [5]. La pesante porta fu chiusa così bruscamente, che una gamba di Yu-men restò presa fra i battenti e si ruppe. Si vuole che proprio l'acuto dolore sentito aprisse l'occhio di quel monaco al più grande fatto della vita. L'essere ansioso implorante pietà sparì, la realizzazione conseguita in quell'istante ebbe molto più valore della gamba perduta. Questo, del resto, non è un caso isolato; nella storia dello Zen s'incontrano molti esempi di uomini pronti a sacrificare membra del loro corpo per raggiungere a la verità. Confucio dice: «Se un uomo intende il Tao la mattina, ciò è bene per lui, ne dovesse anche morire la sera». Alcuni sentono realmente che la verità ha maggior valore del mero vivere, di una esistenza semplicemente vegetativa o animale. Purtroppo nel mondo sono numerosi i cadaveri viventi che si rotolano nella melma dell'ignoranza e della sensualità.
È in ciò che lo Zen è più difficile da capire. Perché quell'ingiuria sarcastica? Perché quell'apparente crudeltà? Che colpa aveva commesso Yu-men per meritare di perdere la gamba? Egli era un povero monaco in cerca della verità, animato da un vivo, serio desiderio di essere illuminato dal maestro. Era davvero necessario che questi, per il suo modo di intendere lo Zen, per tre volte non lo ricevesse e poi, avendo socchiusa la porta, gliela sbattesse di nuovo in faccia in modo così inumano? Era questa la verità del buddhismo che Yu-men tanto desiderava raggiungere? Ma, cosa singolare, il risultato di tutto ciò fu proprio quel che entrambi desideravano. Quanto al maestro, egli fu lieto di vedere che il discepolo aveva conseguita la visione dei segreti del suo essere; quanto al discepolo, egli fu grato per quanto gli era stato fatto. Evidentemente, è quel che può esservi al mondo di più irrazionale e di più inconcepibile. Ecco perché poco fa ho detto che dello Zen non sì può fare l'oggetto di una analisi logica o di una esposizione intellettualistica. Esso deve essere sperimentato da ciascuno direttamente e personalmente nel più profondo dello spirito. Come due specchi senza macchia si riflettono a vicenda, del pari il fatto e il nostro spirito debbono stare l'uno di fronte all'altro senza nulla che s'intrometta. È allora che si sarà capaci di cogliere il fatto nella sua realtà viva e vibrante.
Prima di tale momento, la libertà è una vuota parola. Il nostro primo scopo è sottrarci ai vincoli che gravano su tutti gli esseri finiti; ma se non spezziamo la catena stessa dell'ignoranza con cui siamo legati mani e piedi, dove potremo cercare la liberazione? E questa catena dell'ignoranza l'ha creata unicamente l'intelletto insieme alla febbre dei sensi che si attacca ad ogni nostro pensiero, ad ogni nostra sensazione. Sbarazzarsene è difficile: sono come vesti bagnate - dicono giustamente i maestri Zen. «Siamo nati liberi ed uguali». Quale pur sia il significato che tale formula ha sul piano sociale o politico, lo Zen afferma che nel dominio spirituale essa è vera e che tutte le catene e le manette che a noi sembra di portare sono sorte in un secondo tempo, causa la nostra ignoranza della vera condizione dell'esistenza. Tutto ciò che, ora sul piano intellettuale ed ora sul piano fisico, i maestri fanno liberalmente e con animo aperto per coloro che ad essi si rivolgono, è inteso a ripristinare lo stato dell'originaria libertà. E un tale stato mai lo si realizzerà per davvero prima che lo si esperimenti personalmente coi propri sforzi, fuor da ogni rappresentazione ideologica. La verità ultima dello Zen è che a causa dell'ignoranza si è prodotta una frattura nel nostro essere; è che fin dagli inizi non è mai esistita una lotta fra il finito e l'infinito; è che proprio la pace che ora stiamo cercando con tanto ardore è già esistita in ogni tempo. Su Tun-p'o (Sotoba), noto poeta e uomo di Stato cinese, esprime tale idea nei seguenti versi:
Pioggia e nebbia sul monte Lu,
Ed onde che si gonfiano nel Che-chiang;
Se non vi sei ancora stato,
È certo che assai lo rimpiangerai;
Ma dopo essere stato là, tornato a casa
Come ogni cosa ti sembrerà naturale!
Pioggia e nebbia sul monte Lu
Ed onde che si gonfiano nel Che-chiang.
È ciò che anche afferma Ch'ing-yuan Wei-hsin (Seigen I shin) dicendo: «Prima che una persona studi lo Zen, per essa i monti sono monti e le acque sono acque; dopo che, grazie all'insegnamento di un buon maestro, essa ha penetrato la verità dello Zen, per essa i monti non sono monti e le acque non sono acque; ma quando alla fine essa davvero raggiunge la sede della pace, per essa i monti sono di nuovo monti e, le acque, acque».
A Mu-chou (Bokuju), che visse verso la metà del IX secolo, una volta fu domandato: «Ogni giorno dobbiamo vestirci e mangiare - come liberarci da tutto ciò?». Il maestro rispose: «Noi ci vestiamo, noi mangiamo». «Non capisco» - fece l'altro. «Se non capisci, mettiti il vestito e mangia il tuo cibo», fu la risposta.
Lo Zen tratta sempre dei fatti concreti, non si abbandona a considerazioni generiche. Non vorrei «aggiungere gambe superflue alla serpe dipinta», ma come commento filosofico alle parole di Mu-chou potrei dire questo: noi tutti siamo degli esseri finiti e non possiamo vivere fuori dello spazio e del tempo; nella misura in cui siamo creature della terra, per noi non vi è modo di cogliere l'infinito. Come possiamo liberarci dalle limitazioni di questa esistenza? Forse era questo il senso della prima domanda del monaco, alla quale il maestro risponde: La salvazione va cercata nello stesso finito non essendovi un infinito separato dalle cose finite; se cercate qualcosa di trascendente, vi taglierete fuori da questo mondo di relatività il che equivale a distruggervi. Voi non desiderate una salvazione che vi costi l'esistenza. Per cui, mangiate e bevete, e trovate la vostra via verso la liberazione proprio in questo mangiare e bere. Ma ciò andava troppo oltre le capacità di comprensione di chi aveva posta la domanda, per cui il monaco confessò di non intendere che cosa il maestro avesse voluto dire. Il maestro allora soggiunse: Che tu capisca o non capisca, continua a vivere nel finito e col finito - perché morirai se non mangerai e se non ti difenderai dal freddo a causa del tuo desiderio dell'infinito. Quale pur sia il tuo sforzo, il nirvana va cercato in mezzo al samsara (al mondo diveniente). Si tratti di un maestro giunto all'illuminazione oppure dell'ultimo ignorante, né l'uno né l'altro può sottrarsi alle cosidette leggi di natura. Quando lo stomaco è vuoto, entrambi hanno fame; quando nevica, entrambi debbono indossare abiti pesanti. Non voglio dire che v'è solo l'esistenza materiale, ma quegli uomini, a parte il loro, grado di spiritualità sono quello che sono. Come è detto nei testi buddhisti, l'oscurità stessa della caverna si trasforma in luce quando arde la torcia della visione interiore. Non è che in un primo tempo si tolga una cosa chiamata oscurità e poi si porti un'altra cosa chiamata illuminazione: in sostanza, oscurità e illuminazione sono, sin dal principio, una sola e medesima cosa; il passaggio dall'uno stato all'altro avviene solo all'interno, soggettivamente. Così il finito è l'infinito, è viceversa. Non si tratta di due realtà separate anche se intellettualmente non possiamo concepirli altrimenti. Tradotta in termini di logica, questa è forse l'idea contenuta nella risposta data da Mu-chou al monaco. L'errore consiste nel nostro spezzare in due cose distinte ciò che, in realtà è assolutamente uno. La vita quale la viviamo è una, anche se la facciamo a pezzi applicandovi senza, scrupoli il bisturi dell'intelletto.
Pregato dai monaci di tener loro un discorso, Hyakujo Nehan (Pai-chang Nieh-p'an) disse loro di andare a lavorare alla fattoria, dopo di che egli avrebbe parlato sul grande argomento del buddhismo. Così essi fecero, poi si recarono dal maestro per il discorso: questi non disse una parola ma stese semplicemente le braccia verso i monaci. Forse, dopo tutto, non vi è nulla di misterioso nello Zen. Ogni cosa vi viene presentata nuda sotto gli occhi. Se mangiate il vostro cibo, se vi tenete vestiti puliti o se andate a lavorare in una fattoria a coltivare riso o ortaggi, fate tutto ciò che vi si chiede di fare su questa terra, e l'infinito si realizza in voi. Come si realizza? Quando a Mu-chou fu chiesto che cosa sia lo Zen, egli pronunciò la frase di un testo sanscrito: «Mahapraiñaparamita!» (= la grande sapienza dell'altra sponda). Chi aveva domandato, confessò di non capire il senso di una tale strana frase; il maestro allora la commentò dicendo:
«Dopo anni che l'ho usata, la mia veste è consunta.
Parti di essa, appese a brandelli e svolazzanti,
sono state portate via dal vento fra le nubi».
L'infinito, dopo tutto, non è come un nudo mendicante?
Comunque, a tale riguardo vi è una cosa che non si deve mai perdere di vista, e cioè che la pace della povertà - e la pace è possibile solo nella povertà - la si consegue dopo una dura battaglia affrontata con tutte le forze del proprio essere. Il soddisfacimento dato da una attitudine oziosa o di «lasciar fare» è ciò che si deve più aborrire. In esso non vi è nulla dello Zen, esso è solo pigrizia e vita vegetativa. Una battaglia in cui si abbia impegnata tutta la propria forza, tutta la propria qualità virile, deve prima infuriare. Senza di ciò ogni pace non è che una parvenza, è priva di basi profonde la prima tempesta la distruggerà. Lo Zen sottolinea particolarmente questo punto. È cosa certa che l'interna virilità che, a parte i voli mistici, si ritrova nello Zen, deriva dall'aver combattuto intrepidamente e strenuamente la battaglia della vita.
Così dal punto di vista etico lo Zen lo si può considerare come una disciplina che mira alla costruzione del carattere. La nostra vita ordinaria si svolge solo ai margini della personalità essa non muove gli strati più profondi dell'anima. Perfino quando si desta la coscienza religiosa, essa per la gran parte di noi è una esperienza che passa senza lasciare i segni di una dura battaglia. Siamo portati a vivere ogni cosa solo in superficie. Possiamo anche essere intelligenti, svegli, brillanti e cosi via, ma tutto ciò che produciamo manca di profondità e di sincerità, non impegna l'essere più profondo. Molte persone sono assolutamente incapaci di creare qualcosa che non abbia il carattere di un surrogato o di una imitazione di cui è ben visibile la vuotezza e la nessuna relazione con una esperienza spirituale. Pur essendo in prima linea religioso, lo Zen forma anche il carattere. 0, ancor meglio: è una esperienza spirituale profonda tenuta ad effettuare una trasformazione della struttura morale della personalità.
In che modo?
La verità dello Zen è tale, che se vogliamo comprenderla appieno dobbiamo impegnarci in una lotta aspra, in una lotta spesso lunghissima che richiede una continua, spossante vigilanza. La disciplina nel senso dello Zen non è facile. Un maestro Zen disse una volta che la vita monacale può essere seguita soltanto da una persona dotata di grande forza interna e che perfino un ministro non deve imaginarsi di poter divenire senz'altro un buon monaco. (Va notato che in Cina essere ministro rappresentava il massimo che un uomo può sperare in questo mondo). Non che la vita monastica dello Zen richieda la pratica di una eccezionale ascesi - si tratta piuttosto dell'elevazione al massimo grado delle proprie forze spirituali. Ogni sentenza, ogni atto dei grandi maestri Zen sono proceduti da questa altezza interna. Sono sentenze ed atti che non vogliono essere enigmatici e che non intendono confonderci. Ma finché non ci innalziamo alla stessa altezza di quei maestri non possiamo ottenere la stessa sovrana visione della vita. Ruskin dice: «Siatene ben certi: se l'autore vale qualcosa, non coglierete subito quel che vuole dire - anzi, passerà un lungo tempo prima che giungiate a capirne tutto il significato. Non che egli non lo abbia espresso, anzi lo ha espresso con vigore; ma egli non può dire tutto e, cosa più strana, nemmeno lo vuole. L'essenziale lo esprimerà in modo nascosto e in parabole, per mettervi alla prova. Non capisco completamente la ragione di ciò, né voglio analizzare la crudele reticenza dell'animo del saggio che gli fa sempre nascondere il suo pensiero più profondo. Egli ve lo offre non per aiutarvi ma per ricompensarvi, e prima di permettervi di coglierlo vuol essere sicuro che ve lo meritiate». Questa chiave del tesoro regale della sapienza non la otteniamo che dopo una lotta interna tenace e dolorosa.
La mente umana ordinariamente è piena di sciocchezze intellettuali e di detriti sentimentali di ogni specie. Certo, essi a loro modo possono essere utili nella vita d'ogni giorno. Tuttavia è essenzialmente a causa di questi aggregati che la nostra vita è miserabile e che noi soffriamo sentendoci schiavi. Ogni volta che vogliamo fare un movimento essi ci vincolano, ci soffocano, oscurano il nostro orizzonte spirituale. È come se vivessimo di continuo sotto una costrizione. Desideriamo profondamente la naturalezza e la libertà, ma sembra come se non ci fosse dato di raggiungerle. I maestri dello Zen conoscono tutto ciò essendo passati attraverso queste esperienze. Essi vogliono che ci sbarazziamo di tutti questi gravami, gravami che non siamo davvero tenuti a portarci appresso se vogliamo vivere una vita di verità e di illuminazione. Così essi pronunciano poche parole e dimostrano, attivamente, che, a comprenderle nel modo giusto, esse ci libereranno dall'oppressione e dalla tirannia di queste concrezioni intellettuali. Ma la comprensione non è cosa facile. Essendoci abituati da tanto tempo alla costrizione, ci è difficile rimuovere l'inerzia mentale. Essa ha messo radici profonde nel nostro essere, tanto che ci è necessario sovvertire tutta la struttura della nostra personalità. La via della rintegrazione è sparsa di lagrime e di sangue. Ma non vi è altro modo di raggiungere le altezze conquistate dai grandi maestri; non si perviene alla verità dello Zen che impegnando tutte le energie della personalità. Il passaggio è pieno di cardi e di rovi e la parete da scalare è quanto mai infida. Non è un giuoco ma la cosa più seria di tutta una vita, un compito che uno spirito vano non deve mai osare di affrontare. Bisogna disporre di una incudine interna sulla quale il proprio carattere andrà sempre di nuovo martellato. Alla domanda: «Che cosa è lo Zen?» un maestro dette questa risposta: «Far bollire olio sulle fiamme». Dobbiamo passare attraverso questa esperienza del fuoco prima che lo Zen ci sorrida e ci dica: «Ecco la vostra casa».
Una delle risposte dei maestri dello Zen atte a sconcertare il senso comune è questa: P'ang-yun (Hokoji), già seguace di Confucio, chiese a Ma-tsu (Baso , 788): «Di che specie è l'uomo che non si attacca a cosa alcuna?». Il maestro disse: «Te lo dirò quando avrai bevuto d'un fiato tutta l'acqua del fiume d'occidente». Che risposta assurda alla più seria delle domande che possa incontrarsi nella storia del pensiero! Sembra quasi sacrilega. Eppure, come lo sa chiunque abbia studiato lo Zen, della serietà di Ma-tsu non si può dubitare. In effetti, l'ascesa dello Zen dopo il sesto patriarca, Hui-neng, la si deve alla meravigliosa atività di Ma-tsu; sotto la sua guida si formarono più di ottanta maestri perfettamente qualificati, e Hokojì che fu uno di primissimi seguaci laici dello Zen, si guadagnò la ben meritata fama di essere il Vimalakirti del buddhismo cinese. Un colloquio fra due maestri dello Zen di tale statura non poteva essere un vano giuoco. Malgrado l'apparenza di banalità e perfino di frivolità, quelle parole nascondono una delle gemme più preziose della letteratura dello Zen. Non si può dire quanti seguaci dello Zen abbiano sudato e si siano disperati di fronte all'impenetrabilità di quella risposta di Ma-tsu.
Ancora un esempio: un monaco chiese al maestro Shin di Chosa (Chang-sha Ching-ch'en): «Dove è andato Nansen dopo morto?». Rispose il maestro: «Quando Shih-tou (Sekito) era ancora nell'ordine dei giovani novizi, vide il sesto patriarca». «Ma io non sto domandandovi circa i giovani novizi! Voglio sapere dove è andato Nansen dopo morto». «Quanto a questo» disse il maestro, «la cosa dà da pensare» .
L'immortalità dell'anima è un altro grande problema: si può quasi dire che su di esso si basa tutta la storia della religione. Tutti vogliono sapere circa il post-mortem. Dove andiamo quando lasciamo questa terra? Vi è davvero una vita futura? Ovvero la fine di questa vita è la fine di tutto? Mentre sono molti coloro che non si preoccupano troppo circa il significato ultimo dell'Uno solitario e «senza un compagno», forse non vi è nessuno che almeno una volta nella sua vita non si sia chiesto quale sia il suo destino dopo la morte. Il fatto che Shih-tou da giovane avesse visto o no il sesto patriarca, sembra non avere la menoma attinenza con ciò che Nansen era divenuto dopo morto. Questi essendo stato il maestro Shin di Chosa, era naturale che il monaco domandasse proprio a Chosa circa il luogo in cui Nansen era passato. Secondo la logica originaria, la risposta di Chosa non era una risposta. Donde la nuova domanda, a cui, di nuovo, il maestro doveva rispondere con parole equivoche - perché che cosa voleva dire quel «la cosa dà da pensare». Da ciò appare chiaro che lo Zen è una cosa e la logica un'altra. Se, non rendendoci conto di ciò, ci aspettiamo dallo Zen alcunché di razionalmente coerente e di intellettualmente illuminativo, disconosciamo completamente il significato dello Zen. Già all'inizio ho detto che lo Zen si interessa di fatti e non di idee generiche. E questo è proprio il punto in cui lo Zen investe direttamente le basi della personalità. Generalmente l'intelletto non le raggiunge, perché noi non viviamo nell'intelletto bensì nella volontà. Brother Lawrence dice il vero quando - nella sua «Practice of tbe presence of God» afferma: «Dovremmo stabilire una grande differenza fra gli atti dell'intelletto e quelli del volere; i primi hanno relativamente poco valore mentre i secondi hanno un valore assoluto».
La letteratura dello Zen è piena di affermazioni del genere, che sembrano essere state fatte casualmente e innocentemente; ma coloro che davvero sanno che cosa è lo Zen, attesteranno che siffatte espressioni uscite così naturalmente dalle labbra dei maestri sono come veleni mortali che, una volta ingeriti, provocano un violento dolore, un dolore che - come i Cinesi dicono - fa torcere le viscere nove volte e anche più. Ma solo con questo dolore e con questo sconvolgimento le scorie interne si staccano e si rinasce con una visione completamente nuova della vita. Il carattere precipuo dello Zen è che esso diviene intelligibile solo dopo che si è passati attraverso queste lotte interne. Si è che lo Zen è una esperienza diretta e personale, non un sapere raggiunto mediante analisi o confronti. «Non parlate di poesia che ad un poeta; solo il malato sa simpatizzare col malato». In questo senso bisogna orientarsi. Occorre raggiungere una maturità spirituale atta a sintonizzarsi con lo spirito dei maestri. Giunti a tanto, toocata l'una corda l'altra non mancherà di rispondere. Gli accordi armoniosi derivano sempre dal risuonare in simpatia di due o più corde. E ciò che lo Zen fa, è preparare la nostra mente affinché sappia riconoscere gli antichi maestri ed essere ricettiva di fronte ad essi. Sul piano psicologico si può anche dire che Io Zen libera energie in noi accumulate, di cui nelle circostanze normali non siamo consci.
Alcuni vogliono che lo Zen si riduca a una autosuggestione. Ma ciò non spiega nulla. A pronunciare le parole Yamatodamashi si desta, nella maggioranza dei Giapponesi, un fervore patriottico. Si insegna ai bambini di riverire la bandiera del Sole Levante, e quando i soldati passano dinanzi alle insegne del reggimento involontariamente salutano. Quando si rimprovera ad un giovinetto di non agire come un piccolo Samurai e di disonorare il nome degli antenati, egli non esita a dar prova di coraggio e resiste ad ogni tentazione. Per un Giapponese, tutte queste cose sono suscitatrici di forza e, secondo alcuni psicologi, tale risveglio è autosuggestione. Anche le convenzioni sociali e gli istinti di imitazione possono essere considerati come autosuggestioni, lo stesso valendo per la stessa disciplina morale. Agli studenti si dà un esempio a che lo seguano o lo imitino. L'idea mette a poco a poco radice in loro attraverso la forza della suggestione finché noi li vediamo agire come se fosse una loro idea. Quella dell'autosuggestione, è una teoria sterile che nulla spiega. Dicendo che lo Zen è autosuggestione, abbiamo forse una idea più chiara dello Zen? Si è che alcuni credono di essere scientifici quando designano certi fenomeni con qualche nuovo termine venuto alla moda; si tengono allora per soddisfatti, quasi che così su quei fenomeni fosse venuta una nuova luce. Invero. l'esame dello Zen deve essere intrapreso da psicologi più profondi.
Ormai si ammette che nella nostra coscienza vi è una regione sconosciuta, una regione che non è stata ancora esplorata sistematicamente. Essa viene talvolta chiamata l'inconscio o il subconscio. È un regno popolato di figure oscure e, naturalmente, la maggior parte dei ricercatori teme di inoltrarvisi. Ma non per questo essa è meno reale. Proprio come il campo della nostra coscienza normale è pieno di ogni specie di imagini - imagini benefiche o dannose, ordinate o confuse, chiare o oscure, piene di forza o evanescenti - del pari il subconscio è il reservoir che alimenta ogni forma di occuItismo o di misticismo, se così vogliamo designare tutto ciò che ha carattere latente, anormale, psichico o sovrannaturale. Anche il potere di vedere la natura del proprio essere può nascondersi in quella zona, e lo Zen può consistere nel destarlo alla nostra coscienza. In ogni modo, i maestri parlano, figurativamente dell'aprirsi di un terzo occhio. Il termine corrente dato in Giappone a questa dischiusura e a questo risveglio è satori.
Come lo si raggiunge?
Meditando su voci o su azioni che, scaturite direttamente dalla ragione interiore non offuscata dall'intelletto o dall'imaginazione, sono state studiate in modo da avere un potere distruttivo sui vortici generati dall'ignoranza e dalla confusione [6]. E lo Zen ha metodi propri per la pratica della cosidetta meditazione, distinta da ciò che popolarmente o nell'Hinayana viene inteso con tale termine.
Può essere interessante indicare fin d'ora qualcuno dei mezzi usati dai maestri per aprire l'occhio spirituale del discepolo. È naturale che essi spesso usino le varie insegne sacre che portano quando si recano nella Sala del Dharma. In genere, si tratta dell'hossu (specie di frusta che in origine in India era uno scacciamosche), il shippe (canna di bambù lunga qualche piede), il nyol (bastone di forma varia e di vario materiale - letteralmente la parola vuol dire «come lo si desidera o pensa», cinta in sanscrito) o lo shujvo. (una specie di scettro). L'ultimo sembra essere stato lo strumento preferito per la illustrazione delle verità dello Zen. Citerò qualche esempio del suo uso.
Secondo Hui-leng (Ye-ryo), di Chokei, «quando si conosce che cosa sia questa verga, tutto lo studio dello Zen è al termine» - il che ricorda il fiore nella screpolatura del muro di Tennyson. Giacché - vien detto - se noi intendiamo il senso della verga, sapremo «ciò che sono Dio e l'uomo», vale a dire avremo la visione della natura del nostro essere e una tale visione porrà finalmente termine a tutti i dubbi e a tutte le brame che turbano il nostro animo. Così si può facilmente comprendere l'importanza che il bastone ha nello Zen.
Hui-ch'ing (Ye-sei), di Basho, che probabilmente visse nel X secolo, fece una volta la seguente dichiarazione: «Se avete un bastone, ve ne darò uno; se non ne avete, ve lo prenderò». Questo è uno dei detti più caratteristici dello Zen; ma più tardi Mu-chi (Bokitsu), di Daiyi, osò opporre un altro detto che del primo è l'aperta contradizione: «lo la penso altrimenti. Se avete un bastone ve lo prenderò e se non ne avete nessuno ve ne darò uno. Questa è la mia opinione. Potete servirvi del bastone? 0 non potete servirvene? Se lo potete, Te-shan (Tokusan) sarà la vostra avanguardia e Lin-chi (Rinzai) la vostra retroguardia. Ma se non lo potete, che esso venga restituito al maestro che lo ebbe per primo».
Un monaco si avvicinò a Bokuju e disse: «Quale è la formula che supera [la sapienza di] tutti i Buddha e [di] tutti i patriarchi?» Il maestro brandì immediatamente il suo bastone dinanzi alla congregazione dicendo: «Questo, io lo chiamo un bastone, e tu, come lo chiami?». Il monaco che aveva fatto la domanda non seppe che dire. Allora il maestro alzò di nuovo il bastone e disse: «0 monaco, non avevi domandato quale è la formula che supera [la sapienza di] tutti i Buddha e [di] tutti i patriarchi?».
Detti, come quelli di Bokuju, possono essere ritenuti affatto privi di senso e non degni di attenzione. Quale nome pur si dia al bastone, ciò sembra non importare molto, quanto alla sapienza sacra che trascende i limiti della nostra conoscenza. Il detto di un altro grande maestro dello Zen, Ummon, sarà forse più accessibile. Una volta egli alzò il suo bastone dinanzi ai monaci riuniti e osservò «Si legge nelle scritture che gli ignoranti prendono questo bastone per una cosa reale, i seguaci dell'Hinayana ne fanno una non-entità, i Pratyekabuddha lo considerano una allucinazione mentre i Bodbisattva ammettono la sua apparente realtà che tuttavia è fatta di vuoto. Ma, voi monaci» continuò il maestro - «vedendo un bastone, chiamatelo semplicemente un bastone. Camminate o restate seduti a piacere, ma non siate indecisi».
Ecco un altro episodio ove figura lo stesso vecchio e insignificante bastone e un detto ancor più mistico di Ummon. Un giorno questi annunciò: «Il mio bastone si è trasformato in un drago ed ha inghiottito tutto l'universo; dove sarà ormai la vasta terra coi suoi monti e i suoi fiumi?». In un'altra occasione Ummon, citando un antico filosofo buddbista che disse: «Colpite il vuoto dello spazio e udrete una voce; battete un pezzo di legno e non udrete alcun suono», prese il suo bastone, colpì nel vuoto ed esclamò «Oh, come fa male!». Poi batté la tavola e chiese: «Udite forse qualche rumore?».
Un monaco rispose: «Sì, vi è un tumore». Allora il maestro esclamò «Ignorante che sei!» [7].
A continuare con analoghi esempi, non si finirebbe più Dunque non andrò oltre, aspettandomi che qualcuno mi chieda: «Simili detti hanno qualcosa a che fare con la visione della natura del proprio essere? Vi è una qualche relazione fra questi discorsi apparentemente assurdi sul bastone e il problema più importante nella realtà della vita?».
Come risposta riferirò due passi, tratti l'uno da Tz'u-ming (Jimyo) e l'altro da Yuan-wu (Yengo). In un discorso Tz'u-ming disse: «Prendete un granello di polvere e in esso vi si manifesterà tutta la vasta terra. In un unico leone si rivelano milioni di leoni. In verità vi sono migliaia e migliaia di leoni, ma voi conoscetene uno, solo uno». Ciò dicendo, egli alzò il bastone e soggiunse: «Ecco il mio bastone - e quell'unico leone, dove è?». Aspettò poi dette in una esclamazione, depose il bastone e lasciò il pulpito.
Nell'Hekigan [8] Yuan-wu nell'introduzione allo «Zen dell'un dito» di Gutei [9] esprime la stessa idea: «Si prenda un granello di polvere e in essa si troverà la vasta terra; un bocciolo fiorisce, e l'universo si dischiude con esso. Ma dove dovrebbe fissarsi l'occhio se la polvere ancora non si alza e se il fiore non si è ancora dischiuso? Così è detto che tagliando un groviglio di fili essi tutti restano tagliati e che immergendolo in una tintura essi tutti prendono lo stesso colore. Ebbene, uscite dal groviglio di tutte le relazioni vincolanti e fatelo a pezzi, senza però perdere la traccia del vostro tesoro interiore, perché è per mezzo di esso che l'alto e il basso stando dovunque in corrispondenza e ciò che ha proceduto non distinguendosi da ciò che è rimasto indietro, ogni cosa si manifesterà secondo una perfezione assoluta».
Spero che con ciò il lettore avrà già una idea, sia pure necessariamente vaga e generale, dello Zen quale viene insegnato in Estremo Oriente da più di mille anni. In quanto seguirà cercherò anzitutto di ricondurre l'origine dello Zen alla stessa illuminazione spirituale del Buddha, dato che lo Zen è stato spesso accusato di essersi troppo allontanato da quel che si considera generalmente essere l'insegnamento del Buddha, specie da quello esposto negli Agama e nei Nikaya. Benché lo Zen, così come è, rappresenti indubbiamente una creazione dello spirito cinese, risalendo la linea del suo sviluppo si trova l'esperienza personale dello stesso fondatore indù della dottrina. Se non s'intende questo tenendo in pari tempo presenti le caratteristiche psicologiche del popolo cinese, la diffusione dello Zen fra i buddhisti dell'Estremo Oriente risulterà inintelligibile. In ultima analisi, lo Zen è una delle scuole mahayaniche del buddhismo, spogliata della sua veste indù.
 
Note
[1] Si tratta di una delle lezioni divulgative preparate dall'autore per gli studenti di Buddhismo nel 1911. Venne pubblicata per la prima volta in The Eastern Buddbist, con il titolo «The Buddhism as Purifier and Liberator of Life». Poiché tratta dello Zen nei suoi aspetti generali, ho ritenuto opportuno adottarla come Introduzione alla presente opera.
[2] L'Autore dà in vari casi, i nomi di persone e di luoghi sia in cinese che in giapponese. I nomi giapponesi sono quelli tra parentesi. (N.d.T.).
[3] Fondatore della scuola Rinzai del Buddhismo Zen, morto nell'867.
[4] Fondatore della scuola Ummon del Buddhismo Zen, morto nel 996.
[5] Letteralmente: rozzo succhiello, del tempo della dinastia Ch'in.
[6] Lo Zen ha un metodo proprio per praticare le meditazioni, così chiamato, perché si devono distinguere i metodi Zen da cì ò che si intende comunemente nel senso binayanistico del termine. Lo Zen non ha nulla a che fare con il quietismo o con l'abbandono alla trance Avrò altre occasioni di ritornare sull'argomento.
[7] Ciò ricorda le parole del maestro Chan di Pao-fu che, vedendo avvicinarsi un monaco, prese il suo bastone e con esso batté prima un pilastro e poi il monaco. Avendo il monaco gridato per il dolore, il maestro gli disse:, «Come mai al pì astro non ho fatto male?»
[8] L'Hekisanshu è una collezione di cento «casi» con commenti poetici di Hsueh-tou (Seccho) e con annotazioni, in parte critiche e in parte esplicative, di Yengo. Il libro fu introdotto in Giappone durante l'epoca Kamakura e da allora è stato considerato uno dei testi più importanti dello Zen, specie dalla scuola di Rinzai.
[9] Gutei era un discepolo di T'ien-lung (Tenryu), probabilmente vissuto verso la fine della dinastia T'ang. Abitava in un piccolo tempio, ove ricevette una volta la visita di una monaca errante, che entrò direttamente nel tempio senza togliersi il panno che portava avvolto attorno alla testa. Stringendo il bastone, la donna girò tre volte attorno alla sedia di meditazione su cui stava Gutei. Poi gli disse: «Dimmi una parola dello Zen e io mi leverò il panno dalla testa». Ripeté l'invito tre volte, ma Gutei non seppe che dire. La monaca, allora, fece per andarsene, e Gutei le disse: «Si sta facendo tardi, non vuoi passare qui la notte?». Shih-chi (jissai) - così si chiamava la monaca - rispose: «Se mi dici una parola dello Zen, resterò». Anche questa volta, egli non seppe che dire, e la monaca se ne andò.
Fu un colpo terribile per il povero Gutei, il quale si disse: «Pur avendo aspetto di uomo, sembra che io non possegga alcuna forza virile!» Si dette allora allo studio dello Zen, deciso ad acquisirne una perfetta padronanza. Mentre stava per ì iziare le «peregrinazioni» dello Zen, ebbe la visione del dio delle montagne che gli disse di non lasciare il tempio, perché un Bodhisattva incarnato vi sarebbe giunto e lo avrebbe illuminato sulla verità dello Zen. Effettivamente, la mattina dopo si presentò al tempio un maestro dello Zen, chiamato T'ien-lung (Tenryu). Gutei gli raccontò l'episodio umiliante del giorno precedente e gli esternò la sua ferma decisione di penetrare i misteri della Zen. T'ien-lung si limitò ad alzare un dito, senza pronunciare parola. Ciò fu sufficiente per aprire la mente di Gutei al significato supremo dello Zen, e si vuole che da quel giorno Gutei, quando ponevano problemi relativi allo Zen, non dicesse né facesse altro che alzare un dito.
Nel tempio vi era un ragazzo il quale, vedendo il maestro compiere quel gesto, prese a imitarlo ogni volta che gli veniva domandato che genere di discorsi teneva il maestro. Ma quando riferì al maestro quella sua abitudine, Gutei gli recise il dito con un coltello. Il ragazzo fuggì urlando per il dolore, ma Gutei lo richiamò. Il ragazzo tornò indietro, il maestro alzò a sua volta il dito e in quell'istante il giovanotto realizzò il significato dello «Zen di un dito» sia di Tenryu che di Gutei.
Tokei-ji Temple Cemetery, Kamakura, Kanagawa, Japan

Tao livello 0: il metamistero aumenta

ScienceVol. 338 no. 07 pp.634-637


"The measurement apparatus detected strong non-locality, which certified that the photon behaved simultaneously as a wave and a particle in our experiment"
Alberto Peruzzo, England's University of Bristol

'one real mystery'

Richard P. Feyman

venerdì 17 maggio 2013

il Te del Tao: LIV - COLTIVARE E CONTEMPLARE

Yin Yang Yong Double; vidthekid
LIV- COLTIVARE E CONTEMPLARE

Chi ben si fonda non vien divelto,
a chi ben stringe non vien tolto:
con questa Via figli e nipoti
gli offriranno sacrifici ininterrotti.
Se la coltiva nella persona
la sua virtù è la genuinità,
se la coltiva nella famiglia
la sua virtù è la sovrabbondanza,
se la coltiva nel villaggio
la sua virtù è la reverenza,
se la coltiva nel regno
la sua virtù è la floridezza,
se la coltiva nel mondo
la sua virtù è l'universalità.
Per questo
contempla le persone dalla sua persona,
contempla le famiglie dalla sua famiglia,
contempla i villaggi dal suo villaggio,
contempla i regni dal suo regno,
contempla il mondo dal suo mondo.
Come so che il mondo è così?
Da questo.

Tao per aeroporti



giovedì 16 maggio 2013

Confronto (5 di Spade)



Chi è che ti ha detto che il bambù è più bello della quercia, o che la quercia ha più valore del bambù? Pensi che la quercia voglia avere un tronco cavo come questo bambù? O che il bambù sia invidioso perché la quercia è più grossa e le sue foglie cambiano colore in autunno? L'idea stessa che i due alberi facciano un confronto fra loro sembra ridicola, eppure sembra che noi esseri umani troviamo questa abitudine estremamente difficile da spezzare. Confrontati con quest'evidenza: ci sarà sempre qualcuno più bello, più capace, più forte, più intelligente, o apparentemente più felice di te. E, d'altra parte, esisteranno sempre persone che sono "meno" di te, sotto tutti questi punti di vista. La via per scoprire chi sei non passa per il confronto con gli altri, ma dal guardare per scoprire se stai realizzando le tue potenzialità nel modo migliore che conosci.


Il confronto produce l'inferiorità e la superiorità. Quando non fai confronti, ogni inferiorità e ogni superiorità scompaiono. In questo caso sei, esisti semplicemente. Un piccolo cespuglio o un albero maestoso - non importa, sei te stesso. Sei necessario. Un filo d'erba è necessario tanto quanto la stella più grande. Senza quel filo d'erba, Dio sarebbe meno di ciò che è. Il canto del cuculo è tanto necessario quanto un buddha; il mondo sarebbe sminuito, sarebbe meno ricco, se questo cuculo scomparisse. Guardati intorno. Ogni cosa è necessaria, e ogni cosa si completa con le altre. È un'unità organica: nessuno è superiore e nessuno è inferiore; nessuno è più in alto e nessuno è più in basso. Tutti sono incomparabilmente unici.

waterTao



The Banqueting House - Whitehall London (1987)
George Frederick Handel's "THE WATER MUSIC"
English Bach Festival Dancers:
Sarah Cremer, Ursula Hageli, Alison Pooley, Angela Robinson, Chris Evan, Ray Holland, Rai Harell, Richard Slaughter
Choreography: Belinda Quirey
Dancers Costumes from original designs
Realised By Derek West
The English Bach Festival Orchestra
Directed By and Solo Violinist: Christopher Hirons.
Poets Corner, Westminster Abbey, Westminster, Greater London, England

mercoledì 15 maggio 2013

il lascito del Tao - VI: i grandi processi del Tao - I

Cambio di Stagione
Angels Fear Revisited:
Gregory Bateson’s Cybernetic Theory of Mind
Applied to Religion-Science Debates

Mary Catherine Bateson

Learning and Evolution as Mental Processes
The question of teleology (design) brings me back to the final chapter of Mind and Nature (1979), in which Gregory talks about the “two great stochastic processes” that combine randomness with selectivity. Having in many different ways, in the course of that book, discussed the mind-like properties of natural systems, he compares evolution with learning. And it strikes me today that he is saying that of course there is something that looks like intelligent design in evolution, because the mind-like properties of systems are unfolding. In this sense one can see mind at work in the structure of the eye, or in the structure of the cell and what have you. But in this understanding the mind is not external. Mind is a characteristic of the unfolding organization and process, immanent and emergent.
When Gregory spoke about the two great stochastic processes – learning, involving trial and error and involving something like reinforcement to determine what is retained, and evolution, where natural selection has the same effect, he was proposing yet another aspect of the pattern which connects all living things, recognizing in our own mental processes of thought and learning a pattern which connects us to the biosphere rather than an argument for separation. This recognition is inhibited by the dualistic assumption that what happens in the natural world is mechanical. It is inhibited in a deep way by the Cartesian body – mind distinction, as if the natural world were purely material instead of being shaped by process and organization. Having over simplified our description of the natural world, we open the door to a compensatory leap from the recognition of the complexity around us to the insistence on a mind external to it – a deity – shaping it. “Miracles,” said Gregory, “are dreams and imaginings whereby materialists hope to escape from their materialism.”














I GRANDI PROCESSI STOCASTICI.

"L'espressione sovente impiegata dal signor Herbert Spencer di “sopravvivenza del più adatto” è più precisa ed è talvolta egualmente comoda".
CHARLES DARWIN, "On the Origin of Species", quinta edizione.

Into this universe, and "why" not knowing
nor "whence", like Water willy-nilly flowing:
And out of it, as Wind along the Waste,
I now not "whither", willy-nilly blowing.

[Entrare in questo universo, e non sapere "perchè‚"
né "da dove", come acqua che volere o no fluisce;
e uscirne, come vento nel deserto,
che volere o no soffia, non so "dove".]
EDWARD FITZGERALD, "The Rubaiyat of Omar Khayyam".

L'assunto generale di questo libro è che tanto il cambiamento genetico quanto il processo detto "apprendimento" (ivi compresi i cambiamenti somatici indotti dall'abitudine e dall'ambiente) sono processi stocastici. E' mia convinzione che in ciascun caso vi sia un flusso di eventi che è per certi aspetti casuale e un processo selettivo non casuale che fa sì che alcune delle componenti casuali 'sopravvivano' più a lungo di altre. Senza il casuale, non possono esservi cose nuove.
Io parto dall'assunto che nell'evoluzione la produzione di forme mutanti è o casuale entro l'insieme delle alternative permesse dallo "status quo", oppure, se la mutazione è ordinata, che i criteri di quell'ordinamento non interessano le tensioni dell'organismo. In conformità con la teoria ortodossa della genetica molecolare, il mio assunto è che l'ambiente protoplasmatico del D.N.A. non può pilotare in esso cambiamenti riguardanti l'adattamento dell'organismo all'ambiente o la riduzione delle sue tensioni interne. Molti fattori - sia fisici sia chimici - possono alterare la frequenza della mutazione, ma il mio assunto è che le mutazioni così generate non sono connesse con le particolari tensioni cui era sottoposta la generazione dei genitori allorché‚ si determinò la mutazione. Accetterò addirittura l'assunto che le mutazioni prodotte da un mutageno non interessano la tensione fisiologica generata dal mutageno stesso entro la cellula. Oltre a ciò, accetterò l'assunto - ora ortodosso - che le mutazioni, così generate a caso, vengono immagazzinate nel "pool" genico eterogeneo della popolazione, che la selezione naturale agisce eliminando le alternative sfavorevoli sotto il profilo di "qualcosa come" la sopravvivenza, e che tale eliminazione favorisce, nel complesso, le alternative innocue e benefiche.
Sul versante dell'individuo, accetterò analogamente l'assunto che i processi mentali generano un gran numero di alternative, e che tra esse esiste una selezione determinata da "qualcosa come" il rinforzo.
Sia nel caso della mutazione sia nel caso dell'apprendimento è sempre necessario ricordare le potenziali patologie dell'assegnazione ai vari tipi logici. Ciò che ha valore di sopravvivenza per l'individuo "può" essere letale per la popolazione o per la società. Ciò che fa bene per un breve periodo (la cura sintomatica) se protratto a lungo può causare assuefazione o morte.
Fu Alfred Russel Wallace che nel 1866 osservò che il principio della selezione naturale è simile a quello della macchina a vapore con regolatore. Il mio assunto è che le cose stanno proprio così, e che tanto il processo dell'apprendimento individuale quanto la dinamica delle popolazioni per selezione naturale possono manifestare le patologie di tutti i circuiti cibernetici: eccessiva oscillazione e fuga. Insomma, accetto l'assunto che il cambiamento evolutivo e quello somatico (compresi l'apprendimento e il pensiero) sono fondamentalmente simili, che entrambi sono di natura stocastica, benché‚ certo le idee (ingiunzioni, proposizioni descrittive, e così via) in base a cui agisce ciascun processo siano di un tipo logico completamente diverso da quello delle idee dell'altro processo.
E' questo groviglio di tipi logici che ha portato a tanta confusione, a tante controversie e perfino a sciocchezze su questioni come “l'ereditarietà dei caratteri acquisiti” e sulla legittimità di invocare la 'mente' come principio esplicativo. Tutta la cosa ha avuto una storia curiosa. Un tempo l'idea che l'evoluzione potesse avere una componente casuale era per molti inaccettabile. Sarebbe stato contrario a tutto quello che si sapeva sull'adattamento e sul disegno generale e contrario anche a ogni fede in un creatore dotato di caratteristiche mentali. La critica di Samuel Butler all'"Origine delle specie" era essenzialmente un'accusa a Darwin di escludere la mente dal numero dei princìpi esplicativi pertinenti. Butler voleva immaginare una mente non casuale operante in qualche punto del sistema e alle teorie di Darwin preferiva quindi quelle di Lamarck (Nota: Stranamente, perfino in "Evolution, Old and New" di Butler ci sono pochissime prove che egli fosse particolarmente in sintonia con il raffinato pensiero di Lamarck).
Tuttavia, tali critiche sono risultate sbagliate proprio nella scelta della correzione da apportare alla teoria darwiniana. Oggi vediamo il pensiero e l'apprendimento (e forse il cambiamento somatico) come processi stocastici. Il modo in cui correggeremmo il pensiero dell'Ottocento non consisterebbe nell'aggiungere una mente non stocastica al processo evolutivo, bensì nel proporre l'idea che il pensiero e l'evoluzione siano simili in quanto partecipano della stocasticità. Entrambi sono processi mentali secondo i criteri proposti... Ci troviamo quindi di fronte a due grandi sistemi stocastici che in parte interagiscono e in parte sono isolati l'uno dall'altro. Un sistema è dentro l'individuo ed è chiamato "apprendimento"; l'altro è immanente nell'eredità e nelle popolazioni ed è chiamato "evoluzione". Il primo concerne la durata di una singola vita; l'altro concerne numerose generazioni di molti individui.
In questo capitolo mi propongo di mostrare come questi due sistemi stocastici, che lavorano a diversi livelli di tipo logico, si combinino a formare un'unica biosfera dinamica che non potrebbe persistere se il cambiamento somatico o quello genetico fossero fondamentalmente diversi da quelli che sono.
L'"unità" del sistema combinato è "necessaria".

1. GLI ERRORI DEL LAMARCKISMO.

Grandissima parte di ciò che si può dire su come si combinano evoluzione e cambiamento somatico è di carattere deduttivo. Ai livelli teorici che dobbiamo qui affrontare, non esistono dati provenienti dall'osservazione, e la sperimentazione non è ancora cominciata. Ma ciò non è sorprendente: dopo tutto, sulla selezione naturale non esisteva quasi alcuna osservazione probante fino agli Anni Trenta, quando Kettlewell studiò le varietà pallida e melanica della falena della betulla ("Biston betularia").
Comunque, gli argomenti contro l'ipotesi che i caratteri acquisiti siano ereditari sono istruttivi, e serviranno a illustrare parecchi aspetti dell'intricata relazione tra i due grandi processi stocastici. Gli argomenti sono tre, ma solo il terzo è convincente:
a) Il primo argomento è che l'ipotesi dev'essere scartata per mancanza di conferma empirica. Ma in questo campo la sperimentazione è incredibilmente difficile e i critici sono spietati, sicch‚ l'assenza di prove non sorprende. Non è certo che, se l'ereditarietà lamarckiana si presentasse in natura o anche in laboratorio, sarebbe possibile riconoscerla.
b) La seconda critica, fino a poco fa la più convincente, formulata da August Weissmann verso la fine dell'Ottocento, sostiene che "non esiste comunicazione tra il soma e il plasma germinale". Weissmann era un embriologo tedesco straordinariamente dotato che, divenuto quasi cieco in età ancor giovane, si dedicò alla ricerca teorica. Egli notò che per molti organismi esisteva una continuità da una generazione all'altra di quello che egli chiamò “plasma germinale”, cioè della linea protoplasmatica, e che per ciascuna generazione il corpo fenotipico o soma poteva essere considerato una diramazione del plasma germinale. Sulla base di questa idea egli argomentò che non vi poteva essere alcuna comunicazione retrograda dal ramo somatico al tronco principale costituito dal plasma germinale.
Se un individuo esercita il bicipite destro, certamente questo muscolo gli s'irrobustisce, ma non si conosce alcun modo in cui questo cambiamento somatico possa venir comunicato alle cellule sessuali dell'individuo. Questa critica, come la prima, dipende da un'argomentazione basata sull'assenza di prove (una pietra instabile su cui poggiare il piede) e la maggior parte dei biologi dopo Weissmann hanno cercato di rendere l'argomento "deduttivo" accettando per vero che non esiste "nessun immaginabile" modo di comunicazione tra il bicipite e i futuri gameti.
Ma la cosa oggi non appare più così sicura come vent'anni fa. Se l'R.N.A. può portare l'impronta di porzioni di D.N.A. ad altre parti della cellula, e forse ad altre parti del corpo, è "immaginabile" che l'impronta dei cambiamenti chimici del bicipite possa essere portata al plasma germinale.
c) L'ultima critica, e per me l'unica convincente è una "reductio ad absurdum": essa asserisce che, se l'ereditarietà lamarckiana costituisse la regola o fosse anche soltanto comune, l'intero sistema dei processi stocastici interconnessi si arresterebbe.
Espongo qui questa critica non solo per tentare (probabilmente invano) di uccidere un'idea dura a morire, ma anche per illustrare le relazioni tra i due processi stocastici. Immaginiamo il seguente dialogo:

BIOLOGO. Che cosa sostiene esattamente la teoria lamarckiana? Che cosa intendi per “ereditarietà dei caratteri acquisiti"“?
LAMARCKIANO. Che un cambiamento del corpo indotto dall'ambiente sarà trasmesso alla prole.
BIOLOGO. Un momento, dev'essere trasmesso un “cambiamento"“? Che cosa esattamente dev'essere trasmesso dal genitore alla prole? Un 'cambiamento' è una specie di astrazione, mi pare.
LAMARCKIANO. Un effetto dell'ambiente, per esempio le callosità nuziali del maschio del rospo ostetrico (Nota: Quasi tutte le specie di rospo si accoppiano nell'acqua e durante l'accoppiamento il maschio afferra la femmina con le zampe anteriori standole sul dorso. Forse "perchè‚" essa è viscida, in questa stagione il maschio ha sulle mani delle callosità nere e ruvide. Il rospo ostetrico, invece, si accoppia sulla terra e non ha callosità nuziali. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale lo scienziato austriaco Paul Kammerer sostenne di aver dimostrato la famosa ereditarietà dei caratteri acquisiti costringendo rospi ostetrici ad accoppiarsi nell'acqua. In tali condizioni nel maschio si formarono le callosità nuziali. Si sostenne che queste callosità crescessero poi ai discendenti del maschio, anche sulla terra).
BIOLOGO. Non capisco ancora. Non vorrai certo dire che è stato l'ambiente a fare le callosità nuziali.
LAMARCKIANO. Certo che no: è stato il rospo.
BIOLOGO. Ah, allora il rospo, in un certo senso, sapeva come fare o aveva la 'potenzialità' di farsi crescere le callosità nuziali?
LAMARCKIANO. Sì, qualcosa del genere. Il rospo poteva farsi crescere le callosità nuziali se era costretto a riprodursi nell'acqua.
BIOLOGO. Ah, poteva adattarsi, giusto? Se si riproduceva sulla terra, nel modo normale per questa specie di rospi, non gli crescevano callosità nuziali, invece nell'acqua sì, proprio come a tutti gli altri tipi di rospo. Poteva scegliere.

LAMARCKIANO. Ma ad alcuni dei discendenti del rospo cui erano cresciute le callosità nell'acqua, esse crescevano anche sulla terra. Ecco che cosa intendo per ereditarietà dei caratteri acquisiti.
BIOLOGO. Ah, ecco, capisco. Ciò che veniva trasmesso era la perdita di un'alternativa. I discendenti non erano più in grado di riprodursi in modo normale sulla terra. Affascinante!
LAMARCKIANO. Fai apposta a non capire.
BIOLOGO. Può darsi. Ma ancora non capisco che cosa verrebbe 'trasmesso' o 'ereditato'. Il fatto empirico che si sostiene è che i discendenti "differivano" dal genitore in quanto non avevano una possibilità di scelta che quello invece aveva. Ma questa non è la trasmissione di una somiglianza, come suggerirebbe il termine"ereditarietà": è la trasmissione di una "differenza". Ma la 'differenza' non esisteva e non poteva quindi essere trasmessa. Come la vedo io, il rospo genitore aveva ancora tutte le sue alternative intatte.

E così via. Il punto cruciale in questa discussione riguarda la collocazione nella gerarchia dei tipi logici del messaggio genetico presumibilmente trasmesso. Non basta dire vagamente che vengono trasmesse le callosità nuziali, e non ha senso sostenere che viene trasmessa la potenzialità di far crescere le callosità nuziali, poichè‚ tale potenzialità era insita nel rospo genitore prima che l'esperimento cominciasse (Nota: Arthur Koestler in "The Case of the Midwife Toad" (New York, Vintage Books, 1973 riferisce che le callosità nuziali sono state trovate in almeno un rospo selvatico di questa specie. Quindi il corredo genetico necessario esiste. Questa scoperta riduce fortemente il valore di prova dell'esperimento di Kammerer).
Naturalmente, non si nega che gli animali di questo mondo, e in misura minore le piante, presentino spesso l'aspetto che potremmo attenderci in un mondo in cui l'evoluzione avesse percorso le vie dell'ereditarietà lamarckiana.
Vedremo che questo aspetto è inevitabile, dato (a) che le popolazioni selvagge di solito (forse sempre) sono caratterizzate da "pool" genici eterogenei (misti e diversificati), (b) che i singoli animali sono capaci di cambiamenti somatici che sono in qualche modo adattativi, e (c) che la mutazione e il rimescolamento dei geni esistenti sono casuali.
Ma questa conclusione si potrà trarre solo dopo aver confrontato l'economia entropica del cambiamento somatico con l'economia entropica del conseguimento dello stesso aspetto fenotipico mediante determinazione genetica.
Nel dialogo immaginario, il lamarckiano è stato ridotto al silenzio dall'argomento che l'ereditarietà dei caratteri acquisiti sarebbe accompagnata dalla perdita della libertà di modificare il corpo dell'individuo in risposta alle richieste dell'abitudine o dell'ambiente. Quest'asserzione generale non è vera in modo così semplice. Non c'è dubbio che la sostituzione del controllo somatico con quello genetico (a prescindere dal problema dell'eredità) diminuisca sempre la flessibilità dell'individuo. La possibilità di cambiamento somatico in quel dato carattere è perduta del tutto o in parte. Ma resta sempre l'interrogativo generale: non è "mai" vantaggioso sostituire al controllo somatico quello genetico? Se così fosse, il mondo sarebbe certo molto diverso da quello di cui abbiamo esperienza. Analogamente, se l'ereditarietà lamarckiana costituisse la regola, l'intero processo dell'evoluzione e della vita sarebbe stretto nelle pastoie della rigidità della determinazione genetica. La risposta deve trovarsi tra questi due estremi, e in mancanza di dati che sbroglino la faccenda, non ci resta che affidarci al buon senso e a ciò che è possibile dedurre dai princìpi della cibernetica.
Illustrerò l'intera questione con una discussione sull'uso e il disuso.

2. USO E DISUSO.

Questa vecchia coppia di concetti, un tempo al centro delle discussioni sull'evoluzione, è quasi scomparsa dalla scena, forse perché‚ a questo riguardo è soprattutto necessario mantenere chiaro il tipo logico delle varie componenti di qualsiasi ipotesi.
Che gli effetti dell'uso possano forse fornire qualche contributo all'evoluzione non è cosa particolarmente misteriosa. Nessuno può negare che a prima vista la scena biologica si presenti "come se" gli effetti dell'uso e del disuso si trasmettessero da una generazione all'altra. Ciò tuttavia non collima con quanto sappiamo sulla natura autocorrettiva e adattativa del cambiamento somatico. In pochissime generazioni le creature perderebbero ogni libertà di modifica somatica.
Ma se si va oltre il lamarckismo grezzo, ci s'imbatte in difficoltà di attribuzione del tipo logico alle varie parti dell'ipotesi. Credo che queste difficoltà si possano superare. Quanto all'uso, non è troppo difficile immaginare sequenze in cui la selezione naturale potrebbe favorire quegli individui la cui composizione genetica si accordasse con i cambiamenti somatici correnti tra gli individui della popolazione considerata. I cambiamenti somatici che accompagnano l'uso sono di solito (bench‚ non sempre) adattativi, e perciò un controllo genetico che favorisse questi cambiamenti potrebbe essere vantaggioso.
In quali circostanze conviene, in termini di sopravvivenza, sostituire al controllo somatico quello genetico?
Il "prezzo" di questo spostamento, come ho sostenuto, è una mancanza di flessibilità, ma tale mancanza dev'essere precisata meglio se vogliamo definire le condizioni nelle quali lo spostamento sarà vantaggioso.
A prima vista, vi sono casi in cui la flessibilità non sarebbe forse mai più necessaria dopo il passaggio al controllo genetico. Si tratta di quei casi in cui il cambiamento somatico è una modifica di adattamento a una qualche condizione ambientale "costante". Per i membri di una data specie che risiedano in permanenza in alta montagna tanto vale basare tutte le loro modifiche di adattamento al clima montano, alla pressione atmosferica, eccetera, sulla determinazione genetica. Ad essi non serve quella reversibilità che è il contrassegno del cambiamento somatico.

“Dimmi, papà, perché‚ le palme sono così alte?”.
“Perché‚ le giraffe possano mangiarle, caro, perché‚... se le palme fossero piccole piccole, le giraffe sarebbero in un grosso impiccio”.
“Ma papà, allora perché‚ le giraffe hanno il collo così lungo?”.
“Ecco, per poter mangiare le palme, caro, perché‚... se le giraffe avessero il collo corto, sarebbero in un impiccio ancor più grosso”.


Invece, l'adattamento a condizioni variabili e reversibili è attuato molto meglio dal cambiamento somatico, e può darsi benissimo che sia tollerabile soltanto un cambiamento somatico molto superficiale.
Nel cambiamento somatico c'è una scala di intensità. Un uomo che salga dal livello del mare fino a quattromila metri d'altezza, a meno che non sia in ottima forma, comincerà ad ansimare e il suo cuore prenderà a galoppare. Questi cambiamenti somatici immediati e reversibili vanno benissimo per affrontare una situazione di emergenza, ma sarebbe uno spreco assurdo di flessibilità usare l'affanno e la tachicardia per adattarsi in modo prolungato all'atmosfera di montagna. Ciò che si richiede è un cambiamento somatico che dovrebbe forse essere meno reversibile, poiché‚ ora consideriamo non un'emergenza temporanea, ma condizioni protratte e durature. Converrà sacrificare un po' di reversibilità per poter economizzare sulla flessibilità (cioè serbare l'affanno e la tachicardia per quelle occasioni in alta montagna in cui sia richiesto uno sforzo supplettivo). Questo fenomeno prende il nome di "acclimazione": il cuore dell'uomo subirà cambiamenti, il suo sangue arriverà a contenere più emoglobina, la sua gabbia toracica e le sue abitudini respiratorie muteranno, e così via. Questi cambiamenti saranno molto meno reversibili dell'affanno, e se l'uomo scende in pianura, può darsi che provi qualche fastidio.
Per usare il linguaggio di questo libro, diremo che nelle modifiche somatiche di adattamento vi è una gerarchia: le esigenze particolari e immediate vengono affrontate al livello superficiale (il più concreto), mentre ai livelli più profondi (più astratti) si affrontano le modifiche più generali. Esiste un parallelismo perfetto tra questo caso e quello della gerarchia dell'apprendimento, dove il proto-apprendimento riguarda il fatto o l'azione particolari, e il deutero- apprendimento riguarda contesti e classi di contesti.
E' interessante osservare che l'acclimazione viene attuata mediante molti cambiamenti su molti fronti (muscolo cardiaco, emoglobina, muscolatura toracica, e così via); invece i provvedimenti di emergenza tendono ad essere localizzati e specifici.
Nell'acclimazione l'organismo acquista una flessibilità superficiale al prezzo di una rigidità a livello più profondo. Ora l'uomo potrà ricorrere all'affanno e alla tachicardia come provvedimenti di emergenza se s'imbatte in un orso, ma si troverà a disagio se scenderà a livello del mare per far visita ai vecchi amici.
Vale la pena esporre questa faccenda in termini più formali. Consideriamo tutte le proposizioni che potrebbero essere necessarie per descrivere un organismo. Possono essere milioni, ma saranno collegate tra loro in anelli e circuiti di interdipendenza. E, in una certa misura, per quell'organismo ciascuna proposizione descrittiva sarà normativa; cioè, vi saranno un livello massimo e uno minimo oltre i quali la variabile descritta sarà tossica. Se nel sangue c'è troppo zucchero, o troppo poco, si muore: e ciò vale per tutte le variabili biologiche. A ogni variabile è collegato quello che si può chiamare un "metavalore": cioè, la creatura sta bene se la variabile considerata si trova al centro dell'intervallo di variabilità, non al massimo o al minimo. E poiché‚ le variabili sono collegate tra loro in anelli e circuiti, ne segue che una variabile che si trovi al massimo o al minimo intralcerà tutte le altre variabili dello stesso anello.
La flessibilità e la sopravvivenza sono favorite da qualsiasi cambiamento che tenda a mantenere le variabili in fluttuazione al centro del loro intervallo. Ma una qualsiasi estrema modifica somatica di adattamento spingerà una o più variabili a valori estremi. Quindi, vi è sempre una tensione che può essere alleviata mediante un cambiamento genetico, purch‚ tale cambiamento non si esprima nel fenotipo con un ulteriore aumento della tensione già presente. Ciò che si richiede è un cambiamento genetico che "modifichi i livelli di tolleranza del valore massimo o minimo (o di entrambi) della variabile".
Se, per esempio, prima del cambiamento genetico (per mutazione o, più probabilmente, per rimescolamento dei geni) la tolleranza di una data variabile fluttuava tra i limiti 5 e 7, un cambiamento genetico che spostasse questi limiti ai nuovi valori 7 e 9 sarebbe positivo, in termini di sopravvivenza, per una creatura che facesse fatica a mantenere la variabile al vecchio valore di 7 mediante modifiche somatiche di adattamento. Inoltre, se le modifiche somatiche spingessero il nuovo valore a 9, si potrebbe ottenere un ulteriore incremento del valore di sopravvivenza mediante un ulteriore cambiamento genetico che consentisse o inducesse un innalzamento dei livelli di tolleranza lungo la stessa scala.
In passato era difficile spiegare i cambiamenti evolutivi collegati al "disuso". Che un cambiamento genetico nella stessa direzione degli effetti dell'abitudine o dell'uso avesse di solito valore di sopravvivenza era cosa facile da immaginare; più difficile invece era vedere come potesse essere vantaggiosa una duplicazione genetica degli effetti del disuso. Tuttavia, se manipoliamo il tipo logico di questo messaggio genetico immaginario, otteniamo un'ipotesi che, con un unico paradigma, riesce a spiegare tanto gli effetti dell'uso quanto quelli del disuso. Il vecchio mistero che circonda la cecità degli animali cavernicoli e il femore di due etti di una balena azzurra di ottanta tonnellate non è più così impenetrabile. Basta solo supporre che il mantenimento di qualunque organo rudimentale, diciamo un femore di cinque chili in una balena di ottanta tonnellate, spinga sempre una o più variabili somatiche verso il limite di tolleranza superiore o inferiore, e si vedrà come possa essere accettabile uno spostamento dei limiti di tolleranza.
Tuttavia, dal punto di vista di questo libro, la nostra soluzione degli altrimenti sconcertanti problemi dell'uso e del disuso è un'illustrazione importante della relazione tra il cambiamento genetico e quello somatico, e, spingendosi più in là, della relazione tra i tipi logici superiori e inferiori di quel vasto processo mentale chiamato "evoluzione".
Il messaggio di tipo logico superiore (cioè l'ingiunzione più nettamente genetica) non ha bisogno di menzionare la variabile somatica le cui tolleranze sono spostate dal cambiamento genetico. Anzi, il testo genetico probabilmente non contiene nulla che assomigli in qualche modo ai nomi o ai sostantivi del linguaggio umano. Io sono convinto che quando si studierà il regno quasi del tutto sconosciuto dei processi tramite i quali il D.N.A. determina l'embriologia, si troverà che il D.N.A. non menziona altro che relazioni. Se chiedessimo al D.N.A. quante dita avrà questo embrione umano, la risposta potrebbe essere: “Quattro relazioni di coppia fra (le dita)”. E se chiedessimo quanti spazi vi saranno tra le dita, la risposta sarebbe: “Tre relazioni di coppia fra (gli spazi)”. In ciascun caso sono definite e determinate solo le “relazioni fra”. Gli elementi finali delle relazioni nel mondo corporeo non vengono forse mai menzionati.
(I matematici noteranno che il sistema ipotetico qui descritto rassomiglia alla loro teoria dei gruppi, perché‚ considera solo le relazioni tra le "operazioni" trasformatrici di qualcosa, e mai il 'qualcosa' in sé).
A proposito di questo aspetto della comunicazione che dal cambiamento somatico, attraverso la selezione naturale, arriva al "pool" genico della popolazione, è importante notare che:
a) Il cambiamento somatico ha una struttura gerarchica.
b) Il cambiamento genetico, in un certo senso, è la componente più alta di questa gerarchia (cioè la più astratta e la meno reversibile).
c) Il cambiamento genetico può evitare, almeno in parte, il costo di imporre rigidità al sistema, ritardando il proprio intervento fino al momento in cui risulta probabile che la situazione affrontata dal soma a un livello reversibile sia davvero permanente, e agendo solo indirettamente sulla variabile fenotipica. Presumibilmente, il cambiamento genetico sposta solo la "regolazione" (vedi “Tipi logici”) del controllo omeostatico della variabile fenotipica.
d) Con questo passaggio dal controllo diretto della variabile fenotipica al controllo della regolazione della variabile c'è anche probabilmente lo schiudersi e l'ampliarsi di possibilità alternative di cambiamento. Le tolleranze relative alle dimensioni del femore della balena sono senza dubbio regolate da dozzine di geni diversi che, sotto questo aspetto, agiscono insieme, ma ciascuno di essi si esprime forse in modo assai diverso in altre parti del corpo.
Un'analoga proliferazione che dall'effetto singolo, al quale l'evoluzionista s'interessa in un dato momento, porta a numerose cause alternative o sinergiche è stato notato nel passaggio dal semplice cambiamento somatico all'acclimazione. E' presumibile che in biologia il passaggio da un livello logico a quello immediatamente superiore sia sempre accompagnato da questo moltiplicarsi delle considerazioni pertinenti.