Albrecht Dürer, Face transformations,1528. |
I GRANDI PROCESSI STOCASTICI.
6. L'OMOLOGIA.
A questo punto voglio lasciare i problemi della genetica individuale, del cambiamento somatico e dell'apprendimento e i percorsi immediati dell'evoluzione, per considerare i risultati dell'evoluzione su scala più ampia. La mia domanda ora è: che cosa possiamo dedurre dal più ampio quadro della filogenesi circa i processi sottostanti?
L'anatomia comparata ha una lunga storia. Per almeno sessant'anni, dalla pubblicazione dell'"Origine delle specie" fino agli Anni Venti, essa si concentrò sulle correlazioni, escludendo il processo. Il fatto che si potessero costruire alberi filogenetici era considerato una prova a sostegno della teoria di Darwin. La documentazione fossile era inevitabilmente molto incompleta e, in assenza di tali prove dirette di discendenza, gli anatomisti cercavano con avidità insaziabile esempi di quella classe di somiglianze chiamata "omologia". L'omologia 'dimostrava' le correlazioni e le correlazioni erano l'evoluzione.
Naturalmente le somiglianze formali tra le cose viventi erano state notate almeno fin da quando si era sviluppato il linguaggio, che classificava la mia 'mano' con la vostra 'mano', e la mia 'testa' con la 'testa' di un pesce. Ma solo assai più tardi ci si rese conto che era necessario dare una spiegazione di queste somiglianze formali. Ancor oggi, i più non trovano nulla di sorprendente nella somiglianza tra le due mani, non ci vedono alcun problema. Essi non sentono o non vedono alcun bisogno di una teoria dell'evoluzione. Per i più riflessivi tra gli antichi, e anche per gli uomini del Rinascimento, la somiglianza formale tra le creature illustrava il collegamento con la Grande Catena dell'Essere, e queste connessioni erano legami logici, non genealogici.
Comunque sia, il brusco passaggio logico dalla somiglianza formale alla correlazione nascondeva tutta una serie di ipotesi troppo affrettate. Ammettiamo pure la somiglianza formale in migliaia di casi (uomo e cavallo, aragosta e granchio), e accettiamo l'assunto che in questi casi le somiglianze formali non sono una semplice prova ma, tali e quali, "il risultato di" una relazione evolutiva. Possiamo allora passare a domandarci se la natura delle somiglianze riscontrate in questi casi getti luce sul processo evolutivo.
Domandiamo: che cosa ci dicono le omologie circa il "processo" dell'evoluzione? Quando confrontiamo la nostra descrizione dell'aragosta con quella del granchio, troviamo che alcune componenti sono uguali in entrambe le descrizioni e altre invece differiscono. Pertanto il nostro primo passo consisterà sicuramente in una distinzione tra specie diverse di cambiamento. Alcuni cambiamenti verranno riconosciuti come più probabili e facili; altri saranno più difficili e perciò più improbabili. In un mondo siffatto le variabili che variano più lentamente rimangono indietro e potrebbero diventare il nucleo di quelle omologie su cui sarebbe possibile basare le più ampie ipotesi della tassonomia.
Ma questa prima classificazione dei cambiamenti in "rapidi" e "lenti" richiederà a sua volta una spiegazione. Che cosa possiamo aggiungere alla nostra descrizione del processo evolutivo che ci permetta, forse, di prevedere quali saranno di fatto le variabili più lente, che così diventeranno la base dell'omologia?
Per quanto ne so, l'unico abbozzo di una classificazione siffatta è implicito nella teoria della cosiddetta ricapitolazione.
Il germe della teoria della ricapitolazione fu offerto per la prima volta nel 1828 da uno dei primi embriologi, il tedesco Karl Ernst von Baer, che parlò di “legge degli stadi corrispondenti”. Egli dimostrò questa legge ricorrendo al confronto di embrioni di vertebrati non catalogati:
“Non sono affatto in grado di dire a quale classe essi appartengano. Potrebbero essere lucertole o uccellini o mammiferi giovanissimi, tanto completa è la somiglianza, in questi animali, del modo in cui si formano la testa e il tronco. Le estremità sono ancora assenti, ma anche se esistessero, nel primo stadio di sviluppo non ci insegnerebbero nulla, poichè‚ nascono tutte dalla stessa forma fondamentale”.
In seguito, il concetto di “stadi corrispondenti” di von Baer fu ampliato da Ernst Haeckel, contemporaneo di Darwin, che ne ricavò la teoria della ricapitolazione e la tanto discussa asserzione che “l'ontogenesi ripete la filogenesi”. Da allora ne sono state proposte formulazioni molto diverse. La più prudente è forse l'asserzione che le larve e gli embrioni di una data specie di solito assomigliano alle "larve" di una specie affine più di quanto gli adulti dell'una specie non assomiglino agli adulti dell'altra. Ma perfino questa formulazione così prudente è guastata da vistose eccezioni.
Tuttavia, nonostante le eccezioni, sono incline a ritenere che l'asserzione generale di von Baer fornisca un indizio importante per determinare il processo evolutivo. Giusta o sbagliata, la sua asserzione solleva importanti interrogativi sulla sopravvivenza non degli organismi bensì dei tratti caratteristici: esiste un massimo comun denominatore fra quelle variabili che diventano stabili e che perciò sono state usate dagli zoologi nella ricerca dell'omologia? La legge degli stadi corrispondenti ha un vantaggio sulle formulazioni successive in quanto il suo autore non si preoccupava di stabilire alberi filogenetici, e perfino la breve citazione riportata sopra contiene spunti particolari che sfuggirebbero a un detective filogenetico. E' possibile che le variabili dell'embrione siano più durevoli di quelle dell'adulto?
Von Baer si occupa dei vertebrati superiori: lucertole, uccelli e mammiferi, creature il cui embrione è protetto dentro un guscio d'uovo pieno di nutrimento o dentro un utero. Con le larve degli insetti, per esempio, la dimostrazione di von Baer semplicemente non funzionerebbe. A qualsiasi entomologo, basterebbe un'occhiata a una serie di larve di coleottero prive di indicazioni, per saper dire subito a quale famiglia appartiene ciascuna. La diversità tra le larve è appariscente quanto la diversità tra gli adulti.
La legge degli stadi corrispondenti vale, apparentemente, non solo per gli embrioni interi di vertebrati, ma anche per gli arti successivi nei primissimi stadi del loro sviluppo. La cosiddetta omologia seriale ha in comune con l'omologia filogenetica il fatto generale che, nel complesso, "le somiglianze precedono le differenze". La chela di un'aragosta adulta differisce notevolmente dalle appendici deambulatorie degli altri quattro segmenti del torace, ma nei primi stadi tutte le appendici toraciche avevano lo stesso aspetto.
Forse dovremmo spingere l'asserzione generale di von Baer fin qui e non oltre, e affermare che, in genere, la somiglianza è "più antica" (sia nella filogenesi sia nell'ontogenesi) della differenza. Per alcuni biologi questa suonerà come una verità lapalissiana, come se si dicesse che, in qualunque sistema ramificato, due punti prossimi al punto di diramazione sono più simili tra loro che non due punti da esso lontani. Ma questa verità apparentemente lapalissiana non sarebbe valida per gli elementi del sistema periodico e non sarebbe necessariamente valida in un mondo biologico prodotto dalla creazione speciale. La nostra verità lapalissiana è in effetti una prova a sostegno dell'ipotesi che gli organismi devono veramente essere messi in relazione tra loro come punti o posizioni su un albero ramificato.
L'asserzione generale che la somiglianza è più antica della differenza è peraltro una spiegazione assai incompleta della presenza dell'omologia in migliaia di casi in tutto il mondo biologico. Quando si dice che le somiglianze sono più antiche delle differenze, non si fa che riproporre la domanda: “perchè‚ certe caratteristiche diventano la base dell'omologia?”, cambiandone la formulazione in: “perchè‚ certe caratteristiche diventano più vecchie, sopravvivendo più a lungo, e diventano così la base dell'omologia?”.
Siamo davanti a un problema di "sopravvivenza", non la sopravvivenza di specie o di varietà che lottano in un mondo ostile di altri organismi, ma una più sottile sopravvivenza di "tratti" (elementi di descrizione) che devono sopravvivere tanto in un ambiente esterno quanto in un mondo interno di altri tratti, nell'ambito generale della riproduzione, dell'embriologia e dell'anatomia dell'organismo. Nella complessa trama della descrizione che lo scienziato dà di tutto l'organismo, perchè‚ certe parti di questa descrizione rimangono vere più a lungo (per più generazioni) di altre parti? E vi è coincidenza, sovrapposizione o sinonimia tra le parti della descrizione e le parti dell'aggregato delle direttive che determinano l'ontogenesi?
Se un elefante avesse la dentatura e le altre caratteristiche formali dei membri della famiglia dei Muridi, sarebbe un topo, nonostante la sua mole. E in realtà l'irace, che è grosso come un gatto, è assai vicino all'ippopotamo, e il leone è assai vicino a un micio. La grandezza in sé sembra avere pochissima importanza: ciò che conta è la forma. Ma che cosa si intenda esattamente in questo contesto per 'forma' o 'struttura' non è facile da definire.
Siamo alla ricerca di criteri mediante i quali riconoscere i tratti che sono a buon diritto candidati a una verità che perdura nel tumulto del processo evolutivo. Due caratteristiche di questi tratti fanno spicco - due maniere tradizionali di suddividere il vasto campo delle 'differenze': la dicotomia tra struttura e quantità e la dicotomia tra continuità e discontinuità. Organismi molto differenti sono collegati tra loro da una serie continua di passaggi, oppure dall'uno all'altro vi è una brusca transizione? Immaginare una transizione graduale fra strutture è arduo (ma non impossibile) e perciò queste due dicotomie probabilmente si sovrappongono. Ci si può, quanto meno, aspettare che i teorici che preferiscono ricorrere alla struttura preferiscano anche teorie che facciano ricorso alla discontinuità. (Ma naturalmente queste preferenze, che dipendono solo dalle propensioni mentali del singolo scienziato o che seguono la moda corrente, sono da biasimare).
A mio giudizio, le scoperte più chiare a questo proposito sono le eleganti dimostrazioni compiute dallo zoologo D'Arcy Wentworth Thompson all'inizio di questo secolo. Egli dimostrò che in molti casi, forse in tutti i casi da lui esaminati, due forme animali contrastanti ma correlate hanno in comune questo: che se una delle forme è disegnata (per esempio nelle sue linee di contorno) su un comune sistema di coordinate cartesiane ortogonali (per esempio su carta quadrettata), le stesse coordinate, previa un'opportuna incurvatura o distorsione, potranno accogliere l'altra forma. Tutti i punti del contorno della seconda forma cadranno sui punti delle coordinate incurvate aventi lo stesso nome.
Ciò che è importante nelle scoperte di D'Arcy Thompson è che in ogni caso la distorsione è sorprendentemente semplice e persiste identica in tutta la raffigurazione dell'animale. L'incurvatura delle coordinate è tale da poter essere descritta con una semplice trasformazione matematica.
Questa semplicità e questa persistenza devono sicuramente significare che le "differenze" tra i fenotipi rivelate dal metodo di D'Arcy Thompson vengono rappresentate da un numero limitato di differenze del genotipo (cioè da un numero limitato di geni).
Inoltre, la persistenza della stessa distorsione in tutto il corpo dell'animale farebbe pensare che i geni in questione siano pleiotropici (cioè influenzino molte parti del fenotipo, forse "tutte", in modi che, in questo senso particolare, risultano armoniosi in tutto il corpo).
Spingersi oltre nell'interpretazione di queste scoperte non è così semplice, e lo stesso D'Arcy Thompson non ci è di molto aiuto. Egli è felicissimo che la matematica si dimostri capace di descrivere certe specie di cambiamento.
A questo proposito è interessante notare l'attuale controversia tra i sostenitori della teoria 'sintetica' dell'evoluzione (l'attuale darwinismo ortodosso) e i loro avversari, i 'tipologi'. Ernst Mayr, per esempio, dichiara schernendo la cecità dei tipologi: “La storia dimostra che il tipologo non ha e non può avere alcuna comprensione della selezione naturale”. Purtroppo egli non cita le fonti da cui ricava la sua identificazione del tipo logico dei suoi colleghi. E' troppo modesto per vantarne la paternità? O non sarà forse che, in questo caso, simile riconosce simile?
Sotto sotto, non siamo tutti tipologisti?
Non v'è dubbio, comunque, che vi sono molti modi di considerare le forme animali. E poichè‚ ci siamo imbarcati in uno studio platonico del parallelismo tra il pensiero creativo e quel vasto processo mentale chiamato "evoluzione biologica", vale la pena chiedersi in ciascun caso: "questo" modo di considerare i fenomeni ha una qualche sua rappresentazione o parallelo entro il sistema di organizzazione dei fenomeni stessi? I messaggi genetici e i segni statici che determinano il fenotipo possiedono quella sorta di sintassi (in mancanza di un termine migliore) che separerebbe il pensiero 'tipologico' da quello 'sintetico '? Tra i messaggi stessi che creano e foggiano le forme animali, possiamo riconoscerne alcuni più tipologici e altri più sintetici?
Se la domanda è posta in questa forma, sembra che Mayr sia profondamente "nel giusto" quando propone la sua tipologia. I vecchi disegni di D'Arcy Thompson appunto "separano" due generi di comunicazione all'interno dell'organismo stesso. Essi mostrano che gli animali possiedono due generi di caratteristiche: hanno (a) strutture quasi topologiche relativamente stabili, che hanno comprensibilmente portato gli scienziati a postulare una forte discontinuità nel processo evolutivo. Queste caratteristiche rimangono costanti sotto l'intervento delle (b) caratteristiche quantitative relativamente instabili che si rivelano variabili da una rappresentazione all'altra.
Se tracciamo le coordinate in modo da accomodarvi le caratteristiche quasi topologiche, troviamo che i cambiamenti delle caratteristiche meno stabili devono essere rappresentati come distorsioni delle coordinate.
Nei termini del nostro problema riguardante l'omologia, esistono proprio, a quanto pare, diversi generi di caratteristiche, e l'omologia filogenetica dipenderà sicuramente dalle strutture più stabili e quasi topologiche.
A questo punto voglio lasciare i problemi della genetica individuale, del cambiamento somatico e dell'apprendimento e i percorsi immediati dell'evoluzione, per considerare i risultati dell'evoluzione su scala più ampia. La mia domanda ora è: che cosa possiamo dedurre dal più ampio quadro della filogenesi circa i processi sottostanti?
L'anatomia comparata ha una lunga storia. Per almeno sessant'anni, dalla pubblicazione dell'"Origine delle specie" fino agli Anni Venti, essa si concentrò sulle correlazioni, escludendo il processo. Il fatto che si potessero costruire alberi filogenetici era considerato una prova a sostegno della teoria di Darwin. La documentazione fossile era inevitabilmente molto incompleta e, in assenza di tali prove dirette di discendenza, gli anatomisti cercavano con avidità insaziabile esempi di quella classe di somiglianze chiamata "omologia". L'omologia 'dimostrava' le correlazioni e le correlazioni erano l'evoluzione.
Naturalmente le somiglianze formali tra le cose viventi erano state notate almeno fin da quando si era sviluppato il linguaggio, che classificava la mia 'mano' con la vostra 'mano', e la mia 'testa' con la 'testa' di un pesce. Ma solo assai più tardi ci si rese conto che era necessario dare una spiegazione di queste somiglianze formali. Ancor oggi, i più non trovano nulla di sorprendente nella somiglianza tra le due mani, non ci vedono alcun problema. Essi non sentono o non vedono alcun bisogno di una teoria dell'evoluzione. Per i più riflessivi tra gli antichi, e anche per gli uomini del Rinascimento, la somiglianza formale tra le creature illustrava il collegamento con la Grande Catena dell'Essere, e queste connessioni erano legami logici, non genealogici.
Comunque sia, il brusco passaggio logico dalla somiglianza formale alla correlazione nascondeva tutta una serie di ipotesi troppo affrettate. Ammettiamo pure la somiglianza formale in migliaia di casi (uomo e cavallo, aragosta e granchio), e accettiamo l'assunto che in questi casi le somiglianze formali non sono una semplice prova ma, tali e quali, "il risultato di" una relazione evolutiva. Possiamo allora passare a domandarci se la natura delle somiglianze riscontrate in questi casi getti luce sul processo evolutivo.
Domandiamo: che cosa ci dicono le omologie circa il "processo" dell'evoluzione? Quando confrontiamo la nostra descrizione dell'aragosta con quella del granchio, troviamo che alcune componenti sono uguali in entrambe le descrizioni e altre invece differiscono. Pertanto il nostro primo passo consisterà sicuramente in una distinzione tra specie diverse di cambiamento. Alcuni cambiamenti verranno riconosciuti come più probabili e facili; altri saranno più difficili e perciò più improbabili. In un mondo siffatto le variabili che variano più lentamente rimangono indietro e potrebbero diventare il nucleo di quelle omologie su cui sarebbe possibile basare le più ampie ipotesi della tassonomia.
Ma questa prima classificazione dei cambiamenti in "rapidi" e "lenti" richiederà a sua volta una spiegazione. Che cosa possiamo aggiungere alla nostra descrizione del processo evolutivo che ci permetta, forse, di prevedere quali saranno di fatto le variabili più lente, che così diventeranno la base dell'omologia?
Per quanto ne so, l'unico abbozzo di una classificazione siffatta è implicito nella teoria della cosiddetta ricapitolazione.
Il germe della teoria della ricapitolazione fu offerto per la prima volta nel 1828 da uno dei primi embriologi, il tedesco Karl Ernst von Baer, che parlò di “legge degli stadi corrispondenti”. Egli dimostrò questa legge ricorrendo al confronto di embrioni di vertebrati non catalogati:
“Non sono affatto in grado di dire a quale classe essi appartengano. Potrebbero essere lucertole o uccellini o mammiferi giovanissimi, tanto completa è la somiglianza, in questi animali, del modo in cui si formano la testa e il tronco. Le estremità sono ancora assenti, ma anche se esistessero, nel primo stadio di sviluppo non ci insegnerebbero nulla, poichè‚ nascono tutte dalla stessa forma fondamentale”.
In seguito, il concetto di “stadi corrispondenti” di von Baer fu ampliato da Ernst Haeckel, contemporaneo di Darwin, che ne ricavò la teoria della ricapitolazione e la tanto discussa asserzione che “l'ontogenesi ripete la filogenesi”. Da allora ne sono state proposte formulazioni molto diverse. La più prudente è forse l'asserzione che le larve e gli embrioni di una data specie di solito assomigliano alle "larve" di una specie affine più di quanto gli adulti dell'una specie non assomiglino agli adulti dell'altra. Ma perfino questa formulazione così prudente è guastata da vistose eccezioni.
Tuttavia, nonostante le eccezioni, sono incline a ritenere che l'asserzione generale di von Baer fornisca un indizio importante per determinare il processo evolutivo. Giusta o sbagliata, la sua asserzione solleva importanti interrogativi sulla sopravvivenza non degli organismi bensì dei tratti caratteristici: esiste un massimo comun denominatore fra quelle variabili che diventano stabili e che perciò sono state usate dagli zoologi nella ricerca dell'omologia? La legge degli stadi corrispondenti ha un vantaggio sulle formulazioni successive in quanto il suo autore non si preoccupava di stabilire alberi filogenetici, e perfino la breve citazione riportata sopra contiene spunti particolari che sfuggirebbero a un detective filogenetico. E' possibile che le variabili dell'embrione siano più durevoli di quelle dell'adulto?
Von Baer si occupa dei vertebrati superiori: lucertole, uccelli e mammiferi, creature il cui embrione è protetto dentro un guscio d'uovo pieno di nutrimento o dentro un utero. Con le larve degli insetti, per esempio, la dimostrazione di von Baer semplicemente non funzionerebbe. A qualsiasi entomologo, basterebbe un'occhiata a una serie di larve di coleottero prive di indicazioni, per saper dire subito a quale famiglia appartiene ciascuna. La diversità tra le larve è appariscente quanto la diversità tra gli adulti.
La legge degli stadi corrispondenti vale, apparentemente, non solo per gli embrioni interi di vertebrati, ma anche per gli arti successivi nei primissimi stadi del loro sviluppo. La cosiddetta omologia seriale ha in comune con l'omologia filogenetica il fatto generale che, nel complesso, "le somiglianze precedono le differenze". La chela di un'aragosta adulta differisce notevolmente dalle appendici deambulatorie degli altri quattro segmenti del torace, ma nei primi stadi tutte le appendici toraciche avevano lo stesso aspetto.
Forse dovremmo spingere l'asserzione generale di von Baer fin qui e non oltre, e affermare che, in genere, la somiglianza è "più antica" (sia nella filogenesi sia nell'ontogenesi) della differenza. Per alcuni biologi questa suonerà come una verità lapalissiana, come se si dicesse che, in qualunque sistema ramificato, due punti prossimi al punto di diramazione sono più simili tra loro che non due punti da esso lontani. Ma questa verità apparentemente lapalissiana non sarebbe valida per gli elementi del sistema periodico e non sarebbe necessariamente valida in un mondo biologico prodotto dalla creazione speciale. La nostra verità lapalissiana è in effetti una prova a sostegno dell'ipotesi che gli organismi devono veramente essere messi in relazione tra loro come punti o posizioni su un albero ramificato.
L'asserzione generale che la somiglianza è più antica della differenza è peraltro una spiegazione assai incompleta della presenza dell'omologia in migliaia di casi in tutto il mondo biologico. Quando si dice che le somiglianze sono più antiche delle differenze, non si fa che riproporre la domanda: “perchè‚ certe caratteristiche diventano la base dell'omologia?”, cambiandone la formulazione in: “perchè‚ certe caratteristiche diventano più vecchie, sopravvivendo più a lungo, e diventano così la base dell'omologia?”.
Siamo davanti a un problema di "sopravvivenza", non la sopravvivenza di specie o di varietà che lottano in un mondo ostile di altri organismi, ma una più sottile sopravvivenza di "tratti" (elementi di descrizione) che devono sopravvivere tanto in un ambiente esterno quanto in un mondo interno di altri tratti, nell'ambito generale della riproduzione, dell'embriologia e dell'anatomia dell'organismo. Nella complessa trama della descrizione che lo scienziato dà di tutto l'organismo, perchè‚ certe parti di questa descrizione rimangono vere più a lungo (per più generazioni) di altre parti? E vi è coincidenza, sovrapposizione o sinonimia tra le parti della descrizione e le parti dell'aggregato delle direttive che determinano l'ontogenesi?
Se un elefante avesse la dentatura e le altre caratteristiche formali dei membri della famiglia dei Muridi, sarebbe un topo, nonostante la sua mole. E in realtà l'irace, che è grosso come un gatto, è assai vicino all'ippopotamo, e il leone è assai vicino a un micio. La grandezza in sé sembra avere pochissima importanza: ciò che conta è la forma. Ma che cosa si intenda esattamente in questo contesto per 'forma' o 'struttura' non è facile da definire.
Siamo alla ricerca di criteri mediante i quali riconoscere i tratti che sono a buon diritto candidati a una verità che perdura nel tumulto del processo evolutivo. Due caratteristiche di questi tratti fanno spicco - due maniere tradizionali di suddividere il vasto campo delle 'differenze': la dicotomia tra struttura e quantità e la dicotomia tra continuità e discontinuità. Organismi molto differenti sono collegati tra loro da una serie continua di passaggi, oppure dall'uno all'altro vi è una brusca transizione? Immaginare una transizione graduale fra strutture è arduo (ma non impossibile) e perciò queste due dicotomie probabilmente si sovrappongono. Ci si può, quanto meno, aspettare che i teorici che preferiscono ricorrere alla struttura preferiscano anche teorie che facciano ricorso alla discontinuità. (Ma naturalmente queste preferenze, che dipendono solo dalle propensioni mentali del singolo scienziato o che seguono la moda corrente, sono da biasimare).
A mio giudizio, le scoperte più chiare a questo proposito sono le eleganti dimostrazioni compiute dallo zoologo D'Arcy Wentworth Thompson all'inizio di questo secolo. Egli dimostrò che in molti casi, forse in tutti i casi da lui esaminati, due forme animali contrastanti ma correlate hanno in comune questo: che se una delle forme è disegnata (per esempio nelle sue linee di contorno) su un comune sistema di coordinate cartesiane ortogonali (per esempio su carta quadrettata), le stesse coordinate, previa un'opportuna incurvatura o distorsione, potranno accogliere l'altra forma. Tutti i punti del contorno della seconda forma cadranno sui punti delle coordinate incurvate aventi lo stesso nome.
Illustration from page 1062, volume II, chapter XVII, of On Growth and Form by D'arcy Wentworth Thompson. Cambridge University Press |
Questa semplicità e questa persistenza devono sicuramente significare che le "differenze" tra i fenotipi rivelate dal metodo di D'Arcy Thompson vengono rappresentate da un numero limitato di differenze del genotipo (cioè da un numero limitato di geni).
Inoltre, la persistenza della stessa distorsione in tutto il corpo dell'animale farebbe pensare che i geni in questione siano pleiotropici (cioè influenzino molte parti del fenotipo, forse "tutte", in modi che, in questo senso particolare, risultano armoniosi in tutto il corpo).
Spingersi oltre nell'interpretazione di queste scoperte non è così semplice, e lo stesso D'Arcy Thompson non ci è di molto aiuto. Egli è felicissimo che la matematica si dimostri capace di descrivere certe specie di cambiamento.
A questo proposito è interessante notare l'attuale controversia tra i sostenitori della teoria 'sintetica' dell'evoluzione (l'attuale darwinismo ortodosso) e i loro avversari, i 'tipologi'. Ernst Mayr, per esempio, dichiara schernendo la cecità dei tipologi: “La storia dimostra che il tipologo non ha e non può avere alcuna comprensione della selezione naturale”. Purtroppo egli non cita le fonti da cui ricava la sua identificazione del tipo logico dei suoi colleghi. E' troppo modesto per vantarne la paternità? O non sarà forse che, in questo caso, simile riconosce simile?
Sotto sotto, non siamo tutti tipologisti?
Non v'è dubbio, comunque, che vi sono molti modi di considerare le forme animali. E poichè‚ ci siamo imbarcati in uno studio platonico del parallelismo tra il pensiero creativo e quel vasto processo mentale chiamato "evoluzione biologica", vale la pena chiedersi in ciascun caso: "questo" modo di considerare i fenomeni ha una qualche sua rappresentazione o parallelo entro il sistema di organizzazione dei fenomeni stessi? I messaggi genetici e i segni statici che determinano il fenotipo possiedono quella sorta di sintassi (in mancanza di un termine migliore) che separerebbe il pensiero 'tipologico' da quello 'sintetico '? Tra i messaggi stessi che creano e foggiano le forme animali, possiamo riconoscerne alcuni più tipologici e altri più sintetici?
Albrecht Dürer, Face transformations,1528. |
Se tracciamo le coordinate in modo da accomodarvi le caratteristiche quasi topologiche, troviamo che i cambiamenti delle caratteristiche meno stabili devono essere rappresentati come distorsioni delle coordinate.
Nei termini del nostro problema riguardante l'omologia, esistono proprio, a quanto pare, diversi generi di caratteristiche, e l'omologia filogenetica dipenderà sicuramente dalle strutture più stabili e quasi topologiche.
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