ERA un breve annuncio sul giornale del mattino, un paragrafo soltanto. Un amico mi telefonò e me lo lesse. Niente di speciale. Una cosa così avrebbe potuto scriverla un giornalista alle prime armi, appena uscito dall'università, giusto per esercitarsi un po'. La data, il nome di una strada, un autista di camion, un pedone, una vittima, un'indagine per probabile omissione di soccorso.
Suonava come una di quelle poesie sulla carta dei cioccolatini.
« Dov'è il funerale? » chiesi.
« Lo sapessi », rispose lui. « Ma qualche parente ce l'aveva, almeno? »
Certo che l'aveva.
Chiamai il dipartimento di polizia per rintracciare l'indirizzo e il numero di telefono dei genitori, dopodiché li contattai per avere informazioni sul funerale.
Vivevano in un vecchio quartiere di Tokyo. Tirai fuori la cartina ed evidenziai l'isolato con un cerchio rosso. Era pieno di linee metropolitane, ferroviarie e di autobus che si sovrapponevano come una specie di tela di ragno sformata, l'intera zona un labirinto di stradine e canali delle fogne.
Il giorno del funerale presi un tram da Waseda. Scesi quasi al capolinea. La cartina mi fu d'aiuto più o meno quanto un mappamondo. Finii per comprare un pacchetto di sigarette dopo l'altro, ogni volta chiedendo informazioni.
Era una casa con la struttura di legno, circondata da uno steccato di assi marroni. Un piccolo cortile e un braciere di ceramica abbandonato, pieno di acqua piovana stagnante. Il terreno era umido e scuro.
A sedici anni era scappata, il che forse spiega per quale motivo la cerimonia fu tanto malinconica. Vi parteciparono solo i familiari, quasi tutti anziani, e fu presieduta dal fratello maggiore, sui trenta, o forse era suo cognato.
Il padre, un ometto basso, sui cinquantacinque, portava una fascia a lutto intorno al braccio. Rimase impalato sulla soglia senza praticamente muoversi. Mi faceva venire in mente una strada spazzata dall'acqua, dopo il temporale.
Andandomene abbassai la testa in silenzio, e lui abbassò la sua, in segno di risposta, senza dire una parola.
La conobbi in autunno, nove anni fa, quando io ne avevo venti e lei diciassette.
Nei pressi dell'università c'era un piccolo caffè che bazzicavo con gli amici. Niente di speciale, ma offriva due elementi costanti: rock duro e caffè cattivo. Lei se ne stava sempre seduta allo stesso posto, i gomiti piantati sul tavolo, e leggeva. Aveva un'aria seducente, con quelle mani ossute e gli occhiali che sembravano un apparecchio per i denti. Il suo caffè era eternamente freddo, il portacenere zeppo di mozziconi di sigaretta.
L'unica cosa che cambiava era il libro. Una volta Mikey Spillane, un'altra Kenzaburo Oe, un'altra ancora Alien Ginsberg. Non importava che cosa: bastava fosse un libro. A prestarglieli erano gli studenti che dentro e fuori del locale, e lei li leggeva da cima a fondo, da copertina a copertina. Li divorava come fossero pannocchie.
A quell'epoca prestare libri era una cosa naturale, dunque non restava mai a corto di letture.
Erano i giorni dei Doors, degli Stones, dei Byrds, dei Deep Purple e dei Moody Blues. C'era un'atmosfera viva, sebbene tutto sembrasse già appollaiato sull'orlo del precipizio in attesa di una spinta.
Io e lei ci scambiavamo libri, ci perdevamo in discussioni interminabili, bevevamo whisky da due soldi, facevamo del sesso normale e tranquillo. Insomma, le cose di tutti i giorni. Nel frattempo, il sipario calava scricchiolando sulla baraonda degli anni '60.
Non so più come si chiamava.
Potrei tirare fuori l'annuncio mortuario, ma che differenza farebbe ormai. Ho dimenticato il suo nome.
Poniamo che un giorno incontri dei vecchi amici e a un certo punto la conversazione si sposti su di lei. Neanche loro ricordano mai il suo nome. Hai presente, quella tipa che andava a letto con tutti, aspetta, che faccia aveva, mi sfugge il nome ma ci sono andato a letto un sacco di volte, chissà che fine ha fatto, sarebbe buffo incrociarsi per strada.
« C'era una tipa che andava a letto con tutti. » Ecco, come si chiamava.
Naturalmente, a onor del vero, non è che andasse proprio con tutti. Aveva i suoi parametri.
Resta tuttavia il fatto che, come anche l'esame più superficiale delle prove basterebbe a dimostrare, aveva una propensione ad andare a letto praticamente con chiunque.
Una volta, e soltanto una, la interrogai su questi parametri. « Be', se proprio devo dire... » esordi. Passarono un trenta secondi buoni di riflessione. « Non è come fa di solito la gente. A volte è l'idea in sé che mi eccita. Ma, sai, forse è solo che mi va di conoscere un mucchio di persone. O forse è così che riesco a farmi un quadro delle cose. »
« Andandoci a letto insieme? »
« Aha. »
Fu il mio turno di pensarci sopra.
« E dimmi, ti ha aiutato a trovare il senso della vita? »
« Un pochino » ,rispose.
Da quell'inverno fino a tutta l'estate non la rividi quasi.
L'università venne occupata e chiusa più volte, e comunque stavo attraversando un periodo di problemucci personali.
Quando, l'autunno successivo, mi ripresentai al caffè, la clientela era completamente cambiata e la sua fu l'unica faccia che riconobbi. Il rock duro c'era ancora, ma dall'aria era scomparsa ogni traccia di vita. Restavano solo lei e il caffè cattivo. Mi lasciai cadere di peso su una sedia, e cominciammo a parlare dei vecchi frequentatori del bar.
Avevano mollato quasi tutti: uno si era suicidato, un altro volatilizzato. Cose così.
« E tu, che hai fatto in quest'ultimo anno? » mi chiese.
« Di tutto un po'. »
« E sei più saggio? »
« Un pochino. »
Quella sera andai a letto con lei per la prima volta.
Della sua storia non so quasi nulla. E quello che so potrebbe avermelo raccontato qualcun altro; o forse fu lei, a dirmelo, quella notte mentre eravamo a letto insieme. Durante il primo anno di liceo c'era stato un grosso litigio con il padre ed era scappata da casa (e anche da scuola.) Credo
sia tutto. Dove vivesse di preciso che cosa facesse per campare, non lo sapeva nessuno.
Passava le sue giornate nei bar dove mettevano musica rock, beveva una tazza di caffè via l'altra, fumava come un turco e sfogliava i suoi libri, in attesa di qualcuno che si facesse avanti per pagarle il conto e le sigarette (cifrette nient'affatto trascurabili, per noi spiantati dell'epoca), qualcuno con cui poi finiva immancabilmente a letto.
Ecco. Questo è tutto quel che so di lei.
Dall'autunno di quell'anno fino alla primavera seguente, ogni martedì sera si presentava al mio appartamento fuori Mitaka. Spazzolava la parca cena che ero riuscito a mettere insieme, mi riempiva i portacenere e faceva l'amore con me tenendo la radio sintonizzata a tutto volume su
un programma rock. Il mercoledì mattina ci svegliavamo e andavamo a fare una passeggiata per i boschi, arrivavamo fino al campus universitario e mangiavamo in mensa. Nel pomeriggio ci facevamo una tazza di caffè annacquato in sala studenti e, se il tempo era bello, ci allungavamo sull'erba a guardare il cielo.
Lo chiamava il nostro « picnic del mercoledì pomeriggio».
« Ogni volta che veniamo qui mi sembra di fare un picnic. »
« Un picnic? Sul serio? »
« Be', i prati si stendono all'infinito, e tutti sembrano così felici... »
Poi si tirava a sedere e prima di accendersi una sigaretta consumava due o tre fiammiferi.
« Il sole sorge, e poi comincia a tramontare. Gente che viene, gente che va. Il tempo che vola. Non è proprio come nei picnic? »
Allora avevo ventun anni, quasi ventidue. Nessuna prospettiva di laurearmi in fretta, ma ancora nessuna ragione per mollare. Intrappolato nel più ambiguo e deprimente dei paesaggi. Così mi sentivo da mesi, incapace di muovere un passo in una nuova direzione, quale che fosse. Il mondo continuava a girare: soltanto io restavo fermo. In autunno ogni cosa parve assumere sembianze desolate, i colori svanivano rapidamente davanti agli occhi. La luce del sole, l'odore dell'erba, il minimo sgocciolio di pioggia: tutto mi dava sui nervi.
Quante volte di notte sognai di montare su un treno?
Sempre lo stesso sogno. Un treno a lunga percorrenza, un notturno impregnato di fumo di sigarette e puzza di toilette. Così affollato che si faceva fatica a stare in piedi. I sedili incrostati di vomito. L'unica cosa che potevo fare era scendere alla prima stazione. Che non era affatto una stazione. Solo un campo, in cui a perdita d'occhio non si vedeva la luce di una casa. Niente capostazione, niente orologio, niente cartelloni degli orari, niente. Questo, sognavo.
Ricordo ancora quel pomeriggio tremendo. Il venticinque di novembre. Le foglie di gingko abbattute dalla pioggia avevano trasformato i sentieri in letti di fiume ormai asciutti e dorati. Eravamo usciti per una passeggiata, le mani in tasca. Non si sentiva un rumore, a parte lo scrocchiare delle foglie sotto i nostri piedi e le grida acute degli uccelli.
« Mi dici a che stai pensando? » chiese lei d'un tratto.
« A niente in particolare. »
Continuò a camminare per un po', poi si sedette sul bordo del sentiero e inspirò una boccata di fumo.
« Fai sempre brutti sogni? »
« Diciamo spesso. Di solito macchinette automatiche che mi mangiano gli spiccioli. »
Lei rise e mi appoggiò una mano sul ginocchio, per poi toglierla subito.
« Non hai voglia di parlarne, vero? »
« Non oggi. Ho qualche difficoltà con le parole. »
Lasciò cadere la sigaretta mezzo fumata per terra, quindi la spiaccicò con cura sotto il tacco della scarpa. « Non riesci a dire quello che vorresti, è questo che intendi? »
« Non lo so », risposi.
Due uccelli si sollevarono da qualche parte lì vicino e subito furono inghiottiti dal cielo senza nuvole. Restammo a guardarli finché uscirono dal nostro campo visivo. Poi lei prese un rametto e cominciò a tracciare disegni indecifrabili nella polvere.
« A volte a letto con te mi sento veramente sola. »
« Se è così mi dispiace. »
« Non è colpa tua. Non è come se stessi pensando a un'altra ragazza mentre stiamo insieme... E poi, che differenza farebbe? È solo che... » Si interruppe a metà della frase, e lentamente disegnò tre linee nella polvere.
« Vedi, non è che voglia lasciarti fuori », ripresi io dopo un attimo. « Non so che cosa mi prende. Ti giuro che faccio di tutto per capire. Non mi piace gonfiare le cose, ma non voglio nemmeno fingere che non esistano. Ho bisogno di tempo. »
« Quanto tempo? »
« Che ne so? Un anno. Forse dieci... »
Lanciò via il rametto e si alzò, scrollandosi di dosso i fili d'erba secca. « Dieci anni? Non è come dire un'eternità? »
« Forse », risposi.
Passeggiammo tra i boschi fino al campus, ci sedemmo in sala studenti e biascicammo i nostri hot dog. Erano le due del pomeriggio, e sullo schermo del televisore continuava ad apparire la faccia di Yukio Mishima. La levetta del volume era rotta, non si capiva bene che cosa dicevano, e comunque non ce ne importava. Un altro studente montò su una sedia e prese ad armeggiare con l'audio, ma alla fine ci rinunciò e uscì dalla sala.
« Ti voglio », dissi.
« Okay », rispose.
Così risprofondammo le mani nelle tasche dei cappotti e lentamente ci avviammo verso casa.
Mi svegliai e la trovai che singhiozzava piano piano, il corpo snello scosso dai tremiti sotto le coperte. Alzai il riscaldamento e controllai la sveglia: le due del mattino. Una luna bianca da mozzare il fiato brillava proprio al centro del cielo.
Aspettai che smettesse di piangere, poi misi su il bollitore del tè. Una bustina in due. Niente zucchero, niente limone.
Tè liscio. Accesi due sigarette e gliene porsi una.
Lei inalò e sputò fuori la boccata di fumo, tre volte in rapida successione, quindi cominciò a tossire.
« Dimmi una cosa. Hai mai pensato di uccidermi? » chiese.
« Ucciderti? »
« Sì. »
« E perché mi fai una domanda del genere? »
La sigaretta stretta fra le labbra, si sfregò la palpebra con la punta di un dito.
« Non c'è nessun motivo particolare. »
« Mai. Assolutamente mai », dissi allora.
« Sicuro? »
« Sicuro. Perché dovrei volerti uccidere? »
« Oh, be', immagino tu abbia ragione », rispose. « E che per un attimo ho pensato che forse non sarebbe così brutto essere ammazzata da qualcuno. Tipo mentre dormo. »
« Spiacente, ma non sono quel genere di persona. »
« No? »
« Non che io sappia. »
Rise. Spense la sigaretta, si scolò il resto del tè, quindi tornò ad accendere.
« Io vivrò fino a venticinque anni », annunciò. « Poi morirò. »
Otto anni dopo, in luglio, moriva a ventisei.
Copyright (c) 1982 by Haruki Murakami