Demetrio Stratos si definì “portiere” perché nacque ad Alessandria d’Egitto da genitori greci, alle porte tra Oriente ed Occidente, in seguito traghettato a Milano per frequentare architettura. Già da sempre percepiva nella sua biografia una disidentità, un’anomalia, che chiamò androginia per il senso di appartenenza alle due nature, maschile e femminile non sottoposte al conformismo dei ruoli prestabiliti.
Gli anni milanesi della contestazione e della rifondazione del mondo, la frequentazione di ambienti stimolanti, di letture audaci come Lacan, Barthes, Deleuze, Foucault, di sperimentazioni musicali spericolate maturarono in lui la convinzione di dover esplorare la voce in un secolo da qualcuno definito “afono”.
In biologia il rimescolamento genetico assicura il successo adattativo, analogamente nella cultura il coraggio della contaminazione tra modelli differenti può aprire scenari imprevisti e percorsi insoliti. Demetrio Stratos ha scavato una breccia nella sclerosi di Calliope perché portava nella memoria remota il suono doppio di “aulos”, il fluto frigio a due canne, che procurava la trance nelle feste care a Dioniso e che Platone sconsigliava per il suo potere destabilizzante.
La voce oggi è occultata e seviziata, ridotta a canale di trasmissione di significati codificati; è necessario liberarla perché il corpo possa ancora sentire la vita che sale dalle midolla, che prende fiato nei polmoni ed echeggia nella voce. “La voce, sostiene Stratos, è oggi nella musica un canale di trasmissione che non trasmette più nulla” e ancora: “L’ipertrofia vocale occidentale ha reso il cantante moderno pressoché insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolandolo nel recinto di determinate strutture linguistiche”.
Facendo della sua glottide un laboratorio vivente, Stratos ha osato spingersi oltre i limiti fisiologici della possibilità vocale. Il prof. Franco Ferrero, che frequentò Stratos nel Centro diStudio per le ricerche di Fonetica del CNR dell’Università di Padova, ammette: “Stando a quanto ho riscontrato durante l’emissione, le corde vocali non vibravano. La frequenza era molto elevata (le corde vocali non riescono a superare la frequenza di 1000-1200 Hz). Nonostante ciò Demetrio otteneva non uno, ma due fischi disarmonici, uno che da 6000 Hz scendeva di frequenza, e l’altro che da 3000 Hz saliva. Non si poteva supporre, quindi, che un fischio fosse l’armonico superiore dell’altro. Constatai anche l’emissione di tre fischi simultanei”.
La strabiliante ricerca di Stratos porta molte suggestioni e piste di ricerca ancora da studiare. Vorrei limitarmi a due sottolineature particolarmente stimolanti ed innovative per il nostro tempo: la preminenza del significante rispetto al significato e il valore rituale della voce in ordine all’accesso alla scaturigine del corpo.
La preminenza del significante rispetto al significato
E’ un tema caro alla linguistica, soprattutto alla pragmatica, che ha determinato una svolta sia nella semiotica, sia nella semantica. Infatti pare che il valore del linguaggio non sia da ricercarsi né nel rapporto tra i segni, né nel rapporto tra significante e significato, ma nell’uso del linguaggio, nel contesto. Per esempio vi è un metacomunicativo nel tono, nel colore della voce che può annullare il valore semantico di una frase. Stratos ha intuito l’incremento semantico prodotto dalla voce. Essa non è più solo funzionale ai significati, ma è un’originaria modalità del corpo di esprimersi. La voce ha un valore comunicativo in sé, che merita di essere ascoltata indipendentemente dai contenuti che veicola. Il significante “voce” diventa semiogenetico, cioè produttore di significazione nuova se lo si esperisce nella sua nuda carne, nella sua phoné. La magia della voce è indipendente dai significati, perciò Stratos produce suoni senza significato codificato, che tuttavia creano nuovi mondi possibili. La sua ricerca della voce perduta, come la Ninfa Eco che si è pietrificata, esplora il grido, il soffio, il rumore. Vuole ritornare alla corporeità, alla materialità istintiva, a quel fondo animale dionisiaco, soffocato dalla oggettivazione codificata. L’insistenza sul “significante voce” toglie valore alla produzione soggettiva del significato. Attraverso una modulazione creativamente ripetitiva Stratos porta ad una dissoluzione dell’Io per una comunione intersoggettiva alle fonti della vita. La voce nomade è la liberazione dai codici, aspira ad una vocalità del corpo sottratta ai moduli fissi del bel canto. Nei Mirologhi I e II e nelle Criptomelodie infantili la voce tende a declinarsi al plurale: sussurra, imita, geme, diventa diplofonia, triplofonia. E’ una vocalità polifonica senza soggetto, androgina, dove coesistono maschile e femminile. Stratos canta la voce, pura apparenza, pharmakon, velenosa e curativa, senza niente al di fuori di essa, puro atto ludico, voce in quanto voce. “Così la sovranità sovversiva della voce-evento, pharmakon sfida della comunicazione, lascia il soggetto in una ingenua antropolatria tra godimento incondizionato e consumazione”.
L’elogio del “significante voce” appoggia un’epistemologia della percezione, denuncia “l’errore di Cartesio” di riduzione della ragione a parola concettuale. E’ in linea con la “Praktognosia” di Merleau-Ponty, che pone il punto zero della conoscenza nella percezione sensibile del corpo.
Il valore rituale della voce
E’ già stato citato il riferimento di Stratos all’aulos, al flauto frigio che emette due suoni e produce trance nei riti dionisiaci. Nelle Flautofonie due voci si rincorrono come in una sorta di canone. La seconda voce non è autonoma ma nemmeno subordinata alla prima. Il mix produce in chi ascolta un estraniamento, simile alla trance nei riti religiosi. Su questo sfondo di fruizione sonora si può parlare della voce-musica di Stratos come la messa in opera di un rito laico capace di produrre nella sensibilità degli spettatori un riacceso alle origini. La tecnica di Stratos dei due suoni ripropone la logica dei riti, che mettono in scacco l’ordine del mondo attraverso “una metodica svalutazione” della quotidianità (R.Firth). La prima voce (“canto di superficie”) è autonoma, la seconda voce (“canto di fondo”), pur essendo costituita di elementi della prima voce, differisce nel materiale (rumorosità di armonici) e gioca con la prima creando continue scosse caotiche. “Il ‘flauto-voce’ di Stratos esegue un tema circolare, di ispirazione modale, che ci riporta a un’esperienza di comunione, di interazione ritualistica e sacrificale. La ripetizione suggerisce qualcosa di ipnotico, propizio al trance. Stratos sembra desiderare un ascolto partecipato, spontaneo e generoso… Attraverso questa ripetizione sempre diversa, Stratos mira all’abolizione, dissoluzione degli ego, elemento basilare per il sacrificio. In questa dissoluzione dell’identità siamo in comunione con gli dei, con la terra e con la vita” (J. El Haouli).
Negli anni della dissacrazione e della secolarizzazione del Cristianesimo Stratos proponeva una nuova sacralità laica, con i nomi degli antichi dei greci, accessibile solo con un ripescaggio della vera ritualità. La voce-musica aveva una ritualità dimenticata; serviva solo per proporre idee ed ideologie anziché esperienze del Sacro. Evidentemente è un Sacro pagano di comunione intima tra umani e con la natura. La ricerca delle triplofonie e delle quadrifonie trovava conferme solo in alcuni monaci tibetani e in alcuni cavalieri nomadi della Mongolia. “L’uso è rituale”, scrive Stratos e questo proposito è mantenuto nella sua musica. Quattro elementi rituali balzano agli occhi: la ripetizione, l’uscita dall’ordinario, la perdita dell’Io, la dimensione comunitaria. Forse leggendo Deleuze l’artista greco si era convinto che la ripetizione non era la famigerata coazione a ripetere della nevrosi ossessiva, poterva diventare la tecnica di esodo dal flusso temporale attuale per accedere ad altro ordine di realtà. Così la trance con l’abolizione dell’io e del mondo conosciuti allargavano l’orizzonte su altri mondi. Il tutto nella modalità della messa in scena collettiva di una performance estraniante e mistica insieme.
Troviamo in Stratos l’antesignano dei riti laici dei megaconcerti rok, che non si esauriscono nella spettacolarizzazione del modello mimetico del divo sublimato, ma nella fruizione quasi religiosa della voce-musica che ci permette di sentire nella scena il brivido agghiacciante della nostra appartenenza alla vita.
Demetrio Stratos eroe dei due mondo, d’Oriente e d’Occidente, spesso dimenticato dalla cultura di massa, ma amato e ammirato da tanti iniziati dalla sua voce a scavare i segreti del mondo, che non disdegnano di visitare la sua tomba recante la scritta dei primi versi dell’Odissea: Musa, parlami di quell’uomo di multiforme ingegno!
Roberto Tagliaferri, tratto da:
cimitero di Scipione Castello, Parma, foto di Gloria Annovi |