Killer lives inside me: yes, I can feel him move.
Sometimes he's lightly sleeping in the quiet of his room,
but then his eyes will rise and stare through mine;
he'll speak my words and slice my mind inside.
Yes the killer lives.
Angels live inside me: I can feel them smile...
Their presence strokes and soothes the tempest in my mind
and their love can heal the wounds that I have wrought.
They watch me as I go to fall - well, I know I shall be caught,
while the angels live.
How can I be free?
How can I get help?
Am I really me?
Am I someone else?
But stalking in my cloisters hang the acolytes of gloom
and Death's Head throws his cloak in to the corner of my room
and I am doomed...
But laughing in my courtyard play the pranksters of my youth
and solemn, waiting Old Man in the gables of the roof:
he tells me truth...
And I, too, live inside me and very often don't know who I am:
I know I'm not a hero, well, I hope that I'm not damned.
I'm just a man, and killers, angels, all are these:
Dictators, saviours, refugees in war and peace
as long as Man lives...
I'm just a man, and killers, angels, all are these:
Dictators, saviours, refugees...
F. Non sono una specie di gioco che tu fai con me?
P. Dio non voglia.., sono però una specie di gioco che noi facciamo insieme.
F. Allora non sono serie!
P. E se tu mi dicessi che cosa significano per te ‘serio’ e ‘gioco’?
F. Be’... se tu... non lo so.
P. Se io che cosa?
F. Cioè... le conversazioni Sono serie per me, ma se tu stai solo giocando...
P. Piano, piano. Guardiamo che cosa c’è di buono e che cosa c’è di male nel ‘giocare’ e nei ‘giochi’. In primo luogo non m’interessa - non molto - vincere o perdere. Quando le tue domande mi mettono con le spalle al muro, allora certo mi sforzo un po’ di più per pensare bene e vedere con chiarezza quello che voglio dire. Ma non baro e non ti preparo trappole; non c’è alcuna tentazione d’imbrogliare.
F. Ecco, è proprio così. Per te non è una cosa seria: è un gioco. Quelli che imbrogliano, semplicemente non sanno cosa vuoi dire ‘giocare’; trattano un gioco come se fosse una cosa seria.
P. Ma è una cosa seria.
F. No, non lo è... per te non lo è.
P. Perché non voglio imbrogliare?
F. Sì... anche per quello.
P. Ma tu vuoi imbrogliare continuamente?
F. No, naturalmente no.
P. Allora?
F. Oh, papà, non capirai mai.
P. Credo proprio di no.
P. Guarda, ho segnato una specie di punto a mio favore proprio adesso, quando ti ho fatto ammettere che tu non vuoi imbrogliare... e poi ho concluso che dunque le conversazioni non sono ‘serie’ neppure per te. Ti sembra una specie d’imbroglio?
F. Sì... una specie.
P. D’accordo... lo credo anch’io. Scusami.
F. Vedi, papà... se io imbrogliassi o volessi imbrogliare, vorrebbe dire che non prenderei sul serio le cose di cui stiamo parlando. Vorrebbe dire che io starei solo facendo un gioco con te.
P. Sì, questo è ragionevole.
F. Ma no, non è ragionevole, papà. È un terribile pasticcio.
P. SI... un pasticcio... ma che funziona.
F. Ma come, papà?
P. Aspetta un momento. È difficile dirlo. Prima di tutto... penso che queste conversazioni ci facciano fare qualche progresso. A me piacciono molto e credo che piacciano anche a te. E poi, a parte questo, credo che si riesca a sistemare qualche idea e credo che i pasticci servano. Cioè... se tutti e due parlassimo sempre in modo coerente, non faremmo mai alcun progresso; non faremmo che ripetere come pappagalli i vecchi clichés che tutti hanno ripetuto per secoli.
F. Che cos’è un cliché, papà?
P. Un cliché? È una parola francese, credo che in origine fosse un termine tipografico. Quando si stampa una frase, si devono prendere le lettere separatamente e metterle una per una in una specie di sbarra scanalata per comporre la frase. Ma per parole e frasi che la gente usa spesso, il tipografo tiene piccole sbarre di lettere già bell’e pronte. E queste frasi già fatte si chiamano clichés.
F. Ma adesso ho dimenticato quello che stavi dicendo dei clichés, papà.
P. Si... parlavo dei pasticci in cui ci cacciamo durante queste conversazioni e dicevo che cacciarsi nei pasticci, in un certo modo, è una cosa sensata. Se non ci cacciassimo nei pasticci, i nostri discorsi sarebbero come giocare a ramino senza prima mescolare le carte.
F. Sì, papà... ma quelle cose... le sbarre di lettere già pronte?
P. I clichés? Sì... è la stessa cosa. Tutti noi abbiamo un bel po di frasi e di idee beli’e pronte, e il tipografo ha sbarre di lettere bell’e pronte, tutte ben sistemate in frasi. Ma se il tipografo vuole stampare qualcosa di nuovo, per esempio una cosa in una lingua straniera, dovrà disfare tutte quelle vecchie disposizioni di lettere. Allo stesso modo, per pensare idee nuove e dire cose nuove, dobbiamo disfare tutte le idee già pronte e mescolare i pezzi.
F. Ma, papà, il tipografo non mescolerà tutte le lettere, no? Non le mescolerà tutte in un sacco per poi scuoterle. Le metterà una per una ai loro posti... tutte le
a in una scatola, tutte le b in un’altra, e tutte le virgole in un’altra, e così via.
P. Si, è vero. Altrimenti diventerebbe matto a cercare una a quando ne ha bisogno.
P. A che cosa stai pensando?
F. No... è che ci sono tante di quelle domande.
P. Per esempio?
F. Be’, capisco che cosa vuoi dire a proposito di cacciarci nei pasticci, che questo ci fa dire cose di tipo nuovo. Ma sto pensando al tipografo. Lui deve tenere tutte le sue lettere in ordine anche se disfa tutte le frasi bell’e fatte. E poi penso ai nostri pasticci: dobbiamo tenere i pezzetti dei nostri pensieri in ordine, ma come?.., per non diventare matti?
P. Penso di sì... sì... ma non so quale tipo di ordine. Questa è una domanda veramente difficile. Non credo che riusciremmo a ottenere oggi una risposta a questa domanda.
P. Hai detto che c’erano “tante di quelle domande”. Ne hai qualche altra?
F. Sì... sui giochi e le cose serie. Siamo partiti da lì e poi non so come o perché questo ci ha portati a parlare dei pasticci. Tu confondi sempre ogni cosa.., è una specie d’imbroglio.
P. Ma no, assolutamente no.
P. Tu hai sollevato due problemi. Ma in realtà ce n’è ancora un sacco... Abbiamo cominciato da una domanda su queste conversazioni: sono serie? Oppure sono una specie di gioco? E ti sentivi offesa dall’idea che io potessi farne un gioco, mentre tu le prendevi sul serio. È come se una conversazione fosse un gioco se una persona vi partecipasse con certe emozioni o idee, ma
non fosse un gioco se le sue idee o emozioni fossero diverse.
F. SI, è che se le tue idee sulla conversazione sono diverse dalle mie...
P. Se tutti e due avessimo l’idea di giocare, andrebbe bene?
F. Sì... certo.
P. Allora sembra che dipenda da me chiarire che cosa intendo con l’idea di gioco. Io so di essere serio (qualunque ne sia il significato) nelle cose di cui parliamo. Noi parliamo di idee. E io so di giocare con le idee allo scopo di comprenderle e metterle insieme. È un ‘divertimento’ nello stesso senso in cui un bambino si ‘diverte’ coi cubi... E un bambino con i cubi per lo più si comporta in maniera molto seria col suo ‘divertimento’.
F. Ma, papà, è un gioco nel senso che tu giochi contro di me?
P. No. La mia idea è che tu e io stiamo giocando insieme contro i cubi - le idee. A volte siamo un tantino in competizione, ma in competizione su chi dei due riesce a sistemare l’idea successiva. E talvolta uno di noi aggredisce il pezzettino di costruzione dell’altro, oppure io cerco di difendere le idee che ho costruito dalle tue critiche. Ma alla fin fine lavoriamo sempre insieme per tirar su le idee in modo che si reggano in piedi.
F. Papà, i nostri discorsi hanno regole? La differenza tra un gioco e il divertirsi puro e semplice è che il gioco
ha delle regole.
P. Sì. Lasciami pensare. Credo che abbiamo certe regole... e credo che un bambino che gioca coi cubi abbia anche lui le sue regole: I cubi stessi costituiscono una specie di regola. In certe posizioni stanno su e in altre posizioni non stanno su. E sarebbe una specie d’imbroglio se il bambino usasse la colla per far star su i cubi in certe posizioni in cui altrimenti cadrebbero.
F. Ma che regole abbiamo noi?
P. Re’, le idee con cui giochiamo comportano certe regole. Vi sono regole su come le idee si possono reggere e sostenere a vicenda. E se sono messe insieme in modo sbagliato, tutta la costruzione crollerà.
F. Niente colla, papà?
P. No... niente colla. Soltanto logica.
F. Ma tu hai detto che se parlassimo sempre in modo logico e non incappassimo in pasticci, non potremmo dire mai niente di nuovo. Potremmo dir solo cose bel-l’e fatte. Come le hai chiamate quelle cose?
P. Clichés. Si. La colla è ciò che tiene insieme i clichés.
F. Ma tu hai detto ‘logica’, papà.
P. Sì, lo so. Siamo di nuovo in un pasticcio. Solo che non vedo come faremo a uscire, da questo pasticcio.
F. Come ci siamo capitati, papà?
P. Giusto, vediamo se riusciamo a ricostruire i nostri passi. Stavamo parlando delle ‘regole’ di queste conversazioni. E io ho detto che le idee con cui giochiamo hanno regole di logica...
F. Papà! Non sarebbe meglio avere un po’ più di regole e seguirle più attentamente? Così non potremmo finire in questi terribili pasticci.
P. Sì, ma aspetta. Tu vuoi dire che io porto la conversazione in questi pasticci perché non rispetto certe regole che non abbiamo. Oppure, diciamo così: che potremmo farci delle regole che c’impedirebbero di finire nei pasticci — se noi le rispettassimo.
F. SI, papà, le regole di un gioco servono proprio a questo.
P. Sì, ma tu vuoi che queste conversazioni diventino un gioco di quel tipo? Io preferirei giocare a canasta, che è anche divertente.
F. SI, è vero. Possiamo giocare a canasta ogni volta che ne abbiamo voglia. Ma adesso preferirei giocare a questo gioco. Solo che non so che tipo di gioco sia. E neppure che tipo di regole abbia.
P. Eppure è già da un po’ che stiamo giocando.
F. SI, ed è stato divertente.
P. Vero.
P. Torniamo alla domanda che hai fatto, e io ho detto che era troppo difficile per potervi rispondere oggi. Stavamo parlando del tipografo che disfà i suoi clichés, e tu hai detto che deve lo stesso mantenere qualche ordine tra le sue lettere, per non diventare matto. E poi hai chiesto: che razza di ordine dovremmo mantenere per non diventare matti quando finiamo in un pasticcio? A me sembra che le regole del gioco siano solo un nome diverso per quel tipo di ordine.
F. Sì... e l’imbrogliare è ciò che ci caccia nei pasticci.
P. In un certo senso sì. È vero. Solo che tutto il sugo del gioco è che noi finiamo nei pasticci, e poi ne veniamo fuori dall’altra parte, e se non ci fossero pasticci il nostro ‘gioco’ sarebbe come la canasta o gli scacchi... e noi non vogliamo che sia così.
F. Papà, ma sei tu che fai le regole?
P. Questo, figlia mia, è un tiro mancino. E probabilmente anche disonesto. Ma lo accetto per quello che è. Sì, sono io che faccio le regole... dopo tutto non voglio che diventiamo matti.
F. D’accordo. Ma, papà, tu cambi anche le regole? Qualche volta?
P. Uhm, un altro tiro mancino. Sì, figliola mia, le cambio continuamente. Ma non tutte, solo qualcuna.
F. Mi piacerebbe che tu mi dicessi quando stai per cambiarle!
P. Uhm... sì... già. Vorrei poterlo fare. Ma non è così semplice. Se si trattasse degli scacchi o della canasta, potrei dirti le regole, e volendo potremmo smettere di giocare e metterci a discutere le regole. E potremmo poi cominciare una nuova partita con le nuove regole. Ma a quali regole dovremmo obbedire tra le due partite? Proprio mentre stiamo discutendo le regole?
F. Non capisco.
P. Sì, il fatto è che lo scopo di queste conversazioni è quello di scoprire le ‘regole’. È come la vita: un gioco il cui scopo è di scoprire le regole, regole che cambiano sempre e non si possono mai scoprire.
F. Ma quello io non lo chiamo un gioco, papà.
P. Forse no. Io però lo chiamerei un gioco, o comunque un ‘giocare’. Ma certo non è come gli scacchi o la canasta; è più simile a quello che fanno i gattini o i cuccioli. Forse. Non lo so.
La teoria di Bateson e colleghi sul doppio vincolo e successive precisazioni sono paragonabili ad una svolta paradigmatica di tipo copernicano: quello che era considerato un comportamento sintomatico di tipo patologico di difficile, se non impossibile, comprensione diventava non solo spiegabile nel contesto di vita e apprendimento dell'individuo ma anche il più appropriato in un contesto disumano caratterizzato da continue ingiunzioni paradossali. Nel 1959 Harold Searles pubblicò un classico articolo dal titolo "Il tentativo di rendere l’altro folle" in cui illustrava diversi tipi di comportamenti-comunicazioni efficaci nel tendere a squalificare la fiducia dell’altro nelle proprie reazioni emozionali e nella propria percezione della realtà:
A insiste ripetutamente su certi settori della personalità di B dei quali questi è scarsamente conscio, settori non compresi nella definizione di sé che B comunica.
A stimola sessualmente B in una situazione/contesto nella quale è impossibile per B una gratificazione sessuale.
A espone B ad esperienze contemporanee, o rapidamente alternantisi, di stimolo e frustrazione.
A si pone in relazione con B a livelli simultaneamente non correlati, ad esempio sessualmente e intellettualmente.
A tratta a livelli emozionali diversi lo stesso argomento, ad esempio prima “sul serio” e poi “scherzosamente” lo stesso soggetto.
A scivola da un argomento all’altro conservando sempre lo stesso livello emozionale, ad esempio una questione “di vita o di morte” viene considerata come un argomento più banale.
Harold F. Searles, "The Effort to Drive the Other Person Crazy — An Element in the Etiology and Psychotherapy of Schizophrenia." British Journal of Medical Psychology. XXXII, 1959, pp. 1-19.
“La gente è venuta in questo Paese o per il denaro o per la libertà. Se non hai denaro, ti aggrappi ancora più furiosamente alle tue libertà. Anche se il fumo ti uccide, anche se non hai i mezzi per mantenere i tuoi figli, anche se i tuoi figli vengono ammazzati da maniaci armati di fucile. Puoi essere povero, ma l’unica cosa che nessuno ti può togliere è la libertà di rovinarti la vita nel modo che preferisci.”
Non ha senso dire che un uomo è stato spaventato da un leone, perché un leone non è un’idea. Di questo leone l’uomo si costruisce un’idea.
Il mondo esplicativo della sostanza non può richiamarsi né a differenze nè a idee, ma solo a forze e urti; e, viceversa, il mondo della forma e della comunicazione non si richiama a oggetti, forze o urti, ma soltanto a differenze e idee. (Una differenza che genera una differenza è un’idea; è un ‘bit’, cioè un’unità d’informazione).
Ma tutto ciò lo appresi solo in seguito, e fu la teoria del doppio vincolo che mi permise di apprenderlo. A loro volta, ovviamente, queste cose sono implicite nella teoria, la quale senza di esse avrebbe difficilmente potuto essere fondata.
Il nostro lavoro originale sul doppio vincolo contiene numerosi errori, dovuti semplicemente alla mancanza di un esame articolato del problema della reificazione. In quel lavoro un doppio vincolo viene trattato come un ‘qualcosa’, e se ne parla come se questi ‘qualcosa’ potessero essere contati.
Ciò naturalmente non ha senso: non si possono contare i pipistrelli contenuti in una macchia d’inchiostro, dal momento che non ce ne sono; eppure, se uno ha un debole per i pipistrelli, può ‘vederne’ parecchi.
Ma nella mente ci sono doppi vincoli? La domanda non è futile. Così come nella mente non ci sono noci di cocco, ma solo percezioni e trasformate di noci di cocco, allo stesso modo, quando percepisco (consciamente o inconsciamente) un doppio vincolo nel comportamento del mio principale, la mia mente non acquisisce un doppio vincolo, ma solo una percezione o trasformata di doppio vincolo. E questo non è l’oggetto della teoria.
Stiamo piuttosto parlando di certi grovigli nelle regole preposte alla costruzione delle trasformate e, insieme, dell’acquisizione o conservazione di tali grovigli. La teoria del doppio vincolo afferma che una componente dovuta all’esperienza è presente nella determinazione o eziologia dei sintomi sia della schizofrenia sia di modelli comportamentali affini, come il comico, l’artistico, il poetico, ecc.
Si osservi che la teoria non distingue tra questi sottogeneri: non viene fornito alcun criterio per decidere se un individuo diventerà un pagliaccio, un poeta, uno schizofrenico o una combinazione di tutto ciò. Non si ha a che fare con una sindrome specifica, ma con una famiglia di sindromi, di cui la maggior parte non sono, tradizionalmente, considerate patologiche.
Per qualificare in generale questa famiglia di sindromi, conierò il termine «transcontestuale».
Sembra che ci sia un tratto in comune fra coloro che sono dotati di qualità transcontestuali e coloro che sono afflitti da confusioni transcontestuali per tutti costoro, sempre o spesso, c’è una ‘sovrimpressione’ una foglia che cade, un amico che saluta, o una ‘primula sulla sponda del fiume’, non sono mai ‘questo e nulla più’. Esperienze esterne possono essere inquadrate nel contesto di un sogno, e, viceversa, pensieri interni possono essere proiettati in contesti del mondo esterno, e così via. È nell’apprendimento e nell’esperienza che cerchiamo una parziale spiegazione di tutto ciò.
Qual è la struttura che connette
il granchio con l’aragosta,
l'orchidea con la primula
e tutti quattro con me?
E me con voi?
E tutti noi
con l’ameba da una parte
e lo schizofrenico dall’altra?
"I maggiori problemi nel mondo risultano dalla differenza tra come funziona la natura e come la gente pensa."
A very schematic view of the history of umanity;poorlydrawnlines
E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell’aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio.
Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio
Coloro che ci hanno lasciati non sono degli assenti, sono solo degli invisibili: tengono i loro occhi pieni di gloria puntati nei nostri pieni di lacrime.
Agostino d'Ippona
Avrei voluto mettermi a piangere forte, ma non potevo. Non avevo più l'età per versare lacrime, avevo fatto troppe esperienze. Esiste anche questo al mondo, la tristezza di non poter piangere a calde lacrime. È una di quelle cose che non si può spiegare a nessuno, e anche se si potesse, nessuno la capirebbe. È una tristezza che non può prendere forma, si accumula quietamente nel cuore come la neve in una notte senza vento.
Una volta, quando ero più giovane, avevo provato a esprimerla a parole. Ma non ne avevo trovata una che potesse trasmettere il mio sentimento ad altri, anzi nemmeno a me stesso, così avevo rinunciato. E avevo chiuso sia le mie parole sia il mio cuore. La tristezza troppo profonda non può prendere la forma delle lacrime.
Murakami Haruki, La fine del mondo e il paese delle meraviglie
"Non è come nasci, ma come muori, che rivela a quale popolo appartieni."
Alce Nero, 1890
Tra la notte che cessa
e l'inizio del giorno,
il mio cuore ha urgenza
della tua nostalgia.
Non è che ti desideri
o ti voglia avere,
o in sogno, volando, baci
il sogno di vederti.
Vuole solo nostalgia di te;
ama il ricordarti, e non
l'ombra della verità
o il corpo dell'illusione.