martedì 25 ottobre 2011

gioco e serietà del Tao

Dei giochi e della serietà

Figlia. Papà. queste conversazioni sono serie?
Padre. Certo che lo sono.
F.       Non sono una specie di gioco che tu fai con me?
P.       Dio non voglia.., sono però una specie di gioco che noi facciamo insieme.
F.       Allora non sono serie!

P.       E se tu mi dicessi che cosa significano per te ‘serio’ e ‘gioco’?
F.       Be’... se tu... non lo so.
P.       Se io che cosa?
F.       Cioè... le conversazioni Sono serie per me, ma se tu stai solo giocando...
P.       Piano, piano. Guardiamo che cosa c’è di buono e che cosa c’è di male nel ‘giocare’ e nei ‘giochi’. In primo luogo non m’interessa - non molto - vincere o perdere. Quando le tue domande mi mettono con le spalle al muro, allora certo mi sforzo un po’ di più per pensare bene e vedere con chiarezza quello che voglio dire. Ma non baro e non ti preparo trappole; non c’è alcuna ten­tazione d’imbrogliare.
F.       Ecco, è proprio così. Per te non è una cosa seria: è un gioco. Quelli che imbrogliano, semplicemente non san­no cosa vuoi dire ‘giocare’; trattano un gioco come se fosse una cosa seria.
P.       Ma è una cosa seria.
F.       No, non lo è... per te non lo è.
P.       Perché non voglio imbrogliare?
F.       Sì... anche per quello.
P.       Ma tu vuoi imbrogliare continuamente?
F.       No, naturalmente no.
P.       Allora?
F.       Oh, papà, non capirai mai.
P.       Credo proprio di no.

P.       Guarda, ho segnato una specie di punto a mio favore proprio adesso, quando ti ho fatto ammettere che tu non vuoi imbrogliare... e poi ho concluso che dunque le conversazioni non sono ‘serie’ neppure per te. Ti sembra una specie d’imbroglio?
F.       Sì... una specie.
P.       D’accordo... lo credo anch’io. Scusami.
F.    Vedi, papà... se io imbrogliassi o volessi imbrogliare, vorrebbe dire che non prenderei sul serio le cose di cui stiamo parlando. Vorrebbe dire che io starei solo fa­cendo un gioco con te.
P.       Sì, questo è ragionevole.

F.       Ma no, non è ragionevole, papà. È un terribile pastic­cio.
P.       SI... un pasticcio... ma che funziona.
F.       Ma come, papà?
P.    Aspetta un momento. È difficile dirlo. Prima di tutto... penso che queste conversazioni ci facciano fare qualche progresso. A me piacciono molto e credo che piacciano anche a te. E poi, a parte questo, credo che si rie­sca a sistemare qualche idea e credo che i pasticci ser­vano. Cioè... se tutti e due parlassimo sempre in modo coerente, non faremmo mai alcun progresso; non fa­remmo che ripetere come pappagalli i vecchi clichés che tutti hanno ripetuto per secoli.
F.       Che cos’è un cliché, papà?
P.      Un cliché? È una parola francese, credo che in origine fosse un termine tipografico. Quando si stampa una frase, si devono prendere le lettere separatamente e metterle una per una in una specie di sbarra scanala­ta per comporre la frase. Ma per parole e frasi che la gente usa spesso, il tipografo tiene piccole sbarre di lettere già bell’e pronte. E queste frasi già fatte si chia­mano clichés.
F.       Ma adesso ho dimenticato quello che stavi dicendo dei clichés, papà.
P.       Si... parlavo dei pasticci in cui ci cacciamo durante queste conversazioni e dicevo che cacciarsi nei pasticci, in un certo modo, è una cosa sensata. Se non ci caccias­simo nei pasticci, i nostri discorsi sarebbero come gio­care a ramino senza prima mescolare le carte.
F.       Sì, papà... ma quelle cose... le sbarre di lettere già pron­te?
P.       I clichés? Sì... è la stessa cosa. Tutti noi abbiamo un bel po di frasi e di idee beli’e pronte, e il tipografo ha sbarre di lettere bell’e pronte, tutte ben sistemate in frasi. Ma se il tipografo vuole stampare qualcosa di nuovo, per esempio una cosa in una lingua straniera, dovrà disfare tutte quelle vecchie disposizioni di let­tere. Allo stesso modo, per pensare idee nuove e dire cose nuove, dobbiamo disfare tutte le idee già pronte e mescolare i pezzi.
F.       Ma, papà, il tipografo non mescolerà tutte le lettere, no? Non le mescolerà tutte in un sacco per poi scuo­terle. Le metterà una per una ai loro posti... tutte le
a in una scatola, tutte le b in un’altra, e tutte le vir­gole in un’altra, e così via.
P.       Si, è vero. Altrimenti diventerebbe matto a cercare una a quando ne ha bisogno.

P.       A che cosa stai pensando?
F.       No... è che ci sono tante di quelle domande.
P.       Per esempio?
F.       Be’, capisco che cosa vuoi dire a proposito di cacciarci nei pasticci, che questo ci fa dire cose di tipo nuovo. Ma sto pensando al tipografo. Lui deve tenere tutte le sue lettere in ordine anche se disfa tutte le frasi bell’e fatte. E poi penso ai nostri pasticci: dobbiamo tenere i pezzetti dei nostri pensieri in ordine, ma come?.., per non diventare matti?
P.       Penso di sì... sì... ma non so quale tipo di ordine. Que­sta è una domanda veramente difficile. Non credo che riusciremmo a ottenere oggi una risposta a questa do­manda.

P.       Hai detto che c’erano “tante di quelle domande”. Ne hai qualche altra?
F.       Sì... sui giochi e le cose serie. Siamo partiti da lì e poi non so come o perché questo ci ha portati a parlare dei pasticci. Tu confondi sempre ogni cosa.., è una specie d’imbroglio.
P.       Ma no, assolutamente no.

P.       Tu hai sollevato due problemi. Ma in realtà ce n’è ancora un sacco... Abbiamo cominciato da una doman­da su queste conversazioni: sono serie? Oppure sono una specie di gioco? E ti sentivi offesa dall’idea che io potessi farne un gioco, mentre tu le prendevi sul se­rio. È come se una conversazione fosse un gioco se una persona vi partecipasse con certe emozioni o idee, ma
non fosse un gioco se le sue idee o emozioni fossero diverse.
F.       SI, è che se le tue idee sulla conversazione sono diverse dalle mie...
P.       Se tutti e due avessimo l’idea di giocare, andrebbe be­ne?
F.       Sì... certo.
P.       Allora sembra che dipenda da me chiarire che cosa in­tendo con l’idea di gioco. Io so di essere serio (qualun­que ne sia il significato) nelle cose di cui parliamo. Noi parliamo di idee. E io so di giocare con le idee allo scopo di comprenderle e metterle insieme. È un ‘diver­timento’ nello stesso senso in cui un bambino si ‘di­verte’ coi cubi... E un bambino con i cubi per lo più si comporta in maniera molto seria col suo ‘diverti­mento’.
F.       Ma, papà, è un gioco nel senso che tu giochi contro di me?
P.       No. La mia idea è che tu e io stiamo giocando insieme contro i cubi - le idee. A volte siamo un tantino in competizione, ma in competizione su chi dei due rie­sce a sistemare l’idea successiva. E talvolta uno di noi aggredisce il pezzettino di costruzione dell’altro, op­pure io cerco di difendere le idee che ho costruito dalle tue critiche. Ma alla fin fine lavoriamo sempre insieme per tirar su le idee in modo che si reggano in piedi.

F.       Papà, i nostri discorsi hanno regole? La differenza tra un gioco e il divertirsi puro e semplice è che il gioco
ha delle regole.
P.       Sì. Lasciami pensare. Credo che abbiamo certe regole... e credo che un bambino che gioca coi cubi abbia anche lui le sue regole: I cubi stessi costituiscono una specie di regola. In certe posizioni stanno su e in altre posi­zioni non stanno su. E sarebbe una specie d’imbroglio se il bambino usasse la colla per far star su i cubi in certe posizioni in cui altrimenti cadrebbero.
F.       Ma che regole abbiamo noi?
P.       Re’, le idee con cui giochiamo comportano certe rego­le. Vi sono regole su come le idee si possono reggere e sostenere a vicenda. E se sono messe insieme in modo sbagliato, tutta la costruzione crollerà.
F.       Niente colla, papà?
P.       No... niente colla. Soltanto logica.

F.       Ma tu hai detto che se parlassimo sempre in modo lo­gico e non incappassimo in pasticci, non potremmo di­re mai niente di nuovo. Potremmo dir solo cose bel-l’e fatte. Come le hai chiamate quelle cose?
P.       Clichés. Si. La colla è ciò che tiene insieme i clichés.
F.       Ma tu hai detto ‘logica’, papà.
P.       Sì, lo so. Siamo di nuovo in un pasticcio. Solo che non vedo come faremo a uscire, da questo pasticcio.

F.       Come ci siamo capitati, papà?
P.       Giusto, vediamo se riusciamo a ricostruire i nostri pas­si. Stavamo parlando delle ‘regole’ di queste conversa­zioni. E io ho detto che le idee con cui giochiamo han­no regole di logica...
F.       Papà! Non sarebbe meglio avere un po’ più di regole e seguirle più attentamente? Così non potremmo fini­re in questi terribili pasticci.
P.       Sì, ma aspetta. Tu vuoi dire che io porto la conversa­zione in questi pasticci perché non rispetto certe rego­le che non abbiamo. Oppure, diciamo così: che potremmo farci delle regole che c’impedirebbero di finire nei pasticci — se noi le rispettassimo.
F.       SI, papà, le regole di un gioco servono proprio a que­sto.
P.       Sì, ma tu vuoi che queste conversazioni diventino un gioco di quel tipo? Io preferirei giocare a canasta, che è anche divertente.
F.       SI, è vero. Possiamo giocare a canasta ogni volta che ne abbiamo voglia. Ma adesso preferirei giocare a que­sto gioco. Solo che non so che tipo di gioco sia. E nep­pure che tipo di regole abbia.
P.       Eppure è già da un po’ che stiamo giocando.
F.       SI, ed è stato divertente.
P.       Vero.
P.       Torniamo alla domanda che hai fatto, e io ho detto che era troppo difficile per potervi rispondere oggi. Stavamo parlando del tipografo che disfà i suoi cli­chés, e tu hai detto che deve lo stesso mantenere qual­che ordine tra le sue lettere, per non diventare matto. E poi hai chiesto: che razza di ordine dovremmo mantenere per non diventare matti quando finiamo in un pasticcio? A me sembra che le regole del gio­co siano solo un nome diverso per quel tipo di ordine.
F.       Sì... e l’imbrogliare è ciò che ci caccia nei pasticci.
P.       In un certo senso sì. È vero. Solo che tutto il sugo del gioco è che noi finiamo nei pasticci, e poi ne veniamo fuori dall’altra parte, e se non ci fossero pasticci il no­stro ‘gioco’ sarebbe come la canasta o gli scacchi... e noi non vogliamo che sia così.
F.       Papà, ma sei tu che fai le regole?
P.       Questo, figlia mia, è un tiro mancino. E probabilmen­te anche disonesto. Ma lo accetto per quello che è. Sì, sono io che faccio le regole... dopo tutto non voglio che diventiamo matti.
F.       D’accordo. Ma, papà, tu cambi anche le regole? Qual­che volta?
P.       Uhm, un altro tiro mancino. Sì, figliola mia, le cam­bio continuamente. Ma non tutte, solo qualcuna.
F.       Mi piacerebbe che tu mi dicessi quando stai per cam­biarle!
P.       Uhm... sì... già. Vorrei poterlo fare. Ma non è così sem­plice. Se si trattasse degli scacchi o della canasta, po­trei dirti le regole, e volendo potremmo smettere di giocare e metterci a discutere le regole. E potrem­mo poi cominciare una nuova partita con le nuove regole. Ma a quali regole dovremmo obbedire tra le due partite? Proprio mentre stiamo discutendo le regole?
F.       Non capisco.
P.       Sì, il fatto è che lo scopo di queste conversazioni è quello di scoprire le ‘regole’. È come la vita: un gio­co il cui scopo è di scoprire le regole, regole che cam­biano sempre e non si possono mai scoprire.
F.       Ma quello io non lo chiamo un gioco, papà.
P.       Forse no. Io però lo chiamerei un gioco, o comunque un ‘giocare’. Ma certo non è come gli scacchi o la ca­nasta; è più simile a quello che fanno i gattini o i cuccioli. Forse. Non lo so.

F.       Papà, perché i gattini e i cuccioli giocano?
P.       Non lo so... non lo so...

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