Watzlawick Beavin e Jackson concludono Pragmatics con un ultimo capitolo intitolato "Esistenzialismo e Teoria della Comunicazione Umana", dove esplorano i limiti ultimi di una teoria dell'interazione e della comunicazione quale il loro modello sistemico-relazionale.
1.
L’uomo non può andare oltre i limiti stabiliti dalla sua mente; soggetto e oggetto alla fine sono identici, la mente studia se stessa, e ogni asserzione che si faccia sull’uomo, considerato nel suo nesso esistenziale, tende ad incorrere nello stesso fenomeno di riflessività che genera il paradosso.
2.
Nella biologia moderna sarebbe impensabile studiare anche l’organismo più primitivo isolandolo artificialmente dal suo ambiente. Come la Teoria Generale dei Sistemi postula in modo specifico, gli organismi sono sistemi aperti che mantengono il loro stato stazionario (stabilità) e magari si evolvono verso stati di complessità più elevata mediante uno scambio costante sia di energia che di informazione con il loro ambiente. Comunicazione ed esistenza sono quindi concetti inseparabili. Le reazioni dell’organismo a loro volta influenzano l’ambiente; è chiaro che anche a livelli di vita molto primitivi hanno luogo interazioni complesse e continue che non sono mai casuali e che sono quindi governate da un programma o, per usare un termine esistenzialista, da un significato.
L’esistenza è una funzione della relazione tra l’organismo e il suo ambiente.
3.
La vita è un partner che accettiamo o respingiamo, e da cui ci sentiamo accettati o respinti, sostenuti o traditi. A questa partner esistenziale, forse come al partner umano, l’uomo propone la sua definizione di sé che trova poi, dunque, confermata o disconfermata; e da tale partner l’uomo si sforza di ricevere dei segni sulla “vera” natura della loro relazione.
4.
Esistono due tipi di conoscenza: la conoscenza delle cose e la conoscenza sulle cose. La prima è la consapevolezza che ci viene trasmessa dai sensi. E’ il tipo di conoscenza che ha il cane di I. Pavlov quando percepisce il cerchio o l’ellisse. Ma durante gli esperimenti il cane impara anche qualcosa sulle due figure geometriche, vale a dire che in qualche modo indicano rispettivamente il piacere e il dolore e che quindi hanno un significato per la sua sopravvivenza. Se, dunque, la consapevolezza dei sensi si può definire conoscenza di primo ordine, questo secondo tipo di conoscenza (su un oggetto) e conoscenza di secondo ordine; è conoscenza sulla conoscenza di primo ordine e quindi metaconoscenza. Una volta che il cane ha capito il significato del cerchio e dell’ellisse per la sua sopravvivenza, egli si comporterà come se avesse concluso: “Questo è un mondo in cui io sto al sicuro finché riesco a differenziare tra il cerchio e l’ellisse”. Una conclusione simile, però, non sarebbe più di secondo ordine; sarebbe una conoscenza a cui si è giunti grazie a una conoscenza di secondo ordine: sarebbe quindi una conoscenza di terzo ordine. In sostanza è lo stesso processo mediante il quale l’uomo acquisisce la conoscenza e attribuisce livelli di significato all’ambiente e alla realtà.
L’uomo non smette mai di cercare di conoscere gli oggetti della sua esperienza, di capire che significato hanno per la sua esistenza e di reagire ad essi a seconda di quello che capisce. Infine, dalla somma totale dei significati che ha dedotto dai contatti con numerosi oggetti singoli del suo ambiente si sviluppa una visione unitaria del mondo in cui si trova “gettato”, e questa visione è di terzo ordine.
4.1
Concetti equivalenti o analoghi alle premesse di terzo ordine sono stati formulati da altri studiosi delle scienza comportamentistiche. Questa branca della teoria dell’apprendimento postula che insieme con l’acquisizione della conoscenza o di una certa destrezza si verifica anche un processo che rende l’acquisizione stessa progressivamente più facile. In altre parole, uno non si limita ad imparare, ma impara ad imparare. Per questo tipo di ordine più elevato di apprendimento, G. Bateson ha coniato il termine “deutero-apprendimento”. G. A. Miller, E. Galanter e K. H. Pribram nel loro “Plans and the Structure of Behavior” hanno proposto che il comportamento intenzionale è guidato da un progetto, così come un calcolatore è guidato da un programma.
5.
L’uomo ha una capacità quasi incredibile di adattarsi ai cambiamenti al secondo livello, ma sembra che la resistenza umana sia possibile finché restano intatte le premesse di terzo ordine sulla sua esistenza e il significato del mondo in cui vive.
L’uomo non può sopravvivere psicologicamente in un universo che le sue premesse di terzo ordine non riescono a spiegare, in un universo che per lui è assurdo. E’ proprio questo il risultato disastroso del doppio legame; ma c’è la possibilità che si abbia lo stesso risultato anche in circostanze (e attraverso sviluppi) che sfuggono completamente al controllo e alle intenzioni dell’uomo.
Dovunque questo tema si presenti, implica il problema del significato, e qui il significato va inteso non nella sua connotazione semantica ma esistenziale. L’assenza di significato è l’orrore del nulla esistenziale. E’ la soggettività in cui la realtà si è allontanata o è completamente scomparsa, e con essa ogni consapevolezza del sé e degli altri.
Che la vita abbia perso il suo significato (o ne sia priva) è forse il denominatore comune di tutte le forme di angoscia.
La definizione più esatta dell’angoscia esistenziale si trova nella discrepanza dolorosa tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, tra le proprie percezioni e le proprie premesse di terzo ordine.
6.
Se l’uomo vuole cambiare le sue premesse di terzo ordine, il che ci sembra una funzione essenziale della psicoterapia, egli può farlo soltanto da un livello quarto.
Si dubita che la mente umana possa essere in grado di affrontare livelli di astrazione più elevati senza l’aiuto del simbolismo matematico o dei calcolatori.
Il livello quarto sembra assai vicino ai limiti della mente umana e a questo livello è raro che la consapevolezza sia presente, ammesso che si tratti di consapevolezza. Ci sembra che questa sia la zona dell’intuizione e dell’empatia, forse della consapevolezza immediata che danno l’LSD o allucinogeni di questo tipo, ed è la zona dove si verifica il cambiamento terapeutico, cambiamento di cui, dopo una terapia riuscita, non si è in grado di dire come e perché è avvenuto e in che cosa consiste veramente.
Soltanto da questo livello si può vedere che la realtà è costituita dall’esperienza soggettiva che ci facciamo dell’esistenza, dalle nostre intenzioni e dai nostri scopi.
6.1
Nella teoria della dimostrazione, il termine “procedura di decisione” si riferisce ai metodi per trovare dimostrazioni di verità o di falsità di un’asserzione fatta all’interno di un dato sistema formalizzato. Il termine correlato “problema di decisione” si riferisce al problema che si pone per stabilire se esiste o no una procedura del tipo che abbiamo appena descritto. Di conseguenza, ai problemi di decisione ci si riferisce o come a problemi computabili o come a problemi irrisolvibili.
C’è però una terza possibilità. Soluzioni ben definite (positive o negative) di un problema di decisione sono possibili soltanto dove il problema in questione si trova entro il dominio (l’area di applicabilità) di una particolare procedura di decisione. Se tale procedura di decisione viene applicata a un problema fuori dal suo dominio, il calcolatore continuerà all’infinito senza mai dimostrare che non potrà dare una soluzione (positiva o negativa). E’ a questo punto che incontriamo ancora il concetto di indecidibilità.
6.2
Questo concetto è il punto centrale del lavoro di K. Gödel che tratta delle proposizioni formalmente indecidibili.
K. Gödel ha dimostrato che in questo sistema o in uno equivalente è possibile costruire una formula, G, che a.) è dimostrabile partendo dalle premesse e dagli assiomi del sistema, ma che b.) dice di se stessa che non è dimostrabile. Ciò significa che se G è dimostrabile nel sistema, è dimostrabile anche la sua indimostrabilità.
Ma se sia la dimostrabilità che la indimostrabilità si possono dedurre dagli assiomi del sistema, e gli assiomi stessi sono coerenti, allora G è indecidibile nei termini del sistema. Questo teorema dimostra una volta per tutte che ogni sistema formale (matematico, simbolico, etc.) è necessariamente incompleto e che, inoltre, la coerenza di un sistema simile può essere dimostrata soltanto ricorrendo a metodi di dimostrazione più generali di quelli che il sistema stesso può produrre.
6.3
Il lavoro di K. Gödel costituisce l’analogia matematica di ciò che vorremmo chiamare il “paradosso ultimo dell’esistenza umana”. L’uomo, in definitiva, è soggetto e oggetto della sua ricerca, che egli compie per capire il significato della sua esistenza: è un tentativo di formalizzazione.
Ma dieci anni prima che K. Gödel presentasse il suo brillante teorema, un’altra grande mente del nostro secolo aveva già formulato questo paradosso in termini filosofici: alludiamo a Wittgenstein e al suo “Tractatus Logico-Philosophicus”, dove mostra che potremmo sapere qualcosa sul mondo nella sua totalità soltanto se potessimo uscire fuori da esso; ma se ciò fosse possibile, questo mondo non sarebbe più tutto il mondo.
Tuttavia la nostra logica non conosce nessuna cosa che sia fuori di esso:
Il mondo, dunque, è limitato e al tempo stesso senza limiti, senza limiti proprio perché non c’è nulla fuori e non c’è nulla dentro che possa costituire un confine. Ma se è così ne consegue che “mondo e vita sono una cosa sola. Io sono il mio mondo”. Soggetto e mondo non sono più, dunque, entità la cui funzione relazionale è in qualche modo governata dall’ausiliare “avere” (uno ha l’altro, lo contiene o gli appartiene) ma dal verbo essenziale essere: “Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo” .
Tuttavia la nostra logica non conosce nessuna cosa che sia fuori di esso:
5.61 La logica riempie il mondo; i limiti del mondo sono anche i suoi limiti.
Non possiamo dunque dire nella logica: Questo e quest'altro v'è nel mondo, quello no.
Ciò parrebbe infatti presupporre che noi escludiamo certe possibilità, e questo non può essere, poiché altrimenti la logica dovrebbe trascendere i limiti del mondo; solo così potrebbe considerare questi limiti anche dall'altro lato.
Ciò, che non possiamo pensare, non possiamo pensare; né dunque possiamo dire ciò che non possiamo pensare.
Il mondo, dunque, è limitato e al tempo stesso senza limiti, senza limiti proprio perché non c’è nulla fuori e non c’è nulla dentro che possa costituire un confine. Ma se è così ne consegue che “mondo e vita sono una cosa sola. Io sono il mio mondo”. Soggetto e mondo non sono più, dunque, entità la cui funzione relazionale è in qualche modo governata dall’ausiliare “avere” (uno ha l’altro, lo contiene o gli appartiene) ma dal verbo essenziale essere: “Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo” .
Non c’è nulla dentro uno schema, o anche chiedere, qualcosa su quello schema. La soluzione, dunque, non sta nel trovare una risposta all’enigma dell’esistenza, ma nel prendere atto che non c’è nessun enigma.
6.5 D'una risposta che non si può formulare non può formularsi neppure la domanda.
L'enigma non v'è.
Se una domanda può porsi, può pure aver risposta.
6.52 Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.
6.521 La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso.
(Non è forse per questo che uomini, cui il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire in che consisteva questo senso?)
6.522 V'è davvero dell'ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico.
7. Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.