mercoledì 13 marzo 2013

miti, sogni, misteri del Tao


1.
Che cos'è propriamente un «mito»? Nel linguaggio corrente del secolo Diciannovesimo «mito» significava tutto ciò che si oppone alla «realtà»: la creazione di Adamo o l'«uomo mascherato», come la storia del mondo raccontata dagli Zulù o la "Teogonia" di Esiodo, erano «miti». Come molti altri cliché dell'illuminismo e del positivismo, anche questo aveva struttura e origine cristiane: infatti, per il cristianesimo primitivo tutto quello che non trovava giustificazione nell'uno o nell'altro dei due Testamenti era falso: era una «favola».

Ma le ricerche degli etnologi ci hanno costretto a ritornare su questa eredità semantica, sopravvivenza della polemica cristiana contro il mondo pagano. Si comincia finalmente a conoscere e a comprendere il valore del mito elaborato dalle società «primitive» e arcaiche, cioè dai gruppi umani in cui il mito costituisce il fondamento stesso della vita sociale e della cultura. E un fatto ci colpisce subito: tali società ritengono che il mito esprima la VERITA' ASSOLUTA perché racconta una STORIA SACRA, cioè una rivelazione transumana che è avvenuta all'alba del Grande Tempo, nel tempo sacro degli inizi ("in illo tempore"). Essendo REALE e SACRO, il mito diventa esemplare, e di conseguenza ripetibile, poiché serve da modello e anche da giustificazione a tutti gli atti umani. In altri termini, un mito è una STORIA VERA che è avvenuta agli inizi del tempo e che serve da modello ai comportamenti degli uomini. IMITANDO gli atti esemplari di un dio o di un eroe mitico, o semplicemente RACCONTANDO le loro avventure, l'uomo delle società arcaiche si stacca dal tempo profano e si ricongiunge magicamente al Grande Tempo, al tempo sacro.

Come si vede, si tratta di un capovolgimento totale dei valori: mentre il linguaggio corrente confonde il mito con le «favole», l'uomo delle società tradizionali vi scopre, al contrario, LA SOLA RIVELAZIONE VALIDA DELLA REALTA'. Non si è tardato a tirare le conclusioni da questa scoperta. Evitando di insistere nel dire che il mito racconta cose impossibili o improbabili, ci si è limitati a dire che esso costituisce un modo di pensare diverso dal nostro, in ogni caso da non considerare - "a priori" - come aberrante. Si è poi tentato di integrare il mito nella storia generale del pensiero, considerandolo come la forma per eccellenza del pensiero collettivo. Ma poiché il «pensiero collettivo» non È mai completamente abolito in una società, qualunque ne sia il grado di evoluzione, non si è mancato di osservare che il mondo moderno conserva ancora un certo comportamento mitico: per esempio, la partecipazione di tutta una società a certi simboli è stata interpretata come una sopravvivenza del «pensiero collettivo»

Non era difficile dimostrare che la funzione di una bandiera nazionale, con tutte le esperienze affettive che implica, non differisce affatto dalla «partecipazione» a un qualsiasi simbolo nelle società arcaiche. E questo equivale a dire che, A LIVELLO DI VITA SOCIALE, non esiste soluzione di continuità tra il mondo arcaico e il mondo moderno. La sola grande differenza era data dalla presenza, nella maggior parte degli individui che costituiscono le società moderne, di un pensiero personale, assente o quasi nei membri delle società tradizionali.

Non è il caso di esporre considerazioni generali sul «pensiero collettivo». Il nostro problema è più modesto: se il mito non è una creazione puerile e aberrante dell'umanità «primitiva», ma è invece l'espressione di un MODO D'ESSERE NEL MONDO, che cosa sono diventati i miti nelle società moderne? O meglio: che cosa ha occupato il posto ESSENZIALE che il mito aveva nelle società tradizionali? Infatti, certe «partecipazioni» ai miti e ai simboli collettivi sopravvivono ancora nel mondo moderno, ma sono ben lungi dall'assolvere la funzione centrale che il mito ha nelle società tradizionali: in confronto a queste, il mondo moderno sembra sprovvisto di miti. Si è anche sostenuto che le inquietudini e le crisi delle società moderne si spiegano proprio con l'assenza di un loro mito peculiare. Intitolando uno dei suoi libri "L'uomo alla scoperta della propria anima", Jung sottintende che il mondo moderno - in crisi a partire dalla rottura in profondità con il cristianesimo - è alla ricerca di un nuovo mito che gli permetta di ritrovare una nuova fonte spirituale e gli restituisca le forze creatrici. Infatti, almeno apparentemente, il mondo moderno non è ricco di miti.

Si è parlato, per esempio, dello sciopero generale come di uno dei rari miti creati dall'Occidente moderno. Ma si tratta di un malinteso: si credeva che un'IDEA accessibile a un numero considerevole d'individui, e quindi «popolare», potesse diventare un MITO per il semplice fatto che la sua realizzazione storica è proiettata in un avvenire più o meno lontano. Ma non così si «creano» i miti. Lo sciopero generale può essere uno strumento per la lotta politica, ma manca di precedenti mitici, e questo basta per escluderlo da ogni mitologia.

Ben diverso è il caso del comunismo marxista. Lasciamo da parte la validità filosofica del marxismo e il suo destino storico; fermiamoci invece alla struttura mitica del comunismo e al senso escatologico del suo successo popolare. Qualunque cosa si pensi delle velleità scientifiche di Marx, è evidente che l'autore del "Manifesto dei comunisti" riprende e prolunga uno dei grandi miti escatologici del mondo asiatico-mediterraneo, cioè la funzione redentrice del giusto (l'«eletto», l'«unto», l'«innocente», il «messaggero», oggi, il proletariato), le cui sofferenze hanno la missione di cambiare lo stato ontologico del mondo. Infatti la società senza classi di Marx, e la conseguente scomparsa delle tensioni storiche, trovano il loro più esatto precedente nel mito dell'Età dell'Oro, che secondo molte tradizioni caratterizza l'inizio e la fine della storia. Marx ha arricchito questo mito venerabile di tutta un'ideologia  messianica giudeo-cristiana: da una parte, il ruolo profetico e la funzione soteriologica che egli attribuisce al proletariato; dall'altra, la lotta finale tra il Bene e il Male, che si può facilmente accostare al conflitto apocalittico tra Cristo e Anticristo, seguito dalla vittoria decisiva del primo. E' anche significativo che Marx riprenda a suo modo la speranza escatologica giudeo-cristiana di UNA FINE ASSOLUTA DELLA STORIA; si separa in questo dagli altri filosofi storicisti (per esempio, Croce e Ortega y Gasset), per i quali le tensioni della storia sono consustanziali alla condizione umana e quindi non possono mai essere
completamente abolite.

Paragonata alla grandezza e al vigoroso ottimismo del mito comunista, la mitologia adottata dal nazionalsocialismo appare stranamente maldestra: non soltanto a causa delle limitazioni stesse del mito razzista (come si poteva immaginare che il resto dell'Europa accettasse volontariamente di sottomettersi al "Herrenvolk"?), ma soprattutto grazie al pessimismo fondamentale della mitologia germanica. Nel suo tentativo di abolire i valori cristiani e ritrovare le fonti spirituali della «razza», cioè del paganesimo nordico, il nazionalsocialismo ha dovuto necessariamente sforzarsi di rianimare la mitologia germanica. Nella prospettiva della psicologia del profondo, simile tentativo equivaleva esattamente a un invito al suicidio collettivo: infatti l'"eschaton" annunciato e atteso dagli antichi Germani È il "ragnarøkkr", cioè una «fine del mondo» catastrofica che include un combattimento gigantesco tra gli dèi e i demoni e che termina con la morte di tutti gli dèi e di tutti gli eroi e con la regressione del mondo nel caos. E' vero che dopo il "ragnarøkkr" il mondo rinascerà rigenerato (infatti, anche gli antichi Germani conoscevano la dottrina dei cicli cosmici, il mito della creazione e della distruzione periodica del mondo), tuttavia sostituire al cristianesimo la mitologia nordica significava sostituire un'escatologia ricca di promesse e di consolazioni (per il cristiano, la «fine del mondo» completa la storia e la rigenera contemporaneamente) con un "eschaton" decisamente pessimistico.

Tradotta in termini politici, questa sostituzione significava all'incirca: rinunciate alle vecchie storie giudeo-cristiane e risuscitate dal fondo delle vostre anime la credenza dei vostri antenati, i Germani; poi, preparatevi per la grande battaglia finale fra i nostri dèi e le forze demoniache; in questa battaglia apocalittica, i nostri dèi e i nostri eroi - e noi con loro - perderanno la vita, e questo sarà il "ragnarøkkr", ma poi un mondo nuovo nascerà. Ci si domanda come una visione così pessimistica della fine della storia abbia potuto infiammare l'immaginazione di almeno una parte del popolo tedesco; tuttavia il fenomeno esiste e pone tuttora problemi agli psicologi.

2.
Al di fuori di questi due miti politici, non sembra che le società moderne ne abbiano conosciuti altri di analoga ampiezza. Pensiamo al mito come COMPORTAMENTO UMANO e contemporaneamente come ELEMENTO DI CIVILTA', cioè come lo si ritrova nelle società tradizionali. Infatti, a livello dell'ESPERIENZA INDIVIDUALE, il mito non è mai completamente scomparso: è vivo nei sogni, nelle fantasie e nelle nostalgie dell'uomo moderno; e l'enorme letteratura psicologica ci ha abituati a ritrovare la grande e la piccola mitologia nell'attività inconscia e semiconscia di ogni individuo. Ma ci interessa soprattutto sapere ciò che, nel mondo moderno, ha preso il posto CENTRALE di cui gode il mito nelle società tradizionali. In altri termini, e pur riconoscendo che i grandi temi mitici continuano a ripetersi nelle zone oscure della psiche, ci si può domandare se il mito in quanto modello esemplare del comportamento umano non sopravviva anche, sotto una forma più o meno degradata, presso i nostri contemporanei. Sembra che un mito, al pari dei simboli che ne nascono, non scompaia mai dall'attualità psichica: cambia soltanto aspetto e traveste le sue funzioni. Ma sarebbe istruttivo insistere nella ricerca e smascherare il travestimento dei miti a livello sociale.

Ecco un esempio. E' evidente che certe feste apparentemente profane del mondo moderno conservano ancora la loro struttura e le loro funzioni mitiche: i festeggiamenti di capodanno, o le feste per la nascita di un bambino, la costruzione di una casa o anche l'entrata in un nuovo appartamento, tradiscono la necessità oscuramente sentita di un INIZIO ASSOLUTO, di un "incipit vita nova", cioè di una rigenerazione totale. Nonostante la distanza fra questi festeggiamenti profani e il loro archetipo mitico - la ripetizione periodica della creazione -, è evidente che l'uomo moderno prova ancora il bisogno di riattualizzare periodicamente tali scenari, seppure desacralizzati.

Non è il caso di stabilire fino a che punto l'uomo moderno sia ancora conscio delle implicazioni mitologiche delle sue festività: interessa soltanto che tali festività abbiano ancora una risonanza, oscura ma profonda, in tutto il suo essere.

E' soltanto un esempio, ma ci può illuminare su una situazione che sembra generale: certi temi mitici sopravvivono ancora nelle società moderne, ma non sono facilmente riconoscibili poiché hanno subito un lungo processo di laicizzazione. Il fenomeno È noto da molto tempo: infatti le società moderne si definiscono tali proprio perché hanno esasperato la desacralizzazione della vita e del cosmo; la novità del mondo moderno si esprime nella rivalutazione a livello profano degli antichi valori sacri. Ma a noi interessa sapere se tutto ciò che sopravvive di «mitico» nel mondo moderno si presenta unicamente sotto forma di schemi e valori reinterpretati a livello profano. Se questo fenomeno si verificasse ovunque, si dovrebbe riconoscere che il mondo moderno si oppone radicalmente a tutte le forme storiche che l'hanno preceduto. Ma la presenza stessa del cristianesimo esclude tale ipotesi: il cristianesimo non accetta affatto l'orizzonte desacralizzato del cosmo e della vita, che è l'orizzonte caratteristico di ogni cultura «moderna».

Il problema non è semplice, ma poiché il mondo occidentale si richiama ancora e in gran parte al cristianesimo, non si può eluderlo. Non insisterò su quelli che venivano chiamati gli «elementi mitici» del cristianesimo. Checché ne sia di questi «elementi mitici», da molto tempo sono cristianizzati e, in ogni caso, l'importanza del cristianesimo deve essere giudicata in un'altra prospettiva. Ma ogni tanto si alzano voci che pretendono che il mondo moderno non sia più, o non sia ancora cristiano. Il nostro scopo ci dispensa dall'occuparci di quelli che ripongono le loro speranze nell'"Entmythologisierung", che pensano sia necessario «demitizzare» il cristianesimo per restituirgli la sua vera essenza. Alcuni pensano proprio il contrario.

Jung, per esempio, crede che la crisi del mondo moderno sia dovuta in gran parte al fatto che i simboli e i «miti» cristiani non sono più vissuti dall'essere umano totale, sono diventatisoltanto parole e gesti privi di vita, fossilizzati, esteriorizzati e, di conseguenza, senza nessuna utilità per la vita profonda della psiche.

Per noi il problema si pone in altri termini: in quale misura il cristianesimo prolunga, in società moderne desacralizzate e laicizzate, un orizzonte spirituale paragonabile all'orizzonte delle società arcaiche, che sono dominate dal mito? Diciamo subito che il cristianesimo non ha nulla da temere da un simile confronto: la sua specificità è assicurata perché risiede nella FEDE come categoria "sui generis" di esperienza religiosa, nonché nella valorizzazione della storia. Eccettuato il giudaismo, nessun'altra religione precristiana ha valorizzato la storia come manifestazione diretta e irreversibile di Dio nel mondo, né la fede - nel senso inaugurato da Abramo - come unico mezzo di salvezza. Di conseguenza, la polemica cristiana contro il mondo religioso pagano è storicamente sorpassata: il cristianesimo non rischia più di essere confuso con una religione o una gnosi qualunque. Detto ciò, e tenendo conto della scoperta recentissima che il mito rappresenta un certo modo d'essere nel mondo, non è meno vero che il cristianesimo, PER IL FATTO STESSO DI ESSERE UNA RELIGIONE, ha dovuto conservare almeno un comportamento mitico: il tempo liturgico, cioè il rifiuto del tempo profano e il ricupero periodico del Grande Tempo, dell'"illud tempus" degli «inizi».

Per il cristiano, Gesù Cristo non è un personaggio mitico ma, all'opposto, storico: la sua stessa grandezza trova il suo appoggio in questa storicità assoluta. Infatti il Cristo non soltanto si è fatto uomo, «uomo in generale», ma ha accettato la condizione storica del popolo in seno al quale ha scelto di nascere; non è ricorso a nessun miracolo per sottrarsi a questa storicità, anche se ha fatto parecchi miracoli per modificare la «situazione storica» degli ALTRI (guarendo il paralitico, risuscitando Lazzaro, eccetera). Tuttavia l'esperienza religiosa del cristiano si fonda sull'IMITAZIONE del Cristo come MODELLO ESEMPLARE, sulla RIPETIZIONE liturgica della vita, della morte e della risurrezione del Signore, nonché sulla CONTEMPORANEITA' del cristiano con l'"illud tempus" che si apre con la natività di Betlemme e si chiude provvisoriamente con l'ascensione. Sappiamo che l'imitazione di un modello transumano, la ripetizione di uno scenario esemplare e la rottura del tempo profano con una apertura che sfocia sul Grande Tempo costituiscono le note essenziali del «comportamento mitico», cioè dell'uomo delle società arcaiche, che trova nel mito la fonte stessa della sua esistenza. Si è sempre CONTEMPORANEI DI UN MITO, sia quando lo si narra sia quando si imitano i gesti dei personaggi mitici. Kierkegaard chiedeva ai veri cristiani di essere contemporanei del Cristo. Ma anche senza essere un «vero cristiano» nel senso di Kierkegaard, si è, NON SI PUO' NON ESSERE contemporanei del Cristo. Infatti il tempo liturgico, nel quale il cristiano VIVE durante il servizio religioso, non è più la durata profana, ma proprio il tempo sacro per eccellenza, il tempo in cui Dio si è fatto carne, l'"illud tempus" dei Vangeli. Un cristiano non assiste a una COMMEMORAZIONE della passione del Cristo, come assiste alla commemorazione annuale di un avvenimento storico. Non commemora un avvenimento, ma riattualizza un mistero. Per un cristiano, Gesù muore e risuscita davanti a lui, "hic et nunc". Grazie al mistero della passione o della risurrezione il cristiano abolisce il tempo profano ed è inserito nel tempo sacro primordiale.

Inutile insistere sulle differenze radicali che separano il cristianesimo dal mondo arcaico: sono troppo evidenti per provocare malintesi. Ma sussiste l'identità di comportamento che abbiamo appena ricordato. Per il cristiano, come per l'uomo delle società arcaiche, il tempo non È omogeneo: implica rotture periodiche che lo dividono in una «durata profana» e in un «tempo sacro», quest'ultimo è indefinitamente reversibile, cioè si ripete all'infinito senza cessare di essere il medesimo. Quando si afferma che il cristianesimo, a differenza delle religioni arcaiche, proclama e attende la fine del tempo, occorre fare una distinzione: l'affermazione è esatta se si riferisce alla «durata profana», alla storia, non più se si riferisce al tempo liturgico inaugurato dall'incarnazione; l'"illud tempus" cristologico non sarà abolito dalla fine della storia.

Queste poche e rapide considerazioni ci hanno mostrato in quale senso il cristianesimo prolunga nel mondo moderno un «comportamento mitico».

Se si tiene conto della vera natura e della funzione del mito, il cristianesimo non sembra aver superato il modo d'essere dell'uomo arcaico; non poteva farlo. "Homo naturaliter christianus". Resta ancora da sapere che cosa abbiano sostituito al mito quei moderni che hanno conservato del cristianesimo soltanto la lettera morta.

3.
Sembra improbabile che una società possa liberarsi completamente dal mito, perché fra le note essenziali al comportamento mitico - modello esemplare, ripetizione, rottura della durata profana e integrazione del tempo primordiale - almeno le prime due sono consustanziali a ogni condizione umana. Sicché non è difficile riconoscere in alcune istituzioni - per esempio quelle che i moderni chiamano istruzione, educazione, cultura didattica - la stessa funzione assolta dal mito nelle società arcaiche. Questo è vero non soltanto perché i miti rappresentano a un tempo la somma delle tradizioni ancestrali e le norme che non bisogna trasgredire, e perché la trasmissione - per lo più segreta, iniziatica - dei miti equivale all'«istruzione» più o meno ufficiale di una società moderna; ma anche perché l'omologazione delle rispettive funzioni del mito e dell'istruzione si verifica soprattutto se si tiene presente l'origine dei modelli esemplari proposti dall'educazione europea. Nell'antichità non vi era iato tra la mitologia e la storia: i personaggi storici si sforzavano di imitare i loro archetipi, gli dèi e gli eroi mitici. A loro volta, la vita e i gesti di quei personaggi storici diventavano paradigmi. Già Tito Livio presenta una ricca galleria di modelli per i giovani romani. Plutarco scrive poi le sue "Vite degli uomini illustri", vera somma esemplare per i secoli futuri. Le virtù morali e civiche di quegli illustri personaggi continuano a essere il modello supremo per la pedagogia europea, soprattutto dopo il Rinascimento.

Fin verso la fine del secolo Diciannovesimo l'educazione civica europea seguiva ancora gli archetipi dell'antichità classica, i modelli che si sono manifestati in "illo tempore", in quel lasso di tempo privilegiato che fu, per l'Europa letterata, l'apogeo della cultura greco-latina.

Non si era mai pensato di assimilare la funzione della mitologia a quella dell'istruzione perché si trascurava una delle note caratteristiche del mito: appunto quella che consiste nel creare modelli esemplari per un'intera società. Si riconosce d'altronde in ciò una tendenza che si può chiamare generalmente umana, cioè quella di trasformare un'esistenza in paradigma e un personaggio storico in archetipo. Questa tendenza sopravvive anche nei rappresentanti più in vista della mentalità moderna. Come ha ben compreso Gide, Goethe era pienamente conscio della sua missione di realizzare una vita esemplare per il resto dell'umanità. In tutto quello che faceva si sforzava di CREARE UN ESEMPIO. A sua volta imitava nella vita, se non la vita degli dèi e degli eroi mitici, almeno il loro comportamento. Paul Valéry scriveva nel 1932: «Egli ci offre l'esempio, "signori uomini", di uno dei migliori tentativi per renderci simili a dèi».

Ma l'imitazione dei modelli non passa unicamente attraverso la cultura scolastica. Assieme alla pedagogia ufficiale, e anche quando la sua autorità è svanita da tempo, l'uomo moderno subisce l'influenza di tutta una mitologia diffusa che gli propone molti modelli da imitare.

Gli eroi, immaginari o no, influiscono notevolmente sulla formazione degli adolescenti europei: tali sono i personaggi dei romanzi di avventura, gli eroi di guerra, i divi del cinema, eccetera. Questa mitologia si arricchisce con l'età: si scoprono via via i modelli esemplari lanciati dalle mode successive e ci si sforza di assomigliarvi. La critica ha spesso insistito sulle versioni moderne del dongiovanni, dell'eroe militare o politico, dell'innamorato sfortunato, del cinico o del nichilista, del poeta malinconico, e così via: tutti questi modelli prolungano una mitologia e la loro attualità È segno di un comportamento mitologico. L'imitazione degli archetipi tradisce un certo disgusto per la propria storia personale e la tendenza oscura a trascendere il proprio momento storico locale, provinciale, e a ricuperare un «Grande Tempo» qualunque, per esempio il tempo mitico della prima manifestazione surrealista oesistenzialista.

Un'analisi adeguata della mitologia diffusa dell'uomo moderno richiederebbe volumi. Infatti i miti e le immagini mitiche si ritrovano ovunque, laicizzati, degradati, travestiti: basta saperli riconoscere. Abbiamo accennato alla struttura mitologica dei festeggiamenti di capodanno o delle feste che salutano un «inizio», dove si intravede ancora la nostalgia della "renovatio", la speranza che IL MONDO SI RINNOVI, che si possa cominciare una nuova storia in un mondo rigenerato, cioè CREATO DI NUOVO. Si potrebbero moltiplicare facilmente gli esempi. Il mito del paradiso perduto sopravvive ancora nelle immagini dell'isola paradisiaca e del paesaggio edenico: territorio privilegiato in cui le leggi sono abolite, il tempo si arresta. Occorre sottolineare quest'ultima circostanza, perché è soprattutto ANALIZZANDO L'ATTEGGIAMENTO DEL MODERNO NEI CONFRONTI DEL TEMPO che SI PUO' SCOPRIRE IL TRAVESTIMENTO DEL SUO COMPORTAMENTO MITOLOGICO. Non bisogna perdere di vista che una delle funzioni essenziali del mito è proprio l'apertura verso il Grande Tempo, il ricupero periodico di un tempo primordiale. E questo si traduce nella tendenza a trascurare il tempo presente, ciò che viene chiamato il «momento storico».

Lanciati in una grandiosa avventura nautica, i Polinesiani si sforzano di negarne la «novità», il carattere d'avventura inedita, la disponibilità; per loro si tratta soltanto di una reiterazione del viaggio che un certo eroe mitico ha intrapreso "in illo tempore" per «mostrare il cammino agli uomini», per creare un esempio. Vivere l'avventura personale come la reiterazione di una saga mitica equivale a eludere il PRESENTE. Questa angoscia di fronte al tempo storico, accompagnata dal desiderio oscuro di partecipare a un tempo glorioso, primordiale, TOTALE, si traduce nei moderni in un tentativo talvolta disperato di spezzare l'omogeneità del tempo, per «uscire» dalla durata risuscitando un tempo qualitativamente diverso da quello che, consumandosi, la loro propria «storia» crea. E' in questo soprattutto che si riconosce meglio la funzione dei miti nel mondo moderno. Con mezzi molteplici, ma omologabili, l'uomo moderno si sforza di uscire dalla propria «storia» e di vivere un ritmo temporale qualitativamente diverso. è un modo inconsapevole di ricuperare il comportamento mitico.

Lo si capirà meglio osservando le due principali vie di «evasione» usate dal moderno: lo spettacolo e la lettura. Non insisteremo sui precedenti mitologici della maggior parte degli spettacoli; basta ricordare l'origine rituale della tauromachia, delle corse, degli incontri sportivi: tutti hanno in comune la caratteristica di svolgersi in un «tempo concentrato», di grande intensità, residuo o succedaneo del tempo magico-religioso. Il «tempo concentrato» è anche la dimensione specifica del teatro e del cinema. Anche non tenendo conto delle origini rituali e della struttura mitologica del dramma e del cinema, rimane il fatto importante che queste due specie di spettacolo utilizzano un tempo ben diverso dalla «durata profana», un ritmo temporale concentrato e spezzato a un tempo, che, al di fuori di ogni implicazione estetica, provoca una profonda risonanza nello spettatore.

4.
La lettura costituisce un problema più sfumato. Si tratta, da una parte, della struttura e dell'origine mitica della letteratura e, dall'altra, della funzione mitologica assolta dalla lettura nella coscienza di quelli che se ne nutrono. La continuità mito-leggenda- epopea-letteratura moderna è stata ripetutamente illustrata e ci dispensiamo dal soffermarvici. Ricordiamo semplicemente che gli archetipi mitici sopravvivono in un certo senso nei grandi romanzi moderni. Le prove che deve superare un personaggio di romanzo hanno il loro modello nelle avventure dell'eroe mitico. Si è potuto anche dimostrare come i temi mitici delle acque primordiali, dell'isola paradisiaca, della cerca del Santo Graal, dell'iniziazione eroica o mistica, eccetera, dominano ancora la letteratura europea moderna.

Molto recentemente il surrealismo ha dato uno sviluppo straordinario ai temi mitici e ai simboli primordiali. La struttura mitologica della letteratura d'appendice è evidente. Ogni romanzo popolare presenta la lotta esemplare tra il Bene e il Male, tra l'eroe e il malvagio (incarnazione moderna del demonio), e ritrova i grandi motivi folcloristici della fanciulla perseguitata, dell'amore salvatore, della protettrice sconosciuta, eccetera. Anche nel romanzo poliziesco, come ha mostrato ottimamente Roger Caillois, abbondano i temi mitologici.

Non è necessario ricordare che la poesia lirica riprende e prolunga il mito. Ogni poesia è uno sforzo per RICREARE il linguaggio, in altri termini per abolire il linguaggio corrente, di tutti i giorni, e per inventare un nuovo linguaggio, personale e privato, in ultima analisi SEGRETO. Ma la creazione poetica, proprio come la creazione linguistica, implica l'abolizione del tempo, della storia concentrata nel linguaggio, e tende verso il ricupero della situazione paradisiaca primordiale, quando SI CREAVA SPONTANEAMENTE, quando il PASSATO non esisteva perché non esisteva coscienza del tempo, memoria della durata temporale. Lo si dice d'altronde ancora oggi: per un grande poeta il passato non esiste; il poeta scopre il mondo come se assistesse alla cosmogonia, come se fosse contemporaneo del primo giorno della creazione. Da un certo punto di vista si può dire che ogni grande poeta RIFA' il mondo, perché si sforza di vederlo come se il tempo e la storia non esistessero: singolare richiamo al comportamento del «primitivo» e dell'uomo delle società tradizionali.

Ma c'interessa soprattutto la funzione mitologica della lettura, perché essa costituisce un fenomeno specifico del mondo moderno, sconosciuto alle altre civiltà. La lettura sostituisce non soltanto la letteratura orale - ancora viva nelle comunità rurali dell'Europa - ma anche la narrazione dei miti nelle società arcaiche. E la lettura, forse ancor più che lo spettacolo, riesce a provocare una rottura della durata e contemporaneamente una «uscita dal tempo». Quando legge un romanzo poliziesco per «ammazzare» il tempo o quando penetra in un universo temporale estraneo che un qualsiasi romanzo gli rappresenta, il lettore moderno è proiettato fuori dalla sua durata e inserito in altri ritmi, vive altre storie. La lettura costituisce una «via facile», nel senso che offre la possibilità di modificare con poco sforzo l'esperienza temporale; la lettura è la DISTRAZIONE per eccellenza del moderno, gli permette l'illusione di una PADRONANZA DEL TEMPO in cui possiamo supporre a buon diritto un segreto desiderio di sottrarsi al divenire implacabile che conduce alla morte.

La difesa dal Tempo che ogni comportamento mitologico ci rivela, ma che in effetti è consustanziale alla condizione umana, la ritroviamo travestita soprattutto nelle DISTRAZIONI, nei divertimenti dell'uomo moderno. Proprio in questi si misura la radicale differenza fra le culture moderne e il resto della civiltà. In ogni società tradizionale un qualsiasi gesto responsabile riproduceva un modello mitico, transumano, e, di conseguenza, si svolgeva in un tempo sacro. Il lavoro, i mestieri, la guerra, l'amore, erano cose sacre. Il rivivere ciò che gli dèi e gli eroi avevano vissuto "in illo tempore" si traduceva in una sacralizzazione dell'esistenza umana, che così completava la sacralizzazione del cosmo e della vita. Questa esistenza sacralizzata, aperta sul Grande Tempo, poteva essere molte volte faticosa, ma era altrettanto ricca di significato; in ogni caso, non era schiacciata dal tempo. La vera «caduta nel tempo» comincia con la desacralizzazione del lavoro; soltanto nelle società moderne l'uomo si sente prigioniero del proprio mestiere, perché non può più sfuggire al tempo. E poiché non può «uccidere» il tempo durante le ore del lavoro - cioè quando gode della sua vera identità sociale - si sforza di «uscire dal tempo» nelle ore libere: si spiega così il numero vertiginoso di DISTRAZIONI inventate dalle civiltà moderne. In altri termini, succede esattamente il contrario che nelle società tradizionali, in cui le «distrazioni» quasi non esistono perché l'«uscita dal tempo» si ottiene con ogni lavoro responsabile. Proprio per questa ragione, come abbiamo appena visto, la grande maggioranza degli individui che non partecipano a un'esperienza religiosa autentica rivelano il loro comportamento mitico, oltre che nell'attività inconscia della loro psiche (sogni, fantasie, nostalgie, eccetera), nelle loro distrazioni. In altre parole, la «caduta nel tempo» coincide con la desacralizzazione del lavoro e la meccanizzazione dell'esistenza che ne consegue; essa implica una perdita malamente mascherata della libertà; sicché la sola evasione possibile su scala collettiva resta la distrazione.

Queste poche osservazioni possono bastare. Il mondo moderno non ha completamente abolito il comportamento mitico, ne ha soltanto rovesciato il campo d'azione: il mito non è più dominante nei settori essenziali della vita, è stato «rimosso» sia nelle zone oscure della psiche, sia in attività secondarie o anche irresponsabili della società. Nonostante che il comportamento mitico si prolunghi, travestito, nella funzione assolta dall'educazione, questa interessa ormai quasi esclusivamente l'età giovanile; anzi, la funzione esemplare dell'istruzione sta per scomparire: la pedagogia moderna incoraggia la spontaneità. Al di fuori della vita religiosa autentica, il mito nutre soprattutto le distrazioni. Ma non scompare mai: su scala collettiva, si manifesta talvolta con una forza considerevole, sotto forma di mito
politico.

Nonostante tutto, la comprensione del mito sarà annoverata fra le più utili scoperte del secolo Ventesimo. L'uomo occidentale non è più il padrone del mondo: davanti a lui non vi sono più «indigeni», ma interlocutori. E' bene sapere come avviare il dialogo; è indispensabile riconoscere che non c'è più soluzione di continuità fra il mondo «primitivo» o «retrogrado» e l'Occidente moderno. Non basta più, come bastava mezzo secolo fa, scoprire e ammirare l'arte negra od oceaniana; bisogna riscoprire in noi stessi le fonti spirituali di quelle arti, bisogna prendere coscienza di ciò che ancora resta di «mitico» in un'esistenza moderna, e che rimane tale proprio perché anche questo comportamento stesso è consustanziale alla condizione umana in quanto esprime l'angoscia di fronte al tempo.

il sonno del Tao genera mostri

Francisco José de Goya y Lucientes, El sueño de la razón produce monstruos, 1797
Biblioteca Nacional de España, Madrid

martedì 12 marzo 2013

sottosistemi del Tao - I


L'analisi sistemica di Tart della coscienza e dei suoi stati analizza le caratteristiche e le connessioni dei sottosistemi utilizzati come criteri esperienziali per la sua descrizione: esterocezione, interocezione, processamento degli ingressi, memoria, subconscio, valutazione e processo decisionale, emozioni, senso del tempo e dello spazio, senso di identità e uscite motorie:

Subsystems

We began this discussion of the systems approach to consciousness by describing the concepts of attention/awareness, energy, and structure. We defined a structure as a basic unit that can be assembled into larger structures or be analyzed into substructures. At present, our scientific knowledge is generally too rudimentary to allow the breakdown of structures into their components. We can, however, describe the assembly of multiple structures into major experiential and experimental divisions — subsystems — of consciousness. Ten such subsystems are described in this chapter. They are convenient conceptual tools for understanding the currently known range of variations in d-ASCs. They do not refer to localized regions of the brain. They are concepts I have developed by classifying the greatly varying experiences and behaviors reported in d-ASCs into clusters of phenomena that seem to hold together, on the basis of both their own internal similarity and other known psychological data. In their present form, I find these subsystems a useful conceptual tool for organizing the otherwise chaotic masses of data about d-ASCs. I also believe that further thinking can sharpen our ideas about the properties of these subsystems and their possible interactions with each other and allow us to predict d-ASCs in addition to those already known. Making these predictions and testing them should further sharpen our conceptions about the nature of various subsystems, and so further increase our understanding. This is the standard scientific procedure of conceptualizing the data as well as possible, making predictions on that basis, confirming and disproving various predictions, and thus sharpening the conceptual system or modifying it. The socialized repetition of this procedure is the essence of scientific method.
Figure 8-1 sketches ten major subsystems, represented by the labeled ovals, and their major interaction routes. The solid arrows represent major routes of information flow: not all known routes are shown, as this would clutter the diagram. The hatched arrows represent major, known feedback control routes whereby one subsystem has some control over the functioning of another subsystem. The dashed arrows represent information flow routes from the subconscious subsystem to other subsystems, routes that are inferential from the point of view of the ordinary d-SoC. Most of the subsystems are shown feeding information into, or deriving information from, awareness, which is here considered not a subsystem but the basic component of attention/awareness and attention/awareness energy that flows through various systems. A brief overview of a state of consciousness as a functioning system, as represented in Figure 8-1, can be described as follows. Information from the outside world comes to us through the Exteroception subsystem (classical sense organs), and information from our own bodies comes to us via the Interoception subsystem (kinesthetic and other bodily functioning receptors). Data from both sets of sense organs undergo Input-Processing (filtering, selecting, abstracting), which in turn influences the functioning of Exteroception and Interoception. Input-Processing draws heavily on stored Memory, creates new memories, sends information both directly into awareness and into our subconscious, and stimulates our Sense of Identity and our Emotions. Information we are aware of is in turn affected by our Sense of Identity and Emotions. We subject this information to Evaluation and Decision-Making; and we may act on it, produce some sort of motor output. This Motor Output subsystem produces action in the body that is sensed via Interoception, in a feedback process through the body. The Motor Output also produces effects on the external world that are again sensed by Exteroception, constituting feedback via the external world. Our perception and decision-making are also affected by our Space/Time Sense. Also shown in Figure 8-1 are some latent functions, which may be tapped in a d-ASC, but are not available in the b-SoC. In the following pages the basic nature of each subsystem is defined and the range of both quantitative and qualitative alterations that occur in its functioning over the range of various d-ASCs is indicated. Of necessity, these descriptions are somewhat sketchy. One of the major tasks of future research is to fill in the details about each of these subsystems, their change in d-ASCs, and their interaction with other subsystems.

Exteroception

The subsystem Exteroception includes the classical sense organs for registering changes in the environment: eyes, ears, nose, taste organs, and touch organs. The exteroceptive organs constitute a model of a whole system of consciousness. First, they are active organs. While all of them can respond to stimulation when they are passive, as when a light is suddenly shined in your eye, they normally engage in an active scanning of the environment. Your eyes dart about; you turn your head or perk up your ears to hear sounds more clearly; you reach out to touch things that interest you. Similarly, consciousness can be passively stimulated, but ordinarily it is an active process. Second, each of the classical exteroceptive sense organs has limited responsiveness. The eye cannot respond to ultraviolet light, the ear cannot pick up sounds above or below certain frequencies, touch cannot respond to exceptionally subtle stimuli. Similarly, consciousness can be passively stimulated, but ordinarily it is an active process. Second, each of the classical exteroceptive sense organs has limited responsiveness. The eye cannot respond to ultraviolet light, the ear cannot pick up sounds above or below certain frequencies, touch cannot respond to exceptionally subtle stimuli. Similarly, any state of consciousness has certain limits to what it can and cannot react. Third, you have some voluntary control over the input to your exteroceptive sense organs. If you do not want to see something, you can look away or close your eyes; if you do not want to hear something, you can move away from the sound source or put your fingers in your ears. In any state of consciousness, you have some voluntary control over exteroceptive functioning. But the control is limited: if the sound is intense enough, it is difficult not to hear it at all, even with your hands over your ears. Although many changes in perception of the external environment are reported in d-ASCs, these usually do not represent changes in the exterocepters themselves, except possibly in some drug-induced d-ASCs. Each of the classical sense organs is a masterpiece of engineering; it is already as sensitive as it can be. Thus its useful sensitivity is not increased, even if a person experiences himself as being in more contact with the environment in a d-ASC. AS we shall see later, practically all phenomena dealing with feelings of increased contact with the environment are related to changes in the Input-Processing subsystem. Sometimes when a drug is used to induce a d-ASC there may be some physiological changes in the exterocepters. LSD, for example, may actually cause pupillary dilation, thus allowing in more light (although one might quarrel whether this is a direct physiological effect or a secondary effect due to the increased attention being paid to the external environment). Similarly, since psychedelic drugs affect neural functioning generally, they may have some direct effects on the neural components of the sense organs themselves, but little is known of this now. So, in terms of present knowledge about d-ASCs, changes in the exterocepters seem of little importance. Input to the exterocepters is usually deliberately manipulated and patterned in the course of attempting to induce a d-ASC. Although most of the important changes resulting from these techniques occur in Input-Processing, some do start with direct effects on the exterocepters and should be noted. Input from the environment that, while varying, remains within a learned, anticipated range, acts as a source of loading stabilization. Thus, changing the input to the exteroception may interfere with the loading stabilization function and/or inject anomalous input that may destabilize a d-SoC. A major way of doing this is to reduce or eliminate sensory input. In the induction process for many d-ASCs, there is an attempt to make the environment quiet, to cut down the amount of sensory input a person has to handle. Consider, for example, the techniques of guided imagery or twilight imagery, where, while lying down with closed eyes, a person enters more and more into fantasy. A genuine d-ASC may develop in some cases, as fantasy intensifies, but it is clear the sensory input must usually be kept at a low level to both induce and maintain this d-ASC. I have seen people get into intense experiences through guided imagery techniques, but the simple act of opening the eyes and allowing visual input from the physical world to enter immediately disrupts this state. Reduction of sensory input to a level as near zero as possible is a potent technique for inducing d-ASCs. In the fifties and early sixties, there were many sensory deprivation experiments during which the subject lay comfortably in a dark, quiet room without moving. The findings were interpreted as showing that if the brain did not receive sufficient sensory input, the subject went "crazy." It is now clear that practically all these studies were severely contaminated, as were the contemporary studies of psychedelic drugs, by implicit demand characteristics that account for most of the phenomena produced. If you a person through a procedure he thinks will make him crazy, in a medical setting, he is likely to act crazy. That tells you something about suggestibility, but little about the effects of reduced sensory input per se. Traditional literature from many spiritual psychologies as well as accounts from people who have been trapped in isolation situations, indicate that sensory deprivation can be a powerful technique in affecting consciousness. But its effect is apparently always patterned by other factors. Changing the patterning of input to the exterocepters, and the subsequent processing of the information of Input-Processing, can also be a major way of altering consciousness. When the same kind of input is repeated over and over again, so that the exterocepters become saturated, all sorts of changes take place. For example, if, by means of special apparatus, an image is held absolutely still on the retina of the eye, it soon begins to break up and display all sorts of unusual perceptual changes. Even when we believe we are looking steadily at something, there are actually tiny saccadic movements of the eye that keep the image moving slightly on the retina. Like so many of our receptors, the eye actually responds to slight, continuous change and cannot "see" absolutely steady input. Overloading the exterocepters is another way of inducing d-ASCs. The principle is recognized by people who attend rock concerts. Even if they have not taken some drug to help induce a d-ASC, the light show of complex, changing patterns accompanied by exceptionally loud music overloads and fatigues the exterocepters, blowing their minds.

Interoception

The subsystem Interoception includes the various senses that tell us what is going on inside our bodies — the position of our limbs, the degree of muscle tension, how our limbs are moving, pressure in our intestines, bodily temperature. It is a way of sensing our internal world, as opposed to our external world. Many of the output signals from our interoceptors seems to be permanently excluded from our awareness; many of our sensing systems for governing the function of internal organs seem to have no representation in consciousness, regardless of conditions. For example, the functioning of our kidneys is regulated, but I know of no one who claims to have a direct experiential feel for what his kidneys are doing. We should, however, be careful about setting any ultimate limits on what aspects of Interoception can never reach or be affected by consciousness. The modern technology of biofeedback enables us to focus attention on and to control many bodily processes formerly thought to be completely incapable of voluntary control. Many other interoceptive signals not normally in our awareness can be put in our awareness by turning our attention/awareness to them. For example, you may not have been thinking of sensations in your belly a moment ago, but now that I mention them and your attention/awareness turns there, you can detect various signals. With practice you might become increasingly sensitive to signals from this area of your body. Thus, as with our exterocepters, we have some voluntary control over what we will attend to, but this control is limited. We can also control interoceptive input by doing various things to our bodies. If you have an unpleasant sensation from some part of your body, you can relax, change position, take a deep breath, and change the nature of that signal, presumably by changing whatever is causing it. This is an ability we take for granted and know little about, but it is an important way of affecting interoceptive input. Some techniques for inducing d-ASCs, such as hatha yoga procedures, have a highly sophisticated technology for affecting one's body and how one perceives it. This is the reason biofeedback technology is sometimes said to have the potential to become an "electronic yoga," a way of rapidly learning about various internal conditions and using them to affect consciousness. We are still a long way from attaining this, however. As is the case with exterocepters, there is little evidence that actual physiological changes take place in the interoceptors during various d-ASCs, except possibly in some drug-induced d-ASCs. Also as in Exteroception, the learned, anticipated range of constant input from Interoception acts as a source of loading stabilization for maintaining the ordinary d-SoC. The pattern of input from interoceptors can be subsumed under a useful psychological concept, the body image. You not only have a real body whose actual sensations are picked up by the interoceptors, but, in the course of enculturation, you have learned to perceive your own body in learned, patterned ways, just as you have learned to perceive the external world in socially learned ways. The degree to which your body image corresponds to your actual body may vary considerably. My own observations suggest that people's internal images of their bodies can differ amazingly from what an external observer sees. An individual's body image may be very stable. An intriguing example of this is the phantom limb phenomenon. When an arm or a leg is amputated, the patient almost always reports he can still feel the limb, even though he can see and otherwise intellectually know it is not there. Sensations coming in from the severed nerve tracts are nonconsciously organized in the learned, habitual way so that the patient perceives the limb as still there. Most patients soon lose perception of their phantom limbs as they are subjected to considerable social pressure to do so. In some, however, the phantom limb persists in spite of all attempts to unlearn it. The sensations may or may not be painful. The primary things to note are that the body image can be very rigid and may or may not show much correspondence to the actual body contours and what actually goes on in the body. I am convinced that as Westerners we generally have distorted images of our bodies and poor contact with sensations that go on in them. Since body sensations often represent a thinking about, or data processing of, experience, and a way of expressing emotions, our lack of contact with our actual body sensations puts us out of contact with ourselves. This is considered further in connection with the Subconscious subsystem.

People's experiential reports from d-ASCs indicate that enormous changes can take place in Interoception. The body may seem to get larger or smaller, change in shape, change in internal functioning, change in terms of the relationships of its parts, so that the body may not "work" in the usual fashion. Most of this range of experience probably represents changes in Input-Processing, rather than changes in the interoceptors themselves. As with Exteroception, changing your body image is a common technique for inducing d-ASCs. Reducing interoceptive input, overloading it, or patterning it in novel ways have all been used. The primary effects are on Input-Processing, but the techniques start by affecting the interoceptors themselves. Let us look at some of these techniques briefly. Immobilizing the body in a relaxed position is a major way of causing the output from Interoception to fade and, consequently, causing the body image either to fade or to change, since it is no longer stabilized by actual input from the interoceptors. The discussion of the induction of hypnosis, going to sleep, and meditation mentions the importance of allowing the interoceptors to adapt out so the input from the body disappears. In sensory deprivation techniques it is important to relax the body and at the same time not move at all. Even a slight movement can stimulate large numbers of interceptors and reestablish the body image readily. Overloading interoceptors is an important technique for altering consciousness. A good massage, for instance, or sensory awareness exercises that make you aware of bodily stimuli normally overlooked, have been known to induce d-ASCs. At the opposite end of the continuum from this pleasurable kind of manipulation of Interoception, pain and torture are some of the surest ways of inducing d-ASCs. Patterning interoceptive input in unusual fashions is another way of inducing d-ASCs. Mudras, gestures of symbolic significance used in yoga, consist of putting the body into certain positions. I suspect that the actual bodily posture has a definite patterning effect on interoceptive input and can affect consciousness if you are sensitive to input from your own body, the patterning of interoceptive input may occur, but since not much awareness is gained, posture does not pattern attention/awareness energy in a way that would affect consciousness. Another way of patterning interoceptive input is the altered states of consciousness induction device (ASCID) developed by Masters and Houston on the basis of medieval accounts of the witch's cradle. This is an upright frame into which a person straps himself. the frame is hung from a short rope, so slight motions cause it to rock in erratic patterns. This produces anomalous patterns of input for the occupant to process: some interoceptors tell him he is standing up and therefore needs to exert certain muscular actions to maintain this posture, but other interoceptors tell him he is standing up and therefore needs to exert certain muscular actions to maintain this posture, but other interoceptors tell him he is relaxed and not making these muscular actions. Other interoceptive sense indicate that he is moving and must do things to maintain his balance, but there are in conflict with other interoceptive sensations that he is passive. Since he is not used to such an anomalous, conflicting pattern of stimulation, it can greatly disrupt Input Processing.

lunedì 11 marzo 2013

Tao sulla pelle


La realtà era che, da quella parte del mondo degli adulti, noi eravamo totalmente tagliati fuori, le nostre erano soltanto ipotesi infantili che spesso si trasformavano in illazioni. Nessuno di noi poteva immaginare quanto fosse profonda la tradizione dei tatuaggi criminali, che significato nascondessero i simboli, come cambiasse il loro senso da un disegno all’altro. Noi cercavamo al massimo un indizio del mestiere criminale e la posizione nella gerarchia della comunità. Nessuno pensava che dietro le immagini potesse esserci qualcosa di piú, il nostro interesse si concentrava soltanto sugli oggetti centrali, come il teschio, ma la differenza la facevano i particolari piú piccoli, quelli che a una prima occhiata potevano sembrare insignificanti.
Sulle schiene dei vecchi osservavo interi mondi nascosti, mi divertivo a ricordare ogni dettaglio insolito. Perché la Madonna che piange su un tatuaggio ha tre lacrime e su un altro ne ha sette? Perché le mani che tengono la corona sopra la sua testa una volta hanno i palmi girati all’esterno e un’altra nel verso contrario? Perché qui a vegliare su di lei c’è un solo occhio centrato, invece lí due occhi dentro le nuvole, sui lati? Come mai qui ha un buco della serratura sul collo, e lí ne ha uno simile, ma sulla fronte? Perché del le candele che stanno alla sua sinistra tre sono accese e sei sono spente? Perché alcune candele sono nere?
Ero stregato dall’inspiegabile.

il Te del Tao: L - TENERE IN PREGIO LA VITA


L - TENERE IN PREGIO LA VITA

Uscire è vivere, entrare è morire.
Seguaci della vita sono tre su dieci,
seguaci della morte sono tre su dieci,
gli uomini che la vita
tramutano in disposizione alla morte
son pur essi tre su dieci.
Per qual motivo?
Perché vivono l'intensità della vita.
Or io ho appreso che chi ben nutre la vita
va per deserti senza incontrar rinoceronti e tigri,
va tra gli eserciti senza indossar corazza e arme:
il rinoceronte non ha dove infilzare il corno,
la tigre non ha dove affondar l'artiglio,
il guerriero non ha dove immergere la spada.
Per qual motivo?
Perché costui non ha disposizione alla morte

mercoledì 6 marzo 2013

doppio Tao a elica

Letter

Direct Imaging of DNA Fibers: The Visage of Double Helix


Nanostructures, §Neuroscience and Brain Technologies, and Nanochemistry Departments, Istituto Italiano di Tecnologia, Via Morego 30, 16163 Genova, Italy
BIONEM, Bio-Nanotechnology and Engineering for Medicine, Department of experimental and clinical medicine, University of Magna Graecia Viale Europa, Germaneto, 88100 Catanzaro, Italy
IMEM-CNR, Parco Area delle Scienze 37/A, 43124 Parma, Italy

Nano Lett., 2012, 12 (12), pp 6453–6458
Publication Date (Web): November 22, 2012
Copyright © 2012 American Chemical Society

Abstract
Direct imaging becomes important when the knowledge at few/single molecule level is requested and where the diffraction does not allow to get structural and functional information. Here we report on the direct imaging of double stranded (ds) λ-DNA in the A conformation, obtained by combining a novel sample preparation method based on super hydrophobic DNA molecules self-aggregation process with transmission electron microscopy (TEM). The experimental breakthrough is the production of robust and highly ordered paired DNA nanofibers that allowed its direct TEM imaging and the double helix structure revealing.
SEM image of a tightrope of DNA between two silicon nanopillars. marker: 1 μm
Per fotografare direttamente filamenti di DNA tramite il Miscroscopio Elettronico a Trasmissione (TEM) questo viene disteso sotto forma di soluzione su un chip di silicio costituito di tante microcolonne e buchi in tutta la sua lunghezza. Con il tempo la soluzione evapora e il DNA si distende, rimanendo come un filamento sospeso tra due colonne, che può essere osservato tramite TEM nella prima immagine diretta della doppia elica mai ottenuta
TEM direct image of DNA double-helix structure.

salto nel Tao


Sulla cima di una mesa nel deserto messicano si svolge l'ultima epica scena di Carlos Castaneda con il suo insegnante (il maestro per la prima attenzione del tonal) Don Juan Matus, un indio yacqui del nord del Messico, e il suo benefattore (il maestro per la seconda attenzione del nagual) Don Genaro Flores, un indio mazateco del Messico centrale: lanciandosi nell'abisso, per sopravvivere il suo compito sarà passare da solo nella seconda attenzione e "spiegare le ali della percezione" per entrare nel nagual.
Il racconto finale del quarto libro, che segna la fine di un ciclo, è solo parziale; nei libri successivi risulterà evidente che quanto riportato è solo una parte di quanto accaduto, quella percepita dalla prima attenzione:
Don Juan mi svegliò all'alba. Mi diede una zucca piena d'acqua e un sacchetto di carne secca. Camminammo in silenzio per un paio di miglia, fino al posto in cui avevo lasciato l'automobile due giorni prima.
"E' il nostro ultimo viaggio insieme" egli disse con voce calma quando arrivammo alla macchina.
Provai un forte sobbalzo nello stomaco. Capivo quel che intendeva.
Si appoggiò al parafango posteriore, mentre aprivo lo sportello del passeggero, e mi guardò con un sentimento che prima non aveva mai mostrato. Entrammo nella macchina, ma prima che avviassi il motore don Juan fece qualche oscuro commento, che tuttavia compresi alla perfezione; disse che disponevamo di pochi minuti per restare li seduti e affrontare una volta ancora alcuni sentimenti molto personali e acuti.
Rimasi seduto in silenzio, ma il mio spirito era inquieto. Volevo dirgli qualcosa, qualcosa che avrebbe soprattutto calmato me stesso. Cercai invano le parole adatte, la formula appropriata ad esprimere quanto "sapevo" senza che mi fosse stato detto.
Don Juan parlò di un bambino che una volta conoscevo, verso il quale i miei sentimenti non sarebbero cambiati nonostante la distanza di anni. Disse d'essere certo che ogni volta che io pensavo a quel bambino il mio spirito balzava di gioia e gli augurava tutto il bene possibile, senza traccia di egoismo o di meschinità.
Mi ricordò una storia che gli avevo raccontato un giorno, a proposito di quel bambino: una storia che gli era piaciuta e che aveva trovato ricca di profondo significato. Durante una delle nostre gite sulle montagne intorno a Los Angeles, il bambino s'era stancato di camminare e lo avevo preso in spalla. Ci aveva allora invaso un'ondata di intensa felicità, e il bambino aveva gridato il suo grazie al sole e alle montagne.
"Era il suo modo di dirvi addio" disse don Juan.
Provai un senso d'angoscia in gola.
"Ci sono molti modi di dire addio" aggiunse don Juan. "Il modo migliore consiste forse nel conservare un particolare ricordo di gioia. Per esempio, se vivrete come un guerriero il calore che provaste con il bambino a cavalcioni delle spalle resterà vivo e intenso finché vivrete. Questo è il modo di dire addio del guerriero."
Precipitosamente accesi il motore e guidai, a velocità maggiore del solito, sulla strada acciottolata, finché giungemmo a quella di terra battuta.
Proseguimmo per un breve tratto in macchina; poi percorremmo a piedi il resto della strada. Dopo un'ora circa giungemmo ad un ciuffo di alberi. Don Genaro, Pablito e Nestor erano li ad aspettarci. Li salutai. Sembravano tutti e tre di ottimo umore e perfettamente in forze. Quando li guardai e guardai don Juan fui sopraffatto da un senso di simpatia e di affinità verso di loro. Don Genaro mi abbracciò e mi batté affettuosamente sulla schiena. Disse a Nestor e a Pablito che mi ero comportato molto bene saltando nel fondo della gola. Con la mano ancora sulla mia spalla, si rivolse a loro e disse sonoramente: "Sissignore. Io sono il suo benefattore e so che è stato veramente un successo. E' il coronamento di anni di vita da guerriero".
Si voltò verso di me e mi mise anche l'altra mano sulla spalla. Aveva gli occhi lucenti e tranquilli.
"Non posso dirvi altro, Carlitos" esclamò, pronunciando lentamente le parole. "Se non che avevate una quantità straordinaria di escrementi nelle budella."
Al che lui e don Juan scoppiarono a ridere da morire. Pablito e Nestor ridacchiarono nervosi, non sapendo bene che fare.
Quando don Juan e don Genaro si furono calmati, Pablito mi disse che non era certo della sua capacità di penetrare nell'ignoto da solo.
"Davvero non ho la minima idea di come riuscire a farlo" disse. "Genaro afferma che basta essere senza macchia, che non c'é bisogno d'altro. Cosa ne pensate?"
Gii risposi che ne sapevo ancor meno di lui. Nestor sospirò; sembrava molto preoccupato: muoveva le mani e la bocca nervosamente, come se stesse per dire qualcosa d'importante e non sapesse come.
"Genaro dice che voi due lo farete" disse alla fine.
Don Genaro ci fece cenno con la mano di avviarci. Lui e don Juan procedettero insieme, poche yarde dinanzi a noi. Per quasi tutto il giorno seguimmno il medesimo sentiero montano. Camminavamo in assoluto silenzio, senza mai fermarci. Tutti noi avevamo una provvista di carne secca e una zucca piena d'acqua, ed era inteso che avremmo mangiato camminando. A un certo punto il sentiero divenne una vera e propria strada. Girò intorno al fianco della montagna, e d'improvviso s'apri dinanzi a noi il panorama di una valle. Era uno spettacolo da togliere il respiro: una lunga vallata verde che luccicava al sole; su di essa s'innalzavano due magnifici arcobaleni; zone di pioggia si vedevano sulle colline tutt'intorno.
Don Juan si fermò e protendendo il mento indicò a don Genaro qualcosa, giù nella valle. Don Genaro scosse la testa. Non era un cenno affermativo o negativo, ma piuttosto uno scatto del capo. Entrambi restarono immobili a scrutare nella valle, a lungo.
Di là, lasciammo la strada e prendemmo quella che sembrava una scorciatoia. Cominciammo a scendere per un sentiero stretto e ripido che conduceva al lato settentrionale della valle.
Quando raggiungemmo il piano era la metà del pomeriggio. Mi avvolse il forte odore dei salici e della terra umida. Per un attimo la pioggia fu simile a un rombo soffocato sugli alberi vicini, alla mia sinistra; poi, solo un tremito fra le canne. Udii il mormorio di un torrente. Mi fermai per un momento ad ascoltare. Guardai sopra le cime degli alberi; gli alti cirri sull'orizzonte occidentale sembravano bioccoli di cotone sparsi per il cielo. Rimasi a guardare le nuvole, e intanto gli altri mi passarono avanti per un certo tratto. Gli corsi dietro.
Don Juan e don Genaro si fermarono e si girarono all'unisono; i loro occhi si mossero e si fissarono su di me con tale uniformità e precisione che parvero quelli di una sola persona. Fu un breve e stupendo sguardo che mi fece rabbrividire. Poi don Genaro rise e disse che correvo battendo il suolo come un messicano piedi piatti di trecento libbre.
"Perché proprio un messicano?" chiese don Juan.
"Un indio piedi piatti di trecento libbre non corre" disse don Genaro con il tono di chi spiega.
"Ah, ecco" esclamò don Juan, come se don Genaro avesse veramente spiegato qualcosa.
Attraversammo la stretta valle lussureggiante e ci arrampicammo sulle montagne a est. Nel tardo pomeriggio ci fermammo finalmente sulla sommità di un altopiano arido e piatto che verso sud sovrastava un'alta vallata. La vegetazione era completamente mutata. Tutt'intorno c'erano montagne rotonde ed erose. Nella valle e sui fianchi delle alture il terreno era suddiviso e coltivato; tuttavia l'intera scena mi diede un'impressione di sterilità.
Il sole era già basso sull'orizzonte sud-occidentale. Don Juan e don Genaro ci chiamarono sull'orlo settentrionale dell'altopiano. Di là, la vista era sublime. Verso nord si stendevano valli e montagne senza fine ; una catena  di alte sierras sorgeva a ovest. Riflettendosi sulle lontane montagne settentrionali, la luce del sole le rendeva color arancio, come i banchi di nuvole a ovest. Nonostante la sua bellezza, quello scenario era triste e solitario.
Don Juan mi diede il mio notes, ma non avevo voglia di prendere appunti. Sedemmo in semicerchio, con don Juan e don Genaro alle estremità.
"Avete iniziato il sentiero del sapere scrivendo, e lo finirete nello stesso modo" disse don Juan.
Tutti mi sollecitarono a scrivere, come se fosse cosa indispensabile.
"Siete proprio sull'orlo, Carlitos" disse don Genaro d'improvviso. "Voi e Pablito."
La sua voce era morbida. Senza il consueto tono di scherzo, suonava benevola e ansiosa.
"Altri guerrieri che viaggiarono nell'ignoto si sono fermati proprio in questo punto" aggiunse. " Tutti augurano a voi due ogni bene."
Sentii un incresparsi intorno a me, come se se l'aria fosse divenuta solida e qualcosa avesse creato un'onda che la increspava.
"Tutti noi, qui, vi auguriamo ogni bene" disse don Genaro.
Nestor abbracciò Pablito e me, poi si sedette in disparte.
"Abbiamo ancora un po' di tempo", disse don Genaro guardando il cielo. Poi si voltò verso Nestor e chiese: "Cosa dobbiamo fare nel frattempo?"
"Dobbiamo ridere e divertirci" rispose svelto Nestor.
Dissi a don Juan che ero spaventato da ciò che mi aspettava, e che certissimamente ero stato ingannato, io, che non avevo neppure immaginato che esistessero situazioni come quella che io e Pablito stavamo vivendo. Dissi che qualcosa di veramente terribile s'era impadronito di me e a poco a poco mi aveva sospinto dinanzi a qualcosa di peggiore della morte.
"Vi state compiangendo" disse secco don Juan. "Vi compassionate fino all'ultimo."
Tutti risero. Don Juan aveva ragione. Che impulso irresistibile! E io che pensavo d'averlo vinto per il resto dei miei giorni! Li pregai tutti di dimenticare la mia stupidaggine.
"Non scusatevi" mi disse don Juan. "Le scuse sono un'assurdità. Ciò che veramente conta è essere un guerriero senza macchia in questo eccezionale luogo del potere. Questo luogo ha accolto i migliori guerrieri. Siate pari a loro."
Poi si rivolse a Pablito e a me.
"Sapete già che questo è l'ultimo compito di fronte al quale vi trovate insieme" disse. "Entrerete nel nagual e nel tonal grazie unicamente al vostro potere personale. Genaro ed io siamo qui solo per dirvi addio. Il potere ha stabilito che Nestor dovesse essere testimone. Tale egli sia."
"Questo sarà anche, per voi, l'ultimo bivio al quale Genaro ed io saremo presenti. Quando sarete entrati da soli nell'ignoto, non dipenderà più da noi richiamarvi indietro; la vostra decisione è dunque l'unica che conta: dovete decidere se ritornare o no. Confidiamo che ambedue abbiate la forza di ritornare, se sceglierete di farlo. L'altra notte siete stati perfettamente capaci, all'unisono o separatamente, di respingere l'alleato che altrimenti vi avrebbe sconfitto e ucciso. Era una prova della vostra forza."
"Devo anche aggiungere che pochi guerrieri sopravvivono all'incontro con l'ignoto che state per avere; non tanto perché sia arduo, quanto perché il nagual è seducente più di quanto si possa dire, e guerrieri che viaggiano in esso trovano che ritornare al tonal, o al mondo dell'ordine, del rumore e della pena, sia ben poco attraente."
"La decisione di restare o di ritornare è presa da qualcosa in noi che non è la nostra ragione né il nostro desiderio, bensì la nostra volontà: perciò è impossibile prevederla in anticipo."
"Se sceglierete di non ritornare, sparirete come se la terra vi avesse inghiottito. Ma se sceglierete di ritornare a questa terra, dovrete aspettare, da veri guerrieri, che i vostri specifici compiti siano terminati. Una volta essi terminati, sia con il successo, sia con il fallimento, avrete il comando sulla totalità di voi stessi."
Don ]uan tacque per un momento. Don Genaro mi guardò e ammiccò.
"Carlitos vuol sapere cosa significa avere il comando sulla totalità di se stessi" disse, e tutti risero.
Aveva ragione. In altre circostanze lo avrei precisamente chiesto; ma la situazione era troppo solenne per porre domande.
"Significa che il guerriero ha finalmente incontrato il potere" disse don Juan. "Nessuno può dire cosa ciascun guerriero farà col potere; forse voi due vivrete tranquillamente, ignoti, sulla faccia della terra; o forse diventerete uomini odiosi, o forse celebri, o benevoli. Tutto dipende dall'impeccabilita e dalla libertà del vostro spirito."
"Ciò che conta, comunque, è il vostro compito. Questa è la donazione che l'insegnante e il benefattore fanno ai loro apprendisti. Mi auguro che voi due riusciate a portare al culmine i vostri compiti."
"Aspettarsi di eseguire questo compito è un'attesa molto particolare" intervenne improvvisamente don Genaro. "E adesso vi racconterò la storia di una banda di guerrieri che vissero in altri tempi sulle montagne, pressappoco in questa direzione."
Indicò a caso verso est; poi, dopo un attimo di esitazione, parve cambiare idea, si alzò e indicò le lontane montagne settentrionali.
"No. Vissero in questa direzione" disse, guardandomi e sorridendo con aria erudita. "Esattamente centotrentacinque chilometri da qui."
Forse don Genaro mi stava facendo il verso. Aveva la bocca e la fronte contratte, le mani strette al petto come se premessero un oggetto immaginario, forse un notes. Era in un atteggiamento estremamente ridicolo. Una volta avevo incontrato uno studioso tedesco, un sinologo, che stava esattamente come lui. Il pensiero che per tutto quel tempo io avessi imitato inconsciamente le smorfie di un sinologo tedesco mi sembrò buffissimo. Risi da solo. Quello sembrava uno scherzo destinato proprio a me.
Don Genaro tornò a sedersi e raccontò la sua storia.
"Ogni volta che si riteneva che un guerriero di quella banda avesse commesso un'azione contraria alle leggi, il suo destino era affidato alla decisione di tutti. L'accusato doveva spiegare le ragioni per cui s'era comportato cosi. I compagni dovevano ascoltarlo; poi, o scioglievano la riunione, avendo trovato convincenti le sue ragioni, oppure si allineavano con le loro armi sull'estremo limite di una montagna piatta, molto simile a questa, pronti ad eseguire su di lui la sentenza capitale, poiché avevano trovato inaccettabili le sue ragioni. In questo caso il guerriero condannato doveva dire addio ai vecchi compagni, e l'esecuzione aveva inizio."
Don Genaro guardò me e Pablito come se si aspettasse da noi un segno. Poi si volse verso Nestor.
"Forse" gli chiese "il testimone che abbiamo qui potrebbe dirci quanto ha a che fare la storia con questi due."
Nestor sorrise timidamente e per un momento parve immergersi in profonda riflessione.
"Il testimone non ne ha idea" disse poi, con un risolino nervoso.
Don Genaro chiese a tutti noi di alzarci e andare con lui a guardare cosa c'era sul limite occidentale dell'altopiano.
Vedemmo un moderato pendio e, in fondo, una stretta e piatta striscia di terra che terminava in una fenditura, un canale naturale - si sarebbe detto - per il deflusso dell'acqua piovana.
"Proprio nel punto di questo fosso" disse don Genaro "c'era una fila di alberi, nella mia storia. E di là da questo punto, una fitta foresta.
"Dopo aver detto addio ai compagni, il guerriero condannato cominciava a scendere per il pendio, verso gli alberi. I compagni allora preparavano le armi e puntavano contro di lui. Se nessuno lo colpiva, o se egli riusciva a sopravvivere alle ferite ed a raggiungere il limitare degli alberi, il guerriero era libero."
Tornammo nel posto in cui eravamo seduti prima.
"E adesso, testimone?" don Genaro chiese a Nestor. "Cosa ne dite?"
Nestor era il nervosismo fatto persona. Si tolse il cappello e si grattò la testa. Poi nascose la faccia tra le mani.
"Cosa ne sa il povero testimone?" replicò alla fine in tono di sfida, e rise con tutti gli altri.
"Dicono che alcuni riuscivano a rimanere illesi" aggiunse don Genaro. "Sembra che il loro potere personale raggiungesse i compagni. Mente miravano, quelli si sentivano attraversati da un'ondata e non osavano adoperare le armi. O forse erano ammirati del coraggio del condannato e non lo colpivano."
Don Genaro mi guardò, poi guardò Pablito.
"Il guerriero doveva camminare fino al limitare degli alberi in un modo prestabilito" prosegui. "Doveva muoversi calmo e imperturbato, a passi sicuri, decisi, gli occhi dritti dinanzi a sé, tranquillamente. Doveva scendere il pendio senza inciampare, senza voltarsi, e soprattutto senza correre"
Don Genaro fece una pausa; Pablito assen col capo.
"Se deciderete di tornare su questa terra," disse don Genaro "dovrete aspettare da veri guerrieri che i vostri compiti siano terminati. Questa attesa è molto simile alla tranquilla camminata del guerriero nella storia. Il guerriero era uscito dal tempo umano, come voi. La differenza sta soltanto in chi vi prende di mira. Il guerriero era preso di mira dagli altri guerrieri, suoi compagni. Ma ciò che prende di mira voi è l'ignoto. La vostra unica possibilità di riuscita sta nell'essere senza macchia. Dovete aspettare senza voltarvi. Dovete aspettare senza sperare in una ricompensa. E dovete concentrare tutto il vostro potere personale nell'esecuzione dei vostri compiti."
"Se non agite senza macchia, se cominciate a inquietarvi e ad impazientirvi, a disperarvi, sarete abbattuti senza pietà dai tiratori scelti dell'ignoto."
"Se invece siete senza macchia e avete sufficiente potere personale per eseguire i vostri compiti, si attuerà per voi la promessa del potere. E che cos'è questa promessa? chiederete. E' la promessa che il potere fa agli uomini in quanto esseri luminosi. Ogni guerriero ha una sorte diversa, per cui non si può dire come si attuerà quella promessa per ciascuno di voi."
Il sole stava per tramontare. Il colore arancio chiaro sulle lontane montagne settentrionali cominciava a incupire. Il paesaggio mi dava la sensazione di un mondo solitario, battuto dal vento.
"Avete imparato che il carattere fondamentale del guerriero consiste nell'essere umile ed efficiente" disse don Genaro, e la sua voce mi fece sobbalzare. "Avete imparato ad agire senza aspettarvi nulla in cambio. Ora vi dico che per reggere quanto vi sta dinanzi, di là da oggi, avrete bisogno di estrema pazienza."
Provai un urto nello stomaco. Pablito cominciò a tremare piano.
"Un guerriero dev'essere sempre pronto" disse don Genaro. "La sorte di noi tutti, qui, è stata di sapere che siamo i prigionieri del potere. Nessuno sa perché proprio noi, in particolare. Ma che gran fortuna!"
Don Genaro cessò di parlare e abbassò la testa come se fosse esausto. Era la prima volta che l'avevo sentito parlare in questi termini.
"E ora necessario che il guerriero dica addio a tutti i presenti e a tutto ciò che si lascia alle spalle" intervenne improvvisamente don Juan. "Deve farlo con parole sue, sonore, in modo che la sua voce rimanga per sempre qui, in questo luogo del potere."
La voce di don Juan introdusse un'altra dimensione nel mio stato d'animo. La nostra conversazione nell'automobile divenne ancor più cocente. Aveva perfettamente ragione, quando diceva che la serenità del paesaggio intorno a noi era solo un miraggio e che la spiegazione degli stregoni tira un colpo che nessuno può parare. Avevo udito la spiegazione degli stregoni e sperimentato le sue premesse; ed ora ero lì, più nudo e impotente che mai in tutta la mia vita. Nulla di ciò che avevo fatto, nulla di ciò che avevo immaginato, si poteva paragonare all'angoscia e alla malinconia di quell'ora. La spiegazione degli stregoni mi aveva privato anche della "ragione". Di nuovo, don Juan era nel giusto quando diceva che un guerriero non può evitare pena e affanno, ma solo evitare di indulgervi. La mia tristezza in quel momento era incontenibile. Non ero capace di dire addio a coloro che avevano spartito con me le vicende della mia sorte. Dissi a don ]uan e a don Genaro che avevo stretto con qualcuno il patto di morire insieme, e che il mio spirito non sopportava di partirsene solo.
"Tutti siamo soli, Carlitos" don Juan disse piano. " E' la nostra condizione."
Sentii salirmi in gola l'ansia della mia passione per la vita e per chi mi era vicino. Rifiutavo di dire loro addio.
"Noi siamo soli" ripeté don Juan "Ma morire soli non significa morire in solitudine."
La sua voce suonò attutita ma secca, come colpi di tosse.
Pablito piangeva in silenzio. Poi si alzò e parlò.
Non fu un'arringa o una testimonianza. Con voce chiara ringraziò don Genaro e don Juan per la loro benevolenza. Si voltò verso Nestor e lo ringraziò d'avergli offerto l'opportuniti di prendersi cura di lui. Si asciugò gli occhi con la manica.
"Com'é stato bello vivere in questo splendido mondo! In questo tempo magnifico!" esclamò sospirando.
Il suo atteggiamento era estremamente commovente.
"Se non ritornassi, vi prego come estremo favore di aiutare coloro che hanno spartito la mia sorte" disse a don Genaro.
Poi si volse verso occidente, in direzione della sua casa. Il suo corpo scarno era scosso dai singhiozzi. Corse verso il limitare dell'altopiano con le braccia spalancate, come se si precipitasse ad abbracciare qualcuno. Muoveva le labbra; sembrava che parlasse a bassa voce.
Volsi la testa. Non volevo sentire ciò che Pablito stava dicendo.
Poi lui tornò dov'eravamo seduti, crollò giù vicino a me, e abbassò il capo.
Ero incapace di parlare. Ma una forza esterna sembrò impadronirsi di me e mi fece alzare, e anch'io parlai, anch'io espressi la mia gratitudine e la mia tristezza.
Tornammo a tacere. Un vento settentrionale sibilava leggero, colpendomi in viso. Don Juan mi guardò.
Non avevo mai visto tanta benevolenza nei suoi occhi. Mi spiegò che un guerriero dice addio ringraziando tutti coloro che ebbero per lui un gesto di benevolenza o di premura, e che io dovevo esprimere la mia gratitudine non solo a loro, ai presenti, ma a tutti coloro che s'erano presi cura di me. e mi avevano aiutato lungo il mio cammino.
Mi volsi a nord-ovest, in direzione di Los Angeles, e tutto il sentimenralismo del mio spirito venne fuori. Che sollievo purificante esprimere cosi la mia gratitudine!
Mi sedetti di nuovo. Nessuno mi guardò.
"Un guerriero riconosce la sua pena, ma non vi indulge" disse don Juan. "Lo stato d'animo del guerriero che entra nell'ignoto non è, quindi, segnato dalla tristezza; egli anzi è lieto perché si sente umile dinanzi alla sua gran fortuna, fiducioso che il suo spirito sia senza macchia, e soprattuto perfettamente consapevole della propria efficienza. La gioia del guerriero procede dal fatto che egli ha accettato la sua sorte ed ha esattamente valutato ciò che gli sta dinanzi."
Ci fu una lunga pausa. La mia tristezza era al culmine. Volevo fare qualcosa per uscire da quell'oppressione.
"Testimone, per favore, fate risuonare il vostro cattura-spiriti" disse don Genaro a Nestor.
Udii il suono forte, comico, dell'aggeggio di Nestor. Pablito si mise a ridere istericamente, e così fecero don Juan e don Genaro. Sentii un odore strano e mi resi conto che Nestor aveva emesso una scoreggia. La cosa orrendamente buffa era l'espressione di estrema serietà sul suo viso. Aveva emesso una scoreggia non per scherzo, ma perché non aveva con sé il cattura-spiriti. S'era dato da fare come poteva.
Tutti ridevano con abbandono. Che facilità avevano di passare da situazioni sublimi a situazioni estremamente comiche!
Pablito si volse improvvisamente verso di me. Voleva sapere se ero un poeta; ma prima che potessi rispondere, don Genaro fabbricò una rima:
"Carlitos è proprio ben fatto: è un damerino, un po' poeta, e matto."
Ci fu un nuovo scoppio di risa.
"Così va meglio" disse don Juan. "E ora, prima che Genaro ed io vi salutiamo, voi due potere dire tutto quello che volete. Può essere per voi l'ultima volta in cui pronunciate una parola."
Pablito fece di no con la testa, ma io avevo qualcosa da dire. Volevo esprimere la mia ammirazione, la mia meraviglia reverenziale dinanzi alla tempra straordinaria dello spirito gueriero di don Juan e don Genaro. Inciampai però sulle parole e finii per non dire nulla; o anzi, peggio, finii per emettere un suono che pareva un mio ulteriore lamento.
Don Juan scosse la testa e fece schioccare le labbra, in segno di ironica disapprovazione. Risi involontariamente; non ne era il caso, perché avevo perduto l'ultima occasione di dire loro la mia ammirazione. una stranissima sensazione cominciò a impadronirsi di me. Provavo un senso di ilarità e di gioia, una libertà deliziosa che mi induceva a ridere. Dissi a don Juan e a don Genaro che non mi importava un fico dell'esito del mio incontro con l'"ignoto": ero felice e completo, e in quel momento per me non contava che dovessi poi vivere o morire.
Don Juan e don Genaro parvero godere delle mie parole ancor più di me. Don Juan si batté le cosce ridendo. Don Genaro gettò il cappello a terra e gridò come se stesse montando un cavallo selvaggio.
"Nell'attesa ci siamo divertiti e abbiamo riso, come il testimone raccomandava" disse tutto d'un tratto don Genaro. "Ma è condizione naturale dell'ordine che esso sempre debba finire."
Guardò il cielo.
"E' quasi il momento che ci separiamo come i guerrieri della storia" proseguì. "Ma prima che ce ne andiamo per vie diverse, devo dirvi un'ultima cosa. Vi svelerò un segreto del guerriero. Forse potreste chiamarlo una predilezione del guerriero."
Si rivolse in particolare a me: una volta, ricordò, gli avevo detto che la vita del guerriero era fredda e solitaria, priva di sentimenti. Aggiunse che in quel preciso momento io ero convinto che fosse cosi.
"La vita del guerriero non ha la possibilità di essere fredda e solitaria e priva di sentimenti," proseguì "perché è fondata sul suo affetto, sulla sua devozione, sulla sua dedizione a chi egli ama. Chi egli ama? chiederete voi. Ora ve lo mostrerò."

La posizione buddhista mudra della mano, conosciuta come Bhumisparsha. La traduzione è “toccare la terra”, con le cinque dita che si stendono verso il suolo; secondo la tradizione simbolizza il Buddha che chiama la Terra come testimone della sua illuminazione:
"La terra mi è testimone."
Photo © Andrea Sirois Photography
Don Genaro si alzò e raggiunse a passi lenti una zona perfettamente piatta proprio dinanzi a noi, dieci o dodici piedi più in là. Laggiù fece uno strano gesto. Mosse le mani come se si scuotesse della polvere dal petto. Accadde allora una cosa singolare. Il lampo di una luce quasi impercettibile lo attraversò; proveniva dal terreno e parve accendere tutto il suo corpo. Egli fece una sorta di piroetta all'indietro, o più esattamente un tuffo all'indietro, e atterrò sul petto e sulle braccia. Il movimento fu eseguito con tale precisione e destrezza, che don Genaro parve essere una creatura senza peso, simile a un verme che si fosse girato su se stesso. Una volta a terra, eseguì una serie di movimenti impossibili. Si mise a scivolare a pochissima distanza dal suolo, a rotolare come se fosse stato su cuscinetti a sfere, a nuotare in cerchio, roteando con la velocità e l'agilità di un'anguilla nell'oceano.
A un certo momento cominciai ad incrociare gli occhi; poi, senza alcuna transizione, mi trovai ad osservare una palla luminosa che scivolava avanti e indietro su qualcosa che sembrava il piano di una pista di ghiaccio per pattinare scintillante di mille luci.
Era una vista sublime. Poi la palla di fuoco rallentò, si fermò, immobile. Una voce mi scosse e distrasse la mia attenzione. Era don Juan. Dapprima non riuscii a capire cose stava dicendo. Guardai di nuovo la palla di fuoco. Potei vedere soltanto don Genaro sdraiato a terra con le braccia e le gambe allargate.
La voce di don Juan era chiarissima. Parve che facesse scattare qualcosa in me, e cominciai a scrivere.
"L'amore di Genaro è il mondo" diceva don Juan. "Ora egli stava abbracciando questa enorme terra; ma siccome è così piccolo, non può far altro che nuotare in essa. Però la terra sa che Genaro la ama e gli accorda la sua protezione. Per questo la vita di Genaro è colma fino all'orlo, e la sua condizione sarà di pienezza, ovunque. Genaro vive sui sentieri del suo amore e ovunque si trovi è completo."
Don Juan si accovacciò di fronte a noi. Carezzò delicatamente il suolo.
"Questa è la predilezione di due guerrieri disse. "Questa terra, questo mondo. Per un guerriero non può esserci amore più grande."
Don Genaro si alzò e venne ad accovacciarsi vicino a don ]uan per un momento, durante il quale entrambi ci fissarono; poi, all'unisono, si sedettero a gambe incrociate.
"Solo se si ama questa terra con infessibile passione ci si può liberare della tristezza" disse don Juan. "Un guerriero è sempre pieno di gioia perché il suo amore è inalterabile e la sua amata, la terra, lo abbraccia e gli concede doni straordinari. La tristezza è solo di quelli che odiano proprio ciò che dà riparo ai loro esseri".
Don Juan carezzò la terra con tenerezza.
"Questo essere amato, che è vivo fin nei suoi ultimi recessi capisce ogni sentimento, mi ha curato delle mie pene e finalmente, quando ho compreso appieno il mio amore per esso, mi ha insegnato la libertà."

Phra Achana nella posizione di Bhumisparsha, Wat Si Chum Chapel, Sukhothai National Historical Park
Sukhothai Province, Thailand
Tacque. Il silenzio intorno a noi faceva paura. Il vento fischiava leggero e udivo in lontananza l'abbaiare solitario di un cane.
"Ascoltate questo abbaiare" aggiunse don Juan. "In questo modo la mia amata terra ora mi aiuta a portarvi dinanzi all'ultimo punto. Questo abbaiare è la cosa più triste che si possa udire."
Restammo per un momento in silenzio. L'abbaiare solitario del cane era cosi triste e la quiete intorno a noi cosi intensa che provai un'angoscia paralizzante. Tutto ciò mi faceva pensare alla mia vita, alla mia tristezza, al mio non saper dove andare, cosa fare.
"Questo abbaiare è la voce notturna di un uomo" disse don ]uan. "Viene da una casa in quella valle, a sud. Un uomo grida attraverso il suo cane, poiché sono compagni schiavi per la vita, la sua tristezza e la sua noia. Sta pregando la sua morte che venga e lo liberi dalle noiose e tetre catene della vita."
Le parole di don Juan avevano preso dentro di me una strada molto inquietante. Sapevo che parlava a me in particolare.
"Questo abbaiare, e la solitudine che crea, parlano dei sentimenti di uomini" egli aggiunse. "Uomini per i quali tutta la vita è un pomeriggio di domenica; un pomeriggio non proprio miserabile, ma caldo, noioso, fastidioso. Sudano e si agitano. Non sanno dove andare, cosa fare. Quel pomeriggio li lascia soli con il ricordo di fastidi meschini, con la noia, e poi d'improvviso non c'è più: è già notte".
Don Juan raccontò una storia che una volta gli avevo narrato: di un uomo di settantadue anni, il quale si lagnava che la sua vita fosse stata cosi breve da dargli l'impressione d'essere stato un ragazzo il giorno prima. Quell'uomo mi diceva: "Mi ricordo i pigiama che indossavo quando avevo dieci anni. Mi sembra che solo un giorno sia passato. Dov'è andato il tempo?"

"L'antidoto che elimina il veleno è qui, disse don Juan, carezzandola terra. "La spiegazione degli stregoni non può affatto liberare lo spirito. Guardate voi due. Siete arrivati alla spiegazione degli stregoni, ma non fa alcuna differenza. Siete più soli che mai, perché senza un amore inflessibile per l'essere che vi dà riparo, essere soli è solitudine."
"Solo l'amore per questo essere splendido può concedere libertà allo spirito di un guerriero, e libertà è gioia, efficienza, e abbandono dinanzi a ogni sorte. Questa è la lezione ultima. E sempre lasciata per l'ultimissimo istante: per l'istante di estrema solitudine in cui un uomo sta di fronte alla sua morte e al suo essere solo. Soltanto allora ha senso."

Don Juan e don Genaro si alzarono, stirarono le braccia e inarcarono la schiena, come se a forza di star seduti il loro corpo si fosse irrigidito. Il cuore cominciò a battermi rapido. Ci fecero alzare, Pablito e me.
"Il crepuscolo è la fenditura tra i mondi" disse don Juan. "E' la porta dell'ignoto."
Con un movimento largo del braccio indicò l'altopiano su cui sedevamo.
"Questo è il pianerottolo dinanzi alla porta."
Poi indicò il limitare settentrionale dell'altopiano.
"Questa è la porta. Di là da essa, un abisso; e di là da quell'abisso, l'ignoto."
Poi don Juan e don Genaro si volsero a Pablito e gli dissero addio. Pablito aveva gli occhi dilatati e fissi; lacrime gli scorrevano sulle guance.
Udii la voce di don Genaro che mi diceva addio, ma non quella di don Juan.
Don Juan e don Genaro s'avvicinarono a Pablito e gli sussurrarono brevemente alle orecchie. Vennero quindi verso di me. Ma prima ancora che avessero cominciato a sussurrare, provai la sensazione speciale d'essere diviso.
"Ora saremo come polvere sulla via" disse don Genaro. "Forse, un giorno, vi tornerà negli occhi."
Don Juan e don Genaro fecero un passo indietro e parvero mescolarsi alla tenebra. Pablito mi prese per un braccio e ci dicemmo addio. Poi uno strano impulso, una forza, mi fece correre con lui verso il limitare settentrionale dell'altopiano. Sentivo il suo braccio che mi teneva, quando saltammo;
poi fui solo.