Sono morta, si disse Makina quando tutto davanti a lei si imbizzarrì: un uomo con il bastone attraversava la strada, all’improvviso uno schianto secco spaccò l’asfalto, l’uomo rimase come in attesa che gli ripetessero una domanda mentre il suolo si spalancava sotto i suoi piedi: inghiottì l’uomo, e con lui un’auto e un cane, tutto l’ossigeno nell’aria attorno e persino le urla dei passanti. Sono morta, si disse Makina, e appena lo ebbe mormorato tra sé, il corpo reagì alla sentenza e si mise a sbattere disperatamente i piedi all’indietro, ogni passo a pochi centimetri dal precipizio, finché la voragine divenne un cerchio perfetto e Makina fu in salvo.
Maledetta città infida, pensò, sempre sul punto di finire sottoterra.
Era la prima volta che le toccava quel delirio tellurico. La Cittadina era crivellata di gallerie e buchi scavati nell’arco di cinque secoli di voracità mineraria per colpa dell’argento e ogni tanto qualche malcapitato scopriva a proprie spese come fossero stati ricoperti alla meno peggio. Alcune case avevano già traslocato nell’aldilà, assieme a un campo di calcio e mezza scuola, fortunatamente vuota. Certe cose succedono sempre agli altri, finché non succedono a te, pensò. Gettò un’occhiata alla voragine, provò compassione per lo sventurato finito all’altro mondo, Buon viaggio, disse senza alcuna ironia, poi mormorò: Sarà meglio che mi sbrighi a fare questa commissione.