Professore, Lei sostiene giustamente che gli individui hanno bisogno di identità. Però la novità è che, mentre una volta l’identità era una sola, oggi – afferma – si cambia identità più volte nella vita. Secondo Lei, l’identità si rinegozia continuamente. Dunque, l’identità è un processo che non dipende soltanto dalla scelta dell’individuo, ma anche dalla società, perché l’individuo la rinegozia anche a partire dal contesto sociale che lo circonda. Essendo chiamato a cambiare più volte identità nella propria vita, l’individuo incorpora una certa dose di ansia. È inevitabile quest’ansia, secondo Lei? Oppure la rinegoziazione dell’identità potrebbe essere un fatto liberatorio?
È una domanda molto importante, direi cruciale per la nostra situazione contemporanea. L’identità entra nella consapevolezza sociale in tempi molto recenti.
I miei contemporanei non erano affatto preoccupati di queste questioni. In realtà, non so se si siano mai posti il problema o se mai abbiano dovuto rispondere alla domanda: chi sono? La risposta che avrebbero dato sarebbe stata: l’identità è la comunità in cui siamo nati. E la comunità balza alla consapevolezza sociale come un problema laddove la comunità ha perso tante delle sue caratteristiche peculiari, cioè laddove ha perso il suo ruolo lasciando all’individuo il compito di darsi certe risposte. La risposta alla domanda “Chi sono io?” è stata lasciata ai singoli. Oggi gli individui sono chiamati ad autodeterminarsi con le proprie forze.
Non amo molto il concetto di identità, preferisco quello di identificazione perché mette in evidenza il fatto che si tratta di un processo con dei risvolti pratici; un processo costante, senza fine. Citerò Jean Paul Sartre, uno dei filosofi più influenti in Europa. Sartre ci ha spronato a organizzare le nostre vite, insegnandoci che dobbiamo costruire da soli il nostro “progetto di vita”. Fatto questo, tutto il resto è semplice. Perché per qualunque forma di vita l’appartenenza, per esempio, a una classe sociale – quella borghese, quella dei lavoratori… – fornisce un codice di comportamento che si può imparare a memoria. Questo codice di comportamento, queste istruzioni, questi consigli, cambiano costantemente di giorno in giorno. L’oggi è completamente diverso da ieri. Quindi il processo di identificazione deve essere portato avanti. Non si tratta solo di identificazione, ma piuttosto di riidentificazione. Per questo nei miei libri ho parlato di una modernità liquida.
E perché parlo di liquidità? Voi sapete bene quali sono le caratteristiche dei liquidi: si distinguono per una caratteristica fondamentale, e cioè non conservano la stessa forma per troppo tempo, hanno la tendenza a cambiare di continuo. Possono condensarsi – in un contenitore assumeranno una certa forma – ma possono anche fuoriuscire. Cambiano, e l’impatto è imprevedibile. L’obbligo di ri-identificazione porta a uno stato di ansia acuta. Due sono gli aspetti fondamentali: l’uno attraente, l’altro invece molto doloroso. L’elemento attraente di questa dinamica è che questa situazione non è determinata, non è pienamente definita, quindi è aperta a esiti inattesi, e c’è soprattutto l’opzione di scelta. C’è dunque la prospettiva di poter cambiare la propria condizione, di migliorarla. D’altro canto, nella stessa situazione ci si sente molto a disagio, si ha una sensazione di incertezza, di insicurezza personale, perché non si può prevedere il futuro. I grandi cambiamenti degli ultimi cento anni erano imprevisti e inattesi. Il collasso del sistema dei crediti, per esempio, non era previsto. Ci confrontiamo quindi con un costante senso di inconsapevolezza, non solo perché i grandi eventi sono imprevedibili, ma perché la nostra stessa vita quotidiana non può essere facilmente prevista: per esempio, l’azienda per la quale lavorate e da cui dipende il vostro sostentamento quotidiano potrebbe fondersi con un’altra azienda e quindi chiudere i cancelli del vostro stabilimento e spostarsi in un altro paese in cui ci sono più prospettive di guadagno e più vantaggi.
Pensate al vostro compagno o alla vostra compagna di vita, o a un amico o un’amica. Un mio caro amico inglese, Anthony Giddens, un altro sociologo, ha coniato il concetto di relazioni pure, esaltando la libertà di scelta. Abbiamo quindi relazioni pure, a cui non è connessa alcuna forma di vincolo. Le persone, cioè, decidono di formare una coppia o un rapporto perché si aspettano delle gratificazioni, ma nessun altro impegno è implicato in questa scelta. È un lusso di cui i nostri antenati non hanno mai potuto godere. Questa “purezza” di rapporti senza impegno ha creato però una situazione di forte ansia. Per poter stabilire dei rapporti puri abbiamo bisogno di due persone, mentre per poter infrangere questo rapporto ne basta una. Quindi, se una delle due persone è sufficiente per rompere il rapporto, le due persone vanno a letto la sera svegliandosi al mattino con un senso di paura: che cosa deciderà il mio partner? si sarà stancato? C’è dunque una persona che ha un ruolo preminente rispetto all’altra: di nuovo, l’incertezza. Oltre a questa incertezza, c’è un altro flagello: la sensazione di impotenza. Se anche potessimo prevedere quello che succederà, saremmo incapaci di agire per contrastare questa evoluzione. Non abbiamo il potere, non abbiamo la forza di farlo. Questa è la ragione per cui la negoziazione dell’identità, oggi, è un processo senza fine.
Da: Vite liquide: vivere felici e moderni, Padova, 27 maggio 2011
L’Etica degli Affari nella Modernità Liquida
“L’etica ha bisogno del sentimento di appartenenza comune,
di solidarietà, di una responsabilità mutua
che ci faccia prendere consapevolezza di questa responsabilità.”
…
La modernità nasce sotto il segno della managerialità: le cose devono cambiare e un nuovo ordine, diverso dall’esistente, deve essere edificato (diverso, non migliore, sebbene ogni manager possa essere convinto di lavorare per quello migliore).
È così che due giovanotti di 22 e 27 anni, dalla loro casa sul Reno, scrissero il “Manifesto del partito comunista”, osservando le magnifiche forze della borghesia all’opera per “sciogliere” tutto quanto era solido, per rimpiazzarlo con qualcos’altro. Quello che quei due giovanotti non dissero, e non potevano dire perché avrebbero dovuto aspettare altri 130 anni, è che quello “scioglimento” era diverso da quello che è in corso ai giorni nostri. Lo scioglimento della modernità solida non era infinito: aveva un principio e una fine, era un processo necessario alla creazione di un altro ordine.
Gli imprenditori, i manager di allora scioglievano i solidi non tanto perché a loro non piacessero, quanto perché non erano abbastanza solidi e quindi andavano rimpiazzati con altri che potessero durare per sempre e fossero perfetti. La perfezione era dunque uno stato nel quale qualsiasi cambiamento sarebbe stato un peggioramento. Nessun miglioramento sarebbe stato più possibile: la modernità solida era tutta concentrata nella costruzione dell’ordine perfetto. Il mondo era visto come un ammasso di problemi da risolvere: se c’erano mille problemi, ogni problema risolto significava un problema in meno da risolvere. La modernità è dunque “solida” se agisce per creare altri solidi che non si possano sciogliere. Nella scienza e in ogni altro campo d’indagine è possibile scoprire ogni segreto dell’universo affinché l’ordine costituito sia perfetto e indistruttibile. Funzionale a questa visione era un’idea di etica basata su diritti e doveri duraturi, se non eterni, almeno lunghi quanto il proprio tempo di vita, che permettessero a ciascuno di elaborare un progetto di vita. Una volta che si fosse avuto un tale progetto, ogni passo per realizzarlo diveniva chiaro. A un ventenne di oggi tutto ciò pare comico e impossibile, gli sembrerebbe tanto avere un progetto per il prossimo anno. Un tempo un lavoratore della Ford, la fabbrica paradigmatica del periodo “solido”, poteva considerarsi tale a vita. Oggi, un giovane sogna di andare a lavorare nella Silicon Valley, oppure per Bill Gates, dove guadagnerà una fortuna ma non sarà in grado di prevedere i possibili sviluppi del suo lavoro, del suo ruolo come lavoratore, negli anni successivi.
Cos’è cambiato? Nella modernità solida era innanzitutto il capitale a essere solido. Non solo le fabbriche non potevano essere trasportate ma gli stessi capitalisti dipendevano per la loro fortuna dai lavoratori. Lavoratori e capitalisti erano legati indissolubilmente fra loro e al territorio. Era come nella formula matrimoniale “finché morte non ci separi.”
Perché la vita fosse sopportabile, bisognava trovare un modus vivendi valido per ogni componente dell’unione. Per questo motivo, la modernità solida fu un tempo di conflittualità incredibilmente bassa; si cercava piuttosto la continua stipula di accordi.
Un importante sociologo ha scritto che la vita di fabbrica tendeva a decomporre le capacità individuali ma, allo stesso tempo, rafforzava le capacità sociali. Tutte le invenzioni del tempo erano soggette alla stessa logica.
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Da: “L’etica degli affari nella modernità liquida”, 27 marzo 2004, Milano.