lunedì 16 maggio 2011
il Te del Tao: XVI - VOLGERSI ALLA RADICE
XVI - VOLGERSI ALLA RADICE
Arrivare alla vacuità è il culmine,
mantenere la quiete è schiettezza:
le diecimila creature insieme sorgono
ed io le vedo ritornare a quelle,
quando le creature hanno avuto il lor rigoglio
ciascuna fa ritorno alla sua radice.
Tornare alla radice è quiete,
il che vuol dire restituire il mandato,
restituire il mandato è eternità.
Chi conosce l'eternità è illuminato,
chi non la conosce insensatamente provoca sventure.
Chi conosce l'eternità tutto abbraccia,
tutto abbracciando è equanime,
essendo equanime è sovrano,
essendo sovrano è Cielo,
essendo Cielo è Tao,
essendo Tao a lungo dura
e per tutta la vita non corre pericolo.
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Tao
venerdì 15 aprile 2011
De la causa, principio et uno del Tao
« È dunque l’universo uno, infinito, immobile; una è la possibilità assoluta, uno l’atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo et ottimo; il quale non deve poter essere compreso; e perciò infinibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato e per conseguenza immobile; questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto; non si genera perché non è altro essere che lui possa derivare o aspettare, atteso che abbia tutto l’essere; non si corrompe perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa; non può sminuire o crescere, atteso che è infinito, a cui non si può aggiungere, così è da cui non si può sottrarre, per ciò che lo infinito non ha parti proporzionabili »
(Giordano Bruno, De la causa, principio et uno, 1584)
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Interludio Tao
giovedì 14 aprile 2011
Schizofrenia (2 di Spade)
La persona raffigurata in questa carta introduce una nuova sfumatura alla vecchia idea di "cadere dalla padella nella brace"! È proprio in una situazione simile che c'impantaniamo quando restiamo bloccati nella mente, le cui caratteristiche sono l'indecisione e la dualità. Devo mollare prima le braccia e cadere a testa in giù, oppure devo mollare le gambe e cadere di piedi? Devo andare di qui o di là? Devo dire di sì o di no? Qualsiasi decisione prendiamo, continueremo a chiederci se non avremmo dovuto decidere il contrario. Sfortunatamente, la sola via d'uscita da questo dilemma è lasciar andare entrambe le estremità contemporaneamente. Non è possibile uscire da questo stato di cose trovando una soluzione, elencando i pro e i contro, e in generale cercando di risolvere ogni cosa con l'aiuto della mente. È meglio seguire il cuore, se si riesce a trovarlo. Se non riesci a trovarlo, salta e basta: il cuore inizierà a battere così rapidamente che non potrai sbagliarti nel riconoscere dov'è!
L'uomo è scisso. La schizofrenia è la normale condizione dell'essere umano - quanto meno adesso. Forse non era così in un mondo primitivo, ma secoli di condizionamenti, di civiltà, di cultura e di religione hanno reso l'uomo una folla - diviso, scisso, contraddittorio... Tuttavia, poiché questa schizofrenia è contro la sua natura, da qualche parte nelle profondità del suo essere sopravvive ancora l'unità. Poiché l'anima dell'uomo è una, i condizionamenti arrivano al massimo a distruggere la periferia. Il centro resta vergine, non ne è toccato - ecco perché l'uomo continua a vivere. Ma la sua vita diventa un inferno. L'intero sforzo dello Zen è diretto a tentare di lasciar cadere questa schizofrenia, questa personalità scissa, questa mente umana divisa, e a diventare indiviso, integro, centrato, cristallizzato. Così come sei, non puoi dire di esistere. Non hai un essere. Sei una piazza di mercato - un vociare. Se vuoi dire di sì, subito si profila il no. Non puoi neppure pronunciare una parola semplice come un sì con totalità. In questo stato di cose non è possibile alcuna felicità; l'infelicità è la conseguenza naturale di una personalità scissa.
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Tao Sincronico
mercoledì 13 aprile 2011
un Tao ideale per i pesci banana
Nell’albergo c’erano novantasette agenti pubblicitari di New York e tenevano le linee interurbane talmente monopolizzate che la ragazza del 507 dovette attendere la sua chiamata fin quasi alle due e mezzo. Ma non rimase con le mani in mano. Lesse in una rivista femminile un articolo intitolato Il sesso: paradiso…o inferno. Lavò il pettine e la spazzola. Tolse la macchia dalla gonna del tailleur nocciola. Spostò il bottone sulla camicetta di Saks. Strappò due peli da poco spuntati alla superficie del neo. Quando finalmente la centralinista fece il numero della sua stanza, se ne stava seduta nel vano della finestra e aveva quasi finito di laccarsi le unghie della mano sinistra.
Era il tipo di ragazza che non pianta le cose a metà - qualsiasi cosa -per un campanello. Non cambiò espressione, come se quel telefono fosse abituata a sentirlo suonare ininterrottamente fin dalla pubertà.
Mentre gli squilli continuavano, passò il pennellino sull’unghia del mignolo, accentuando la curva della lunetta. Poi rimise il tappo al flacone di lacca e, alzandosi, agitò avanti e indietro la mano bagnata, la sinistra. Con quella asciutta raccolse dal sedile nel vano della finestra un portacenere congestionato e se lo portò fino al tavolino da notte, su cui era posato l’apparecchio. Sedette su uno dei due letti gemelli, fatti entrambi, e a questo punto - era il quinto o sesto squillo - alzò il ricevitore.
- Pronto, - disse, tenendo le dita della sinistra ben distese e lontane dalla vestaglia di seta bianca, l’unico indumento che avesse indosso oltre alle pantofole; gli anelli erano in bagno.
- Ci siamo, signora Glass, ho New York in linea, - disse la centralinista.
- Grazie, - disse la ragazza, e fece posto al portacenere sul tavolino da notte.
Dall’apparecchio venne una voce di donna. - Muriel? Sei tu?
La ragazza scostò un poco il ricevitore dall’orecchio. - Sì, mamma. Come stai? - disse.
- Ero in pena da morire. Perché non hai telefonato? Come stai? Stai bene?
- Ho cercato di chiamarti ieri sera e l’altro ieri. Ma qui il telefono…
- Davvero stai bene, Muriel?
La ragazza allargò ancora l’angolo tra il ricevitore e l’orecchio. - Sto benissimo. Fa un gran caldo. Oggi è la giornata più calda che ci sia stata in Florida dal…
- Perché non hai telefonato? Ero in pena da…
- Mamma, senti, c’è bisogno di urlare così? Ti sento benissimo, - disse la ragazza. - Ti ho chiamato due volte, ieri sera. Una volta erano appena passate le…
- L’avevo detto a tuo padre che probabilmente avresti chiamato, ieri sera. Ma lui niente, ha voluto a tutti i costi…Ma stai bene, Muriel? Dimmi la verità.
- Sto benissimo. Fammi il piacere, smettila di farmi sempre la stessa domanda.
- Quando siete arrivati?
- Non so. Mercoledì mattina, presto.
- Chi ha guidato?
- Lui, - disse la ragazza. - E non agitarti. Ha guidato come un angelo. Non avrei mai creduto.
- Ha guidato lui? Muriel, mi avevi dato la tua parola d’ono…
- Mamma, - interruppe la ragazza, - se ti dico che ha guidato come un angelo. Sotto gli ottanta dal principio alla fine, se vuoi saperlo.
- Non ha più fatto quei suoi scherzetti con gli alberi?
- Ti dico che ha guidato come un santo, mamma. Va bene? Gli ho detto di tenersi sempre vicino alla striscia bianca eccetera eccetera, e lui ha capito subito cosa volevo dire, e mi ha preso alla lettera. Cercava addirittura di non guardarli, gli alberi: me ne sono accorta benissimo. A proposito, papà se l’è poi fatta rimettere a posto, la macchina?
- Non ancora. Chiedono quattrocento dollari solo per…
- Mamma, Seymour ha già detto a papà che pagherà lui i danni. Non c’è motivo di…
- Va bene, vedremo. Come si è comportato… in macchina e… insomma.
- Benissimo, - disse la ragazza.
- T’ha ancora chiamata con quell’orribile…
- No. Adesso ne ha trovato un altro.
- E cioè?
- Oh, senti mamma, che te ne importa?
- Va bene, va bene. Mi chiama Miss Puttana Spirituale del 1948, - disse la ragazza, e ridacchiò.
- Non ridere, Muriel. Non c’è proprio niente da ridere. E’ una cosa spaventosa. Anzi, è un a cosa triste. Quando penso che…
- Mamma, - interruppe la ragazza, - senti una cosa. Ti ricordi di quel libro che mi aveva mandato dalla Germania? Sai, no… quelle poesie in tedesco. Dove diavolo l’ho messo? Mi sono rotta la…
- Ce l’hai sempre.
- Ma sei sicura? - disse la ragazza.
- Sicurissima. Anzi, l’ho io. E’ nella stanza di Freddy. L’hai lasciato qui e io non avevo più posto nella…Perché? Lo rivuole?
- No. Solo che me ne ha parlato, mentre venivamo qui. Voleva sapere se l’avevo letto.
- Ma è in tedesco!
- Lo so, mamma. Questo non cambia niente, - disse la ragazza, accavallando le gambe. - Si dà il caso che quelle poesie siano state scritte dall’unico grande poeta di questo secolo; così ha detto. Ha detto che avrei dovuto comprarmi una traduzione o… insomma. O se no, dovevo imparare il tedesco, e scusa se è poco.
- Spaventoso. Spaventoso. Proprio una cosa triste, non c’è altra parola. Ieri sera tuo padre diceva…
- Un secondo, mamma, - disse la ragazza. Andò a prendere le sigarette vicino alla finestra, ne accese una, e tornò a sedersi sul letto. - Mamma?-
disse, soffiando fuori il fumo.
- Stammi bene a sentire, adesso, Muriel.
- Ti sento.
- Tuo padre ha parlato col dottor Sivetski.
- Ah! - disse la ragazza.
- Gli ha raccontato tutto. Tutto. Almeno, così dice lui… sai com’è tuo padre. Gli alberi. Il fatto della finestra. Quelle cose atroci che ha detto alla nonna, quando le ha chiesto se aveva dei progetti per le vacanze eterne. Come ha conciato quelle meravigliose fotografie delle Bermude… tutto.
- E allora? - disse la ragazza.
- Allora. Per prima cosa, Sivetski ha detto che l’Esercito non avrebbe mai dovuto dimetterlo dall’ospedale: è stato un vero delitto, parola d’onore. Ha detto chiaramente a tuo padre che c’è il rischio - un rischio grandissimo, dice - che Seymour perda completamente il controllo di se stesso. Parola d’onore.
- C’è uno psichiatra qui all’albergo, - disse la ragazza.
- Chi è? Come si chiama?
- Non lo so. Rieser, un nome così. Pare che sia bravissimo.
- Mai sentito nominare.
- Be’, comunque pare che sia bravissimo.
- Muriel, non prenderla su questo tono, fammi il piacere. Stiamo molto in pensiero per te. Tuo padre voleva telegrafarti di tornare a casa, ieri sera, se vuoi s…
- Per il momento non ho nessuna intenzione di tornare a casa, mamma. E quindi non stare ad agitarti.
- Muriel, parola d’onore. Il dottor Sivetski dice che Seymour può perdere completamente il con…
- Sono appena arrivata, mamma. Sono le prime vacanze che mi prendo in non so quanti anni, e non ho nessuna intenzione di rifare le valige proprio adesso e tornarmene a casa, - disse la ragazza. - E poi comunque non potrei mettermi in viaggio. Mi sono presa una scottatura che non posso neanche muovermi.
- Ti sei presa una brutta scottatura? Ma non hai visto quel flacone di Bronze che t’ho messo nella valigia? L’ho messo subito sotto…
- L’ho visto e l’ho usato. Mi sono scottata lo stesso.
- E’ terribile. Dove sei scottata?
- Dappertutto, mamma, dappertutto.
- E’ terribile.
- Non morirò.
- Senti, hai parlato con lo psichiatra?
- Be’, per modo di dire, - disse la ragazza.
- Che cosa ha detto? Dov’era Seymour mentre tu gli parlavi?
- Nella sala belvedere, a suonare il piano. Ha suonato tute e due le sere, da quando siamo qui.
- E allora? Cosa ti ha detto?
- Oh, niente di speciale. E’ stato lui ad attaccare discorso. Ero seduta vicino a lui, ieri sera, mentre si giocava a tombola, e lui m’ha chiesto se era mio marito quello che suonava il piano nell’altra stanza. Ho detto di sì, che era lui, e lui m’ha chiesto se Seymour era stato malato o cos’aveva. Allora io gli ho detto…
- Come mai te l’ha chiesto?
- Non lo so, mamma. Probabilmente perché è così pallido e tutto, - disse la ragazza. - Comunque, dopo la tombola lui e sua moglie mi hanno invitata a prendere qualcosa con loro, e io ho accettato. Sua moglie è orrenda. Ti ricordi quell’atroce abito da sera che abbiamo visto nella vetrina di Bonwit? Quello che tu hai detto che per poterlo portare bisognava avere un microscopico…
- Quello verde?
- Ce l’aveva addosso. E avessi visto i fianchi. Continuava a chiedermi se Seymour è parente di Suzanne Glass, sai, quella che ha il negozio a Madison Avenue… la modista.
- Ho capito, ma cosa ti ha detto? Il dottore.
- Oh, niente di speciale, cosa vuoi. Eravamo nel bar, capisci? C’era un chiasso tremendo.
- Sì, ma tu… ma gli hai detto cos’ha cercato di fare con la sedia della nonna?
- No, mamma. Non ho potuto entrare molto nei particolari, - disse la ragazza. - Probabilmente troverò un altro momento per parlargli. Sta seduto al bar dalla mattina alla sera.
- Non ha mica detto che secondo lui c’è il pericolo che possa… insomma… che si metta a fare delle stranezze? Che possa farti del male?
- Non proprio, - disse la ragazza. - Deve avere più dati, mamma. Devono sapere di quand’era bambino… tutte quelle cose lì. Te l’ho detto, quasi non potevamo sentirci, c’era un chiasso dell’altro mondo.
- Bene. Come va il tuo giaccone blu?
- Va ancora. Ho fatto togliere un po’ di imbottitura.
- Come sono i vestiti quest’anno?
- Terribili. Ma molto divertenti. Perfino lustrini… insomma tutto, - disse la ragazza.
- Com’è la stanza?
- Può andare. Ma appena appena. Non siamo riusciti ad avere la stanza che avevamo prima della guerra, - disse la ragazza. - La gente che c’è qui quest’anno è spaventosa. Dovresti vedere che razza di tipi abbiamo vicino a noi in sala da pranzo. Il tavolo accanto al nostro. Da dirsi, ma come ci sono arrivati qui, in camion?
- Cosa vuoi, è così dappertutto. E la gonna a fiori, poi?
- E’ troppo lunga. Te l’avevo detto che era troppo lunga.
- Muriel, te lo chiedo per l’ultima volta: stai bene?
- Mamma, - disse la ragazza, - per la novantaseiesima volta: sì.
- E non vuoi tornare a casa?
- Mamma, no.
- Tuo padre ha detto ieri sera che sarebbe felicissimo di aiutarti finanziariamente, se vuoi andartene in qualche posto per conto tuo a pensarci sopra. Potresti farti una bella crociera. Secondo noi…
- No, grazie, - disse la ragazza, e disincrociò le gambe. - Mamma, questa telefonata mi sta costando un pa…
- Quando penso che sei rimasta ad aspettare quel ragazzo per tutta la guerra… insomma, no quando penso a quelle mogli che ne facevano di tutti i colori…
- Mamma, - disse la ragazza, - è meglio che smettiamo. Seymour può entrare da un momento all’altro.
- Dov’è?
- Sulla spiaggia.
- Sulla spiaggia? Da solo? E come si comporta sulla spiaggia?
- Mamma, - disse la ragazza, - parli di lui come se fosse pazzo furioso…
- Non ho mai detto questo, Muriel.
- Be’, ma lo pensi. Poveretto, se ne sta lì sdraiato, buono buono. Non si toglie nemmeno l’accappatoio.
- Non si toglie l’accappatoio? E perché?
- E chi lo sa? Sarà perché è così bianco.
- Ma santo cielo, se c’è uno che ha bisogno di sole. Cerca di farglielo capire, no?
- Sai com’è Seymour, - disse la ragazza, e tornò ad accavallare le gambe.- Dice che non vuole che tutti quegli imbecilli vengano a vedere il suo tatuaggio.
- Ma non è mica tatuato! S’è fatto tatuare sotto le armi?
- No, mamma. No, sta’ tranquilla, - disse la ragazza e si alzò. - Senti, ti chiamo io domani, magari.
- Muriel. Stammi bene a sentire.
- Sì, mamma, - disse la ragazza, spostando il peso del corpo sulla gamba destra.
- Se si mette a fare o a dire qualcosa di strano devi chiamarmi immediatamente. Sai cosa voglio dire. Hai capito?
- Io non ho paura di Seymour, mamma.
- Muriel, devi promettermelo.
- Va bene, te lo prometto. Ciao, mamma, - disse la ragazza. - Saluta papà -. E abbassò il ricevitore.
- L’acchiappatoio – disse Sybil Carpenter, che abitava nell’albergo con sua madre. – Dov’è l’acchiappatoio?
- Se lo dici ancora una volta, topino, la mamma impazzisce. Diventa matta. Sta’ ferma, su.
La signora Carpenter stava mettendo dell’olio solare sulle spalle di Sybil, spalmandolo sulle scapole delicate come ali. Sybil era seduta precariamente su un grosso pallone da spiaggia, volta verso l’oceano. Indossava un costume da bagno giallo canarino, a due pezzi, e di uno dei due pezzi non avrebbe, in realtà, avuto bisogno per altri nove o dieci anni.
- Era un comunissimo fazzoletto di seta… da vicino si vedeva benissimo, - disse la donna nella sdraio accanto a quella della signora Carpenter. - Vorrei proprio sapere come se l’era legato. Le dico: un amore.
- Ci credo, - consentì la signora Carpenter. - Sybil, vuoi star ferma, per favore ?
- Che cosa acchiappi se non te lo togli? - disse Sybil.
La signora Carpenter sospirò. - Ecco, - disse. Riavvitò il tappo sul flacone. - Adesso corri a giocare, topino. La mamma va un momento in albergo a prendere un martini con la signora Hubbel. Ti porto l’oliva, eh?
Lasciata libera, Sybil corse fini alla parte piatta e dura della spiaggia, poi cominciò a camminare verso il Chiosco del Pescatore. Fermandosi solo una volta a ficcare il piede dentro un castello di sabbia ormai ridotto in poltiglia, si trovò ben presto fuori dal tratto riservato agli ospiti dell’albergo.
Continuò a camminare per quattro o cinquecento metri e all’improvviso partì di corsa, tagliando obliquamente attraverso la striscia più interna della spiaggia, dove la sabbia era soffice. Si fermò di colpo quando raggiunse il punto in cui un giovanotto se ne stava sdraiato sul dorso.
- Che cosa acchiappi se non te lo togli? - disse.
Il giovanotto sussultò, chiudendosi con la destra i risvolti dell’accappatoio di spugna. Si rivoltò sullo stomaco, lasciando cadere un asciugamano arrotolato che gli copriva gli occhi, e alzò lo sguardo su Sybil, ammiccando.
- Ehi! Ciao, Sybil.
- Non te lo togli?
- Stavo aspettando te, - disse il giovanotto. - Novità?
- Come? - disse Sybil.
- Che novità ci sono? Che c’è in programma?
- Il mio papà arriva domani col nareoplano, disse Sybil, scalciando nella sabbia.
- Non in faccia, Sybil, - disse il giovanotto, chiudendo la mano intorno alla caviglia di Sybil. - Be’, era ora che arrivasse, il tuo papà. Sai che lo aspettavo con impazienza. Con viva impazienza.
- Dov’è la signora? - disse Sybil.
- La signora? - Il giovanotto si tolse un po’ di sabbia dai capelli radi. - Difficile dirlo, Sybil. Ci sono mille posti in cui potrebbe essere. Dal parrucchiere. A farsi tingere i capelli di un bel visone. O a fabbricare delle bambole per i bambini poveri, in camera sua -. Tornando a sdraiarsi, ma questa volta sul ventre, il giovanotto chiuse le due mani a pugno, le mise una sopra l’altra, e appoggiò il mento su questo sostegno. - Domandami qualche altra cosa, Sybil, - disse. – E’ bello quel costume che hai addosso, sai? Se c’è una cosa che mi piace, è un costume da bagno blu.
Sybil lo guardò a occhi sgranati, poi si contemplò lo stomaco sporgente. - Questo è un giallo, - disse. - Questo è un giallo.
- Ah sì? Vieni un po’ più vicina.
Sybil fece un passo avanti.
- Hai proprio ragione. Ma guarda che stupido sono.
- Non ci vai nell’acqua? - disse Sybil.
- Ci sto pensando seriamente. Sto considerando la cosa con molta serietà, Sybil, se questo può farti piacere.
Sybil tastò col piede il materassino di gomma che qualche volta il giovanotto usava per appoggiare la testa. - Gli manca aria, - disse.
- Hai ragione. Gli manca più aria di quanto io sia disposto ad ammettere -. Tolse i due pugni di sotto il mento, che lasciò ricadere sulla sabbia. - Sybil, - disse, - sei proprio in forma. E’un piacere vederti. Perché non mi parli un po’ di te? - Protese le mani davanti a sé e le strinse attorno alle caviglie di Sybil. - Io sono del Capricorno, - disse. - E tu cosa sei?
- Sharon Lipschutz dice che l’hai lasciata sedere sullo sgabello del piano vicino a te, - disse Sybil.
- Sharon Lipschutz ha detto questo?
Sybil annuì vigorosamente.
Il giovanotto le lasciò andare le caviglie, ritirò le mani e appoggiò una guancia sull’avambraccio destro. - Be’, - disse, - lo sai come vanno queste cose, Sybil. Ero là seduto che stavo suonando. E tu chissà dov’eri, in quel momento. E Sharon Lipschutz è venuta lì e a un certo punto si è messa a sedere vicino a me. Non potevo mica spingerla via, ti pare?
- Sì, che potevi.
- Oh no. No. Non potevo fare una cosa simile, - disse il giovanotto. - Ma sai cosa ho fatto, invece?
- Cosa?
- Ho fatto finta che fossi tu.
Immediatamente Sybil si chinò e cominciò a scavare nella sabbia.
- Andiamo nell’acqua, - disse.
- Va bene, - disse il giovanotto. - Si può sempre provare.
- Un’altra volta spingila via, - disse Sybil.
- Chi devo spingere via?
- Sharon Lipschutz.
- Ah, Sharon Lipschutz, - disse il giovanotto. - Come torna spesso quel nome. Mischiando il ricordo al desiderio -. Si alzò in piedi di colpo. Guardò l’oceano. - Sybil, - disse, - sai cosa faremo adesso? Cercheremo di acchiappare un pescebanana.
- Un cosa?
- Un pescebanana, - disse il giovanotto, e sciolse la cintura dell’ac-cappatoio. Si tolse l’accappatoio. Aveva le spalle bianche e strette, e le mutandine azzurre. Piegò l’accappatoio, prima nel senso della lunghezza, poi in tre parti. Srotolò l’asciugamano che s’era messo sugli occhi, lo stese sulla sabbia e vi depose sopra l’accappatoio ripiegato. Si chinò, raccolse il materassino e se lo mise sotto il braccio destro. Poi, con la sinistra, prese la mano di Sybil.
Insieme si avviarono verso il mare.
- Immagino che ne avrai visti parecchi, di pescibanana, ai tuoi bei tempi, - disse il giovanotto.
Sybil scosse il capo.
- No? Ma si può sapere dove vivi?
- Non lo so, - disse Sybil.
- Ma sì che lo sai. Devi saperlo per forza. Sharon Lipschutz sa benissimo dove abita e ha solo tre anni e mezzo.
Sybil smise di camminare e strappò la mano da quella di lui. Raccolse una comune conchiglia e la esaminò con elaborato interesse. La gettò via. - Whirly Wood, Connecticut, - disse, e riprese a camminare con lo stomaco bene in fuori.
- Whirly Wood, Connecticut, - disse il giovanotto. - Non è dalle parti di Whirly Wood, Connecticut, per caso?
Sybil lo guardò. - E’ lì che abito, - disse spazientita.- Abito a Whirly Wood, Connecticut -. Corse davanti a lui di qualche passo, si prese con la sinistra il piede sinistro, e saltellò due o tre volte su una gamba sola.
- Tutto è chiaro, finalmente, - disse il giovanotto.
Sybil lasciò andare il piede. - Hai letto Il piccolo Sambo? - disse.
- E’ strano che tu me lo chieda, - disse lui. - Vedi caso, ho finito di leggerlo proprio ieri sera -. Allungò il braccio e riprese la mano di Sybil. - Come t’è sembrato? - le chiese.
- Come correvano intorno a quell’albero, le tigri.
- Non si fermavano più. Mai viste tante tigri in vita mia.
- Ce n’erano solo sei, - disse Sybil.
- Solo sei? - disse il giovanotto. - E lo chiami solo?
- Ti piace la cera? - chiese Sybil.
- Mi piace cosa? - chiese il giovanotto.
- La cera.
- Moltissimo. E a te?
Sybil annuì. - Ti piacciono le olive? - chiese.
- Le olive… sì. Olive e cera. Non faccio un passo senza portarmene dietro una provvista.
- Ti piace Sharon Lipschutz? - chiese Sybil.
- Sì. Sì, mi piace, - disse il giovanotto. - Quel che soprattutto mi piace di lei è che non fa mai delle brutte cose ai cagnolini nell’atrio dell’albergo. Quel piccolo bulldog di quella signora canadese, per esempio. Tu probabilmente non ci crederai, ma ho visto coi miei occhi certe bambine tormentarlo con un bastoncino. Queste cose Sharon non le fa. Non è mai cattiva o dispettosa, lei. E’ per questo che mi piace tanto.
Sybil taceva.
- Mi piace masticare le candele, - disse finalmente.
- Lo credo bene, - disse il giovanotto, mettendo i piedi nell’acqua. - Ahi! E’ fredda -. Lasciò cadere il materassino. - No, aspetta un momento, Sybil. Aspetta che arriviamo un po’ più in là.
Si spinsero avanti finché l’acqua giunse alla vita di Sybil. Allora il giovanotto la sollevò e la fece sdraiare sul materassino., a pancia in giù.
- Resti con i capelli così, senza cuffia, senza niente? - le chiese il giovanotto.
- Non lasciarmi andare, - ordinò Sybil. - Tienimi forte, adesso.
- Signorina Carpenter. La prego. Conosco i miei doveri, disse il giovanotto. - Tu devi solo tenere gli occhi bene aperti per il caso che passi qualche pescebanana. Questo è un giorno ideale per i pescibanana.
- Non ne vedo neanche uno.
- E’ comprensibile. Hanno delle abitudini molto singolari. Molto, ma molto singolari.
Continuò ad avanzare spingendo il materassino. L’acqua non gli arrivava al petto. – E’ una vita molto tragica, la loro, poveretti, - disse. - Lo sai cosa fanno, Sybil?
Sybil scosse il capo.
- Vedi, nuotano dentro una grotta dove c’è un mucchio di banane. Sembrano dei pesci qualunque, quando vanno dentro. Ma una volta che sono entrati, si comportano come dei maialini. Ti dico, so da fonte sicura di certi pescibanana che, dopo essersi infilati in una grotta bananifera, sono arrivati a mangiare la bellezza di settantotto banane -. Avvicinò di mezzo metro all’orizzonte il materassino e la sua passeggera. - Naturalmente, dopo una scorpacciata simile sono così grassi che non possono più venir fuori dalla grotta. Non passano dalla porta.
- Non troppo lontano, - disse Sybil. - E poi, cosa fanno?
- Cosa fanno chi?
- I pescibanana.
- Oh, vuoi dire dopo che hanno mangiato tante banane che non possono più uscire dalla grotta bananifera?
- Sì, - disse Sybil.
- Ecco, mi rincresce molto di dovertelo dire, Sybil. Muoiono.
- Perché? - chiese Sybil.
- Ecco, gli viene la bananite. E’ una malattia terribile.
- C’è un’onda che sta arrivando, - disse Sybil nervosamente.
- Faremo finta di non vederla. La snobberemo, - disse il giovanotto. - Due snob -. Prese in mano le caviglie di Sybil e spinse in basso e in avanti. Il materassino si rizzò sopra la cresta dell’onda. L’acqua inondò i capelli biondi di Sybil, ma il suo strillo era pieno di gioia.
Con la mano, quando il materassino fu di nuovo immobile, si tolse dagli occhi un lungo ciuffo bagnato e piatto, e riferì: - Ne ho visto uno.
- Cos’hai visto, amor mio?
- Un pescebanana.
- Santo cielo, no! - disse il giovanotto. - Aveva delle banane in bocca?
- Sì, - disse Sybil. - Sei.
All’improvviso il giovanotto tirò su uno dei piedi bagnati di Sybil, che sporgevano oltre l’orlo del materassino, e ne baciò il collo.
- Ehi! - disse la padrona del piede, voltandosi.
- Ehi cosa? Adesso si torna. Ti basta così?
- No!
- Mi rincresce, - disse il giovanotto, e spinse il materassino verso la spiaggia finché Sybil poté scendere. Poi lo tirò fuori dall’acqua e lo portò a riva.
- Ciao, - disse Sybil, e corse senza rimpianto in direzione dell’albergo.
Il giovanotto si infilò l’accappatoio, accostò strettamente i risvolti e si cacciò l’asciugamano in tasca. Raccolse il materassino bagnato, cui ora aderiva un velo di sabbia, e se lo mise alla meglio sotto braccio. Si avviò solo, a passi pesanti, sulla sabbia fine e rovente verso l’albergo.
Al piano seminterrato dell’albergo, dove c’era l’ingresso riservato dalla direzione ai bagnanti, una donna col naso coperto di pomata allo zinco entrò nell’ascensore insieme al giovanotto.
- Vedo che mi sta guardando i piedi, - disse il giovanotto quando la cabina si mise in moto.
- Come ha detto, scusi? - disse la donna.
- Ho detto che vedo che lei mi sta guardando i piedi.
- Scusi, ma stavo guardando in terra, disse la donna, e si volse verso la porta della cabina.
- Se le fa piacere guardarmi i piedi, si accomodi, - disse il giovanotto. - Ma perdio, abbia almeno il coraggio di farlo senza sotterfugi.
- Scendo qui, prego, - disse in fretta la donna alla ragazza che manovrava l’ascensore.
Le porte si aprirono e la donna uscì senza voltarsi indietro.
- Ho dei piedi normalissimi e perdio non capisco perché la gente me li debba guardare con gli occhi fuori dalla testa, - disse il giovanotto. - Al quinto, prego -. Tirò fuori dalla tasca dell’accappatoio la chiave della sua camera.
Scese al quinto piano, percorse il corridoio ed entrò al numero 507. La stanza odorava di valige nuove e di acetone.
Il giovanotto guardò la ragazza addormentata su uno dei letti gemelli. Poi si avvicinò a una valigia, l’aprì, e di sotto a una pila di mutande e canottiere trasse una Ortgies automatica calibro 7,65. Fece scattare fuori il caricatore, lo guardò, tornò a infilarlo nell’arma. Tolse la sicura. Poi attraversò la stanza e sedette sul letto libero; guardò la ragazza, prese la mira e si sparò un colpo nella tempia destra.
Era il tipo di ragazza che non pianta le cose a metà - qualsiasi cosa -per un campanello. Non cambiò espressione, come se quel telefono fosse abituata a sentirlo suonare ininterrottamente fin dalla pubertà.
Mentre gli squilli continuavano, passò il pennellino sull’unghia del mignolo, accentuando la curva della lunetta. Poi rimise il tappo al flacone di lacca e, alzandosi, agitò avanti e indietro la mano bagnata, la sinistra. Con quella asciutta raccolse dal sedile nel vano della finestra un portacenere congestionato e se lo portò fino al tavolino da notte, su cui era posato l’apparecchio. Sedette su uno dei due letti gemelli, fatti entrambi, e a questo punto - era il quinto o sesto squillo - alzò il ricevitore.
- Pronto, - disse, tenendo le dita della sinistra ben distese e lontane dalla vestaglia di seta bianca, l’unico indumento che avesse indosso oltre alle pantofole; gli anelli erano in bagno.
- Ci siamo, signora Glass, ho New York in linea, - disse la centralinista.
- Grazie, - disse la ragazza, e fece posto al portacenere sul tavolino da notte.
Dall’apparecchio venne una voce di donna. - Muriel? Sei tu?
La ragazza scostò un poco il ricevitore dall’orecchio. - Sì, mamma. Come stai? - disse.
- Ero in pena da morire. Perché non hai telefonato? Come stai? Stai bene?
- Ho cercato di chiamarti ieri sera e l’altro ieri. Ma qui il telefono…
- Davvero stai bene, Muriel?
La ragazza allargò ancora l’angolo tra il ricevitore e l’orecchio. - Sto benissimo. Fa un gran caldo. Oggi è la giornata più calda che ci sia stata in Florida dal…
- Perché non hai telefonato? Ero in pena da…
- Mamma, senti, c’è bisogno di urlare così? Ti sento benissimo, - disse la ragazza. - Ti ho chiamato due volte, ieri sera. Una volta erano appena passate le…
- L’avevo detto a tuo padre che probabilmente avresti chiamato, ieri sera. Ma lui niente, ha voluto a tutti i costi…Ma stai bene, Muriel? Dimmi la verità.
- Sto benissimo. Fammi il piacere, smettila di farmi sempre la stessa domanda.
- Quando siete arrivati?
- Non so. Mercoledì mattina, presto.
- Chi ha guidato?
- Lui, - disse la ragazza. - E non agitarti. Ha guidato come un angelo. Non avrei mai creduto.
- Ha guidato lui? Muriel, mi avevi dato la tua parola d’ono…
- Mamma, - interruppe la ragazza, - se ti dico che ha guidato come un angelo. Sotto gli ottanta dal principio alla fine, se vuoi saperlo.
- Non ha più fatto quei suoi scherzetti con gli alberi?
- Ti dico che ha guidato come un santo, mamma. Va bene? Gli ho detto di tenersi sempre vicino alla striscia bianca eccetera eccetera, e lui ha capito subito cosa volevo dire, e mi ha preso alla lettera. Cercava addirittura di non guardarli, gli alberi: me ne sono accorta benissimo. A proposito, papà se l’è poi fatta rimettere a posto, la macchina?
- Non ancora. Chiedono quattrocento dollari solo per…
- Mamma, Seymour ha già detto a papà che pagherà lui i danni. Non c’è motivo di…
- Va bene, vedremo. Come si è comportato… in macchina e… insomma.
- Benissimo, - disse la ragazza.
- T’ha ancora chiamata con quell’orribile…
- No. Adesso ne ha trovato un altro.
- E cioè?
- Oh, senti mamma, che te ne importa?
- Va bene, va bene. Mi chiama Miss Puttana Spirituale del 1948, - disse la ragazza, e ridacchiò.
- Non ridere, Muriel. Non c’è proprio niente da ridere. E’ una cosa spaventosa. Anzi, è un a cosa triste. Quando penso che…
- Mamma, - interruppe la ragazza, - senti una cosa. Ti ricordi di quel libro che mi aveva mandato dalla Germania? Sai, no… quelle poesie in tedesco. Dove diavolo l’ho messo? Mi sono rotta la…
- Ce l’hai sempre.
- Ma sei sicura? - disse la ragazza.
- Sicurissima. Anzi, l’ho io. E’ nella stanza di Freddy. L’hai lasciato qui e io non avevo più posto nella…Perché? Lo rivuole?
- No. Solo che me ne ha parlato, mentre venivamo qui. Voleva sapere se l’avevo letto.
- Ma è in tedesco!
- Lo so, mamma. Questo non cambia niente, - disse la ragazza, accavallando le gambe. - Si dà il caso che quelle poesie siano state scritte dall’unico grande poeta di questo secolo; così ha detto. Ha detto che avrei dovuto comprarmi una traduzione o… insomma. O se no, dovevo imparare il tedesco, e scusa se è poco.
- Spaventoso. Spaventoso. Proprio una cosa triste, non c’è altra parola. Ieri sera tuo padre diceva…
- Un secondo, mamma, - disse la ragazza. Andò a prendere le sigarette vicino alla finestra, ne accese una, e tornò a sedersi sul letto. - Mamma?-
disse, soffiando fuori il fumo.
- Stammi bene a sentire, adesso, Muriel.
- Ti sento.
- Tuo padre ha parlato col dottor Sivetski.
- Ah! - disse la ragazza.
- Gli ha raccontato tutto. Tutto. Almeno, così dice lui… sai com’è tuo padre. Gli alberi. Il fatto della finestra. Quelle cose atroci che ha detto alla nonna, quando le ha chiesto se aveva dei progetti per le vacanze eterne. Come ha conciato quelle meravigliose fotografie delle Bermude… tutto.
- E allora? - disse la ragazza.
- Allora. Per prima cosa, Sivetski ha detto che l’Esercito non avrebbe mai dovuto dimetterlo dall’ospedale: è stato un vero delitto, parola d’onore. Ha detto chiaramente a tuo padre che c’è il rischio - un rischio grandissimo, dice - che Seymour perda completamente il controllo di se stesso. Parola d’onore.
- C’è uno psichiatra qui all’albergo, - disse la ragazza.
- Chi è? Come si chiama?
- Non lo so. Rieser, un nome così. Pare che sia bravissimo.
- Mai sentito nominare.
- Be’, comunque pare che sia bravissimo.
- Muriel, non prenderla su questo tono, fammi il piacere. Stiamo molto in pensiero per te. Tuo padre voleva telegrafarti di tornare a casa, ieri sera, se vuoi s…
- Per il momento non ho nessuna intenzione di tornare a casa, mamma. E quindi non stare ad agitarti.
- Muriel, parola d’onore. Il dottor Sivetski dice che Seymour può perdere completamente il con…
- Sono appena arrivata, mamma. Sono le prime vacanze che mi prendo in non so quanti anni, e non ho nessuna intenzione di rifare le valige proprio adesso e tornarmene a casa, - disse la ragazza. - E poi comunque non potrei mettermi in viaggio. Mi sono presa una scottatura che non posso neanche muovermi.
- Ti sei presa una brutta scottatura? Ma non hai visto quel flacone di Bronze che t’ho messo nella valigia? L’ho messo subito sotto…
- L’ho visto e l’ho usato. Mi sono scottata lo stesso.
- E’ terribile. Dove sei scottata?
- Dappertutto, mamma, dappertutto.
- E’ terribile.
- Non morirò.
- Senti, hai parlato con lo psichiatra?
- Be’, per modo di dire, - disse la ragazza.
- Che cosa ha detto? Dov’era Seymour mentre tu gli parlavi?
- Nella sala belvedere, a suonare il piano. Ha suonato tute e due le sere, da quando siamo qui.
- E allora? Cosa ti ha detto?
- Oh, niente di speciale. E’ stato lui ad attaccare discorso. Ero seduta vicino a lui, ieri sera, mentre si giocava a tombola, e lui m’ha chiesto se era mio marito quello che suonava il piano nell’altra stanza. Ho detto di sì, che era lui, e lui m’ha chiesto se Seymour era stato malato o cos’aveva. Allora io gli ho detto…
- Come mai te l’ha chiesto?
- Non lo so, mamma. Probabilmente perché è così pallido e tutto, - disse la ragazza. - Comunque, dopo la tombola lui e sua moglie mi hanno invitata a prendere qualcosa con loro, e io ho accettato. Sua moglie è orrenda. Ti ricordi quell’atroce abito da sera che abbiamo visto nella vetrina di Bonwit? Quello che tu hai detto che per poterlo portare bisognava avere un microscopico…
- Quello verde?
- Ce l’aveva addosso. E avessi visto i fianchi. Continuava a chiedermi se Seymour è parente di Suzanne Glass, sai, quella che ha il negozio a Madison Avenue… la modista.
- Ho capito, ma cosa ti ha detto? Il dottore.
- Oh, niente di speciale, cosa vuoi. Eravamo nel bar, capisci? C’era un chiasso tremendo.
- Sì, ma tu… ma gli hai detto cos’ha cercato di fare con la sedia della nonna?
- No, mamma. Non ho potuto entrare molto nei particolari, - disse la ragazza. - Probabilmente troverò un altro momento per parlargli. Sta seduto al bar dalla mattina alla sera.
- Non ha mica detto che secondo lui c’è il pericolo che possa… insomma… che si metta a fare delle stranezze? Che possa farti del male?
- Non proprio, - disse la ragazza. - Deve avere più dati, mamma. Devono sapere di quand’era bambino… tutte quelle cose lì. Te l’ho detto, quasi non potevamo sentirci, c’era un chiasso dell’altro mondo.
- Bene. Come va il tuo giaccone blu?
- Va ancora. Ho fatto togliere un po’ di imbottitura.
- Come sono i vestiti quest’anno?
- Terribili. Ma molto divertenti. Perfino lustrini… insomma tutto, - disse la ragazza.
- Com’è la stanza?
- Può andare. Ma appena appena. Non siamo riusciti ad avere la stanza che avevamo prima della guerra, - disse la ragazza. - La gente che c’è qui quest’anno è spaventosa. Dovresti vedere che razza di tipi abbiamo vicino a noi in sala da pranzo. Il tavolo accanto al nostro. Da dirsi, ma come ci sono arrivati qui, in camion?
- Cosa vuoi, è così dappertutto. E la gonna a fiori, poi?
- E’ troppo lunga. Te l’avevo detto che era troppo lunga.
- Muriel, te lo chiedo per l’ultima volta: stai bene?
- Mamma, - disse la ragazza, - per la novantaseiesima volta: sì.
- E non vuoi tornare a casa?
- Mamma, no.
- Tuo padre ha detto ieri sera che sarebbe felicissimo di aiutarti finanziariamente, se vuoi andartene in qualche posto per conto tuo a pensarci sopra. Potresti farti una bella crociera. Secondo noi…
- No, grazie, - disse la ragazza, e disincrociò le gambe. - Mamma, questa telefonata mi sta costando un pa…
- Quando penso che sei rimasta ad aspettare quel ragazzo per tutta la guerra… insomma, no quando penso a quelle mogli che ne facevano di tutti i colori…
- Mamma, - disse la ragazza, - è meglio che smettiamo. Seymour può entrare da un momento all’altro.
- Dov’è?
- Sulla spiaggia.
- Sulla spiaggia? Da solo? E come si comporta sulla spiaggia?
- Mamma, - disse la ragazza, - parli di lui come se fosse pazzo furioso…
- Non ho mai detto questo, Muriel.
- Be’, ma lo pensi. Poveretto, se ne sta lì sdraiato, buono buono. Non si toglie nemmeno l’accappatoio.
- Non si toglie l’accappatoio? E perché?
- E chi lo sa? Sarà perché è così bianco.
- Ma santo cielo, se c’è uno che ha bisogno di sole. Cerca di farglielo capire, no?
- Sai com’è Seymour, - disse la ragazza, e tornò ad accavallare le gambe.- Dice che non vuole che tutti quegli imbecilli vengano a vedere il suo tatuaggio.
- Ma non è mica tatuato! S’è fatto tatuare sotto le armi?
- No, mamma. No, sta’ tranquilla, - disse la ragazza e si alzò. - Senti, ti chiamo io domani, magari.
- Muriel. Stammi bene a sentire.
- Sì, mamma, - disse la ragazza, spostando il peso del corpo sulla gamba destra.
- Se si mette a fare o a dire qualcosa di strano devi chiamarmi immediatamente. Sai cosa voglio dire. Hai capito?
- Io non ho paura di Seymour, mamma.
- Muriel, devi promettermelo.
- Va bene, te lo prometto. Ciao, mamma, - disse la ragazza. - Saluta papà -. E abbassò il ricevitore.
- L’acchiappatoio – disse Sybil Carpenter, che abitava nell’albergo con sua madre. – Dov’è l’acchiappatoio?
- Se lo dici ancora una volta, topino, la mamma impazzisce. Diventa matta. Sta’ ferma, su.
La signora Carpenter stava mettendo dell’olio solare sulle spalle di Sybil, spalmandolo sulle scapole delicate come ali. Sybil era seduta precariamente su un grosso pallone da spiaggia, volta verso l’oceano. Indossava un costume da bagno giallo canarino, a due pezzi, e di uno dei due pezzi non avrebbe, in realtà, avuto bisogno per altri nove o dieci anni.
- Era un comunissimo fazzoletto di seta… da vicino si vedeva benissimo, - disse la donna nella sdraio accanto a quella della signora Carpenter. - Vorrei proprio sapere come se l’era legato. Le dico: un amore.
- Ci credo, - consentì la signora Carpenter. - Sybil, vuoi star ferma, per favore ?
- Che cosa acchiappi se non te lo togli? - disse Sybil.
La signora Carpenter sospirò. - Ecco, - disse. Riavvitò il tappo sul flacone. - Adesso corri a giocare, topino. La mamma va un momento in albergo a prendere un martini con la signora Hubbel. Ti porto l’oliva, eh?
Lasciata libera, Sybil corse fini alla parte piatta e dura della spiaggia, poi cominciò a camminare verso il Chiosco del Pescatore. Fermandosi solo una volta a ficcare il piede dentro un castello di sabbia ormai ridotto in poltiglia, si trovò ben presto fuori dal tratto riservato agli ospiti dell’albergo.
Continuò a camminare per quattro o cinquecento metri e all’improvviso partì di corsa, tagliando obliquamente attraverso la striscia più interna della spiaggia, dove la sabbia era soffice. Si fermò di colpo quando raggiunse il punto in cui un giovanotto se ne stava sdraiato sul dorso.
- Che cosa acchiappi se non te lo togli? - disse.
Il giovanotto sussultò, chiudendosi con la destra i risvolti dell’accappatoio di spugna. Si rivoltò sullo stomaco, lasciando cadere un asciugamano arrotolato che gli copriva gli occhi, e alzò lo sguardo su Sybil, ammiccando.
- Ehi! Ciao, Sybil.
- Non te lo togli?
- Stavo aspettando te, - disse il giovanotto. - Novità?
- Come? - disse Sybil.
- Che novità ci sono? Che c’è in programma?
- Il mio papà arriva domani col nareoplano, disse Sybil, scalciando nella sabbia.
- Non in faccia, Sybil, - disse il giovanotto, chiudendo la mano intorno alla caviglia di Sybil. - Be’, era ora che arrivasse, il tuo papà. Sai che lo aspettavo con impazienza. Con viva impazienza.
- Dov’è la signora? - disse Sybil.
- La signora? - Il giovanotto si tolse un po’ di sabbia dai capelli radi. - Difficile dirlo, Sybil. Ci sono mille posti in cui potrebbe essere. Dal parrucchiere. A farsi tingere i capelli di un bel visone. O a fabbricare delle bambole per i bambini poveri, in camera sua -. Tornando a sdraiarsi, ma questa volta sul ventre, il giovanotto chiuse le due mani a pugno, le mise una sopra l’altra, e appoggiò il mento su questo sostegno. - Domandami qualche altra cosa, Sybil, - disse. – E’ bello quel costume che hai addosso, sai? Se c’è una cosa che mi piace, è un costume da bagno blu.
Sybil lo guardò a occhi sgranati, poi si contemplò lo stomaco sporgente. - Questo è un giallo, - disse. - Questo è un giallo.
- Ah sì? Vieni un po’ più vicina.
Sybil fece un passo avanti.
- Hai proprio ragione. Ma guarda che stupido sono.
- Non ci vai nell’acqua? - disse Sybil.
- Ci sto pensando seriamente. Sto considerando la cosa con molta serietà, Sybil, se questo può farti piacere.
Sybil tastò col piede il materassino di gomma che qualche volta il giovanotto usava per appoggiare la testa. - Gli manca aria, - disse.
- Hai ragione. Gli manca più aria di quanto io sia disposto ad ammettere -. Tolse i due pugni di sotto il mento, che lasciò ricadere sulla sabbia. - Sybil, - disse, - sei proprio in forma. E’un piacere vederti. Perché non mi parli un po’ di te? - Protese le mani davanti a sé e le strinse attorno alle caviglie di Sybil. - Io sono del Capricorno, - disse. - E tu cosa sei?
- Sharon Lipschutz dice che l’hai lasciata sedere sullo sgabello del piano vicino a te, - disse Sybil.
- Sharon Lipschutz ha detto questo?
Sybil annuì vigorosamente.
Il giovanotto le lasciò andare le caviglie, ritirò le mani e appoggiò una guancia sull’avambraccio destro. - Be’, - disse, - lo sai come vanno queste cose, Sybil. Ero là seduto che stavo suonando. E tu chissà dov’eri, in quel momento. E Sharon Lipschutz è venuta lì e a un certo punto si è messa a sedere vicino a me. Non potevo mica spingerla via, ti pare?
- Sì, che potevi.
- Oh no. No. Non potevo fare una cosa simile, - disse il giovanotto. - Ma sai cosa ho fatto, invece?
- Cosa?
- Ho fatto finta che fossi tu.
Immediatamente Sybil si chinò e cominciò a scavare nella sabbia.
- Andiamo nell’acqua, - disse.
- Va bene, - disse il giovanotto. - Si può sempre provare.
- Un’altra volta spingila via, - disse Sybil.
- Chi devo spingere via?
- Sharon Lipschutz.
- Ah, Sharon Lipschutz, - disse il giovanotto. - Come torna spesso quel nome. Mischiando il ricordo al desiderio -. Si alzò in piedi di colpo. Guardò l’oceano. - Sybil, - disse, - sai cosa faremo adesso? Cercheremo di acchiappare un pescebanana.
- Un cosa?
- Un pescebanana, - disse il giovanotto, e sciolse la cintura dell’ac-cappatoio. Si tolse l’accappatoio. Aveva le spalle bianche e strette, e le mutandine azzurre. Piegò l’accappatoio, prima nel senso della lunghezza, poi in tre parti. Srotolò l’asciugamano che s’era messo sugli occhi, lo stese sulla sabbia e vi depose sopra l’accappatoio ripiegato. Si chinò, raccolse il materassino e se lo mise sotto il braccio destro. Poi, con la sinistra, prese la mano di Sybil.
Insieme si avviarono verso il mare.
- Immagino che ne avrai visti parecchi, di pescibanana, ai tuoi bei tempi, - disse il giovanotto.
Sybil scosse il capo.
- No? Ma si può sapere dove vivi?
- Non lo so, - disse Sybil.
- Ma sì che lo sai. Devi saperlo per forza. Sharon Lipschutz sa benissimo dove abita e ha solo tre anni e mezzo.
Sybil smise di camminare e strappò la mano da quella di lui. Raccolse una comune conchiglia e la esaminò con elaborato interesse. La gettò via. - Whirly Wood, Connecticut, - disse, e riprese a camminare con lo stomaco bene in fuori.
- Whirly Wood, Connecticut, - disse il giovanotto. - Non è dalle parti di Whirly Wood, Connecticut, per caso?
Sybil lo guardò. - E’ lì che abito, - disse spazientita.- Abito a Whirly Wood, Connecticut -. Corse davanti a lui di qualche passo, si prese con la sinistra il piede sinistro, e saltellò due o tre volte su una gamba sola.
- Tutto è chiaro, finalmente, - disse il giovanotto.
Sybil lasciò andare il piede. - Hai letto Il piccolo Sambo? - disse.
- E’ strano che tu me lo chieda, - disse lui. - Vedi caso, ho finito di leggerlo proprio ieri sera -. Allungò il braccio e riprese la mano di Sybil. - Come t’è sembrato? - le chiese.
- Come correvano intorno a quell’albero, le tigri.
- Non si fermavano più. Mai viste tante tigri in vita mia.
- Ce n’erano solo sei, - disse Sybil.
- Solo sei? - disse il giovanotto. - E lo chiami solo?
- Ti piace la cera? - chiese Sybil.
- Mi piace cosa? - chiese il giovanotto.
- La cera.
- Moltissimo. E a te?
Sybil annuì. - Ti piacciono le olive? - chiese.
- Le olive… sì. Olive e cera. Non faccio un passo senza portarmene dietro una provvista.
- Ti piace Sharon Lipschutz? - chiese Sybil.
- Sì. Sì, mi piace, - disse il giovanotto. - Quel che soprattutto mi piace di lei è che non fa mai delle brutte cose ai cagnolini nell’atrio dell’albergo. Quel piccolo bulldog di quella signora canadese, per esempio. Tu probabilmente non ci crederai, ma ho visto coi miei occhi certe bambine tormentarlo con un bastoncino. Queste cose Sharon non le fa. Non è mai cattiva o dispettosa, lei. E’ per questo che mi piace tanto.
Sybil taceva.
- Mi piace masticare le candele, - disse finalmente.
- Lo credo bene, - disse il giovanotto, mettendo i piedi nell’acqua. - Ahi! E’ fredda -. Lasciò cadere il materassino. - No, aspetta un momento, Sybil. Aspetta che arriviamo un po’ più in là.
Si spinsero avanti finché l’acqua giunse alla vita di Sybil. Allora il giovanotto la sollevò e la fece sdraiare sul materassino., a pancia in giù.
- Resti con i capelli così, senza cuffia, senza niente? - le chiese il giovanotto.
- Non lasciarmi andare, - ordinò Sybil. - Tienimi forte, adesso.
- Signorina Carpenter. La prego. Conosco i miei doveri, disse il giovanotto. - Tu devi solo tenere gli occhi bene aperti per il caso che passi qualche pescebanana. Questo è un giorno ideale per i pescibanana.
- Non ne vedo neanche uno.
- E’ comprensibile. Hanno delle abitudini molto singolari. Molto, ma molto singolari.
Continuò ad avanzare spingendo il materassino. L’acqua non gli arrivava al petto. – E’ una vita molto tragica, la loro, poveretti, - disse. - Lo sai cosa fanno, Sybil?
Sybil scosse il capo.
- Vedi, nuotano dentro una grotta dove c’è un mucchio di banane. Sembrano dei pesci qualunque, quando vanno dentro. Ma una volta che sono entrati, si comportano come dei maialini. Ti dico, so da fonte sicura di certi pescibanana che, dopo essersi infilati in una grotta bananifera, sono arrivati a mangiare la bellezza di settantotto banane -. Avvicinò di mezzo metro all’orizzonte il materassino e la sua passeggera. - Naturalmente, dopo una scorpacciata simile sono così grassi che non possono più venir fuori dalla grotta. Non passano dalla porta.
- Non troppo lontano, - disse Sybil. - E poi, cosa fanno?
- Cosa fanno chi?
- I pescibanana.
- Oh, vuoi dire dopo che hanno mangiato tante banane che non possono più uscire dalla grotta bananifera?
- Sì, - disse Sybil.
- Ecco, mi rincresce molto di dovertelo dire, Sybil. Muoiono.
- Perché? - chiese Sybil.
- Ecco, gli viene la bananite. E’ una malattia terribile.
- C’è un’onda che sta arrivando, - disse Sybil nervosamente.
- Faremo finta di non vederla. La snobberemo, - disse il giovanotto. - Due snob -. Prese in mano le caviglie di Sybil e spinse in basso e in avanti. Il materassino si rizzò sopra la cresta dell’onda. L’acqua inondò i capelli biondi di Sybil, ma il suo strillo era pieno di gioia.
Con la mano, quando il materassino fu di nuovo immobile, si tolse dagli occhi un lungo ciuffo bagnato e piatto, e riferì: - Ne ho visto uno.
- Cos’hai visto, amor mio?
- Un pescebanana.
- Santo cielo, no! - disse il giovanotto. - Aveva delle banane in bocca?
- Sì, - disse Sybil. - Sei.
All’improvviso il giovanotto tirò su uno dei piedi bagnati di Sybil, che sporgevano oltre l’orlo del materassino, e ne baciò il collo.
- Ehi! - disse la padrona del piede, voltandosi.
- Ehi cosa? Adesso si torna. Ti basta così?
- No!
- Mi rincresce, - disse il giovanotto, e spinse il materassino verso la spiaggia finché Sybil poté scendere. Poi lo tirò fuori dall’acqua e lo portò a riva.
- Ciao, - disse Sybil, e corse senza rimpianto in direzione dell’albergo.
Il giovanotto si infilò l’accappatoio, accostò strettamente i risvolti e si cacciò l’asciugamano in tasca. Raccolse il materassino bagnato, cui ora aderiva un velo di sabbia, e se lo mise alla meglio sotto braccio. Si avviò solo, a passi pesanti, sulla sabbia fine e rovente verso l’albergo.
Al piano seminterrato dell’albergo, dove c’era l’ingresso riservato dalla direzione ai bagnanti, una donna col naso coperto di pomata allo zinco entrò nell’ascensore insieme al giovanotto.
- Vedo che mi sta guardando i piedi, - disse il giovanotto quando la cabina si mise in moto.
- Come ha detto, scusi? - disse la donna.
- Ho detto che vedo che lei mi sta guardando i piedi.
- Scusi, ma stavo guardando in terra, disse la donna, e si volse verso la porta della cabina.
- Se le fa piacere guardarmi i piedi, si accomodi, - disse il giovanotto. - Ma perdio, abbia almeno il coraggio di farlo senza sotterfugi.
- Scendo qui, prego, - disse in fretta la donna alla ragazza che manovrava l’ascensore.
Le porte si aprirono e la donna uscì senza voltarsi indietro.
- Ho dei piedi normalissimi e perdio non capisco perché la gente me li debba guardare con gli occhi fuori dalla testa, - disse il giovanotto. - Al quinto, prego -. Tirò fuori dalla tasca dell’accappatoio la chiave della sua camera.
Scese al quinto piano, percorse il corridoio ed entrò al numero 507. La stanza odorava di valige nuove e di acetone.
Il giovanotto guardò la ragazza addormentata su uno dei letti gemelli. Poi si avvicinò a una valigia, l’aprì, e di sotto a una pila di mutande e canottiere trasse una Ortgies automatica calibro 7,65. Fece scattare fuori il caricatore, lo guardò, tornò a infilarlo nell’arma. Tolse la sicura. Poi attraversò la stanza e sedette sul letto libero; guardò la ragazza, prese la mira e si sparò un colpo nella tempia destra.
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Interludio Tao,
maestri Tao
martedì 12 aprile 2011
Tao complesso livelli 2-3: Autopoiesi del Tao
Il concetto di Chiusura Operazionale di sistema, introdotto da Maturana e Varela come una delle caratteristiche fondamentali di tutti i sistemi viventi, non è tuttavia sufficiente come insieme minimo di descrizione. Data la complessità dei sistemi viventi ci si aspetta che non sia sufficiente una solo tipo di descrizione ma un intreccio di più descrizioni a diverso livello per ottenere una sintesi completa minima.
All'inizio degli anni 70, e in particolare nel 1972, Humberto Maturana, successivamente con Francisco Varela, ha introdotto il concetto di autopoiesi o sistema autopoietico.
Quali proprietà, allora, deve possedere un sistema per essere definito davvero vivente?
Possiamo fare una distinzione chiara fra sistemi viventi e non viventi?
Possiamo fare una distinzione chiara fra sistemi viventi e non viventi?
Qual è I'esatto legame che intercorre fra auto-organizzazione e vita?
Erano queste le domande che si poneva Humberto Maturana, studioso cileno di neuroscienze, negli anni Sessanta. Dopo sei anni di studi e di ricerca nel campo della biologia in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove collaborò con il gruppo di McCulloch presso il Massachusetts Institute of Technology e fu fortemente influenzato dalla cibernetica, nel 1960 Maturana ritornò all'Università di Santiago. Qui si specializzò in studi di neuroscienze e, in particolare, nella comprensione del fenomeno della percezione del colore. In seguito a questa ricerca, nella mente di Maturana presero forma due domande fondamentali. Come egli stesso ricordò tempo dopo: "Mi trovai in una situazione in cui la mia vita accademica era divisa, e mi orientai nella ricerca delle risposte a due domande che sembravano condurre in opposte direzioni" e cioè:
"Che cos'è l'organizzazione del vivente?"
"Che cosa avviene nel fenomeno della percezione?""
Maturana si dibatté in queste domande per quasi un decennio, e fu grazie al suo genio che trovò una risposta comune a entrambe. In tal modo egli rese possibile I'unificazione di due tradizioni di pensiero sistemico che si erano occupate della separazione cartesiana da punti di vista differenti. Mentre i biologi organicisti avevano esplorato la natura della forma biologica, i cibernetici avevano tentato di comprendere la natura della mente. Verso la fine degli anni Sessanta, Maturana si rese conto che la chiave dei due enigmi risiedeva nella comprensione dell' "organizzazione del vivente". Nell'autunno del 1968 Maturana fu invitato da Heinz von Foerster a far parte del suo gruppo di ricerca interdisciplinare presso la University of Illinois e a intervenire a un convegno sulla cognizione che si tenne a Chicago qualche mese più tardi. Ciò gli diede un'opportunità ideale per presentare le sue idee sulla cognizione come fenomeno biologico. Qual'era, dunque, l'intuizione centrale di Maturana? Come disse lui stesso:
"Le indagini sulla percezione del colore mi condussero a una scoperta che. era per me di straordinaria importanza: il sistema nervoso funziona come una rete chiusa di interazioni, in cui ogni cambiamento delle relazioni d'interazione fra alcuni componenti dà sempre come risultato un cambiamento delle relazioni d'interazionedegli stessi o di altri componenti."
Da questa scoperta Maturana trasse due conclusioni che gli diedero le risposte ai quesiti fondamentali che si era posto. Ipotizzò che l'organizzazione circolare del sistema nervoso fosse l'organizzazione di base di tutti i sistemi viventi:
"I sistemi viventi-... [sono] organizzati in un processo circolare causale chiuso che permette il cambiamento evolutivo nel modo in cui è mantenuta la circolarità, ma non la perdita della circolarità stessa".
Poiché tutti i cambiamenti nel sistema avvengono all'interno di questa circolarità di base, Maturana sosteneva che gli elementi che determinano l'organizzazione circolare devono anche essere prodotti e mantenuti da essa. E concludeva che questo schema a rete, in cui ogni componente ha la funzione di aiutare a produrre e a trasformare altri componenti mantenendo nel contempo la circolarità globale della rete, costituisce la vera "organizzazione del vivente".
La seconda conclusione che trasse Maturana dalla chiusura circolare del sistema nervoso equivaleva a una concezione radicalmente nuova della cognizione. Egli ipotizzò che il sistema nervoso non soltanto si auto-organizza ma fa continuamente riferimento a se stesso, così che la percezione non si può considerare una rappresentazione di una realtà esterna ma si deve intendere come la creazione continua di nuove relazioni all'interno della rete neurale:
"Le attività delle cellule nervose non riflettono un ambiente indipendente dall'organismo vivente e quindi non permettono la costruzione di un mondo esterno che esiste realmente"
Secondo Maturana, la percezione, e più in generale la cognizione, non rappresentano una realtà esterna ma piuttosto ne specificano una attraverso il processo di organizzazione del sistema nervoso. Partendo da questa premessa Muturana compì poi un passo radicale postulando che il processo stesso di organizzazione circolare - in presenza o assenza di un sistema nervoso - è identico al processo della cognizione:
"I sistemi viventi sono sistemi cognitivi, e il vivere in quanto processo è un processo di cognizione. Questa dichiarazione è valida per tutti gli organismi, con o senza un sistema nervoso"
Non c'è dubbio che questo modo di identificare la cognizione con il processo della vita sia una concezione radicalmente nuova; dopo aver pubblicato le sue idee nel 1970 Maturana iniziò un lungo rapporto di collaborazione con Francisco Varela, un giovane studioso di neuroscienze dell'Università di Santiago, che era stato suo allievo. Maturana racconta che la loro collaborazione incominciò quando Varela, nel corso di una conversazione, gli propose di trovare una descrizione più formale e completa del concetto di organizzazione circolare. Decisero immediatamente di lavorare su una descrizione verbale completa dell'idea di Maturana prima di tentare di costruire un modello matematico, e cominciarono inventando per essa un nome: autopoiesi. Auto, naturalmente, significa "da sè" e fà riferimento all'autonomia dei sistemi auto-organizzantisi; e poiesi - dal greco poiesis, da cui deriva anche la parola "poesia" - significa "produzione". Dunque autopoiesi significa "produzione di sè". Dato che avevano coniato una parola nuova, priva di una sua storia, non avevano problemi a usarla come termine tecnico per indicare l'organizzazione distintiva dei sistemi viventi. Due anni dopo, Maturana e Varela pubblicarono la loro prima formulazione del concetto di autopoiesi in un lungo saggio ed entro il 1975, assieme al loro collega Ricardo Uribe avevano sviluppato un corrispondente modello matematico per il sistema autopoietico più semplice: la cellula vivente.
Maturana e Varela cominciano il saggio sull'autopoiesi definendo il loro approccio "meccanicistico" per distinguerlo dalle teorie vitalistiche sulla natura della vita: "il nostro approccio sarà meccanicistico: nessuna forza e nessun principio verrà addotto che non si trovi nell'universo fisico"
La frase successiva, però, chiarisce immediatamente che gli autori non aderiscono al meccanicismo cartesiano, ma ragionano in termini sistemici:
La frase successiva, però, chiarisce immediatamente che gli autori non aderiscono al meccanicismo cartesiano, ma ragionano in termini sistemici:
"Tuttavia, il nostro problema è l'organizzazione vivente, e perciò il nostro interesse non verterà sulle proprietà dei componenti, ma sui processi e sulle relazioni tra processi realizzati attraverso i componenti"
I due autori definiscono ancora meglio la loro posizione tramite la distinzione importante tra "organizzazione" e "struttura", che era stato un tema implicito in tutta la storia del pensiero sistemico ma non era stato formulato esplititacitamente fino allo sviluppo della cibernetica. Maturana e Varela rendono tale distinzione di una chiarezza cristallina.
L'organizzazione di un sistema vivente, spiegano, è l'insieme delle relazioni fra i suoi componenti (gli elementi del sistema) che definiscono il sistema come appartenente a una certa classe (per esempio un batterio, un gatto o un cervello umano). La descrizione di questa organizzazione è una descrizione astratta di relazioni e non identifica i componenti. Gli autori ipotizzano che l'autopoiesi sia uno schema generale di organizzazione, comune a tutti i sistemi viventi, qualunque sia la natura dei loro componenti.
La struttura di un sistema vivente, al contrario, è costituita dalle relazioni reali fra componenti fisici. In altre parole, la struttura del sistema è l'incarnazione fisica della sua organizzazione. Maturana e Varela mettono l'accento sul fatto che l'organizzazione del sistema è indipendente dalle proprietà dei suoi componenti, cosicché una data organizzazione può essere tradotta in una struttura fisica in molti modi differenti, attraverso molti tipi diversi di componenti.
Dopo aver chiarito che il loro interesse è rivolto all'organizzazione e non alla struttura, gli autori danno la definizione di autopoiesi, l'organizzazione comune a tutti i sistemi viventi.
Essa è una rete di processi di produzione, in cui la funzione di ogni componente è quella di partecipare alla produzione o alla trasformazione di altri componenti della rete. In questo modo, l'intera rete "produce continuamente se stessa'. Viene prodotta dai suoi componenti e a sua volta produce i componenti.
"Nei sistemi viventi il prodotto del loro operare è la loro propria organizzazione"
In altri termini:
Una macchina (sistema) autopoietica è una macchina organizzata (definita come unità) come una rete di processi di produzione (trasformazione e distruzione) di componenti che:
(i) attraverso le loro interazioni e trasformazioni rigenerano continuamente e realizzano la rete di processi (relazioni) che li ha prodotti, e
(ii) la costituiscono (la macchina) come un'unità concreta nello spazio in cui essi (i componenti) esistono, specificando il dominio topologico della sua realizzazione in quanto tali una rete.
[...] lo spazio definito da un sistema autopoietico è auto-contenuto e non può essere descritto usando le dimensioni che definiscono un altro spazio. Quando facciamo riferimento alla nostra interazione con un sistema autopoietico concreto, tuttavia, proiettiamo questo sistema sullo spazio delle nostre manipolazioni e facciamo una descrizione di questa proiezione.
Una caratteristica importante dei sistemi viventi è che la loro organizzazione autopoietica comporta la creazione di un confine che specifica il campo delle operazioni della rete e definisce il sistema come un'unità .
Creazione di una membrana cellulare dal metabolismo dinamico interno e, viceversa la membrana cellulare permette la creazione del dominio interno autopoietico del metabolismo cellulare |
Immagine di una cellula epiteliale umana della guancia ottenuta con Differential Interference Contrast (DIC) microscopy (www.canisius.edu/biology/cell_imaging/gallery.asp) |
L'autopoiesi diventa quindi la combinazione tra la complementarietà tra struttura ed organizzazione e la chiusura operazionale di sistema.
Il processo della vita nasce dalla co-emergenza tra un sistema autopoietico e l'ambiente in un processo che Maturana identifica come cognitivo:
"I sistemi viventi sono sistemi cognitivi, e il vivere in quanto processo è un processo di cognizione. Questa dichiarazione è valida per tutti gli organismi, con o senza un sistema nervoso"
Questa specifica interpretazione della cognizione come il processo della vita è denominata "Teoria di Santiago", ed è stata ulteriormente elaborata particolarmente da Francisco Varela nell'ambito delle scienze della cognizione.
Per capire le proprieta dei componenti e le loro interazioni fisiche bisogna aggiungere alla descrizione astratta dell'organizzazione del sistema una descrizione della sua struttura nel linguaggio della fisica e della chimica. La chiara distinzione tra queste due descrizioni - una in termini di struttura e l'altra in termini di organizzazione - rende possibile riunire i modelli di auto-organizzazione che si riferiscono alla struttura (come quelli di Prigogine e Haken) e i modelli che si riferiscono all'organizzazione (come quelli di Eigen e di Maturana e Varela) in una teoria coerente dei sistemi viventi.
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