lunedì 6 agosto 2012

venerdì 3 agosto 2012

quanto Tao sai?


Figlia Papà, quante cose sai?
Padre Eh? Uhm ... so circa un chilo di cose.
F. Non dire sciocchezze. Un chilo di quali cose? Ti sto chiedendo davvero quante cose sai.
P. Be', il mio cervello pesa circa un chilo e penso di usarne circa un quarto ... Quindi diciamo due etti e mezzo.
F. Ma tu sai più cose del papà di Johnny? Sai più cose di me?
P. Uhm ... una volta conoscevo un ragazzino in Inghilterra che chiese a suo padre: «I padri sanno sempre più cose dei figli?» e il padre rispose: «Sì». Poi il ragazzino chiese: « Papà, chi ha inventato la macchina a vapore?» e il padre: "James Watt». E allora il figlio gli ribatté: "Ma perché non l'ha inventata il padre di James Watt?".

F. Lo so. lo so più cose di quel ragazzo, perché so perché il padre di James Watt non l'ha inventata. È perché qualcun altro doveva inventare quaIcos'altro prima che chiunque potesse fare una macchina a vapore. Voglio dire ... non so ... ma ci voleva qualcuno che scoprisse la benzina prima che qualcuno potesse costruire un motore.
P. Sì ... questa è la differenza. Cioè, voglio dire che il sapere è come tutto intrecciato insieme, o intessuto, come una stoffa, e ciascun pezzo di sapere è significativo o utile solo in virtù degli altri pezzi, e ...
F. Pensi che si dovrebbe misurare in metri?
P. No, direi di no.
F. Ma le stoffe si comprano a metro.
P. Sì, ma non volevo dire che è una stoffa. È solo come stoffa ... e certamente non sarebbe piatto come stoffa ... ma avrebbe tre dimensioni ... forse quattro dimensioni.
F. Che cosa vuoi dire, papà?
P. Non so, veramente, tesoro. Stavo solo cercando di riflettere.

P. Non sta andando molto bene, questa mattina. E se prendessimo un'altra rotta? Ciò su cui dobbiamo riflettere è come i pezzi del sapere sono intrecciati insieme. Come si aiutano l'un l'altro.
F. E come fanno?
P. Be' ... qualche volta due fatti si sommano e tutto ciò che ne salta fuori sono solo due fatti. Ma qualche volta, invece di sommarsi soltanto, i due fatti si moltiplicano ... e saltano fuori quattro fatti.
F. Non si può moltiplicare uno per uno e ottenere quattro. Lo sai che non si può.
P. Oh, perbacco.

P. Ma sì che si può. Se le cose da moltiplicare sono pezzi di sapere o fatti o qualcosa del genere. Perché ciascuno di essi è qualcosa di doppio.
F. Non capisco.
P. Anzi, qualcosa di almeno doppio.
F. Ma papà!
P. Sì ... prendiamo il gioco delle venti domande. Tu pensi qualcosa, per esempio pensi 'domani'. Bene. Ora io ti chiedo: «E astratto?», e tu dici: «Sì». Ora dal tuo 'sì' io ho ricavato una doppia dose d'informazione: so che è astratto e so che non è concreto. O diciamo così... dal tuo 'sì' io posso dimezzare il numero delle possibilità per  ciò che può essere quella cosa. E questo è moltiplicare per un mezzo.
F. Non è una divisione?
P. Sì... è lo stesso. Cioè ... d'accordo, è una moltiplicazione per 0,5. La cosa importante è che non si tratta solo di una sottrazione o di un'addizione.
F. Come fai a sapere che non lo è?
P. Come faccio a saperlo? ... Be', metti che io faccia un'altra domanda e dimezzi le possibilità tra le cose astratte. E poi un'altra. Con ciò le possibilità si saranno ridotte a un ottavo di quelle che erano all'inizio. E due volte due volte due fa otto.
F. E due più due più due fa soltanto sei.
P. Proprio.
F. Ma, papà, non capisco: che cosa succede con le venti domande?
P. Il fatto è che se scelgo bene le domande, posso scegliere tra due volte due volte due volte due ... per venti volte cose, cioè tra 2 alla 20 cose. Questo fa più di un milione di cose che tu avresti potuto pensare. Una domanda è sufficiente per decidere tra due cose; e due domande possono decidere fra quattro cose ... e così via.
F. Non mi piace l'aritmetica, papà.
P. Sì, lo so. Fare i calcoli è noioso, ma certe idee sono divertenti. Comunque tu volevi sapere come misurare il sapere, e se cominci a misurare le cose, questo ti porta sempre all'aritmetica.
F. Ma ancora non abbiamo per niente misurato il sapere.
P. Sì, lo so. Però abbiamo fatto qualche progresso verso la possibilità di misurarlo, se lo volessimo. E ciò vuoi dire che siamo un po' più vicini a sapere che cos'è il sapere.
F. Quello sarebbe un sapere molto buffo, papà, il sapere sul sapere ... questo tipo di sapere lo misureremmo allo stesso modo?
P. Lasciami pensare ... non so ... questa è proprio la domanda del raddoppio finale. Perché ... be', torniamo al gioco delle venti domande. Quello che ancora non abbiamo detto è che le domande debbono avere un certo ordine: prima le domande generali, e poi quelle particolari. Ed è solo dalle risposte alle domande generali che si sa quali domande particolari si debbono fare. Invece noi le abbiamo considerate tutte uguali. Non so. Ora però tu mi chiedi se il sapere sul sapere si dovrebbe misurare allo stesso modo del sapere d'altro tipo. E la risposta deve sicuramente essere no. Vedi, se le prime domande del gioco mi dicono quali domande devo fare dopo, esse devono in parte essere domande sul sapere. Esse indagano su che cos'è il sapere.
F. Papà ... c'è mai stato nessuno che ha misurato quanto uno sapeva?
P. Oh, sì, spesso. Ma certo non so quale fosse il significato dei risultati. Lo fanno mediante esami e prove e quiz, ma è come cercar di sapere quanto è grande un pezzo di carta gettandogli contro dei sassi.
F. Cioè, come?
P. Voglio dire ... se tu getti dei sassi a due pezzi di carta dalla stessa distanza, e vedi che uno dei due pezzi è colpito più spesso dell'altro, allora probabilmente quello che colpisci di più è più grande dell'altro. Allo stesso modo, in un esame tu getti un sacco di domande agli studenti, e se vedi che colpisci più conoscenze in uno studente che negli altri, allora pensi che quello ne sappia di più. Questa è l'idea.
F. Ma in questo modo si potrebbe misurare un pezzo di carta?
P. Certo che si potrebbe. Anzi, sarebbe un ottimo metodo. Si misurano moltissime cose, in questo modo. Per esempio si giudica quanto è forte un caffè guardando quanto è scuro ... si guarda cioè quanta luce esso blocca. Si gettano onde luminose invece che sassi, ma è la stessa
idea.
F. Ah.

F. Ma allora ... perché non dovremmo misurare il sapere a quel modo?
P. Come? Coi quiz? No ... per l'amor di Dio. Il punto è che quel metodo di misura non risponde alla tua domanda - che ci sono diversi generi di sapere - e che c'è il sapere sul sapere. E poi si dovrebbero dare voti più alti allo studente che sa rispondere alle domande più generali? O forse ci dovrebbero essere tipi diversi di voti per i diversi tipi di domande.
F. Be', d'accordo, facciamo così e poi sommiamo tutti i voti, e poi ...
P. No ... non si potrebbero sommare insieme. Potremmo moltiplicare o dividere un tipo di voto per un altro tipo, ma non potremmo sommarli.
F. Perché no, papà?
P. Perché ... perché no. Non mi stupisco che non ti piaccia l'aritmetica, se non ti spiegano queste cose a scuola. Che cosa ti spiegano? Perdinci, mi domando che idee abbiano gl'insegnanti sull'aritmetica.
F. E che cosa è l'aritmetica, papà?
P. No. Restiamo al problema di misurare il sapere ... L'aritmetica è un insieme di trucchi per pensare con chiarezza, e l'unica cosa divertente che ha è la chiarezza. E la prima regola per essere chiari è quella di non mescolare idee che sono del tutto diverse tra loro. L'idea di due arance è del tutto diversa dall'idea di due chilometri. Perché se le sommi ottieni solo una grande confusione in testa.
F. Ma, papà, io non so tener separate le idee. Dovrei farlo?
p. No ... no ... No, naturalmente. Devi combinarle; ma non sommarle. Ecco tutto. Cioè ... se le idee sono numeri e vuoi combinarne due tipi diversi, la cosa da fare è moltiplicarli l'uno per l'altro. E allora hai un nuovo tipo di idea, un nuovo tipo di quantità. Se nella tua testa ci sono chilometri e ci sono ore, e tu dividi i chilometri per le ore, ottieni 'chilometri all'ora', cioè una velocità.
F. Sì, papà. E se invece li moltiplicassi, che cosa otterrei?
P. Be', ehm ... penso che otterresti chilometri-ora? Sì, so di che si tratta. Cioè so che cos'è un chilometro-ora. È quello che si paga al tassista. Il suo contachilometri misura i chilometri e poi c'è un orologio che misura le ore, e il contachilometri e l'orologio lavorano insieme e moltiplicano le ore per i chilometri, e poi i chilometriora vengono moltiplicati per qualcos'altro che trasforma i chilometri-ora in denaro.
F. Una volta ho fatto un esperimento.

P. Quale?
F. Volevo vedere se riuscivo a pensare due pensieri contemporaneamente. Allora pensai 'È estate' e pensai 'È inverno'. E cercai di pensare alle due cose insieme.
P. Allora?
F. Ma mi accorsi che non stavo pensando due pensieri. Pensavo un solo pensiero a proposito di pensarne due.
P. Certo, è proprio così. Non si possono mescolare i pensieri, si possono solo combinare. E alla fin fine ciò significa che non li si può contare. Perché contare è proprio aggiungere semplicemente una cosa all'altra. E peri pensieri questo non lo si può fare assolutamente.
F. Allora veramente abbiamo un solo grande pensiero che ha tanti rami ... tanti e tanti e tanti rami?
P. Sì, penso di sì. Non so. Comunque penso che sia un modo più chiaro per dirlo. Cioè più chiaro che parlare di pezzi di sapere e cercare di contarli.

F. Papà, perché non usi gli altri tre quarti del tuo cervello?
P. Ah, sì... già ... vedi, il punto è che anch'io ho avuto degli insegnanti a scuola. E loro hanno riempito circa un quarto del mio cervello di fumo. Poi ho letto i giornali e ho ascoltato quello che dicevano gli altri, e così mi son riempito di fumo un altro quarto.
F. E l'altro quarto, papà?
P. Oh ... quello è il fumo che ho fatto da me quando ho cercato di pensare da solo.


metalogue: "How much do you know?", from ETC.:A Review of General Semantics, Vol. X, 1953.

mercoledì 1 agosto 2012

lunedì 30 luglio 2012

la complessità dal KaliYuga al Tao - V


12. Eraclito: "vivere di morte, morire di vita"
In questa unione di nozioni logicamente complesse, esiste una relazione tra la vita e la morte.
Ho spesso citato la frase illuminante di Eraclito, del VI secolo aC: "vivere di morte, morire di vita". E' diventato da poco comprensibile, dal momento in cui abbiamo appreso che il nostro organismo degrada la sua energia, non solo a ricostituire le sue molecole, ma che le nostre stesse cellule si degradano e che produciamo nuove cellule. Viviamo dalla morte delle nostre cellule.
E questo processo di rigenerazione permanente, quasi di ringiovanimento permanente, è il processo della vita. Ciò che rende possibile aggiungere alla formula molto esatta di Bichat, dicendo: "la vita è l'insieme delle funzioni che lotta contro la morte", questo
strano complemento che ci presenta una complessità logica: "Integrare la morte per combattere meglio contro la morte". Ciò che  di nuovo si sa su questo processo è estremamente interessante: è stato piuttosto recentemente appreso che le cellule che muoiono non sono solo le cellule vecchie; infatti cellule apparentemente sane riceventi messaggi diversi dalle cellule vicine, "decidono", in un dato momento, di commettere suicidio. Esse si suicidano e i fagociti divorano i loro resti. In questo modo, l'organismo determina quali cellule devono morire prima di aver raggiunto la senescenza. Vale a dire che la morte delle cellule e la loro liquidazione postmortem sono incluse nell'organizzazione vivente.
C'è una sorta di fenomeno di auto-distruzione, di apoptosi, dal momento che questo termine è stato preso dal mondo vegetale, indicante la scissione degli steli fatta dagli alberi in autunno, in modo che le foglie morte cadano.
Da un lato, quando vi è una insufficienza di morti cellulari a seguito di
differenti incidenti e perturbazioni, ci sono un certo numero di malattie che sono mortali a lungo termine, come l'osteoporosi, vari tipi di sclerosi, e alcuni tumori, dove le cellule rifiutano di morire, diventando immortali, formando tumori e andando a farsi una passeggiata in forma di metastasi (Può sembrare che sia una rivolta delle cellule contro la loro morte individuale che porti a queste forme di morte dell'organismo). D'altra parte, l'eccesso di morte cellulare determina AIDS, Parkinson e morbo di Alzheimer.
Vedete a quale punto questo rapporto tra la vita e la morte è complesso: è necessario per le cellule morire, ma non troppo! Si vive tra due catastrofi, l'eccesso o l'insufficienza di mortalità. Si trova ancora una volta il problema
epistemologico fondamentalmente della complessità generalizzata.

13. Sulle macchine non banali
Gli esseri viventi sono certamente macchine, ma a differenza delle macchine artificiali che sono banali macchine deterministiche (dove si conoscono le uscite quando si conoscono gli ingressi), questi sono macchine non-banali (von Foerster) dove si possono prevedere comportamenti innovativi.
Siamo macchine, questa verità era già nell'uomo-macchina di La Mettrie. Siamo macchine fisiche, macchine termiche, funzioniamo alla temperatura di 37 gradi. Ma siamo macchine complesse.
Von Neumann stabilì la differenza tra macchine viventi e macchine artificiali prodotte dalla tecnologia: i componenti delle macchine tecniche, avendo la buona qualità di essere estremamente affidabili, vanno verso il loro degrado, verso l'usura, fin dall'inizio del loro funzionamento.
Laddove la macchina vivente, costituita principalmente da componenti tutt'altro che affidabili, proteine
degradanti - ​​e si capisce molto bene che questa mancanza di affidabilità delle proteine ​​permette di ricostituirsi non-stop - è in grado di essere rigenerata e riparata; anch'essa va verso la morte, ma dopo un processo di sviluppo. La chiave di questa differenza sta nella capacità di auto-riparazione e auto-rigenerazione. La parola rigenerazione è capitale qui.
Si può dire che la caratteristiche di innovazione che emergono nell'evoluzione della vita (le quali sono determinate da cambiamenti ambientali, o per l'irruzione di rischi multipli), come la comparsa dello scheletro nei vertebrati, ali negli insetti, uccelli o pipistrelli , tutte queste creazioni, sono tipiche macchine
non-banali. Vale a dire, dà una nuova soluzione alle sfide insormontabili senza questa soluzione.
Tutte le figure importanti della storia umana, al livello intellettuale, religioso, messianico, o politico, erano macchine non-banali. Si può sostenere che tutta la Storia dell'Umanità, che inizia diecimila anni fa, è una storia
non-banale , vale a dire una storia fatta di eventi impredicibili, imprevisti, di distruzioni e creazioni. La storia della vita che la precede è una storia non-banale, e la storia dell'universo, dove la nascita della vita e quindi dell'umanità sono incluse, è una  storia non-banale.
Siamo obbligati a de-banalizzare la conoscenza e la nostra visione del mondo.

14. Complessificare la nozione di caos
Abbiamo visto come la nozione di sistema ci porta alla complessità dell'organizzazione che a sua volta ci porta alla complessità logica. Vediamo ora il concetto di caos, come appare entro la teoria del caos, e che comprende il disordine e impredicibilità. Il battito delle ali di una farfalla a Melbourne
può provocare con una successione di processi a catena un uragano in Giamaica, per esempio.
In realtà, credo che il
parola caos debba essere considerata nel suo senso profondo, il suo senso Greco. Sappiamo che nella visione del mondo dei Greci , il caos è all'origine del Cosmo. Il caos non è disordine puro, porta in sé la indistinzione tra le potenzialità di ordine, di disordine, e di organizzazione da cui nascerà un cosmo, che è un universo ordinato.
I Greci videro per un po' troppo ordine nel cosmo, che è effettivamente ordinato perché lo spettacolo immediato, l'ordine impeccabile del cielo che vediamo ogni notte con le stelle, è sempre nello stesso posto. E se i pianeti sono mobili vanno anche nello stesso posto con un ordine impeccabile. Tuttavia, sappiamo oggi con le concezioni allargate del tempo cosmico che tutto questo ordine è allo stesso tempo temporaneo e parziale in un universo di movimento, collisione, trasformazione.
Caos e Cosmos sono associati - ho impiegato la parola Chaosmos -  vi è anche un rapporto circolare tra i due termini. E' necessario prendere la parola caos in un senso molto più profondo e più intenso di quello della teoria
fisica del caos.

15. La necessità di contestualizzazione
Prendiamo ancora una volta il termine "complexus" nel senso di "ciò che è tessuto insieme".
E' una parola molto importante, che indica che la rottura di conoscenza impedisce di collegare e contestualizzare.
La
modalità caratteristica di conoscenza della scienza disciplinare isola gli oggetti, uno dall'altro, e li isola rispetto al loro ambiente. Si può anche dire che il principio della sperimentazione scientifica permette di prendere un corpo fisico in Natura, di isolarlo in un ambiente artificiale e controllato di laboratorio, e quindi studiare questo oggetto in funzione delle perturbazioni e delle variazioni che si intendono eseguire. Questo infatti rende possibile conoscere un certo numero di sue qualità e proprietà. Ma si può anche dire che questo principio di decontestualizzazione è stato sventurato, non appena fu portato al vivente. L'osservazione dal 1960 di Jane Goodall di una tribù di scimpanzé nel loro ambiente naturale è in grado di dimostrare la supremazia di conoscenza dell'osservazione (in un ambiente naturale) rispetto alla sperimentazione in laboratorio. Molta pazienza era necessaria in modo che Jane Goodall potesse percepire che gli scimpanzé avevano diverse personalità, con rapporti piuttosto complessi di amicizia, di rivalità, tutta una psicologia, una sociologia di scimpanzé, invisibile agli studi in un laboratorio o in una gabbia, è apparsa nella loro complessità.
L'idea di conoscere i viventi nel loro ambiente divenne capitale in etologia animale. Ripetiamolo, l'autonomia del vivente ha bisogno di essere conosciuta nel suo ambiente.
D'ora in poi, diventando consapevoli delle degradazioni che il nostro sviluppo tecno-economico fa alla biosfera, ci si rende conto del legame vitale con la biosfera stessa che crediamo di aver ridotto al rango di oggetto manipolabile. Se la degradiamo, ci degradiamo noi stessi, e se lo distruggiamo, distruggiamo noi stessi.
La necessità di contestualizzazione è estremamente importante. Oserei dire che è un principio di conoscenza: Chiunque ha fatto una traduzione in una lingua straniera cercherà una parola sconosciuta nel dizionario; ma essendo le parole polisemiche, non è immediatamente noto quale sia la buona traduzione, il senso della parola verrà cercata nel senso della frase alla luce del senso globale del testo. Pensando questo gioco dal testo alla parola, e dal testo al contesto, e dal contesto alla parola, un senso si cristallizza. In altre parole, l'inserimento nel testo e nel contesto è una evidente necessità cognitiva. Prendiamo ad esempio l'economia, la scienza
sociale più avanzata da un punto di vista matematico, ma che è isolata dal contesto umano, sociale, storico e sociologico: il suo potere di previsione è estremamente debole perché l'economia non funziona in modo isolato: le sue previsioni hanno bisogno di essere continuamente riviste, che ci indica l'incapacità di una scienza che è molto avanzata, ma troppo chiusa.
Più in generale, la contestualizzazione reciproca
manca in tutte le scienze sociali.
Ho spesso citato il caso della diga di Assuan, perché è rivelatrice e significativa: è stata costruita nell'Egitto di Nasser, perché rendesse possibile regolare il corso di un fiume capriccioso, il Nilo, e producesse energia elettrica per un paese che ne aveva grande bisogno. Tuttavia, dopo qualche tempo, cosa è successo? Questa diga ha mantenuto una parte dei limi che fecondavano la valle del Nilo, che ha costretto la popolazione agricola ad abbandonare i campi e sovrappopolare grandi metropoli come il Cairo; ha trattenuto una parte del pesce che i residenti mangiavano; inoltre oggi, l'accumulo di limi indebolisce la diga e provoca nuovi problemi tecnici. Ciò non significa che la diga di Assuan non avrebbe dovuto essere costruita, ma che tutte le decisioni prese in un contesto tecnico-economico sono suscettibili di essere disastrose per le loro conseguenze.
E' come la deviazione dei fiumi in Siberia che il governo sovietico fece e dove le conseguenze perverse sono più importanti di quelle positive. E' quindi necessario riconoscere l'inseparabilità della separabili, a livello storico e sociale, come è stato riconosciuto a livello microfisico. Secondo la fisica quantistica, confermato da esperimenti di Aspect, due entità microfisiche sono immediatamente collegate l'una all'altra anche se sono separate da spazio e tempo. Ancor più, si arriva all'idea che tutto ciò che è separato è al tempo stesso inseparabile.

il Tao tra terra e cielo


« Sono felice di spendere la mia vita a saldare la terra con il cielo »


il Te del Tao: XLI - EQUIPARA LE DIVERSITÀ


XLI - EQUIPARA LE DIVERSITÀ

Quando il gran dotto apprende il Tao
lo pratica con tutte le sue forze,
quando il medio dotto apprende il Tao
or lo conserva ed or lo perde,
quando l'infimo dotto apprende il Tao
se ne fa grandi risate:
se non fosse deriso non sarebbe degno d'essere il Tao.
Perciò motti invalsi dicono:
illuminarsi nel Tao è come ottenebrarsi,
avanzare nel Tao è come regredire,
spianarsi nel Tao è come incavarsi,
la virtù somma è come valle,
il gran candore è come ignominia,
la virtù vasta è come insufficienza,
la virtù salda è come esser volgo,
la naturale genuinità è come sbiadimento,
il gran quadrato non ha angoli,
il gran vaso tardi si completa,
il gran suono è una sonorità insonora,
la grande immagine non ha forma.
Il Tao è nascosto e senza nome,
ma proprio perché è il Tao
ben impresta e completa.

giovedì 26 luglio 2012

il vangelo secondo il Tao

Albrecht Dürer (1471- 1528), Crucifixion, between 1495 and 1498, woodcut, British Museum

















"Si vede il sole in uno degli angoli superiori del rettangolo, quello alla sinistra di chi guarda, e l'astro re è raffigurato con la testa di un uomo da cui sprizzano raggi di luce pungente e sinuose lingue di fuoco, come una rosa dei venti indecisa in quali direzioni puntare, e quel viso ha un'espressione piangente, contratta da un dolore inconfortabile, e dalla bocca aperta emette un urlo che non potremo udire, giacché nessuna di queste cose è reale, quanto abbiamo davanti è solo carta e colore, nient'altro. Sotto il sole vediamo un uomo nudo, legato a un tronco d'albero, i fianchi cinti da un drappo, a coprirgli le parti che chiamiamo intime o vergognose, e i piedi li ha posati su quanto resta di un ramo tagliato, ma per maggior saldezza, perché non scivolino da quel sostegno naturale, sono fissati da due chiodi, profondamente conficcati.
Dall'espressione del viso, d'ispirata sofferenza, e dalla direzione dello sguardo, levato in alto, deve essere il Buon Ladrone. I capelli, a riccioli, sono un altro indizio che non tradisce, infatti è noto che angeli e arcangeli li usano così, e il criminale pentito, a quanto pare, è già sulla buona strada per ascendere al mondo delle celesti creature. Non sarà possibile appurare se questo tronco sia ancora un albero, solo adattato, per selettiva mutilazione, a strumento di supplizio, ma che continua a nutrirsi dalla terra con le radici, visto che la parte inferiore è completamente coperta da un uomo con la barba lunga, vestito con ricchi abiti, sontuosi e ampi, il quale, benché abbia il viso sollevato, non guarda certo il cielo. 
Questa solenne postura e questo sembiante triste possono appartenere solo a Giuseppe d'Arimatea, che Simone di Cirene, senza dubbio un'altra ipotesi plausibile, dopo il lavoro cui lo avevano costretto, aiutare il condannato nel trasporto del patibolo, secondo i protocolli di tali esecuzioni, se n'era tornato alla sua vita, alquanto più preoccupato per le conseguenze del ritardo su un affare che aveva rinviato che non per le mortali pene di quello sventurato che stavano per crocifiggere. Orbene, questo Giuseppe d'Arimatea è quel caritatevole e benestante uomo che offrì il servizio del proprio tumulo perché vi fosse deposto il corpo principale, ma non gli servirà granché la sua generosità al momento delle santificazioni, e neppure delle beatificazioni, giacché ad avvolgergli la testa non possiede altro che il turbante con cui esce di casa rutti i giorni, al contrario di questa donna che vediamo in primo piano, con i capelli sciolti sulle spalle, curva e china, ma toccata dalla suprema gloria di un'aureola nel suo caso frastagliata come un ricamo domestico. La donna inginocchiata si chiamerà di certo Maria, perché sappiamo già che tutte quelle radunate qui portano questo nome, ma solo una, essendo in più Maddalena, si distingue onomasticamente dalle altre, ebbene, qualunque osservatore, purché abbastanza addentro ai fatti elementari della vita, giurerebbe di primo acchito che la suddetta Maddalena è proprio questa, giacché soltanto una come lei, con un passato dissoluto, avrebbe osato presentarsi, nel tragico momento, con una scollatura così profonda e con un bustino tanto ridotto da farle risaltare e sporgere le rotondila dei seni, ragion per cui, inevitabilmente, attira e fissa su di sé lo sguardo avido degli uomini che passano, pregiudicando seriamente le anime, trascinate così alla perdizione dal turpe corpo. E tuttavia di compunta tristezza l'espressione del suo viso, e l'abbandono del corpo non esprime altro che il dolore di un'anima, sì, magari nascosta da carni tentatrici, ma che dobbiamo pur tenere in conto, stiamo parlando dell'anima, è chiaro, questa donna potrebbe essere addirittura completamente nuda, se avessero scelto di raffigurarla in tale stato, eppure dovremmo dimostrarle comunque rispetto e considerazione. Maria Maddalena, se è lei, sostiene e, con un gesto di compassione intraducibile a parole, sembra sul punto di baciare la mano dell'altra donna, questa sì, accasciata a terra, quasi priva di forze o ferita a morte. Anche lei si chiama Maria, seconda in ordine di apparizione, ma, senza dubbio, di primissima importanza, ammesso che significhi qualcosa il posto centrale che occupa nella parte inferiore della composizione. A parte il viso piangente è le mani inerti, non si riesce a vedere nulla del corpo, coperto dalle innumerevoli pieghe del mantello e della tunica, stretta in vita da un cordone di cui s'indovina la ruvidezza. È più vecchia dell'altra Maria, e questa probabilmente è una buona ragione, ma non l'unica, perché la sua aureola abbia un disegno più complesso, o perlomeno questo sarebbe autorizzato a pensare chi, non disponendo di informazioni precise su priorità, graduatorie e gerarchle in vigore su questo mondo, fosse costretto a esprimere un'opinione. Ma, tenendo conto del grado di divulgazione, fatta con arti maggiori o minori, di queste iconografie, solo un abitante di un altro pianeta, supponendo che non vi avessero mai replicato, o magari solo messo in scena, questo dramma, solo quell'essere davvero inimmaginabile ignorerebbe che l'addolorata è la vedova di un falegname di nome Giuseppe e la madre di tanti figli e figlie, sebbene solo uno, per i dettami del destino o di chi lo regola, abbia finito col prosperare, non tanto in vita quanto, soprattutto, dopo morto. Reclinata sulla sinistra, Maria, la madre di Gesù, proprio quello di cui abbiamo appena detto, appoggia l'avambraccio sulla coscia di un'altra donna, anch'essa inginocchiata, anch'essa di nome Maria, e in fondo, benché non possiamo vedere né immaginare la sua scollatura, forse la vera Maddalena. Identica alla prima di questa trinità al femminile, ha i lunghi capelli sciolti sulle spalle, ma questi hanno tutta l'aria di essere biondi, a meno che non sia dovuta a pura casualità la differenza del tratto, più lieve in questo caso e con alcuni spazi vuoti fra una ciocca e l'altra, il che ovviamente sarà servito all'incisore per schiarire la tonalità della chioma raffigurata. Con simili ragioni non intendiamo affermare che Maria Maddalena sia stata di fatto bionda, ci stiamo solo adeguando alla corrente d'opinione prevalente, che insiste nel vedere nelle bionde, sia in quelle naturali sia in quelle tinte, i più efficaci strumenti di perdizione. Essendo stata, com'è noto, Maria Maddalena una donna così peccaminosa, perduta come tante altre, doveva pur essere bionda, per non smentire le credenze, bene o male acquisite, di una buona metà del genere umano. Comunque, non è che, perché apparentemente più chiara di carnagione e colore di capelli rispetto all'altra, suggeriamo e proponiamo, contro le prove schiaccianti di una profonda scollatura e di un seno in mostra, che sia questa terza Maria la Maddalena. Un'altra prova, e molto consistente, rafforza e convalida l'identificazione, e cioè che questa donna, per quanto sostenendo appena, con fare un po' distratto, l'estenuata madre di Gesù, ha lo sguardo rivolto verso l'alto, ed è uno sguardo di autentico e appassionato amore, che ascende con forza tale da sollevare apparentemente tutto il corpo, tutto il suo essere carnale, come un'aureola raggiante capace di far impallidire l'alone che già le circonda la testa e disperde pensieri ed emozioni. Solo una donna che abbia amato nel modo e nella misura che attribuiamo a Maria Maddalena può guardare così, ed ecco quindi, in ultima analisi, la prova che dev'essere questa, solo questa e nessun'altra, escludendo pertanto anche la donna che le si trova accanto, la quarta Maria, in piedi, con le mani leggermente sollevate in atteggiamento pietoso, ma con lo sguardo vacuo, a far coppia in questa parte del quadro con un uomo giovane, poco più che adolescente, il quale flette la gamba sinistra in modo aggraziato, così, al ginocchio, mentre la mano destra, aperta, indica con posa affettata e teatrale il gruppo di donne cui tocca raffigurare, per terra, l'evento drammatico. Questo personaggio, così giovane, con i capelli a boccoli e il labbro tremante, è Giovanni. Come Giuseppe d'Arimatea, anch'egli occulta con il corpo la base di quest'albero che, lassù, in cima, innalza al ciclo un secondo uomo nudo, legato e inchiodato come il primo, ma questi ha i capelli lisci, e con la testa reclinata guarda, se ancora ce la fa, il suolo, e la sua faccia, magra e scarna, suscita tanta pena, al contrario del ladrone dall'altro lato, che persino nell'ultimo frangente di sofferenza agonica possiede ancora la forza di mostrarci un viso che facilmente possiamo immaginare rubicondo, doveva passarsela bene quando rubava, sebbene qui ci manchino i colori. Magro, capelli lisci, la testa piegata verso la terra che dovrà inghiottirlo, due volte condannato, a morte e all'inferno, questo misero relitto può essere solo il Cattivo Ladrone, in fin dei conti un uomo rettissimo, cui è rimasto quel po' di coscienza che gli impedisce di fingere di credere, al riparo di leggi umane e divine, che un minuto di pentimento basti per riscattare una vita intera di malvagità o una sola ora di debolezza. Sopra di lui, anch'essa piangente e implorante come il sole che le sta di fronte, vediamo la luna, raffigurata da una donna con un incongruente cerchietto all'orecchio, una licenza che nessun artista o poeta si sarà mai permesso prima, e c'è da dubitare che se la sia concessa anche dopo, malgrado l'esempio. Il sole e la luna illuminano entrambi la terra, ma la luce diffusa è circolare, senza ombre, ecco perché si può vedere così nitidamente ciò che si trova sopra l'orizzonte, sullo sfondo, torri e mura, un ponte levatoio sopra un fossato in cui brilla l'acqua, alcune guglie gotiche e, laggiù, sul crinale dell'ultima collina, le pale immobili di un mulino. Un po' più vicino, per l'illusione della prospettiva, quattro cavalieri con elmo, lancia e armatura fanno volteggiare le cavalcature in destrezze d'alta scuola, ma i loro gesti suggeriscono che sono ormai al termine dell'esibizione, stanno salutando, per così dire, un pubblico invisibile. La stessa impressione di epilogo della festa ce la da quel fante che sta facendo il primo passo per ritirarsi, portando via tenendo con la mano destra qualcosa che, a questa distanza, sembra un pezzo di stoffa, ma che potrebbe essere un mantello o una tunica, mentre altri due militari mostrano segni di irritazione e dispetto, ammesso che da così lontano si possa decifrare sui visi minuscoli un sentimento, come di chi ha giocato e perduto. Al di sopra di simili banalità, come eserciti e città recintate da mura, aleggiano quattro angeli, di cui due a tutto campo, che piangono e si lamentano, mentre uno, con espressione seria, è assorto nel suo compito di raccogliere in un recipiente fino all'ultima goccia lo zampillo di sangue che sprizza dal lato destro del Crocifisso. Su questo luogo chiamato Golgota molti hanno avuto lo stesso fatale destino, e tanti altri lo avranno, ma quest'uomo nudo, inchiodato piedi e mani a una croce, figlio di Giuseppe e Maria, di nome Gesù, è l'unico cui il futuro concederà l'onore dell'iniziale maiuscola, gli altri non saranno che crocifissi minori. E lui, in fondo, l'uomo verso cui volgono lo sguardo Giuseppe d'Arimatea e Maria Maddalena, lui che fa piangere il sole e la luna, lui che poco fa ha lodato il Buon Ladrone e disprezzato il Cattivo 'perché non ha capito che non c'è alcuna differenza tra l'uno e l'altro o, se si ha una differenza, non è quella, che il Bene e il Male non esistono in se stessi, ciascuno di essi è solo l'assenza dell'altro. Sopra la testa, risplendente di raggi di luce, più del sole e della luna insieme, ha un cartiglio scritto con lettere romane che lo proclama Re dei Giudei, e a cingerla una dolorosa corona di spine, come ce l'hanno, senza saperlo, anche quando non sanguinano all'esterno del corpo, quegli uomini cui non è permesso di essere re di se stessi. Gesù non gode di alcun sostegno per i piedi, come ce l'hanno i ladroni, tutto il peso del corpo graverebbe sulle mani inchiodate al legno se non gli restasse ancora un barlume di vita, quanto basta per mantenerlo eretto sulle ginoc-chia rigide, ma ben presto la vita gli si esaurirà, se il sangue continuerà a sprizzargli dalle ferite al costato, come si è detto. Fra i due cunei che tengono ben salda la croce, anch'essi come la croce conficcati in una scura fessura del suolo, una ferita della terra non più incurabile di una qualunque sepoltura d'uomo, c'è un cranio, e accanto una tibia e un'omoplata, ma a noi interessa il cranio, perché cranio significa Golgota, non sembrano la stessa parola, eppure qualche differenza la noteremmo se invece di scrivere cranio e Golgota avessimo scritto golgota e Cranio. Non si sa chi abbia messo qui questi resti e per quale fine, a meno che non sia solo un ironico e macabro avvertimento agli infelici sup-pliziati sul loro futuro stato, prima di diventare terra, polvere e niente. Ma c'è anche chi sostiene che sia il cranio di Adamo, emerso dalle tenebre profonde degli strati geologici arcaici, e adesso, non potendovi tornare, condannato eternamente ad avere davanti agli occhi la terra, suo unico paradiso possibile e per sempre perduto. Laggiù, sullo stesso campo in cui i cavalieri eseguono un ultimo volteggio, un uomo si allontana, il viso ancora rivolto da questa parte. Con la mano sinistra porta un secchio e, con la destra, una canna. Sull'estremità della canna dev'esserci una spugna, è diffìcile distinguerlo da qui, e il secchio, potremmo scommetterci, contiene acqua e aceto. Quest'uomo, un giorno, e poi per sempre, sarà vittima di una calunnia, quella di aver offerto, per malvagità o scherno, dell'aceto a Gesù che gli chiedeva acqua, mentre gli avrà certo dato la mistura che ha con sé, acqua e aceto, una fra le migliori bevande per ammazzare la sete, com'era noto e praticato allora. Se ne va, non rimane fino alla fine, ha fatto il possibile per alleviare l'arsura dei tre condannati, e senza alcuna differenza tra Gesù e i ladroni, per la semplice ragione che queste sono cose terrene, che rimarranno sulla terra, e con le quali si fa l'unica storia possibile."
José Saramago e Gabriel Garcia Márquez