lunedì 6 dicembre 2010

Divisione e Totalità del Tao


LA DIVISIONE INPARTI E IN TOTALITA' DELL'UNIVERSO PERCEPITO E' VANTAGGIOSA E FORSE NECESSARIA, MA NESSUNA NECESSITA' DETERMINA COME CIO' DEBBA ESSERE FATTO.

Ho tentato molte volte di insegnare questo concetto generale a varie classi di studenti, e a questo fine mi sono servito della figura 1.

 
Per la presentazione, la figura viene tracciata sulla lavagna con una certa cura, ma senza le lettere che contrassegnano i vari vertici. Si chiede alla classe di dare della 'cosa' una descrizione scritta lunga circa una pagina. Quando tutti hanno finito, si confrontano i risultati. Essi si suddividono in diverse categorie: a) Circa il dieci per cento o meno degli studenti afferma, ad esempio, che l'oggetto è uno stivale, o, più pittorescamente, lo stivale di un gottoso, o addirittura un cesso. E' evidente che chi ascoltasse queste o simili descrizioni analogiche o iconiche troverebbe difficile riprodurre l'oggetto.
b) Un numero molto più elevato di studenti vede che l'oggetto contiene la maggior parte di un rettangolo e di un esagono, e dopo averlo diviso in parti a questo modo, passa a cercare di descrivere le relazioni tra il rettangolo e l'esagono incompleti. Solo alcuni di loro (ma di solito, e sorprendentemente, uno o due in ogni classe) scoprono che è possibile tracciare un segmento BH e prolungarlo fino a toccare la base DC in un punto I, tale che il segmento HI completi un esagono regolare (figura 2). 


Questo segmento immaginario definirà le proporzioni del rettangolo ma, naturalmente, non le lunghezze assolute. Di solito mi congratulo con questi studenti per la loro capacità di creare ciò che somiglia a molte ipotesi scientifiche che 'spiegano' una regolarità percettibile in termini di qualche entità creata dall'immaginazione.
c) Molti studenti preparati ricorrono a un metodo di descrizione operativo: partono da un qualche punto del perimetro (sempre un vertice, si noti) e di lì procedono, solitamente in senso orario, a dare le istruzioni per disegnare l'oggetto.
d) Esistono anche altri metodi di descrizione ben conosciuti che nessuno studente ha finora seguito. Nessuno è partito dall'asserzione:  “E' fatto di gesso e lavagna”. Nessuno ha mai usato il metodo del cliché a mezzatinta, suddividendo la superficie della lavagna con un reticolo (di rettangoli arbitrari) e assegnando a ogni casella del reticolo un  “sì” o un  “no” a seconda che contenga o non contenga una parte dell'oggetto. Naturalmente, se il reticolo è rado e l'oggetto è piccolo, andrà persa una quantità molto rilevante d'informazione. (Si pensi al caso in cui tutto l'oggetto è più piccolo di una casella del reticolo: la descrizione consisterà allora in un numero di  “sì” compreso tra uno e quattro, secondo come cadono le divisioni del reticolo rispetto all'oggetto). Si tratta comunque, in linea di principio, del modo in cui vengono trasmessi, con impulsi elettrici, i cliché delle illustrazioni dei giornali, e anzi, del modo in cui funziona la televisione.
Si noti che nessuno di questi metodi di descrizione dà alcun contributo alla "spiegazione" di questo oggetto, l'esarettangolo. La spiegazione deve sempre scaturire dalla descrizione, ma la descrizione da cui essa scaturisce conterrà sempre di necessità caratteristiche arbitrarie, come quelle esemplificate qui.


 













METALOGO: PERCHÉ LE COSE HANNO CONTORNI? (1953)

Figlia Papà, perché le cose hanno contorni?
Padre Davvero? Non so. Di quali cose parli?
F. Sì, quando disegno delle cose, perché hanno i contorni?
P. Be', e le cose di altro tipo ... un gregge di pecore? O una conversazione? Queste cose hanno contorni?
F. Non dire sciocchezze. Non si può disegnare una conversazione. Dico le cose.
P. Sì ... stavo solo cercando di capire che cosa volevi dire. Vuoi dire: «Perché quando disegniamo le cose diamo loro dei contorni?», oppure vuoi dire che le cose hanno dei contorni, che noi le disegniamo oppure no?
F. Non lo so, papà, devi dirmelo tu. Che cosa voglio chiederti?
P. Non lo so, tesoro. C'era una volta un artista molto arrabbiato che scribacchiava cose di ogni genere, e dopo la sua morte guardarono nei suoi quaderni e videro che in un posto aveva scritto: «1 savi vedono i contorni e perciò li disegnano», ma in un altro posto aveva scritto: «I pazzi vedono i contorni e perciò li disegnano ».
F. Ma che cosa voleva dire? Non capisco.
P. Be', William Blake - questo era il suo nome - era un grande artista e un uomo molto arrabbiato. E a volte arrotolava le sue idee, facendone palline di carta che poi gettava alla gente.
F. Ma perché era tanto arrabbiato, papà?
P. Perché era tanto arrabbiato? Be' ... molta gente pensava che lui fosse matto - proprio matto - pazzo, quando era arrabbiato. E questa era una delle cose che lo facevano arrabbiare da matti. E poi si arrabbiava con certi artisti che dipingevano le figure come se le cose non avessero contorni. Li chiamava "la scuola sbavacchiante".
F. Non era molto tollerante, vero, papà?
P. Tollerante? Dio santo ... Sì, lo so ... questo è quello che ti ficcano in testa a scuola. No, Blake non era molto tollerante. Non pensava neppure che la tolleranza fosse una buona cosa. Pensava che confondesse tutti i contorni e impantanasse tutto ... che rendesse tutti i gatti grigi. Così che nessuno fosse più in grado di vedere nulla in modo chiaro e netto.
F. Sì, papà.
P. No, questa non è una risposta. Cioè, 'Sì, papà' non è una risposta. Quello che mi fa capire questa risposta è solo che tu non sai qual è la tua opinione ... e quello che dico io o che dice Blake non vale un fico secco per te e che la scuola ti ha così rintontito coi discorsi sulla tolleranza che non sai più vedere la differenza tra una cosa e l'altra.
F. (Piange).
P. Santo cielo, scusami, ma mi sono arrabbiato. Ma non proprio con te. Mi sono arrabbiato per l'approssimazione con cui la gente pensa e agisce ... e poi predicano la confusione e la chiamano tolleranza.
F. Ma, papà ...
P. Sì?
F. Non so. Mi pare di non essere capace di pensare molto bene. È tutto così confuso.
P. Mi spiace. Credo di essere stato io a confonderti quando ho cominciato a sfogarmi.

...

F. Che cosa vuoi dire per te che una conversazione ha un contorno? Questa conversazione ha avuto un contorno?
P. Oh, certamente sì. Ma ancora non possiamo vederlo, perché la conversazione non è ancora finita. Non si può vederlo mai, quando ci si è in mezzo. Perché se tu potessi vederlo, saresti prevedibile - come una macchina. E io sarei prevedibile, e noi due insieme saremmo prevedibili...
F. Ma io non ti capisco. Prima dici che è importante essere chiari nelle cose. E ti arrabbi con le persone che confondono i contorni. E poi pensiamo che è meglio essere imprevedibili e non essere come macchine. E tu dici che non possiamo vedere i contorni della nostra conversazione finché non è finita. Allora non ha importanza se siamo chiari o no. Perché tanto non possiamo farci niente.
P. Sì, lo so ... e io stesso non capisco ... Ma, comunque, chi ha voglia di farci niente?

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