lunedì 5 novembre 2012

norwegian Tao, Tokyo blues


1.
Avevo trentasette anni, ed ero seduto a bordo di un Boeing 747. Il gigantesco velivolo aveva cominciato la discesa attraverso densi strati di nubi piovose, e dopo poco sarebbe atterrato all'aeroporto di Amburgo. La fredda pioggia di novembre tingeva di scuro la terra trasformando tutta la scena, con i meccanici negli impermeabili, le bandiere issate sugli anonimi edifici dell'aeroporto e l'insegna pubblicitaria della Bmw, in un tetro paesaggio di scuola fiamminga. È proprio vero: sono di nuovo in Germania, pensai.
Quando l'aereo ebbe completato l'attcrraggio, la scritta "Vietato fumare" si spense e dagli altoparlanti sul soffitto cominciò a diffondersi a basso volume una musica di sottofondo.
Era Norwegian Wood dei Beatles in una annacquata versione orchestrale. E come sempre mi bastò riconoscerne la melodia per sentirmi turbato.
Anzi, questa volta ne fui agitato e sconvolto come non mi era mai accaduto.
Nel tentativo di calmarmi, mi piegai coprendomi la faccia con le mani e restai assolutamente immobile. Dopo qualche istante la hostess tedesca si avvicinò e mi chiese in inglese se mi sentissi male.
Non è nulla, risposi, solo un giramento di testa.
"Davvero non posso fare niente per lei?"
"Davvero, non è nulla. Grazie," dissi.
La hostess mi sorrise e si allontanò. La musica di sottofondo era adesso un pezzo di Billy Joel. Sollevai il viso, e mentre guardavo le nuvole scure sospese sopra il Mare del Nord, la mia mente andò a tutte le cose che avevo perduto nel corso della vita. Il tempo passato, le persone morte o mai più riviste, le emozioni che non possono rivivere.
Fino a quando l'aereo non si fu completamente arrestato e i passeggeri non si slacciarono le cinture e cominciarono a prendere borse e soprabiti dai portabagagli, rimasi tutto il tempo in quel prato. Assaporavo il profumo dell'erba, sentivo il vento sulla pelle e i gridi degli uccelli. Era l'autunno del 1969, e di lì a poco avrei compiuto vent'anni.
La hostess di prima tornò, si sedette nel posto accanto al mio e mi chiese: "Tutto bene?".
"Sto bene adesso, grazie. All'improvviso mi era venuta un po' di malinconia," dissi sorridendo. "Tutto qui."
"Capisco. Succede anche a me qualche volta," rispose lei.
Scosse un po' la testa, si alzò e con un sorriso molto carino mi disse:
"Le auguro buon viaggio. Auf Wiederseben".

Anche adesso che sono passati diciott'anni, riesco ancora a ricordare chiaramente quel prato e il paesaggio intorno. Le montagne, che una dolce pioggia interminabile aveva lavato dalla polvere di tutta un'estate, si erano ricoperte di un verde profondo e smagliante, il vento di ottobre faceva fremere qui e là le piume dei susuki e nuvole lunghe e sottili aderivano perfettamente alla sommità del cielo, azzurro e trasparente come una lastra di ghiaccio. Il cielo era così infinito che a guardarlo fisso dava le vertigini. Il vento attraversava il prato facendo ondeggiare leggermente i capelli di lei prima di perdersi nel bosco. Sulle cime degli alberi le foglie frusciavano e in lontananza si sentiva un cane abbaiare. Era un abbaiare così lontano e fioco che sembrava provenire dai confini di un altro mondo. Ma per il resto il silenzio era assoluto. Nessun altro suono arrivava alle nostre orecchie, e non incontrammo anima viva. Vedemmo solo due uccelli di un rosso fiammante alzarsi in volo come se qualcosa li avesse spaventati, e allontanarsi in direzione del bosco. Mentre camminavamo, Naoko mi raccontava del pozzo.
Strana cosa la memoria. Nel momento in cui mi trovavo realmente lì, non mi rendevo nemmeno conto del paesaggio. Non mi sembrava che avesse niente di particolare, e non immaginavo neanche lontanamente che diciott'anni dopo avrei potuto ricordarmelo fin nei minimi dettagli. A dire la verità, in quel periodo non avrebbe potuto importarmene meno del paesaggio. Pensavo solo a me stesso, alla ragazza così bella che camminava al mio fianco, alla nostra storia, e poi ancora a me. Era un'età in cui qualunque cosa io potessi vedere, sentire, pensare, mi tornava sempre nelle mani come un boomerang. Per giunta ero innamorato, e quell'amore mi aveva portato in una situazione terribilmente complicata. Non c'era nessuno spazio per accorgersi del paesaggio.
Eppure adesso la prima cosa che affiora nella mia mente è proprio quel prato tra le montagne. L'odore dell'erba, il vento che portava dentro sé un gelo sottile, il profilo dei monti, l'abbaiare di un cane: sono queste le cose che per prime mi si affacciano alla mente. Chiarissime. Talmente chiare che ho quasi l'impressione, se allungo la mano, di poterne seguire i contorni con le dita ad una ad una. Ma in questo paesaggio non ci sono figure umane. Non c'è nessuno. Naoko non appare, io nemmeno. E mi chiedo dove siamo andati a finire noi due. Come è potuto succedere? Dove è andato a finire tutto quello che ci sembrava così prezioso, dov'è lei e dov'è la persona che ero allora, il mio mondo? Ma è inutile, ormai non riesco nemmeno a ricordare facilmente il viso di Naoko. Quello che mi resta è solo lo sfondo: un paesaggio senza figure.
Naturalmente, con un po' di tempo riesco a richiamare alla mente il suo viso. Ma prima appaiono le sue piccole mani fredde, quei bei capelli lisci così leggeri al tocco, i lobi delle orecchie morbidi e rotondi con sotto un piccolo neo, l'elegante cappotto di cammello che portava spesso d'inverno, quel suo modo di fare una domanda guardando sempre l'altro dritto negli occhi, la voce che a volte tremava per qualche ragione (era come se parlasse su una collina dove soffiava un vento fortissimo). E solo se metto insieme tutte queste immagini, ad una ad una, allora il suo viso mi  appare naturalmente, in un soffio. Prima riaffiora il suo profilo. Sarà forse perché io e Naoko camminavamo sempre fianco a fianco. Sì, dev'essere per questo che è sempre la cosa che ricordo per prima. Poi lei si volta verso di me, mi sorride dolcemente con il collo un po' inclinato e comincia a parlare, frugando nei miei occhi. Come se cercasse l'ombra di un pesciolino che guizza sul fondo di una chiara fontana.

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