«Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità»
Democrito.
Nel 1970 Jacques Monod, direttore dal 1971 dell'Institut Pasteur, premio Nobel per la medicina e la fisiologia insieme a André Lwoff e a François Jacob per «le scoperte riguardanti il controllo genetico della sintesi di virus ed enzimi», scrisse questo saggio - da lui denominato di "filosofia naturale" - del quale ogni considerazione che voglia seriamente tenere in conto quattro secoli di scienza non può non ignorare.
Nella prefazione Monod scrive:
"La Biologia occupa, tra le scienze, un posto marginale e centrale al tempo stesso. Marginale in quanto il mondo vivente rappresenta solo una parte minima e assai 'speciale' dell'universo noto, di modo che lo studio degli esseri viventi non rivela mai in apparenza leggi generali applicabili al di fuori della biosfera. Ma se, come credo, l'ambizione ultima della Scienza consiste proprio nel chiarire la relazione tra uomo e universo, allora bisogna riconoscere alla Biologia un posto centrale poiché, tra tutte le discipline, essa tenta di raggiungere più direttamente il nocciolo delle questioni che è indispensabile risolvere prima di poter anche solo porre in termini che non siano metafisici il problema della 'natura umana'.
La Biologia è dunque, per l'uomo, la più significativa di tutte le scienze, quella che ha già contribuito, forse più di ogni altra, alla formazione del pensiero moderno, profondamente sconvolto e irreversibilmente segnato in tutti i campi - filosofico, religioso e politico - dall'avvento dell'evoluzionismo. Tale teoria, per quanto la sua validità fenomenologica fosse stata accertata fin dagli ultimi anni del XIX secolo e pur dominando essa tutta la Biologia, era destinata però a rimanere in sospeso finché non si fosse elaborata una teoria fisica dell'eredità.
Ancora trent'anni or sono, nonostante i successi della genetica classica, la speranza di riuscire in questo intento sembrava quasi una chimera e invece proprio questo è il contributo dato oggi dalla teoria molecolare del codice genetico. Uso qui l'espressione 'teoria del codice genetico' in senso lato, per includervi non solo le nozioni relative alla struttura chimica del materiale ereditario e dell'inforinazione che esso porta, ma anche i meccanismi molecolari di espressione, morfogenetica e fisiologica, di tale informazione. Così definita, la teoria del codice genetico costituisce la base fondamentale della Biologia. Il che non significa affatto, s'intende, che le strutture e le funzioni complesse degli organismi possano essere dedotte da essa e neppure che siano sempre direttamente analizzabili in scala molecolare (così come non si può né predire né risolvere tutta la Chimica alla luce della teoria quantistica che pur ne costituisce, indubbiamente, la base universale).
Ma anche se la teoria molecolare del codice non può oggi (e probabilmente non potrà mai) prevedere e risolvere tutta la biosfera, essa costituisce tuttavia fin d'ora una teoria generale dei sistemi viventi. Non esisteva nulla di simile nelle conoscenze scientifiche antecedenti l'avvento della biologia molecolare. Il 'segreto della vita', che allora poteva sembrare inaccessibile nel suo stesso principio, è oggi in buona parte svelato. Quest'importantissimo avvenimento dovrebbe assumere, a quanto pare, un peso enorme nel pensiero contemporaneo non appena il significato generale e la portata di tale teoria saranno compresi e apprezzati anche al di fuori del ristretto cerchio degli specialisti. Spero che questo saggio potrà favorire una simile comprensione: più che le nozioni della biologia molecolare in sé e per sé ho tentato in effetti di mettere in luce la loro 'forma' e di precisare i rapporti logici che esse hanno con altri campi del pensiero.
Oggi è poco prudente per un uomo di scienza inserire il termine 'filosofia', sia pur 'naturale" nel titolo o nel sottotitolo di un'opera: è il modo migliore per farla accogliere con diffidenza dagli scienziati e, per bene che vada, con condiscendenza dai filosofi. Ho un'unica scusante, che però ritengo legittima, ed è il dovere che si impone agli uomini di scienza, oggi più che mai, di pensare la propria disciplina nel quadro generale della cultura moderna per arricchirlo non solo di nozioni importanti dal punto di vista tecnico, ma anche di quelle idee, provenienti dal loro particolare campo di indagine, che essi ritengano significative dal punto di vista umano. Il candore di uno sguardo nuovo (quello della scienza lo è sempre) può talvolta illuminare di luce nuova antichi problemi.
Il punto di vista di Monod è quello della scienza classica, oggettiva e riduzionistica.
Benchè negli sviluppi di modelli di Seconda Cibernetica e delle Scienze della Complessità si sono sviluppati, soprattutto per livelli gerarchici "elevati" quali quelli biologici, dell'individuo e dell'interazione tra individui, punti di vista alternativi in cui il soggetto è legato all'oggetto e le proprietà dei sistemi sono descritte in termini di "emergenza", non c'è dubbio che la quasi totalità delle scoperte scientifiche, e quindi tutte le tecnologie derivate da cui dipendono le società "moderne", sono state effettuate secondo questo punto di vista "classico".
Il tema centrale del saggio di Monod è una contraddizione - "che occorre risolvere se essa è solo apparente, o dimostrare insolubile se è reale" - tra il postulato di oggettività della scienza e una tra le proprietà fondamentali di tutti gli esseri viventi a qualunque livello, la teleonomia, ovvero l'evidente presenza di un progetto, che Monod illustra - parlando da protagonista - nella sua base biologica fondamentale: la teoria molecolare del codice genetico.
- il postulato di oggettività
"...Tutto ciò naturalmente è valido se si ammette il postulato fondamentale del metodo scientifico secondo cui la Natura è oggettiva e non proiettiva."
Il postulato, o principio, di oggettività è quindi qualcosa di più che non la classica divisione cartesiana tra oggetto/soggetto. Il postulato stabilisce che in ogni esperimento o scoperta scientifica necessariamente non è possibile individuare un "progetto" - e viceversa non è possibile "proiettare" un "progetto" nella metodologia scientifica senza uscire dalla scienza stessa.
Monod, molto saggiamente, si guarda bene dall'inserire le sue considerazione nel secolare e prosaico dibattito tra scienza e fede anche se, naturalmente, di questo si tratta. Nella scienza le domande che hanno senso sono "come?" "cosa?" mentre il "perchè?" è ammissibile ma ristretto al puro ambito scientifico. Ad esempio alla domanda "Perchè esiste l'acqua?" la scienza risponde che, in determinate condizioni di temperatura e pressione, due atomi di idrogeno si legano - necessariamente - con un'atomo di ossigeno in un legame covalente. Se invece la risposta è "L'acqua esiste perchè l'ha creata Dio" è ugualmente legittima, se non che non ha e non può avere valore scientifico in quanto "Dio" è un principio esplicativo (anzi, il più esplicativo di tutti), e in quanto tale spiegando tutto non spiega nulla dal punto di vista scientifico.
- la teoria molecolare del codice genetico: invarianza e teleonomia
La determinazione nel 1953 da parte di James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins della struttura a doppia elica composta da quattro basi azotate di uno dei due acidi nucleici presenti in tutte le cellule con nucleo, l'acido desossiribonucleico o DNA, e la successiva determinazione della teoria molecolare del codice genetico, che dal DNA attraverso la replicazione del DNA, trascrizione, traduzione e espressione porta alla formazione delle proteine, è considerata in biologia di importanza pari alla teoria darwiniana della selezione ed evoluzione della specie, alle quali fornisce il fondamento chimico-molecolare, ed una delle scoperte più importanti di tutta la storia della scienza.
Secondo il dogma centrale della biologia molecolare il flusso di informazione del processo è unidirezionale nel senso DNA - replica DNA - RNA- mRNA - proteine.
"Il meccanismo della traduzione è assolutamente irreversibile. Non si è mai constatato, e d'altronde non sarebbe concepibile, un trasferimento d'informazione in senso inverso, dalla proteina al DNA. Questa nozione si basa su una serie di informazioni oggi complete e sicure e le sue implicazioni, soprattutto nella teoria dell'evoluzione, sono molto importanti tanto che si deve considerare uno dei principi fondamentali della biologia moderna. Ne consegue che l'unico meccanismo possibile atttraverso il quale le strutture e le prestazioni di una proteina potrebbero venire modificate e tali modificazioni trasmesse, anche parzialmente alla discendenza, è quello che deriva da un'alterazione delle istruzioni contenute in un segmento della sequenza del DNA. Non si può, invece, concepire alcun meccanismo in grado di trasmettere al DNA una qualsiasi istruzione o informazione."
La teoria molecolare del codice genetico spiega come attuandosi, secondo le parole di François Jacob, "il sogno di ogni cellula, diventare due cellule", intervengano due proprietà fondamentali: l'invarianza riproduttiva e la teleonomia, in cui:
«L'invarianza precede necessariamente la teleonomia. Per essere più espliciti, si tratta dell'idea darwiniana che la comparsa, l'evoluzione e il progressivo affinamento di strutture sempre più fortemente teleonomiche sono dovuti al sopraggiungere di perturbazioni in una struttura già dotata della proprietà di invarianza, e quindi capace di "conservare il caso" e di subordinarne gli effetti al gioco della selezione naturale.»
«L'invarianza precede necessariamente la teleonomia. Per essere più espliciti, si tratta dell'idea darwiniana che la comparsa, l'evoluzione e il progressivo affinamento di strutture sempre più fortemente teleonomiche sono dovuti al sopraggiungere di perturbazioni in una struttura già dotata della proprietà di invarianza, e quindi capace di "conservare il caso" e di subordinarne gli effetti al gioco della selezione naturale.»
Queste due proprietà spiegano come i sistemi viventi, considerati come sistemi "chiusi", possano trasmettere la propria struttura genetica alle generazioni successive.
Quando si verifica una mutazione questa è da ascrivere non ad un'impossibile interazione con l'ambiente ma piuttosto con eventi casuali verificatisi al suo interno:
«Gli eventi iniziali elementari, che schiudono la via dell'evoluzione ai sistemi profondamente conservatori rappresentati dagli esseri viventi sono microscopici, fortuiti e senza alcun rapporto con gli effetti che possono produrre nelle funzioni teleonomiche.»
Tuttavia, dal momento in cui la modifica nella struttura del DNA si è verificata, una volta avvenuta la mutazione «l'avvenimento singolare, e in quanto tale essenzialmente imprevedibile, verrà automaticamente e fedelmente replicato e tradotto, cioè contemporaneamente moltiplicato e trasposto in milioni o miliardi di esemplari. Uscito dall'ambito del puro caso, esso entra in quello della necessità, delle più inesorabili determinazioni. La selezione opera in effetti in scala macroscopica, cioè a livello dell'organismo.» Il caso, che produce le mutazioni del DNA, entra nella macchina chimico-molecolare della riproduzione, e quindi nella necessità.
"Le alterazioni nel DNA sono accidentali, avvengono a caso. E poiché esse rappresentano la sola fonte possibile di modificazione del testo genetico, a sua volta unico depositario delle strutture ereditarie dell'organismo, ne consegue necessariamente che soltanto il caso è all'origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera. Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, alla radice stessa del prodigioso edificio dell'evoluzione: oggi questa nozione centrale della Biologia non è più un'ipotesi fra le molte possibili o perlomeno concepibili, ma è la sola concepibile in quanto è l'unica compatibile con la realtà quale ce la mostrano l'osservazione e l'esperienza. Nulla lascia supporre (o sperare) che si dovranno, o anche solo potranno, rivedere le nostre idee in proposito."
"Per la teoria del giorno d'oggi l'evoluzione non è affatto una proprietà degli esseri viventi, in quanto ha le sue radici nelle imperfezioni stesse del meccanismo conservatore che, invece, rappresenta il loro unico privilegio. Si deve dire quindi che la stessa fonte di perturbazione, di "rumore" che, in un sistema non vivente, cioè non replicativo, abolirebbe a poco a poco ogni struttura, è all'origine dell'evoluzione nella biosfera e giustifica la sua totale libertà creatrice, grazie a questo "conservatorio" del caso - la struttura replicativa del DNA - sordo sia al rumore sia alla musica."
Quando si verifica una mutazione questa è da ascrivere non ad un'impossibile interazione con l'ambiente ma piuttosto con eventi casuali verificatisi al suo interno:
«Gli eventi iniziali elementari, che schiudono la via dell'evoluzione ai sistemi profondamente conservatori rappresentati dagli esseri viventi sono microscopici, fortuiti e senza alcun rapporto con gli effetti che possono produrre nelle funzioni teleonomiche.»
Tuttavia, dal momento in cui la modifica nella struttura del DNA si è verificata, una volta avvenuta la mutazione «l'avvenimento singolare, e in quanto tale essenzialmente imprevedibile, verrà automaticamente e fedelmente replicato e tradotto, cioè contemporaneamente moltiplicato e trasposto in milioni o miliardi di esemplari. Uscito dall'ambito del puro caso, esso entra in quello della necessità, delle più inesorabili determinazioni. La selezione opera in effetti in scala macroscopica, cioè a livello dell'organismo.» Il caso, che produce le mutazioni del DNA, entra nella macchina chimico-molecolare della riproduzione, e quindi nella necessità.
"Le alterazioni nel DNA sono accidentali, avvengono a caso. E poiché esse rappresentano la sola fonte possibile di modificazione del testo genetico, a sua volta unico depositario delle strutture ereditarie dell'organismo, ne consegue necessariamente che soltanto il caso è all'origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera. Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, alla radice stessa del prodigioso edificio dell'evoluzione: oggi questa nozione centrale della Biologia non è più un'ipotesi fra le molte possibili o perlomeno concepibili, ma è la sola concepibile in quanto è l'unica compatibile con la realtà quale ce la mostrano l'osservazione e l'esperienza. Nulla lascia supporre (o sperare) che si dovranno, o anche solo potranno, rivedere le nostre idee in proposito."
"Per la teoria del giorno d'oggi l'evoluzione non è affatto una proprietà degli esseri viventi, in quanto ha le sue radici nelle imperfezioni stesse del meccanismo conservatore che, invece, rappresenta il loro unico privilegio. Si deve dire quindi che la stessa fonte di perturbazione, di "rumore" che, in un sistema non vivente, cioè non replicativo, abolirebbe a poco a poco ogni struttura, è all'origine dell'evoluzione nella biosfera e giustifica la sua totale libertà creatrice, grazie a questo "conservatorio" del caso - la struttura replicativa del DNA - sordo sia al rumore sia alla musica."
Le prime pagine del saggio di Monod portano subito al cuore dell'argomento:
Il naturale e l’artificiale
Tutti noi siamo convinti di saper distinguere immediatamente e senza ambiguità, tra vari oggetti, quelli naturali e quelli artificiali: una roccia, una montagna, un fiume o una nube sono oggetti naturali; un coltello, un fazzoletto, un’automobile sono oggetti artificiali, artefatti (nel senso proprio: prodotti di un'attività, di un'arte). Ma appena si analizzano tali giudizi ci si accorge che essi non sono né immediati né del tutto obiettivi. Sappiamo che il coltello è stato forgiato dall’uomo per un uso, per una prestazione progettata in precedenza. L’oggetto materializza quindi l’intenzione preesistente da cui ha tratto origine e la sua forma è giustificata dalla prestazione a cui era destinato ancor prima della sua effettiva realizzazione. Nulla di simile per il fiume o per la roccia che sappiamo o pensiamo modellati dal libero gioco di forze fisiche alle quali non sapremmo attribuire alcun “progetto”. Tutto ciò naturalmente è valido se si ammette il postulato fondamentale del metodo scientifico secondo cui la Natura è oggettiva e non proiettiva. Sarebbe possibile definire, in base a criteri generali e oggettivi, le caratteristiche degli oggetti artificiali, frutto di un’attività proiettiva cosciente, per contrapposizione agli oggetti naturali che risultano invece dal gioco fortuito delle forze fisiche?
Per accertarsi della completa oggettività dei criteri adottati meglio varrebbe forse chiedersi se, utilizzandoli, sia possibile allestire un programma che permetta a un calcolatore di distinguere un artefatto da un oggetto naturale. Un simile programma potrebbe avere applicazioni estremamente interessanti. Supponiamo che, in un prossimo futuro, un’astronave vada a posarsi su Venere o Marte; che cosa ci sarebbe di più affascinante del sapere se, su questi pianeti a noi vicini, vivono o hanno vissuto in epoche anteriori esseri intelligenti capaci di attività proiettiva?
Elementi rivelatori di una simile attività, presente o passata, sarebbero evidentemente i suoi prodotti che, pur diversi da quelli di un’industria umana, dovrebbero essere riconoscibili come tali. Ignorando tutto di quegli esseri, della loro natura e dei loro progetti che potrebbero aver concepito, il programma dovrebbe utilizzare soltanto criteri molto generali, basati esclusivamente sulla struttura e sulla forma degli oggetti presi in esame, senza alcun riferimento alla loro eventuale funzione. Risulta subito evidente che i criteri da adottare sarebbero due:
Tutti noi siamo convinti di saper distinguere immediatamente e senza ambiguità, tra vari oggetti, quelli naturali e quelli artificiali: una roccia, una montagna, un fiume o una nube sono oggetti naturali; un coltello, un fazzoletto, un’automobile sono oggetti artificiali, artefatti (nel senso proprio: prodotti di un'attività, di un'arte). Ma appena si analizzano tali giudizi ci si accorge che essi non sono né immediati né del tutto obiettivi. Sappiamo che il coltello è stato forgiato dall’uomo per un uso, per una prestazione progettata in precedenza. L’oggetto materializza quindi l’intenzione preesistente da cui ha tratto origine e la sua forma è giustificata dalla prestazione a cui era destinato ancor prima della sua effettiva realizzazione. Nulla di simile per il fiume o per la roccia che sappiamo o pensiamo modellati dal libero gioco di forze fisiche alle quali non sapremmo attribuire alcun “progetto”. Tutto ciò naturalmente è valido se si ammette il postulato fondamentale del metodo scientifico secondo cui la Natura è oggettiva e non proiettiva. Sarebbe possibile definire, in base a criteri generali e oggettivi, le caratteristiche degli oggetti artificiali, frutto di un’attività proiettiva cosciente, per contrapposizione agli oggetti naturali che risultano invece dal gioco fortuito delle forze fisiche?
Per accertarsi della completa oggettività dei criteri adottati meglio varrebbe forse chiedersi se, utilizzandoli, sia possibile allestire un programma che permetta a un calcolatore di distinguere un artefatto da un oggetto naturale. Un simile programma potrebbe avere applicazioni estremamente interessanti. Supponiamo che, in un prossimo futuro, un’astronave vada a posarsi su Venere o Marte; che cosa ci sarebbe di più affascinante del sapere se, su questi pianeti a noi vicini, vivono o hanno vissuto in epoche anteriori esseri intelligenti capaci di attività proiettiva?
Elementi rivelatori di una simile attività, presente o passata, sarebbero evidentemente i suoi prodotti che, pur diversi da quelli di un’industria umana, dovrebbero essere riconoscibili come tali. Ignorando tutto di quegli esseri, della loro natura e dei loro progetti che potrebbero aver concepito, il programma dovrebbe utilizzare soltanto criteri molto generali, basati esclusivamente sulla struttura e sulla forma degli oggetti presi in esame, senza alcun riferimento alla loro eventuale funzione. Risulta subito evidente che i criteri da adottare sarebbero due:
1) regolarità;
2) ripetizione.
In base al criterio di regolarità, si cercherebbe di sfruttare il fatto che gli oggetti naturali, modellati dal gioco di forze fisiche, non presentano mai strutture semplici dal punto di vista geometrico: ad esempio superfici piane, spigoli rettilinei, angoli retti, simmetrie perfette; gli artefatti presenterebbero invece tali caratteristiche, anche se in modo approssimativo e rudimentale. Il criterio di ripetizione sarebbe senza dubbio più decisivo. Materializzazioni di un progetto ogni volta ripetuto, “artefatti” omologhi destinati allo stesso uso, riproducono, con certe approssimazioni, le intenzioni sempre uguali del loro creatore. A questo punto, sarebbe dunque estremamente significativa la scoperta di numerosi esemplari di oggetti con forme abbastanza ben definite.
Le difficoltà di un programma spaziale
Supponiamo che il programma sia stato scritto e la macchina realizzata. Capovolgiamo le ipotesi e immaginiamo che la macchina sia stata costruita dagli esperti della NASA marziana, desiderosi di scoprire sulla Terra le prove di un’attività organizzata, creatrice di “artefatti”. La macchina esamina e confronta le case da un lato e le rocce dall’altro. Valendosi dei criteri di regolarità, di semplicità geometrica e di ripetizione, essa concluderà senza difficoltà che le rocce sono oggetti naturali, mentre le case sono artefatti. Rivolgendo poi la sua attenzione ad oggetti di dimensioni più modeste, esaminerà alcuni sassolini, a fianco dei quali scoprirà cristalli, ad esempio di quarzo. In base agli stessi criteri essa dovrà evidentemente concludere che, se i sassi sono naturali, i cristalli di quarzo sono invece oggetti artificiali. Giudizio che sembra testimoniare un “errore” nella struttura del programma, errore la cui origine è, d’altronde, interessante: Il cristallo, in altre parole, è l’espressione macroscopica di una struttura microscopica. Un simile errore sarebbe d’altronde facilmente eliminabile dato che sono note tutte le strutture cristalline possibili. Ma supponiamo che la macchina studi ora un altro tipo di oggetto, per esempio un favo di api selvatiche. Essa vi troverebbe, evidentemente, tutti i criteri di un’origine artificiale, e cioè le strutture geometriche semplici e ripetitive dei raggi e delle cellette costitutive per cui quel favo verrebbe classificato nella stessa categoria di oggetti a cui appartengono le case. Cosa pensare di questo giudizio? Noi sappiamo che il favo è “artificiale” in quanto rappresenta il prodotto dell’attività delle api, ma abbiamo anche valide ragioni per pensare che tale attività è puramente automatica, attuale ma non coscientemente proiettiva. Da buoni naturalisti, tuttavia, riteniamo le api esseri “naturali”. E non è allora una palese contraddizione considerare “artificiale” il prodotto dell’attività automatica di un essere “naturale”? Risulterebbe ben presto chiaro, proseguendo l’indagine, che – se esiste una contraddizione – essa non dipende da un errore di programmazione ma dall’ambiguità dei nostri giudizi. La digressione quasi fantascientifica testé fatta aveva lo scopo di dimostrare quanto sia difficile definire il limite, che pur sembra così intuitivamente chiaro, tra oggetti naturali e oggetti artificiali. Una riflessione sulla causa delle confusioni (apparenti?) a cui conduce il programma, farà certamente concludere che esse dipendono dall’averlo voluto limitare a considerazioni di forma, di struttura, di geometria, svuotando così la nozione di oggetto artificiale del suo contenuto essenziale: cioè che tale oggetto si definisce, si esplica innanzitutto mediante la funzione che è chiamato a espletare attraverso le prestazioni volute dal suo inventore. Ma si constaterà ben presto che, programmando la macchina perché essa studi non solo la struttura, ma anche le eventuali prestazioni degli oggetti esaminati, si otterranno risultati ancor più deludenti. Supponiamo, ad esempio, che questo nuovo programma consenta effettivamente alla macchina di analizzare in modo corretto le strutture e le prestazioni di due serie di oggetti, per esempio alcuni cavalli su un campo da corsa e alcune automobili su una strada.
Oggetti dotati di un progetto
L’analisi porterebbe alla conclusione che tali oggetti sono strettamente paragonabili, in quanto entrambi concepiti per essere in grado di effettuare spostamenti rapidi, anche se su superfici diverse, il che giustifica le loro differenze di struttura. Se poi, per fare un altro esempio, proponessimo alla macchina di confrontare le strutture e le prestazioni dell’occhio di un vertebrato con quelle di un apparecchio fotografico, il programma non potrebbe che riconoscere le profonde analogie. Lenti, diaframma otturatore, pigmenti fotosensibili: le stesse componenti non possono essere state predisposte, nei due oggetti, che per fornire prestazioni simili. Ho citato questo esempio classico tra numerosi altri, di adattamento funzionale negli esseri viventi, unicamente per sottolineare quanto sarebbe arbitrario e sterile voler negare che l’organo naturale, l’occhio, rappresenti la realizzazione di un progetto (quello di captare le immagini), quando si dovrebbe riconoscere tale origine all’apparecchio fotografico. Ciò sarebbe tanto più assurdo in quanto, in ultima analisi, il progetto che sta alla base dell’apparecchio, non può essere che lo stesso al quale l’occhio deve la sua struttura. Qualunque “artefatto” è il prodotto dell’attività di un essere vivente, che esprime in tal modo, e con particolare evidenza, una delle proprietà fondamentali caratteristiche di tutti i viventi, nessuno escluso: quella di essere oggetti dotati di un progetto, rappresentato nelle loro strutture e al tempo stesso realizzato mediante le loro prestazioni, ad esempio la creazione di “artefatti”. È indispensabile riconoscere questa nozione come essenziale alla definizione stessa degli esseri viventi, invece di rifiutarla. Anzi diremo che gli esseri viventi si differenziano tra tutte le strutture di qualsiasi altro sistema presente nell’universo proprio grazie a questa proprietà, alla quale daremo il nome di “teleonomia”. Si osserverà, tuttavia, che tale condizione, sebbene necessaria per definire i viventi, non è sufficiente poiché non propone criteri oggettivi che consentirebbero di distinguere tali esseri dagli artefatti, prodotti della loro attività. Non basta osservare che il progetto da cui trae origine un oggetto artificiale appartiene all’animale che lo ha creato e non all’oggetto stesso.
Questa nozione evidente è ancora troppo soggettiva e prova ne sia che sarebbe difficile utilizzarla nel programma di un calcolatore: come potrebbe la macchina decidere che il progetto di captare immagini – progetto rappresentato da un apparecchio fotografico – appartiene a un oggetto diverso dall’apparecchio stesso? Se ci si limita all’esame della struttura che è stata realizzata e all’analisi delle sue prestazioni, è possibile individuare il progetto, ma non l’autore. Per identificare l’autore è necessario un programma che studi non soltanto l’oggetto in sé, ma anche la sua origine, la sua storia e, innanzitutto, le sue modalità di costruzione. Nulla vieta, almeno in teoria, di formulare un programma di questo tipo ed esso, anche se fosse piuttosto primitivo, permetterebbe di individuare una radicale differenza tra un oggetto artificiale, per quanto perfezionato, e un essere vivente. La macchina non potrebbe fare a meno di constatare, in effetti, che la struttura macroscopica di un “artefatto” (un raggio di cellette costruito da un’ape, una diga eretta da castori, un’ascia paleolitica o un veicolo spaziale) risulta dall’applicazione ai materiali che lo costituiscono di forze esterne all’oggetto stesso. Una volta realizzata, tale struttura non attesta l’esistenza di forze di coesione interne tra gli atomi o le molecole che costituiscono il materiale ma delle forze esterne che lo hanno forgiato.
Macchine che si costruiscono da sé
Il programma, in compenso, dovrà registrare il fatto che la struttura di un essere vivente è il risultato di un processo del tutto diverso, nella misura in cui non deve praticamente nulla all’azione delle forze esterne, mentre deve tutto, dalla forma generale fino al minimo particolare, a interazioni “morfogenetiche” interne all’oggetto medesimo. Ma vi è un’eccezione, costituita ancora una volta dai cristalli la cui caratteristica geometria riflette le interazioni microscopiche interne all’oggetto stesso. Il fatto che, in base a questo criterio, come pure quelli di regolarità e di ripetitività, le strutture cristalline debbano essere avvicinate a quelle degli esseri viventi potrebbe costituire materia di riflessione per il programmatore: egli dovrebbe chiedersi se le forze interne che conferiscono agli esseri viventi la loro struttura microscopica non abbiano per caso la stessa natura delle interazioni microscopiche delle morfologie cristalline. Così il nostro programmatore che ignora la Biologia ma che si occupa di informatica, avendo “scoperto” che la formazione delle strutture estremamente complesse degli esseri viventi è assicurata da un determinismo interno, autonomo, dovrebbe necessariamente accorgersi che simili strutture rappresentano una notevole quantità di informazioni di cui resta solo da identificare la fonte: ogni informazione espressa, e quindi ricevuta, presuppone infatti un emittente.
Macchine che si riproducono
Ammettiamo che, proseguendo nella sua indagine, quel programmatore faccia la sua ultima scoperta, cioé si accorga che l’emittente dell’informazione, che risulta espressa nella struttura di un essere vivente, è sempre un altro oggetto identico al primo. A questo punto egli ha identificato la fonte e riconosciuto una terza proprietà notevole di questi oggetti: il potere di riprodurre e di trasmettere l’informazione corrispondente alla loro struttura.
Informazione molto ricca, poiché descrive un’organizzazione straordinariamente complessa che però si conserva integralmente da una generazione all’altra. Designeremo questa proprietà con il nome di riproduzione invariante o, semplicemente, di invarianza. Si noterà a questo punto che, grazie alla proprietà di riproduzione invariante gli esseri viventi e le strutture cristalline si trovano ancora una volta associati e contrapposti a ogni altro oggetto conosciuto nell’Universo. Ma le strutture cristalline rappresentano una quantità di informazione inferiore di parecchi ordini di grandezza rispetto a quella che si trasmette di generazione in generazione negli esseri viventi, anche nei più semplici: questo criterio puramente quantitativo consente di distinguere gli esseri viventi da tutti gli altri oggetti, compresi i cristalli.
Le proprietà strane: invarianza e teleonomia
Delle tre proprietà teleonomia, morfogenesi autonoma, invarianza riproduttiva, l’ultima è quella che più agevolmente si presta a una definizione quantitativa. Poiché si tratta della capacità di riprodurre una struttura con un grado d’ordine molto elevato, e poiché il grado d’ordine di una struttura si può definire in unità di informazione, diremo che il “contenuto di invarianza” di una data specie è uguale alla quantità di informazione che, trasmessa da una generazione all’altra, assicura la conservazione della norma strutturale specifica. Ma ogni progetto particolare, qualunque esso sia, ha senso soltanto in quanto è parte di un progetto più generale. Tutti gli adattamenti funzionali degli esseri viventi, al pari di tutti gli artefatti di loro produzione, realizzano progetti particolari che si possono considerare come aspetti o frammenti di un unico progetto primitivo, cioè la conservazione e la moltiplicazione della specie. Per essere più precisi, stabiliremo arbitrariamente che il progetto teleonomico essenziale consiste nella trasmissione, da una generazione all’altra, del contenuto di invarianza caratteristico della specie. Tutte le strutture, le prestazioni, le attività che concorrono al successo del progetto essenziale, saranno quindi chiamate “teleonomiche”.
Tali considerazioni permettono di proporre una definizione di principio del “livello” teleonomico di una specie, ed effettivamente si può ritenere che ogni struttura e ogni prestazione teleonomica corrisponda a una certa quantità di informazione che deve essere trasmessa perché quella struttura si realizzi e quella prestazione si compia. Questa quantità può essere definita “informazione teleonomica”. Si può allora affermare che “livello teleonomico” di una data specie corrisponde alla quantità di informazione che deve essere trasferita, in media, per individuo onde assicurare la trasmissione del contenuto specifico di invarianza riproduttiva alla generazione successiva. Sarà facile rendersi conto che l’attuazione del progetto teleonomico fondamentale (cioè la riproduzione invariante) dà luogo, in specie diverse e a diversi gradi della scala animale e a varie strutture e prestazioni, più o meno elaborate e complesse. È necessario insistere sul fatto che non si tratta soltanto delle attività direttamente legate alla riproduzione propriamente detta ma di tutte quelle che contribuiscono, anche molto indirettamente, alla sopravvivenza e alla moltiplicazione della specie. Si tratterà di stimare il grado di complessità di tutte queste prestazioni o strutture, concepite allo scopo di servire al progetto teleonomico. Questa grandezza, definibile dal punto di vista teorico, non è misurabile in pratica, ma consente perlomeno di ordinare, in modo approssimativo, differenti specie o gruppi secondo una “scala teleonomica”. Per fare un esempio, immaginiamo un poeta innamorato e timido, che non osa confessare il suo amore alla donna amata e sa esprimere solo simbolicamente la sua passione nei poemi che le dedica.
Supponiamo che la donna, finalmente lusingata da omaggi tanto raffinati, accetti di fare all’amore con il poeta. I poemi di quest’ultimo avranno contribuito al successo del progetto essenziale e l’informazione in essi contenuta deve quindi essere conteggiata nella somma delle prestazioni teleonomiche che assicurano la trasmissione dell’invarianza genetica. È chiaro che il successo del progetto non implica alcuna prestazione analoga in altre specie animali, per esempio in un topo. Ma, e questo è il punto, il contenuto di invarianza genetica è quasi identico per il topo e per l’uomo (in realtà per tutti i mammiferi).
Il “paradosso” dell’invarianza
L’invarianza sembra, fin dal primo momento, una proprietà profondamente paradossale, poiché il mantenimento, la riproduzione e la moltiplicazione di strutture dotate di un ordine elevato sembrano incompatibili con il secondo principio della termodinamica. Tale principio stabilisce, in effetti, che ogni sistema macroscopico si evolve solo in un senso, in quello della degradazione dell’ordine che lo caratterizza. Tuttavia questo enunciato è valido e verificabile solo se si considera l’evoluzione di insieme di un sistema energeticamente isolato. In seno a questo, in una delle sue fasi, si potrà assistere alla formazione e all’accrescimento di strutture ordinate senza che per ciò l’evoluzione generale del sistema trasgredisca al suddetto principio.
La teleonomia e il principio di oggettività
Non vi è alcun paradosso fisico nella riproduzione invariante di tali strutture: il prezzo termodinamico dell’invarianza viene pagato esattamente, grazie alla perfezione dell’apparato teleonomico che, avaro di calorie, raggiunge nel suo compito infinitamente complesso un rendimento eguagliato dalle macchine umane. Quest’apparato è del tutto logico, meravigliosamente razionale, perfettamente adatto al suo progetto: conservare e riprodurre la norma strutturale. E ciò senza trasgredire le leggi fisiche, ma anzi sfruttandole a tutto vantaggio della sua personale idiosincrasia. È l’esistenza stessa di un simile progetto, realizzato e perseguito a un tempo dall’apparato teleonomico, che costituisce il “miracolo”. Miracolo? No, il vero problema si pone a un altro livello, ben più profondo di quello delle leggi fisiche; è in gioco infatti la nostra comprensione, la nostra intuizione del fenomeno. Non vi è, in realtà, né paradosso né miracolo, ma una lampante contraddizione epistemologica.
La pietra angolare del metodo scientifico è il postulato dell’oggettività della Natura, vale a dire il rifiuto sistematico a considerare la possibilità di pervenire a una conoscenza “vera” mediante qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di “progetto”. La scoperta di questo principio può essere datata con esattezza. Galileo e Cartesio, formulando il principio di inerzia, non fondarono solo la meccanica, ma anche l’epistemologia della scienza moderna, abolendo la fisica e la cosmologia di Aristotele. Postulato puro, che non si potrà mai dimostrare poiché, evidentemente, è impossibile concepire un esperimento in grado di provare la non esistenza di un progetto, di uno scopo perseguito, in un punto qualsiasi della Natura, il postulato di oggettività è consostanziale alla scienza e da tre secoli ne guida il prodigioso sviluppo. È impossibile disfarsene senza uscire dall’ambito della scienza stessa.
Ma l’oggettività ci obbliga a riconoscere il carattere teleonomico degli esseri viventi, ad ammettere che, nelle loro strutture e prestazioni, essi realizzano e perseguono un progetto. Vi è dunque, almeno in apparenza, una profonda contraddizione epistemologica. Il problema centrale della Biologia consiste proprio in questa contraddizione che occorre risolvere se essa è solo apparente, o dimostrare insolubile se è reale.