lunedì 22 agosto 2011

il Caso del Tao e la Necessità

«Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità»
Democrito.



















 Nel 1970 Jacques Monod, direttore dal 1971 dell'Institut Pasteur, premio Nobel per la medicina e la fisiologia insieme a André Lwoff e a François Jacob per «le scoperte riguardanti il controllo genetico della sintesi di virus ed enzimi», scrisse questo saggio - da lui denominato di "filosofia naturale" - del quale ogni considerazione che voglia seriamente tenere in conto quattro secoli di scienza non può non ignorare.

Nella prefazione Monod scrive:

"La Biologia occupa, tra le scienze, un posto marginale e centrale al tempo stesso. Marginale in quanto il mondo vivente rappresenta solo una parte minima e assai 'speciale' dell'universo noto, di modo che lo studio degli esseri viventi non rivela mai in apparenza leggi generali applicabili al di fuori della biosfera. Ma se, come credo, l'ambizione ultima della Scienza consiste proprio nel chiarire la relazione tra uomo e universo, allora bisogna riconoscere alla Biologia un posto centrale poiché, tra tutte le discipline, essa tenta di raggiungere più direttamente il nocciolo delle questioni che è indispensabile risolvere prima di poter anche solo porre in termini che non siano metafisici il problema della 'natura umana'.

La Biologia è dunque, per l'uomo, la più significativa di tutte le scienze, quella che ha già contribuito, forse più di ogni altra, alla formazione del pensiero moderno, profondamente sconvolto e irreversibilmente segnato in tutti i campi - filosofico, religioso e politico - dall'avvento dell'evoluzionismo. Tale teoria, per quanto la sua validità fenomenologica fosse stata accertata fin dagli ultimi anni del XIX secolo e pur dominando essa tutta la Biologia, era destinata però a rimanere in sospeso finché non si fosse elaborata una teoria fisica dell'eredità.

Ancora trent'anni or sono, nonostante i successi della genetica classica, la speranza di riuscire in questo intento sembrava quasi una chimera e invece proprio questo è il contributo dato oggi dalla teoria molecolare del codice genetico. Uso qui l'espressione 'teoria del codice genetico' in senso lato, per includervi non solo le nozioni relative alla struttura chimica del materiale ereditario e dell'inforinazione che esso porta, ma anche i meccanismi molecolari di espressione, morfogenetica e fisiologica, di tale informazione. Così definita, la teoria del codice genetico costituisce la base fondamentale della Biologia. Il che non significa affatto, s'intende, che le strutture e le funzioni complesse degli organismi possano essere dedotte da essa e neppure che siano sempre direttamente analizzabili in scala molecolare (così come non si può né predire né risolvere tutta la Chimica alla luce della teoria quantistica che pur ne costituisce, indubbiamente, la base universale).

Ma anche se la teoria molecolare del codice non può oggi (e probabilmente non potrà mai) prevedere e risolvere tutta la biosfera, essa costituisce tuttavia fin d'ora una teoria generale dei sistemi viventi. Non esisteva nulla di simile nelle conoscenze scientifiche antecedenti l'avvento della biologia molecolare. Il 'segreto della vita', che allora poteva sembrare inaccessibile nel suo stesso principio, è oggi in buona parte svelato. Quest'importantissimo avvenimento dovrebbe assumere, a quanto pare, un peso enorme nel pensiero contemporaneo non appena il significato generale e la portata di tale teoria saranno compresi e apprezzati anche al di fuori del ristretto cerchio degli specialisti. Spero che questo saggio potrà favorire una simile comprensione: più che le nozioni della biologia molecolare in sé e per sé ho tentato in effetti di mettere in luce la loro 'forma' e di precisare i rapporti logici che esse hanno con altri campi del pensiero.

Oggi è poco prudente per un uomo di scienza inserire il termine 'filosofia', sia pur 'naturale" nel titolo o nel sottotitolo di un'opera: è il modo migliore per farla accogliere con diffidenza dagli scienziati e, per bene che vada, con condiscendenza dai filosofi. Ho un'unica scusante, che però ritengo legittima, ed è il dovere che si impone agli uomini di scienza, oggi più che mai, di pensare la propria disciplina nel quadro generale della cultura moderna per arricchirlo non solo di nozioni importanti dal punto di vista tecnico, ma anche di quelle idee, provenienti dal loro particolare campo di indagine, che essi ritengano significative dal punto di vista umano. Il candore di uno sguardo nuovo (quello della scienza lo è sempre) può talvolta illuminare di luce nuova antichi problemi.

Resta da evitare, beninteso, ogni confusione tra le idee suggerite dalla scienza e la scienza stessa; d'altra parte è necessario spingere all'estremo, senza esitare, le conclusioni che essa autorizza alfine di svelarne il pieno significato. Operazione difficile. Io non pretendo di uscirne senza errori. Diciamo pure che la parte strettamente biologica di questo saggio non è affatto originale: ho solo riassunto nozioni ormai affermate in campo scientifico. L'importanza relativa attribuita a diversi sviluppi, come la scelta degli esempi proposti, riflette, in verità, tendenze personali. Importanti capitoli della Biologia non sono neppure menzionati ma, ancora una volta, questo saggio non pretende affatto di esporre tutta la Biologia: tenta solo, dichiaratamente, di cogliere la quintessenza della teoria molecolare del codice. Naturalmente sono responsabile delle generalizzazioni ideologiche che ho ritenuto di poter dedurre, ma non credo di ingannarmi affermando che tali interpretazioni, finché non escono dall'ambito dell'epistemologia, incontreranno l'approvazione della maggior parte dei biologi contemporanei. Mi assumo anche la piena responsabilità degli sviluppi di ordine etico, se non politico, che non ho voluto evitare, per quanto pericolosi o ingenui o presuntuosi possano sembrare mio malgrado: la modestia si addice allo scienziato, ma non alle idee che sono in lui e che egli ha il dovere di difendere. Anche qui ho però la certezza, che mi rassicura, di trovarmi in pieno accordo con alcuni biologi contemporanei la cui opera merita il più grande rispetto"

Il punto di vista di Monod è quello della scienza classica, oggettiva e riduzionistica.
Benchè negli sviluppi di modelli di Seconda Cibernetica e delle Scienze della Complessità si sono sviluppati, soprattutto per livelli gerarchici "elevati" quali quelli biologici, dell'individuo e dell'interazione tra individui, punti di vista alternativi in cui il soggetto è legato all'oggetto e le proprietà dei sistemi sono descritte in termini di "emergenza", non c'è dubbio che la quasi totalità delle scoperte scientifiche, e quindi tutte le tecnologie derivate da cui dipendono le società "moderne", sono state effettuate secondo questo punto di vista "classico".
Il tema centrale del saggio di Monod è una contraddizione - "che occorre risolvere se essa è solo apparente, o dimostrare insolubile se è reale" - tra il postulato di oggettività della scienza e una tra le proprietà fondamentali di tutti gli esseri viventi a qualunque livello, la teleonomia, ovvero l'evidente presenza di un progetto, che Monod illustra - parlando da protagonista - nella sua base biologica fondamentale: la teoria molecolare del codice genetico.
  • il postulato di oggettività
"La pietra angolare del metodo scientifico è il postulato dell’oggettività della Natura, vale a dire il rifiuto sistematico a considerare la possibilità di pervenire a una conoscenza “vera” mediante qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di “progetto”. La scoperta di questo principio può essere datata con esattezza. Galileo e Cartesio, formulando il principio di inerzia, non fondarono solo la meccanica, ma anche l’epistemologia della scienza moderna, abolendo la fisica e la cosmologia di Aristotele. Postulato puro, che non si potrà mai dimostrare poiché, evidentemente, è impossibile concepire un esperimento in grado di provare la non esistenza di un progetto, di uno scopo perseguito, in un punto qualsiasi della Natura, il postulato di oggettività è consostanziale alla scienza e da tre secoli ne guida il prodigioso sviluppo. È impossibile disfarsene, anche provvisoriamente, o in un settore limitato, senza uscire dall'ambito della scienza stessa"

"...Tutto ciò naturalmente è valido se si ammette il postulato fondamentale del metodo scientifico secondo cui la Natura è oggettiva e non proiettiva."

Il postulato, o principio, di oggettività è quindi qualcosa di più che non la classica divisione cartesiana tra oggetto/soggetto. Il postulato stabilisce che in ogni esperimento o scoperta scientifica necessariamente non è possibile individuare un "progetto" - e viceversa non è possibile "proiettare" un "progetto" nella metodologia scientifica senza uscire dalla scienza stessa.
Monod, molto saggiamente, si guarda bene dall'inserire le sue considerazione nel secolare e prosaico dibattito tra scienza e fede anche se, naturalmente, di questo si tratta. Nella scienza le domande che hanno senso sono "come?" "cosa?" mentre il "perchè?" è ammissibile ma ristretto al puro ambito scientifico. Ad esempio alla domanda "Perchè esiste l'acqua?" la scienza risponde che, in determinate condizioni di temperatura e pressione, due atomi di idrogeno si legano - necessariamente - con un'atomo di ossigeno in un legame covalente. Se invece la risposta è "L'acqua esiste perchè l'ha creata Dio" è ugualmente legittima, se non che non ha e non può avere valore scientifico in quanto "Dio" è un principio esplicativo (anzi, il più esplicativo di tutti), e in quanto tale spiegando tutto non spiega nulla dal punto di vista scientifico.
  • la teoria molecolare del codice genetico: invarianza e teleonomia
 

La determinazione nel 1953 da parte di James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins della struttura a doppia elica composta da quattro basi azotate di uno dei due acidi nucleici presenti in tutte le cellule con nucleo, l'acido desossiribonucleico o DNA, e la successiva determinazione della teoria molecolare del codice genetico, che dal DNA attraverso la replicazione del DNA, trascrizione, traduzione e espressione porta alla formazione delle proteine, è considerata in biologia di importanza pari alla teoria darwiniana della selezione ed evoluzione della specie, alle quali fornisce il fondamento chimico-molecolare, ed una delle scoperte più importanti di tutta la storia della scienza. 


Secondo il dogma centrale della biologia molecolare il flusso di informazione del processo è unidirezionale nel senso DNA - replica DNA - RNA- mRNA - proteine.

"Il meccanismo della traduzione è assolutamente irreversibile. Non si è mai constatato, e d'altronde non sarebbe concepibile, un trasferimento d'informazione in senso inverso, dalla proteina al DNA. Questa nozione si basa su una serie di informazioni oggi complete e sicure e le sue implicazioni, soprattutto nella teoria dell'evoluzione, sono molto importanti tanto che si deve considerare uno dei principi fondamentali della biologia moderna. Ne consegue che l'unico meccanismo possibile atttraverso il quale le strutture e le prestazioni di una proteina potrebbero venire modificate e tali modificazioni trasmesse, anche parzialmente alla discendenza, è quello che deriva da un'alterazione delle istruzioni contenute in un segmento della sequenza del DNA. Non si può, invece, concepire alcun meccanismo in grado di trasmettere al DNA una qualsiasi istruzione o informazione."

La teoria molecolare del codice genetico spiega come attuandosi, secondo le parole di François Jacob, "il sogno di ogni cellula, diventare due cellule", intervengano due proprietà fondamentali: l'invarianza riproduttiva e la teleonomia, in cui:

«L'invarianza precede necessariamente la teleonomia. Per essere più espliciti, si tratta dell'idea darwiniana che la comparsa, l'evoluzione e il progressivo affinamento di strutture sempre più fortemente teleonomiche sono dovuti al sopraggiungere di perturbazioni in una struttura già dotata della proprietà di invarianza, e quindi capace di "conservare il caso" e di subordinarne gli effetti al gioco della selezione naturale.»

Queste due proprietà spiegano come i sistemi viventi, considerati come sistemi "chiusi", possano trasmettere la propria struttura genetica alle generazioni successive.
Quando si verifica una mutazione questa è da ascrivere non ad un'impossibile interazione con l'ambiente ma piuttosto con eventi casuali verificatisi al suo interno:


«Gli eventi iniziali elementari, che schiudono la via dell'evoluzione ai sistemi profondamente conservatori rappresentati dagli esseri viventi sono microscopici, fortuiti e senza alcun rapporto con gli effetti che possono produrre nelle funzioni teleonomiche.»

Tuttavia, dal momento in cui la modifica nella struttura del DNA si è verificata, una volta avvenuta la mutazione «l'avvenimento singolare, e in quanto tale essenzialmente imprevedibile, verrà automaticamente e fedelmente replicato e tradotto, cioè contemporaneamente moltiplicato e trasposto in milioni o miliardi di esemplari. Uscito dall'ambito del puro caso, esso entra in quello della necessità, delle più inesorabili determinazioni. La selezione opera in effetti in scala macroscopica, cioè a livello dell'organismo.» Il caso, che produce le mutazioni del DNA, entra nella macchina chimico-molecolare della riproduzione, e quindi nella necessità.
"Le alterazioni nel DNA sono accidentali, avvengono a caso. E poiché esse rappresentano la sola fonte possibile di modificazione del testo genetico, a sua volta unico depositario delle strutture ereditarie dell'organismo, ne consegue necessariamente che soltanto il caso è all'origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera. Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, alla radice stessa del prodigioso edificio dell'evoluzione: oggi questa nozione centrale della Biologia non è più un'ipotesi fra le molte possibili o perlomeno concepibili, ma è la sola concepibile in quanto è l'unica compatibile con la realtà quale ce la mostrano l'osservazione e l'esperienza. Nulla lascia supporre (o sperare) che si dovranno, o anche solo potranno, rivedere le nostre idee in proposito."
"Per la teoria del giorno d'oggi l'evoluzione non è affatto una proprietà degli esseri viventi, in quanto ha le sue radici nelle imperfezioni stesse del meccanismo conservatore che, invece, rappresenta il loro unico privilegio. Si deve dire quindi che la stessa fonte di perturbazione, di "rumore" che, in un sistema non vivente, cioè non replicativo, abolirebbe a poco a poco ogni struttura, è all'origine dell'evoluzione nella biosfera e giustifica la sua totale libertà creatrice, grazie a questo "conservatorio" del caso - la struttura replicativa del DNA - sordo sia al rumore sia alla musica."

Le prime pagine del saggio di Monod portano subito al cuore dell'argomento:

Il naturale e l’artificiale
Tutti noi siamo convinti di saper distinguere immediatamente e senza ambiguità, tra vari oggetti, quelli naturali e quelli artificiali: una roccia, una montagna, un fiume o una nube sono oggetti naturali; un coltello, un fazzoletto, un’automobile sono oggetti artificiali, artefatti (nel senso proprio: prodotti di un'attività, di un'arte). Ma appena si analizzano tali giudizi ci si accorge che essi non sono né immediati né del tutto obiettivi. Sappiamo che il coltello è stato forgiato dall’uomo per un uso, per una prestazione progettata in precedenza. L’oggetto materializza quindi l’intenzione preesistente da cui ha tratto origine e la sua forma è giustificata dalla prestazione a cui era destinato ancor prima della sua effettiva realizzazione. Nulla di simile per il fiume o per la roccia che sappiamo o pensiamo modellati dal libero gioco di forze fisiche alle quali non sapremmo attribuire alcun “progetto”. Tutto ciò naturalmente è valido se si ammette il postulato fondamentale del metodo scientifico secondo cui la Natura è oggettiva e non proiettiva. Sarebbe possibile definire, in base a criteri generali e oggettivi, le caratteristiche degli oggetti artificiali, frutto di un’attività proiettiva cosciente, per contrapposizione agli oggetti naturali che risultano invece dal gioco fortuito delle forze fisiche?

Per accertarsi della completa oggettività dei criteri adottati meglio varrebbe forse chiedersi se, utilizzandoli, sia possibile allestire un programma che permetta a un calcolatore di distinguere un artefatto da un oggetto naturale. Un simile programma potrebbe avere applicazioni estremamente interessanti. Supponiamo che, in un prossimo futuro, un’astronave vada a posarsi su Venere o Marte; che cosa ci sarebbe di più affascinante del sapere se, su questi pianeti a noi vicini, vivono o hanno vissuto in epoche anteriori esseri intelligenti capaci di attività proiettiva?
Elementi rivelatori di una simile attività, presente o passata, sarebbero evidentemente i suoi prodotti che, pur diversi da quelli di un’industria umana, dovrebbero essere riconoscibili come tali. Ignorando tutto di quegli esseri, della loro natura e dei loro progetti che potrebbero aver concepito, il programma dovrebbe utilizzare soltanto criteri molto generali, basati esclusivamente sulla struttura e sulla forma degli oggetti presi in esame, senza alcun riferimento alla loro eventuale funzione. Risulta subito evidente che i criteri da adottare sarebbero due:
1) regolarità;
2) ripetizione.
In base al criterio di regolarità, si cercherebbe di sfruttare il fatto che gli oggetti naturali, modellati dal gioco di forze fisiche, non presentano mai strutture semplici dal punto di vista geometrico: ad esempio superfici piane, spigoli rettilinei, angoli retti, simmetrie perfette; gli artefatti presenterebbero invece tali caratteristiche, anche se in modo approssimativo e rudimentale. Il criterio di ripetizione sarebbe senza dubbio più decisivo. Materializzazioni di un progetto ogni volta ripetuto, “artefatti” omologhi destinati allo stesso uso, riproducono, con certe approssimazioni, le intenzioni sempre uguali del loro creatore. A questo punto, sarebbe dunque estremamente significativa la scoperta di numerosi esemplari di oggetti con forme abbastanza ben definite.

Le difficoltà di un programma spaziale
Supponiamo che il programma sia stato scritto e la macchina realizzata. Capovolgiamo le ipotesi e immaginiamo che la macchina sia stata costruita dagli esperti della NASA marziana, desiderosi di scoprire sulla Terra le prove di un’attività organizzata, creatrice di “artefatti”. La macchina esamina e confronta le case da un lato e le rocce dall’altro. Valendosi dei criteri di regolarità, di semplicità geometrica e di ripetizione, essa concluderà senza difficoltà che le rocce sono oggetti naturali, mentre le case sono artefatti. Rivolgendo poi la sua attenzione ad oggetti di dimensioni più modeste, esaminerà alcuni sassolini, a fianco dei quali scoprirà cristalli, ad esempio di quarzo. In base agli stessi criteri essa dovrà evidentemente concludere che, se i sassi sono naturali, i cristalli di quarzo sono invece oggetti artificiali. Giudizio che sembra testimoniare un “errore” nella struttura del programma, errore la cui origine è, d’altronde, interessante: Il cristallo, in altre parole, è l’espressione macroscopica di una struttura microscopica. Un simile errore sarebbe d’altronde facilmente eliminabile dato che sono note tutte le strutture cristalline possibili. Ma supponiamo che la macchina studi ora un altro tipo di oggetto, per esempio un favo di api selvatiche. Essa vi troverebbe, evidentemente, tutti i criteri di un’origine artificiale, e cioè le strutture geometriche semplici e ripetitive dei raggi e delle cellette costitutive per cui quel favo verrebbe classificato nella stessa categoria di oggetti a cui appartengono le case. Cosa pensare di questo giudizio? Noi sappiamo che il favo è “artificiale” in quanto rappresenta il prodotto dell’attività delle api, ma abbiamo anche valide ragioni per pensare che tale attività è puramente automatica, attuale ma non coscientemente proiettiva. Da buoni naturalisti, tuttavia, riteniamo le api esseri “naturali”. E non è allora una palese contraddizione considerare “artificiale” il prodotto dell’attività automatica di un essere “naturale”? Risulterebbe ben presto chiaro, proseguendo l’indagine, che – se esiste una contraddizione – essa non dipende da un errore di programmazione ma dall’ambiguità dei nostri giudizi. La digressione quasi fantascientifica testé fatta aveva lo scopo di dimostrare quanto sia difficile definire il limite, che pur sembra così intuitivamente chiaro, tra oggetti naturali e oggetti artificiali. Una riflessione sulla causa delle confusioni (apparenti?) a cui conduce il programma, farà certamente concludere che esse dipendono dall’averlo voluto limitare a considerazioni di forma, di struttura, di geometria, svuotando così la nozione di oggetto artificiale del suo contenuto essenziale: cioè che tale oggetto si definisce, si esplica innanzitutto mediante la funzione che è chiamato a espletare attraverso le prestazioni volute dal suo inventore. Ma si constaterà ben presto che, programmando la macchina perché essa studi non solo la struttura, ma anche le eventuali prestazioni degli oggetti esaminati, si otterranno risultati ancor più deludenti. Supponiamo, ad esempio, che questo nuovo programma consenta effettivamente alla macchina di analizzare in modo corretto le strutture e le prestazioni di due serie di oggetti, per esempio alcuni cavalli su un campo da corsa e alcune automobili su una strada.

Oggetti dotati di un progetto

L’analisi porterebbe alla conclusione che tali oggetti sono strettamente paragonabili, in quanto entrambi concepiti per essere in grado di effettuare spostamenti rapidi, anche se su superfici diverse, il che giustifica le loro differenze di struttura. Se poi, per fare un altro esempio, proponessimo alla macchina di confrontare le strutture e le prestazioni dell’occhio di un vertebrato con quelle di un apparecchio fotografico, il programma non potrebbe che riconoscere le profonde analogie. Lenti, diaframma otturatore, pigmenti fotosensibili: le stesse componenti non possono essere state predisposte, nei due oggetti, che per fornire prestazioni simili. Ho citato questo esempio classico tra numerosi altri, di adattamento funzionale negli esseri viventi, unicamente per sottolineare quanto sarebbe arbitrario e sterile voler negare che l’organo naturale, l’occhio, rappresenti la realizzazione di un progetto (quello di captare le immagini), quando si dovrebbe riconoscere tale origine all’apparecchio fotografico. Ciò sarebbe tanto più assurdo in quanto, in ultima analisi, il progetto che sta alla base dell’apparecchio, non può essere che lo stesso al quale l’occhio deve la sua struttura. Qualunque “artefatto” è il prodotto dell’attività di un essere vivente, che esprime in tal modo, e con particolare evidenza, una delle proprietà fondamentali caratteristiche di tutti i viventi, nessuno escluso: quella di essere oggetti dotati di un progetto, rappresentato nelle loro strutture e al tempo stesso realizzato mediante le loro prestazioni, ad esempio la creazione di “artefatti”. È indispensabile riconoscere questa nozione come essenziale alla definizione stessa degli esseri viventi, invece di rifiutarla. Anzi diremo che gli esseri viventi si differenziano tra tutte le strutture di qualsiasi altro sistema presente nell’universo proprio grazie a questa proprietà, alla quale daremo il nome di “teleonomia”. Si osserverà, tuttavia, che tale condizione, sebbene necessaria per definire i viventi, non è sufficiente poiché non propone criteri oggettivi che consentirebbero di distinguere tali esseri dagli artefatti, prodotti della loro attività. Non basta osservare che il progetto da cui trae origine un oggetto artificiale appartiene all’animale che lo ha creato e non all’oggetto stesso.
Questa nozione evidente è ancora troppo soggettiva e prova ne sia che sarebbe difficile utilizzarla nel programma di un calcolatore: come potrebbe la macchina decidere che il progetto di captare immagini – progetto rappresentato da un apparecchio fotografico – appartiene a un oggetto diverso dall’apparecchio stesso? Se ci si limita all’esame della struttura che è stata realizzata e all’analisi delle sue prestazioni, è possibile individuare il progetto, ma non l’autore. Per identificare l’autore è necessario un programma che studi non soltanto l’oggetto in sé, ma anche la sua origine, la sua storia e, innanzitutto, le sue modalità di costruzione. Nulla vieta, almeno in teoria, di formulare un programma di questo tipo ed esso, anche se fosse piuttosto primitivo, permetterebbe di individuare una radicale differenza tra un oggetto artificiale, per quanto perfezionato, e un essere vivente. La macchina non potrebbe fare a meno di constatare, in effetti, che la struttura macroscopica di un “artefatto” (un raggio di cellette costruito da un’ape, una diga eretta da castori, un’ascia paleolitica o un veicolo spaziale) risulta dall’applicazione ai materiali che lo costituiscono di forze esterne all’oggetto stesso. Una volta realizzata, tale struttura non attesta l’esistenza di forze di coesione interne tra gli atomi o le molecole che costituiscono il materiale ma delle forze esterne che lo hanno forgiato. 

Macchine che si costruiscono da sé
Il programma, in compenso, dovrà registrare il fatto che la struttura di un essere vivente è il risultato di un processo del tutto diverso, nella misura in cui non deve praticamente nulla all’azione delle forze esterne, mentre deve tutto, dalla forma generale fino al minimo particolare, a interazioni “morfogenetiche” interne all’oggetto medesimo. Ma vi è un’eccezione, costituita ancora una volta dai cristalli la cui caratteristica geometria riflette le interazioni microscopiche interne all’oggetto stesso. Il fatto che, in base a questo criterio, come pure quelli di regolarità e di ripetitività, le strutture cristalline debbano essere avvicinate a quelle degli esseri viventi potrebbe costituire materia di riflessione per il programmatore: egli dovrebbe chiedersi se le forze interne che conferiscono agli esseri viventi la loro struttura microscopica non abbiano per caso la stessa natura delle interazioni microscopiche delle morfologie cristalline. Così il nostro programmatore che ignora la Biologia ma che si occupa di informatica, avendo “scoperto” che la formazione delle strutture estremamente complesse degli esseri viventi è assicurata da un determinismo interno, autonomo, dovrebbe necessariamente accorgersi che simili strutture rappresentano una notevole quantità di informazioni di cui resta solo da identificare la fonte: ogni informazione espressa, e quindi ricevuta, presuppone infatti un emittente.

Macchine che si riproducono

Ammettiamo che, proseguendo nella sua indagine, quel programmatore faccia la sua ultima scoperta, cioé si accorga che l’emittente dell’informazione, che risulta espressa nella struttura di un essere vivente, è sempre un altro oggetto identico al primo. A questo punto egli ha identificato la fonte e riconosciuto una terza proprietà notevole di questi oggetti: il potere di riprodurre e di trasmettere l’informazione corrispondente alla loro struttura.
Informazione molto ricca, poiché descrive un’organizzazione straordinariamente complessa che però si conserva integralmente da una generazione all’altra. Designeremo questa proprietà con il nome di riproduzione invariante o, semplicemente, di invarianza. Si noterà a questo punto che, grazie alla proprietà di riproduzione invariante gli esseri viventi e le strutture cristalline si trovano ancora una volta associati e contrapposti a ogni altro oggetto conosciuto nell’Universo. Ma le strutture cristalline rappresentano una quantità di informazione inferiore di parecchi ordini di grandezza rispetto a quella che si trasmette di generazione in generazione negli esseri viventi, anche nei più semplici: questo criterio puramente quantitativo consente di distinguere gli esseri viventi da tutti gli altri oggetti, compresi i cristalli.

Le proprietà strane: invarianza e teleonomia
Delle tre proprietà teleonomia, morfogenesi autonoma, invarianza riproduttiva, l’ultima è quella che più agevolmente si presta a una definizione quantitativa. Poiché si tratta della capacità di riprodurre una struttura con un grado d’ordine molto elevato, e poiché il grado d’ordine di una struttura si può definire in unità di informazione, diremo che il “contenuto di invarianza” di una data specie è uguale alla quantità di informazione che, trasmessa da una generazione all’altra, assicura la conservazione della norma strutturale specifica. Ma ogni progetto particolare, qualunque esso sia, ha senso soltanto in quanto è parte di un progetto più generale. Tutti gli adattamenti funzionali degli esseri viventi, al pari di tutti gli artefatti di loro produzione, realizzano progetti particolari che si possono considerare come aspetti o frammenti di un unico progetto primitivo, cioè la conservazione e la moltiplicazione della specie. Per essere più precisi, stabiliremo arbitrariamente che il progetto teleonomico essenziale consiste nella trasmissione, da una generazione all’altra, del contenuto di invarianza caratteristico della specie. Tutte le strutture, le prestazioni, le attività che concorrono al successo del progetto essenziale, saranno quindi chiamate “teleonomiche”.
Tali considerazioni permettono di proporre una definizione di principio del “livello” teleonomico di una specie, ed effettivamente si può ritenere che ogni struttura e ogni prestazione teleonomica corrisponda a una certa quantità di informazione che deve essere trasmessa perché quella struttura si realizzi e quella prestazione si compia. Questa quantità può essere definita “informazione teleonomica”. Si può allora affermare che “livello teleonomico” di una data specie corrisponde alla quantità di informazione che deve essere trasferita, in media, per individuo onde assicurare la trasmissione del contenuto specifico di invarianza riproduttiva alla generazione successiva. Sarà facile rendersi conto che l’attuazione del progetto teleonomico fondamentale (cioè la riproduzione invariante) dà luogo, in specie diverse e a diversi gradi della scala animale e a varie strutture e prestazioni, più o meno elaborate e complesse. È necessario insistere sul fatto che non si tratta soltanto delle attività direttamente legate alla riproduzione propriamente detta ma di tutte quelle che contribuiscono, anche molto indirettamente, alla sopravvivenza e alla moltiplicazione della specie. Si tratterà di stimare il grado di complessità di tutte queste prestazioni o strutture, concepite allo scopo di servire al progetto teleonomico. Questa grandezza, definibile dal punto di vista teorico, non è misurabile in pratica, ma consente perlomeno di ordinare, in modo approssimativo, differenti specie o gruppi secondo una “scala teleonomica”. Per fare un esempio, immaginiamo un poeta innamorato e timido, che non osa confessare il suo amore alla donna amata e sa esprimere solo simbolicamente la sua passione nei poemi che le dedica.
Supponiamo che la donna, finalmente lusingata da omaggi tanto raffinati, accetti di fare all’amore con il poeta. I poemi di quest’ultimo avranno contribuito al successo del progetto essenziale e l’informazione in essi contenuta deve quindi essere conteggiata nella somma delle prestazioni teleonomiche che assicurano la trasmissione dell’invarianza genetica. È chiaro che il successo del progetto non implica alcuna prestazione analoga in altre specie animali, per esempio in un topo. Ma, e questo è il punto, il contenuto di invarianza genetica è quasi identico per il topo e per l’uomo (in realtà per tutti i mammiferi). 

Il “paradosso” dell’invarianza
L’invarianza sembra, fin dal primo momento, una proprietà profondamente paradossale, poiché il mantenimento, la riproduzione e la moltiplicazione di strutture dotate di un ordine elevato sembrano incompatibili con il secondo principio della termodinamica. Tale principio stabilisce, in effetti, che ogni sistema macroscopico si evolve solo in un senso, in quello della degradazione dell’ordine che lo caratterizza. Tuttavia questo enunciato è valido e verificabile solo se si considera l’evoluzione di insieme di un sistema energeticamente isolato. In seno a questo, in una delle sue fasi, si potrà assistere alla formazione e all’accrescimento di strutture ordinate senza che per ciò l’evoluzione generale del sistema trasgredisca al suddetto principio. 

La teleonomia e il principio di oggettività
Non vi è alcun paradosso fisico nella riproduzione invariante di tali strutture: il prezzo termodinamico dell’invarianza viene pagato esattamente, grazie alla perfezione dell’apparato teleonomico che, avaro di calorie, raggiunge nel suo compito infinitamente complesso un rendimento eguagliato dalle macchine umane. Quest’apparato è del tutto logico, meravigliosamente razionale, perfettamente adatto al suo progetto: conservare e riprodurre la norma strutturale. E ciò senza trasgredire le leggi fisiche, ma anzi sfruttandole a tutto vantaggio della sua personale idiosincrasia. È l’esistenza stessa di un simile progetto, realizzato e perseguito a un tempo dall’apparato teleonomico, che costituisce il “miracolo”. Miracolo? No, il vero problema si pone a un altro livello, ben più profondo di quello delle leggi fisiche; è in gioco infatti la nostra comprensione, la nostra intuizione del fenomeno. Non vi è, in realtà, né paradosso né miracolo, ma una lampante contraddizione epistemologica.
La pietra angolare del metodo scientifico è il postulato dell’oggettività della Natura, vale a dire il rifiuto sistematico a considerare la possibilità di pervenire a una conoscenza “vera” mediante qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di “progetto”. La scoperta di questo principio può essere datata con esattezza. Galileo e Cartesio, formulando il principio di inerzia, non fondarono solo la meccanica, ma anche l’epistemologia della scienza moderna, abolendo la fisica e la cosmologia di Aristotele. Postulato puro, che non si potrà mai dimostrare poiché, evidentemente, è impossibile concepire un esperimento in grado di provare la non esistenza di un progetto, di uno scopo perseguito, in un punto qualsiasi della Natura, il postulato di oggettività è consostanziale alla scienza e da tre secoli ne guida il prodigioso sviluppo. È impossibile disfarsene senza uscire dall’ambito della scienza stessa.
Ma l’oggettività ci obbliga a riconoscere il carattere teleonomico degli esseri viventi, ad ammettere che, nelle loro strutture e prestazioni, essi realizzano e perseguono un progetto. Vi è dunque, almeno in apparenza, una profonda contraddizione epistemologica. Il problema centrale della Biologia consiste proprio in questa contraddizione che occorre risolvere se essa è solo apparente, o dimostrare insolubile se è reale.

mercoledì 3 agosto 2011

follia-genio/pazzia del Tao

Vincent Van Gogh, Self-Portrait, 1889, oil on canvas, Musée d'Orsay - Paris

colui che era reputato un genio
si è rivelato un pazzo

colui che era reputato un folle
si è rivelato un genio

Adolf Hitler, Self-Portrait, 1910

il Tao della mente


La concezione orientale della mente senza fondamento e priva di un Io/Sé, del paradosso di come la mente possa conoscere se stessa, ovvero "uscire fuori dal sistema", e del rapporto mente/spirito è ben esemplificata da questo brano:

Il problema, che sta alla base di tutti i problemi, è la mente stessa. Quindi, come prima cosa, è necessario sapere che cosa sia la mente; di che materiale sia fatta, se sia un’entità o solo un processo; se sia sostanziale o solo un’apparenza.

E, a meno che non si conosca la natura della mente, non riuscirete mai a risolvere nessun problema della vostra vita.

Potete sforzarvi, ma se cercate di risolvere problemi singoli, individuali, siete destinati a fallire: questo è assolutamente certo. Infatti, non esiste un solo problema individuale: la mente è il problema. Anche se risolvi questo o quel problema, non servirà a nulla, perché la radice rimane intoccata.

E’ proprio come potare i rami di un albero, sfrondarlo senza sradicarlo. Nuove foglie spunteranno, nuovi rami cresceranno, anche più di prima; la potatura aiuta l’albero a diventare più rigoglioso. A meno che tu non sappia come potarlo, il tuo sforzo non ha senso: è stupido. Distruggerai te stesso, non l’albero.

In quella lotta, sprecherai energia, tempo, vita, e l’albero diventerà sempre più forte, più fitto e più folto. Sarai sorpreso di ciò che accade: fai un lavoro durissimo, cercando di risolvere questo o quel problema, ma i problemi continueranno a crescere e ad aumentare. Anche se si risolve un problema, altri dieci prenderanno il suo posto.

Non cercare di risolvere i singoli problemi separatamente: non ne esistono; la mente in quanto tale è il problema.

Ma la mente è nascosta sottoterra; per questo dico che è la radice: non si vede. Quando ti trovi ad affrontare un problema, questo è alla luce del sole, puoi vederlo, e per questo t’inganna. Ricorda sempre che ciò che si vede non è mai la radice: la radice rimane sempre invisibile, è sempre nascosta. Non lottare mai con ciò che è manifesto, perché ti troverai a lottare con delle ombre. Può accadere che tu ti perda, ma non sarà possibile alcuna trasformazione della tua vita; gli stessi problemi continueranno ad affiorare.

Se osservi la tua vita, puoi capire ciò che intendo dire. Non sto parlando della mente su un piano teorico, ma della sua realtà pratica. Questo è il fatto: la mente dev’essere dissolta.

Le persone vengono da me e mi chiedono: "Come si può arrivare ad avere una mente serena?" E io rispondo: "Non esiste niente di simile. Mente serena? Non ne ho mai sentito parlare." La mente non è mai serena, la pace è non-mente. La mente di per sé, non può mai essere serena, silenziosa. Per sua stessa natura, la mente è in tensione, è in uno stato di confusione.

La mente non può mai essere limpida; non può avere chiarezza, perché per sua natura è confusione, annebbiamento. La chiarezza è possibile senza la mente; la pace è possibile senza la mente; il silenzio è possibile senza la mente. Quindi, non provare mai a raggiungere una mente silente.

Se ci provi, fin dall’inizio ti muovi in una dimensione impossibile.

Perciò, la prima cosa da fare, è comprendere la natura della mente; solo così è possibile fare qualcosa."

Se provi a osservare, vedrai che non ti imbatti mai in qualcosa di simile alla mente. Non è una cosa, è solo un processo; non è una cosa, assomiglia a una folla. Esistono pensieri individuali, ma si agitano così velocemente che è impossibile vedere gli intervalli tra l’uno e l’altro. Non riesci a vedere questi intervalli, perché non sei molto consapevole e all’erta: hai bisogno di un’intuizione più profonda. Nel momento in cui i tuoi occhi riescono a guardare più in profondità, all’improvviso individuerai un pensiero, poi un altro e un altro ancora, ma non ci sarà nessuna mente.

L’insieme dei pensieri -- milioni di pensieri -- ti danno l’illusione che la mente esista. E’ proprio come una folla: milioni di persone che si affollano; esiste qualcosa che possa essere definibile "folla"? Puoi dire che una folla esiste, al di là di un insieme di individui che sono raccolti in uno stesso luogo? Ma il loro stare insieme, il fatto che sono raccolti in gruppo, ti dà la sensazione che esista qualcosa che puoi definire "folla".

Solo gli individui esistono.

Questo è il primo passo nella comprensione della mente. Osserva e troverai i pensieri, ma non incontrerai la mente. E se questa osservazione diventa davvero una tua esperienza diretta -- non perché te lo dico io: in questo caso non ti sarà di molto aiuto -- se diviene la tua esperienza, se diventa un elemento della tua conoscenza, all’improvviso, molte cose inizieranno a cambiare. Poiché hai compreso un aspetto così profondo della mente, seguiranno molti cambiamenti.

Osserva la mente, e guarda dov’è, che cos’è. Scoprirai che i pensieri galleggiano, e che esistono spazi intermedi fra l’uno e l’altro. E se prolunghi la tua osservazione, ti accorgerai che gli intervalli sono più numerosi dei pensieri, perché ogni pensiero deve essere separato dall’altro; di fatto, ogni parola è separata dall’altra. E più vai a fondo, e più intervalli troverai, e sempre più ampi. Vedrai un pensiero che galleggia, poi uno spazio dove non c’è alcun pensiero; quindi verrà un altro pensiero, poi un altro spazio ancora.

Se sei inconsapevole, non puoi scorgere questi intervalli: salti da un pensiero all’altro, non vedi mai quell’intervallo. Se acquisti consapevolezza, vedrai spazi sempre più numerosi; se diventi del tutto consapevole, allora ti si riveleranno spazi immensi. E proprio in quegli spazi accade il "satori". In quegli spazi, la verità bussa alla tua porta. In quegli spazi, arriva l’ospite; in quegli spazi, si realizza dio, o in qualsiasi altro modo tu voglia chiamare questa esperienza. Quando poi la consapevolezza è assoluta, allora esiste solo un unico vasto intervallo di nulla. Accade proprio come con le nuvole: le nuvole si muovono, e possono essere così dense, da non permettere di vedere il cielo nascosto dietro di loro. Si è perduta l’azzurra vastità del cielo; sei completamente avvolto dalle nuvole. In questo caso continua a osservare: una nube si muove e un’altra non è ancora entrata nel tuo campo visivo e... all’improvviso, uno squarcio nell’azzurro del cielo infinito.

La stessa cosa accade dentro di te: tu sei l’azzurra vastità del cielo, e i pensieri sono come nubi che si librano sopra di te, ti riempiono. Ma gli intervalli esistono, il cielo esiste. Intuire per un attimo, che cosa sia il cielo, è satori; diventare il cielo è samadhi. L’intero percorso, che dal satori va al samadhi, è un tuffo nella comprensione della mente: nient’altro.

La mente non esiste come entità separata. Questa è la prima cosa: solo i pensieri esistono.

La seconda cosa: i pensieri esistono indipendentemente da te; non sono un tutt’uno con la tua natura, ma vanno e vengono, mentre tu continui a esistere, permani. Tu sei come il cielo: è sempre là, né viene, né va. Le nubi invece passano; sono un fenomeno di pochi attimi, non durano in eterno. Anche se cerchi di attaccarti a un pensiero, non puoi trattenerlo a lungo: deve andare, perché nasce e muore. I pensieri non sono tuoi, non ti appartengono. Sono visitatori, ospiti, ma non sono i padroni di casa.

Osserva profondamente, e a quel punto sarai davvero il padrone e i pensieri saranno gli ospiti. E finché rimangono tali sono belli, ma se ti dimentichi completamente di essere il padrone di casa, ed essi prendono il tuo posto, allora sarai nei pasticci. Ecco cos’è l’inferno: tu sei il padrone di casa, la casa ti appartiene, ma i padroni sono gli ospiti... ricevili, prenditene cura, ma non ti identificare con loro, altrimenti diventeranno i padroni.

La mente diventa il problema, perché i pensieri sono così profondamente radicati in te, che hai scordato completamente le distanze fra te e loro, ha scordato che sono solo dei visitatori che vanno e vengono.

Ricorda sempre colui che dimora in te: quella è la tua natura, il tuo Tao. Stai sempre attento a ciò che mai va e mai viene, proprio come il cielo. Cambia la "gestalt": non ti fissare sui visitatori; rimani radicato nella consapevolezza di essere il padrone: gli ospiti potranno andare e venire. Naturalmente, ci sono ospiti buoni e ospiti cattivi, ma non te ne devi preoccupare. Un buon padrone di casa dedica a tutti gli ospiti la stessa attenzione, senza fare alcuna distinzione. Un buon padrone, è un buon padrone: si presenta un cattivo pensiero e lui lo tratta esattamente come fa con quelli buoni. Non lo riguarda affatto che i pensieri siano buoni o cattivi. Infatti, distinguendo tra pensieri buoni e cattivi, che cosa fai? Ti avvicini ai pensieri buoni e respingi lontano da te quelli cattivi; e prima o poi ti identificherai con quelli buoni, ed essi diventeranno i padroni. Qualsiasi pensiero, quando diventa il capo, crea miseria, perché non è la verità. Il pensiero è un simulatore con cui tu ti identifichi, e quell’identificazione è una malattia.

Gurdjieff, era solito affermare la necessità di una sola cosa: non essere identificato con ciò che va e viene.

Il mattino, il giorno, la sera, vengono e poi se ne vanno; arriva la notte e poi ancora il mattino. Tu permani (non in quanto "tu", perché anche questo è un pensiero) in quanto pura consapevolezza; non il tuo nome, anche questo è un pensiero; non la tua forma, anch’essa è un pensiero; non il tuo corpo, perché un giorno ti accorgerai che anch’esso è un pensiero: solo pura consapevolezza, senza nome, senza forma. Solo la purezza, l’assenza di forma e di nome; solo il fenomeno reale dell’essere consapevole; solo questo permane.

Se ti identifichi, diventi la mente. Se ti identifichi, diventi il corpo. Se ti identifichi diventi il nome e la forma, e a questo punto il padrone si è perso e tu dimentichi l’eterno e ciò che è momentaneo acquista importanza e rilievo.

Ciò che è momentaneo è il mondo, l’eterno è divino.

Questa è la seconda intuizione a cui devi giungere: riconoscere che tu sei il padrone e i pensieri sono gli ospiti.

Se continui a osservare, presto arriverai al terzo punto: ti accorgerai, cioè, che i pensieri sono stranieri, intrusi, estranei. Nessun pensiero ti appartiene: entrano sempre dall’esterno; tu sei solo un passaggio. Un uccello entra in casa da una porta e vola via da un’altra. Proprio come un pensiero entra e esce da te.

Continui a credere che i pensieri siano tuoi; non solo, combatti per loro, dicendo: "Questo è il mio pensiero, è vero." Parli, discuti, dibatti, cerchi di mostrare che quello è il tuo pensiero.

No, nessun pensiero è tuo, nessun pensiero è originale, tutti sono presi a prestito, e non sono neanche di seconda mano, perché sono stati di milioni di persone prima di te...

Un pensiero è altrettanto esterno a te, quanto un oggetto.

Il famoso fisico, Eddington, ha affermato da qualche parte, che quanto più la scienza va in profondità nell’analisi della materia, tanto più fortemente emerge la consapevolezza che le cose siano pensieri... può essere, non sono un fisico, ma d’altro canto vorrei dirvi... Eddington può aver ragione nel dire che andando sempre più in profondità, cose e pensieri si assomigliano sempre di più. Se scendi profondamente in te, i pensieri saranno sempre più simili a cose.

In effetti, sono le due facce del medesimo fenomeno: una cosa è un pensiero, un pensiero è una cosa.

Che cosa intendo dire affermando che un pensiero è una cosa? Voglio dire, che puoi lanciare i pensieri come fai con le cose. Con un pensiero si può addirittura colpire qualcuno in testa, proprio come fai con un oggetto. Con un pensiero si può uccidere una persona, come se le lanciassi contro un pugnale. Si può offrire il proprio pensiero come un dono, oppure diffonderlo come una malattia. I pensieri sono cose, hanno forza, ma non ti appartengono. Arrivano, dimorano per un po’ dentro di te, poi ti lasciano. L’intero universo è colmo di pensieri, e di cose: queste rappresentano la tensione fisica dei pensieri e quelli la tensione mentale delle cose.

Questa è la terza intuizione rispetto ai pensieri: essi sono cose, che hanno forza, e che bisogna trattare con cautela.

Di solito si continua, inconsapevolmente, a pensare a qualsiasi cosa. E’ difficile trovare una persona che, con l’intenzione, non abbia commesso molti delitti; altrettanto difficile è trovare una persona che, con la mente, non abbia commesso ogni sorta di peccati e crimini: e poi queste cose accadono. E ricorda, puoi anche non uccidere, ma pensare continuamente di uccidere qualcuno, può creare la situazione per cui quella persona venga uccisa. Il tuo pensiero, può essere catturato da qualcuno, perché intorno a te esistono persone più deboli e i pensieri scorrono verso il basso, come l’acqua. Così, se pensi di continuo qualcosa, qualcuno che sia in una condizione di debolezza, può far suo il tuo pensiero e uccidere un uomo.

Per questo, chi ha raggiunto la conoscenza dell’intima essenza dell’uomo, afferma che ognuno di noi, e tutti in verità, siamo responsabili per ciò che accade sulla terra. La guerra del Vietnam non è solo responsabilità di Nixon: ogni essere pensante ne è responsabile. Esiste solo un individuo che può non addossarsi tale responsabilità: colui che è nello stato di non-mente. Per il resto, ognuno di noi è responsabile di tutto ciò che accade. Se la terra è un inferno, tu ne sei il creatore, tu ne partecipi.

Non continuare a buttare addosso agli altri la responsabilità, perché è anche tua, è un fenomeno che interessa l’intera collettività. Può essere che la malattia esploda in un luogo qualunque: l’esplosione può verificarsi a migliaia, milioni di chilometri lontano da te: questo non fa alcuna differenza, perché il pensiero è al di là dello spazio, non ne ha bisogno.

Questo è il motivo per cui viaggia velocissimo, neppure la luce si propaga alla stessa velocità, in quanto ha bisogno dello spazio per muoversi. Il pensiero viaggia ancor più veloce, in quanto non ha bisogno del tempo per muoversi, lo spazio per lui non esiste. Puoi essere qui, pensare a qualcosa, e questa stessa cosa accade in America. Come ti si può ritenere responsabile? Nessun tribunale può punirti, ma di fronte alla corte suprema dell’esistenza sarai condannato, anzi sei già stato condannato. Per questo sei così infelice.

La gente mi dice: "Non abbiamo mai fatto del male a nessuno, eppure siamo tanto infelici." Anche senza far niente, tu puoi pensare, e il pensiero è più sottile dell’azione. Ci si può difendere dall’azione, ma non dal pensiero. Tutti sono vulnerabili rispetto al pensiero.

Non pensare, è una necessità irrinunciabile per poter essere liberi dal peccato, liberi dal crimine, liberi da tutto ciò che ci circonda: questo significa essere un buddha.

Un buddha è un individuo che vive senza la mente, perciò non è responsabile. Per questo motivo, in Oriente, diciamo che un buddha non accumula mai "karma", né crea situazioni confuse e aggrovigliate che incideranno sul futuro. Egli vive, cammina, si muove, mangia, parla, fa un sacco di cose, per cui dovrebbe accumulare dei "karma", perché "karma" significa attività. Eppure, in Oriente diciamo che ciò non accade: anche se un buddha commette un omicidio, non si crea un "karma". Come mai? E perché tu, anche se non uccidi, accumuli comunque "karma"?

E’ semplice: tutto quello che un buddha fa, lo fa al di là della mente. E’ spontaneo, non si muove sul piano dell’agire, non ci pensa: accade. Non è colui che agisce, egli è un vuoto; non mette in azione la mente, non progetta qualcosa, ma se l’esistenza fa sì che qualcosa accada, egli lascia che ciò avvenga. Non c’è più in lui l’ego a opporre resistenza, non è più l’ego ad agire.

Essere vuoto ed essere un non-sé, significano questo: essere un semplice "non-essere", anatta, assenza del sé. In questo caso, niente si accumula; quindi, non sei responsabile di niente che accada intorno a te, per cui trascendi.

Ogni pensiero ha un qualche effetto concreto per te e per gli altri. Stai bene attento!

Se dico di stare bene attento, non intendo riferirmi all’avere pensieri positivi, no. Infatti, se hai pensieri positivi, ne avrai anche di negativi. Come può esistere il bene senza il male? Se pensi all’amore, scoprirai che proprio lì vicino, appena dietro l’amore, è nascosto l’odio. Come fai a pensare all’amore senza pensare anche all’odio? Puoi non pensarlo a livello cosciente; l’amore può risiedere negli spazi consci della mente, ma l’odio è nascosto nell’inconscio e si muovono insieme.

Ogni qualvolta pensi alla compassione, pensi alla crudeltà. Puoi forse pensare alla compassione, senza pensare alla crudeltà? Puoi pensare alla non violenza, senza pensare alla violenza? La stessa parola "non- violenza" contiene la violenza; è inclusa in quello stesso concetto. Puoi pensare al celibato, senza pensare al sesso? E’ impossibile: che valore avrebbe il celibato, senza l’idea del sesso? E se si fonda sull’idea di sesso, che razza di celibato è?

No, esiste una qualità dell’essere completamente diversa, che nasce dal non pensiero: non pensieri positivi o negativi, semplicemente uno stato di non pensiero. Limitati ad osservare, rimani consapevole, ma non pensare. E se qualche pensiero entra... ed entrerà sicuramente, perché i pensieri non sono tuoi, galleggiano nell’aria. Tutt’intorno esiste una noosfera, una sfera del pensiero che ti circonda completamente. Così come l’aria, il pensiero è tutt’intorno a te, e continua a entrare in te per conto suo: si ferma solo col crescere della tua consapevolezza. C’è qualcosa in lei: allorché diventi più consapevole, scompare semplicemente, si dissolve, perché la consapevolezza crea un’energia più forte del pensiero.

La consapevolezza è come il fuoco per il pensiero. Quando accendi una lampada in casa, l’oscurità non riesce più a entrare; la spegni, e da ogni parte il buio si diffonde: in meno di un attimo ti avvolge. L’oscurità, non entra in una casa con le luci accese; i pensieri sono come l’oscurità: entrano soltanto se all’interno non c’è luce. La consapevolezza è un fuoco: più diventi consapevole, meno pensieri entrano in te.

Se ti integri veramente nella tua consapevolezza, i pensieri non entrano in te: diventi come una cittadella inespugnabile, niente può penetrarvi. Ciò non significa essere chiusi, anzi, vuol dire essere incondizionatamente aperti, ma la stessa energia della consapevolezza diventa la tua roccaforte. E se i pensieri non possono entrare in te, ti gireranno intorno e se ne andranno. Li vedrai arrivare e, semplicemente, non appena ti arrivano vicini, prenderanno un’altra strada. A quel punto potrai andare ovunque, anche all’inferno: niente potrà sfiorarti più.

Questo è ciò che intendiamo per illuminazione.


Ah! Tao!


martedì 2 agosto 2011

Onore al Tao: Alan Mathison Turing

A Blue Plaque marking Turing's home at Wilmslow, Cheshire, UK
Alan Turing non fu solo uno dei matematici più brillanti del 900 e un autentico pioniere nel campo dell'informatica ma anche un eroe della IIa Guerra Mondiale per il suo contributo determinante a decifrare il codice Enigma
Enigma era una macchina elettro-meccanica utilizzata in diverse varianti dalla Wehrmacht e dalla Kriegsmarine, la marina militare tedesca, per cifrare e decifrare i propri messaggi.


L'enorme importanza nel riuscire a "sfondare" il codice prodotto da Enigma indusse il Government Communications Headquarters inglese a fondare nel 1939 a Bletchley Park un centro per la decifrazione dei messaggi, ed in particolare per la criptoanalisi di Enigma nel cosidetto Hut 8, del quale Turing fu direttore per un certo periodo.
Turing si unì al centro di Bletchley Park all'inizio della guerra, lavorando principalmente sulla versione navale di Enigma, sviluppando una serie di tecniche di analisi e decifrazione, utilizzando dal 1940 una versione potenziata di una macchina calcolatrice denominata "Bomba" già utilizzata in passato con successo dall'Ufficio Cifra Polacco il quale, allo scoppio della guerra, passò i risultati agli inglesi. Le tecniche che sviluppò portano il nome di Banburismus per la macchina Enigma e di Turingery (o metodo di Turing) per la macchina Lorenz. Dal 1941 il progetto di decodifica del codice Enigma fu conosciuto come Ultra e condiviso con gli Alleati. Turing contribuì in modo determinante allo sfondamento del codice della macchina Enigma nella versione navale, procurando una svolta decisiva della guerra marina sull'Atlantico.
Nel 1945 fu conferito a Turing il Most Excellent Order of the British Empire per i suoi contributi, sebbene il suo lavoro rimase segreto per molti anni.

Nel 1952 Turing denunciò alla polizia un furto perpetuato presso la sua abitazione da un complice di un suo amico. Durante l'interrogatorio ammise di essere omosessuale e di avere una relazione con questa persona, dicendo "Che male c'è?".
Gli atti omosessuali erano a quel tempo illegali nella perbenista, repressiva e omofobica Inghilterra e Turing fu riconosciuto colpevole in base alla Sezione 11 del Criminal Law Amendment Act 1885, lo stesso crimine per cui Oscar Wilde era stato condannato più di cinquanta anni prima.
A Turing fu data la scelta tra l'imprigionamento o la libertà vigilata condizionale se avesse accettato la castrazione chimica, a cui fu sottoposto.

Turing era una persona giocosa, aveva inventato un modo di giocare agli scacchi chiamato "gira intorno alla casa": quando un giocatore aveva mosso faceva di corsa un giro intorno alla casa, se l'altro giocatore non aveva ancora mosso, poteva fare un'ulteriore mossa.

Anche nella messa in atto del suo suicidio Turing non mancò di inserire un tocco di humor: come nella fiaba di Biancaneve, che amava molto, l'8 giugno 1954 iniettò cianuro di potassio in una mela e la mangiò.


La vicenda del trattamento a cui fu sottoposto Alan Turing rimane una delle pagine più ignobili della storia britannica.

Solo il 10 Settembre 2009, in risposta ad una petizione su internet iniziata da John Graham-Cumming, l'allora primo ministro britannico Gordon Brown rilasciò sul suo sito ufficiale una dichiarazione pubblica e personale sul comportamento della nazione inglese nei suoi confronti, riconoscendo che Turing fu oggetto di un "terrificante" trattamento omofobico:

Text of Gordon Brown's statement on Alan Turing

Prime Minister: 2009 has been a year of deep reflection – a chance for Britain, as a nation, to commemorate the profound debts we owe to those who came before. ... So I am both pleased and proud that, thanks to a coalition of computer scientists, historians and LGBT activists, we have this year a chance to mark and celebrate another contribution to Britain’s fight against the darkness of dictatorship; that of code-breaker Alan Turing.

Turing was a quite brilliant mathematician, most famous for his work on breaking the German Enigma codes. It is no exaggeration to say that, without his outstanding contribution, the history of World War Two could well have been very different. He truly was one of those individuals we can point to whose unique contribution helped to turn the tide of war. The debt of gratitude he is owed makes it all the more horrifying, therefore, that he was treated so inhumanely. In 1952, he was convicted of ‘gross indecency’ – in effect, tried for being gay. His sentence – and he was faced with the miserable choice of this or prison - was chemical castration by a series of injections of female hormones. He took his own life just two years later.

Thousands of people have come together to demand justice for Alan Turing and recognition of the appalling way he was treated. While Turing was dealt with under the law of the time and we can't put the clock back, his treatment was of course utterly unfair and I am pleased to have the chance to say how deeply sorry I and we all are for what happened to him. Alan and the many thousands of other gay men who were convicted as he was convicted under homophobic laws were treated terribly. Over the years millions more lived in fear of conviction.

I am proud that those days are gone and that in the last 12 years this government has done so much to make life fairer and more equal for our LGBT community. This recognition of Alan’s status as one of Britain’s most famous victims of homophobia is another step towards equality and long overdue.

But even more than that, Alan deserves recognition for his contribution to humankind. For those of us born after 1945, into a Europe which is united, democratic and at peace, it is hard to imagine that our continent was once the theatre of mankind’s darkest hour. It is difficult to believe that in living memory, people could become so consumed by hate – by anti-Semitism, by homophobia, by xenophobia and other murderous prejudices – that the gas chambers and crematoria became a piece of the European landscape as surely as the galleries and universities and concert halls which had marked out the European civilisation for hundreds of years. It is thanks to men and women who were totally committed to fighting fascism, people like Alan Turing, that the horrors of the Holocaust and of total war are part of Europe’s history and not Europe’s present.

So on behalf of the British Government, and all those who live freely thanks to Alan’s work I am very proud to say: we’re sorry, you deserved so much better.

Alan Turing memorial statue in Sackville Park, Manchester

Dal 1966 la ACM - Association for Computing Machinery ha istituito un premio dedicato a Turing per onorarne la memoria, riconosciuto come la massima onorificienza nel campo dell'informatica, dei sistemi intelligenti e dell'intelligenza artificiale.

Statue of Turing by Stephen Kettle at Bletchley Park













A. M. Turing Award



The Turing Digital Archive