martedì 15 gennaio 2013

tubi meta-Tao

La seconda metastruttura introdotta da Tyler Volk e Jeff Bloom sono i tubi, strutture di forma lineare/lineale.
Struttura neuronica.

Background

As physical forms, tubes seem to have three fundamental aspects, which, in some cases, appear as one aspect and, in other cases, are combined in one form. One aspect involves the notion of strength and support along a linear dimension. The second aspect is that of bidirectional or unidirectional transport of energy, materials, or information. The third aspect involves the ability to penetrate, extend, or grow along a linear dimension. In biological forms, they increase the surface area to volume ratio, compared to spheres. In a more general sense, tubes involve the concepts of linear strength, linearity, extension or bridging, transfer or flow of information, and connection or relationship.
Jeroen Anthoniszoon van Aken, detto Hieronymus Bosch,
Salita all'Empireo, circa 1490-1516, Palazzo Ducale, Venezia.

Examples

  • In science: nerve cells and fibers, blood vessels, appendage and some other bones, branches, hair, cilia, flagella, digestive tract, streams and rivers, lava tubes, pine needles, eels, snakes, worms, spider webs (tubes making sheet), bodies of airplanes, rockets, etc.
  • In architecture and design: hallways, internal support structures, elevator shafts and stairwells, highways, trails, tunnels, bridges, electrical wires, pipes, networking cables, utility poles, suspension bridge (traffic flow, support structures, support cables), etc.
  • In art: shape, brushes, pottery forms, sculpting forms, etc.
  • In social sciences: relationships between people, connecting lines in concept maps, patterns of interaction, lines of communication, patterns of movement, support mechanisms, etc.
  • In other senses: tobacco pipes, cigars, syringes and needles, etc.
Struttura di interazione per una rete Facebook.


 

 

 

Metapatterns

The Pattern Underground

lunedì 14 gennaio 2013

Qualità è il Tao


Ora c'erano due tipi di Qualità che però non la spezzavano più. Ne erano soltanto due diversi aspetti temporali, quello breve e quello lungo. Prima si richiedeva una gerarchia metafisica così concepita:

Fedro, invece, ne aveva formulata una che si presentava così:


Posò la matita e... sentì che qualcosa cedeva. Come se qualcosa, dentro di lui, fosse stato forzato e spezzato. E dopo fu troppo tardi.
Si accorse di essersi allontanato dalla sua posizione originale. Non stava più parlando di una trinità metafisica, ma di un monismo assoluto. La Qualità era la fonte e la sostanza di ogni cosa.
Una nuova ondata di evocazioni filosofiche gli si presentò alla mente. Hegel, con il suo Spirito Assoluto, si era espresso allo stesso modo. Anch'esso era indipendente sia dall'oggettività sia dalla soggettività.
Comunque, Hegel aveva detto che lo Spirito Assoluto era la fonte di ogni cosa, poi però aveva escluso l'esperienza romantica dal «tutto» di cui esso era la fonte. L'assoluto hegeliano era completamente classico, completamente razionale e completamente ordinato.
La Qualità no.
Fedro rammentò che Hegel era stato ritenuto il ponte tra la filosofia occidentale e quella orientale. Il Vedanta degli Indù, la Via dei Taoisti, persino il Buddha erano stati descritti come monismi assoluti simili alla filosofia hegeliana. In ogni caso, a quell'epoca Fedro non era sicuro che le Unità mistiche e i monismi metafisici fossero intercambiabili, dal momento che le Unità mistiche non seguono regole mentre i monismi metafisici sì. La sua Qualità era un'entità metafisica, non mistica. O invece era mistica? Qual era la differenza?
Si rispose che la differenza stava nella definizione. Le entità metafisiche sono definite. Quelle mistiche no. Ed era questo che rendeva mistica la Qualità. No. In realtà era l'uno e l'altro. Fino a quel momento l'aveva considerata metafisica in termini puramente filosofici, e tuttavia si era sempre rifiutato di definirla. E anche questo la rendeva mistica. L'indefinibilità la liberava dalle regole della metafisica.
Allora, d'impulso, si avvicinò a uno scaffale e prese un quadernetto blu su cui, anni prima, non riuscendo a trovarne una copia in vendita da nessuna parte, aveva ricopiato l'antico Tao Te Ching di Lao Tzu: risaliva a duemilaquattrocento anni prima. Incominciò a leggere le righe che tante volte aveva letto in passato, ma questa volta le studiò per vedere se avrebbe funzionato una certa sostituzione.
Lesse:
La Qualità che può essere definita non è la Qualità Assoluta.
Era quello che aveva detto lui.
I termini che le possono venire attribuiti non sono termini Assoluti.
È l'origine del cielo e della terra.
Quando ha un nome è la madre di tutte le cose.
Esattamente.
La Qualità [la Qualità romantica] e le sue manifestazioni [la Qualità classica] condividono la medesima natura. Essa è designata con termini diversi [soggetti e oggetti] quando diventa classicamente manifesta.
L'insieme di Qualità romantica e Qualità classica può essere definito il «mistico».
Procedendo di mistero in mistero, andando sempre più a fondo, si giunge alla porta dei segreti di tutta la vita.
La Qualità è dappertutto.
Ed è inesauribile!
Insondabile!
Come l'antenata di tutte le cose...
E tuttavia che resti limpida come acqua.
Generata da non so chi,
essa è l'immagine di ciò che fu prima di Dio.
...Perenne, perenne resta tra le cose. Accostatevi ad essa, e non avrà difficoltà a servirvi.
Ciò che si guarda ma non si vede, ciò che si ascolta ma non si ode... ciò che si afferra ma non si tocca... sfugge alle nostre indagini e quindi si fonde e si fa uno.
Il suo sorgere non ci da la luce, né il suo tramonto ci da le tenebre. Continua, incessante, ineffabile,
essa torna al Nulla.
Ecco perché si chiama forma dell'informe,,
immagine del Nulla.
Ecco perché si chiama elusiva.
Valle incontro e non ne vedrai il volto,
seguila e non ne vedrai il dorso.
Se ti attieni alla Qualità di ciò che è vecchio,
puoi conoscere gli esordi primordiali.
Che sono la continuità della Qualità.

Proprio così. Questo era ciò che lui aveva sempre detto, anche se in modo dimesso e meccanico. In questo libro non c'era niente di vago o di inesatto. Il linguaggio era diverso, e così le radici e le origini. Fedro era di un'altra valle e vedeva quello che c'era in questa: non come una storia raccontata da stranieri, ma come parte della sua valle. Ora capiva tutto.
Aveva decifrato il codice.
Continuò a leggere. Non una discrepanza. Quello che lui aveva sempre chiamato Qualità, qui era il Tao, la grande forza centrale generatrice di tutte le religioni, dell'Oriente e dell'Occidente, del passato e del presente, di tutto lo scibile, di tutto.
Poi l'occhio della sua mente alzò lo sguardo e colse la sua immagine e capì dove lui era e ciò che vedeva e... non so che cosa sia veramente successo... ma ora il cedimento che aveva avvertito prima, la frattura interna della mente, prese velocità come i massi in cima alla montagna. Prima che potesse fermarlo, il subitaneo cumulo di consapevolezza cominciò a crescere, a crescere fino a diventare una valanga incontrollabile, finché non rimase in piedi più niente.
Niente di niente.
Gli franò tutto sotto i piedi.

venerdì 11 gennaio 2013

Tao senza Sé

© Igor Morski
Seguendo l'analisi Abhidhamma dei cinque aggregati dell'esperienza soggettiva, la ricerca del Sé è risultata vana, con le seguenti conseguenze per le scienze cognitive:

The Aggregates without a Self
It might appear that in our search for a self in the aggregates we have come out empty handed. Everything that we tried to grasp seemed to slip through our fingers, leaving us with the sense that there is nothing to hold on to. At this point, it is important to pause and again remind ourselves of just what it was that we were unable to find.
We did not fail to find the physical body, though we had to admit that its designation as my body depends very much on how we choose to look at things. Nor did we fail to locate our feelings or sensations, and we also found our various perceptions. We found dispositions, volitions, motivations-in short, all those things that make up our personality and emotional sense of self. We also found all the various forms in which we can be aware-awareness of seeing and hearing, smelling, tasting, touching, even awareness of our own thought processes. So the only thing we didn't find was a truly existing self or ego. But notice that we did find experience. Indeed, we entered the very eye of the storm of experience, we just simply could discern there no self, no "I."
Why then do we feel empty handed? We feel this way because we tried to grasp something that was never there in the first place. This grasping goes on all the time; it is exactly the deep-rooted emotional response that conditions all of our behavior and shapes all of the situations in which we live. It is for this reason that the five aggregates are glossed as the "aggregates of grasping" (upadanaskandha). We – that is, our personality, which is largely dispositional formations-cling to the aggregates as if they were the self when, in fact, they are empty (sunya) of a self. And yet despite this emptiness of ego-self, the aggregates are full of experience. How is this possible?
The progressive development of insight enhances the experience of calm mindfulness and expands the space within which all experiential arisings occur. As this practice develops, one's immediate attitude (not simply one's after-the-fact reflections) becomes more and more focused on the awareness that these experiences - thoughts, dispositions, perceptions, feelings, and sensations - cannot be pinned down. Our habitual clinging to them is itself only another feeling, another disposition of our mind.
This arising and subsiding, emergence and decay, is just that emptiness of self in the aggregates of experience. In other words, the very fact that the aggregates are full of experience is the same as the fact that they are empty of self. If there were a solid, really existing self hidden in or behind the aggregates, its unchangeableness would prevent any experience from occurring; its static nature would make the constant arising and subsiding of experience come to a screeching halt. (It is not surprising, therefore, that techniques of meditation that presuppose the existence of such a self proceed by closing off the senses and denying the world of experience.) But that circle of arising and decay of experience turns continuously, and it can do so only because it is empty of a self.
We have seen not only that cognition and experience do not appear to have a truly existing self but also that the habitual belief in such an ego-self, the continual grasping to such a self, is the basis of the origin and continuation of human suffering and habitual patterns. In our culture, science has contributed to the awakening of this sense of the lack of a fixed self but has only described it from afar. Science has shown us that a fixed self is not necessary for mind but has not provided any way of dealing with the basic fact that this no-longer-needed self is precisely the ego-self that everyone clings to and holds most dear. By remaining at the level of description, science has yet to awaken to the idea that the experience of mind, not merely without some impersonal, hypothetical, and theoretically constructed self but without ego-self, can be profoundly transformative.
Perhaps it is not fair to ask more of science. To borrow the words of Merleau-Ponty, the strength of science may lie precisely in the fact that it gives up living among things, preferring to manipulate them instead. But if this preference expresses the strength of science, it also indicates its weakness. By renouncing a life amid the things of experience, the scientist is able to remain relatively unaffected by her discoveries. This situation has, perhaps, been tolerable for the past three hundred years, but it is fast becoming intolerable in our modem era of cognitive science.
If science is to continue to maintain its position of de facto authority in a responsible and enlightened manner, then it must enlarge its horizon to include mindful, open-ended analyses of experience, such as the one evoked here. Cognitivism, at least at the moment, does not seem to be capable of such a step, given its narrow conception of cognition as the computation of symbols after the fashion of deductive logic. It would do well to remember, then, that cognitivism did not emerge ready made, like Athena from the head of Zeus. Only a few of its exponents are sensitive to its roots in its earlier years and to the decisions that were subsequently made about which avenues of research to explore. These earlier years, however, have once more become a source of inspiration to a new and controversial approach to cognition in which the self-organizing qualities of biological aggregates play a central role. This approach sheds new light on all of the themes we have touched so far and takes us into next part of our exploration.

il Cammino del Tao: consapevolezza e mente


  •                  La consapevolezza
  21.  La consapevolezza conduce alla vita eterna,
l'inconsapevolezza alla morte.
Chi si è risvegliato alla propria vera natura non muore.
L’inconsapevole vive come se fosse già morto.
  22.    Il saggio, colui che ha compreso,
trova la sua gioia nella consapevolezza,
trova la sua gioia
nel cammino tracciato dai Buddha.
  23.    Perciò medita con perseveranza
per raggiungere il nirvana,
la libertà ultima.
  24.    Perciò svegliati, osservati,
agisci con purezza e con attenzione
conformemente alla legge eterna
e la tua gloria crescerà.
  25.    Con la consapevolezza,
con la padronanza di sé,
il saggio si costruisce un'isola
che nessun diluvio può sommergere.
  26.     L’inconsapevole agisce distrattamente.
Il saggio invece custodisce la consapevolezza
come il suo tesoro più prezioso.
  27.     Perciò non lasciarti andare all'inerzia
e non lasciarti trascinare dai desideri.
Concentra la tua energia nella meditazione
e scopri la felicità più grande.
  28.     Squarciato il velo dell'inconsapevolezza,
dall'alto della torre della saggezza
il saggio contempla l'umanità sofferente
come chi dalla vetta di una montagna
guarda verso gli abitanti della pianura.
  29.     Attento fra i distratti,
desto fra i dormienti,
il saggio si stacca dalla massa
come un veloce cavallo da corsa.
  30.    Grazie alla consapevolezza
Indra è divenuto signore degli dei.
Sempre preziosa è la consapevolezza,
sempre rovinosa l'inconsapevolezza.
  31.    Perciò il bhikshu che ama la consapevolezza
e teme il sonno dell'inconsapevolezza
brucia ogni legame
con il fuoco della sua pratica.
  32.    Il bhikshu che ama la consapevolezza
e teme il sonno dell'inconsapevolezza
non può ricadere nell'illusione.
Ha trovato la via verso la liberazione.

  •           La mente
33.  Come il fabbro
raddrizza una freccia,
così il saggio governa i suoi pensieri,
per loro natura instabili, irrequieti
e difficili da controllare.
34.  I pensieri fremono e si dibattono
per sfuggire alla morte
come pesci tolti

alla loro dimora liquida
e gettati sulla terraferma.
35.  La padronanza della propria mente,
ribelle, capricciosa e vagabonda,
è la via verso la felicità.
36.  Il saggio osserva continuamente
i propri pensieri,
che sono sottili, elusivi ed erranti.
Questa è la via verso la felicità.
37.  Pensieri, incorporei ed erranti,
vagano lontano.
Raccoglili nella caverna del cuore
e liberati dalla schiavitù
del desiderio e della morte.
38.  Come può una mente agitata
comprendere la legge eterna?
Se la serenità della mente è turbata,
la saggezza non può manifestarsi.
39.  Il risvegliato,
colui la cui mente è serena
e ha trasceso il dilemma

del bene e del male,
è libero da ogni timore.
40.  Questo tuo corpo è fragile
come un vaso di coccio.
Fai della tua mente una fortezza
e combatti le tentazioni
con l'arma della saggezza.
41.  Ben presto questo corpo
giacerà sulla terra,
privo di coscienza,
inutile come un ceppo bruciato.
42.  Nessuno, neppure
il tuo peggior nemico
può nuocerti quanto una mente indisciplinata.
43.  Ma una mente disciplinata
è un'alleata preziosa.
Nessuno, né tua madre,

né tuo padre,
né i tuoi amici,
può esserti di altrettanto aiuto.


il Tao della programmazione: Libro 3 - Progettazione

Geoffrey James, 1987
Libro 3 - Progettazione

Così parlò il maestro programmatore:
“Quando il programma viene testato, è troppo tardi per fare modifiche nel progetto.”

3.1

C'era una volta un uomo che andò a una fiera di computer. Il primo giorno, entrando, disse alla guardia sulla porta:

“Io sono un grande ladro, famoso per le mie imprese di taccheggio. Siate preparati, perchè questa fiera non sfuggirà alle mie brame.”

Questo discorso infastidì molto la guardia, perchè c'erano milioni di dollari di attrezzature all'interno, così osservò attentamente l'uomo. Ma l'uomo si limitava a girovagare da padiglione a padiglione, canticchiando sommessamente.

Quando l'uomo se ne andò, la guardia lo portò da parte e perquisì i suoi abiti, ma non trovò nulla.
Il giorno successivo della fiera, l'uomo tornò e infastidì la guardia dicendo: “Ieri sono sfuggito con un vasto bottino, ma oggi sarà ancora meglio.” Così la guardia iniziò a tenerlo d'occhio più attentamente, ma senza risultato.

L'ultimo giorno della fiera, la guardia non poteva più trattenere la sua curiosità. “Signor ladro”, disse, “sono così perplesso da non riuscire a capacitarmi. Per favore mi illumini. Che cos'è che sta rubando?”

L'uomo sorrise. “Sto rubando idee”, disse.

3.2

C'era una volta un maestro programmatore che scriveva programmi non strutturati. Un programmatore novizio, cercando di imitarlo, iniziò anche lui a scrivere programmi non strutturati. Quando il novizio chiese al maestro di valutare i suoi progressi, il maestro lo rimproverò per aver scritto programmi non strutturati, dicendo: “Ciò che è appropriato per il maestro non è appropriato per l'allievo. Devi comprendere il Tao prima di trascendere la struttura.”

3.3

C'era una volta un programmatore che lavorava alla corte del Signore di Wu. Il signore chiese al programmatore: “Che cosa è più facile da progettare: un programma di contabilità o un sistema operativo?”

“Un sistema operativo”, rispose il programmatore.

Il signore fece un'espressione di incredulità. “Sicuramente un programma di contabilità è banale in confronto alla complessità di un sistema operativo”, disse.

“Non è così”, disse il programmatore, “progettando un programma di contabilità, il programmatore opera da mediatore tra persone che hanno idee diverse: come deve operare, come devono apparire i suoi rapporti, e come deve conformarsi alle leggi sulle tasse. Invece, un sistema operativo non è limitato dalle apparenze esterne. Quando progetta un sistema operativo, il programmatore cerca l'armonia più semplice tra macchina e idee. Ecco perchè un sistema operativo è più facile da progettare.”

Il Signore di Wu annuì e sorrise. “Sono d'accordo su tutto, ma quale è più facile da debuggare?”

Il programmatore non rispose.

3.4

Un manager andò dal maestro programmatore e gli mostrò il documento dei requisiti per una nuova applicazione. Il manager chiese al maestro: “Quanto tempo servirà per progettare questo sistema se gli assegno cinque programmatori?”

“Servirà un anno”, disse prontamente il maestro.

“Ma questo sistema ci serve immediatamente o anche prima! Quanto tempo servirà se gli assegno dieci programmatori?”

Il maestro programmatore corrugò la fronte. “In quel caso, serviranno due anni.”

“E se gli assegno cento programmatori?”

Il maestro programmatore alzò le spalle. “Allora il progetto non sarà mai completato”, disse.

Il Tao della Programmazione: Libro 2

mercoledì 9 gennaio 2013

Tao incompleto


XI - L'UTILITÀ DEL NON-ESSERE

Trenta raggi si uniscono in un solo mozzo
e nel suo non-essere si ha l'utilità del carro,
s'impasta l'argilla per fare un vaso
e nel suo non-essere si ha l'utilità del vaso,
s'aprono porte e finestre per fare una casa
e nel suo non-essere si ha l'utilità della casa.
Perciò l'essere costituisce l'oggetto
e il non-essere costituisce l'utilità.


Nella descrizione dell'emergenza dei processi mentali e della coscienza un punto centrale, per nulla evidente - anzi, invisibile -, è quello dell'assenza, come descritto da Terrence W. Deacon:
La scienza è arrivata al punto in cui possiamo disporre con precisione singoli atomi su una superficie metallica, o identificare il continente degli antenati di una persona analizzando il DNA dei suoi capelli. Ironia della sorte, però, ci manca una comprensione scientifica di come possano le frasi scritte in questo libro essere riferite ad atomi, DNA o qualunque altra cosa. È un problema serio. In sostanza significa che il meglio della nostra scienza ― quell’insieme di teorie che presumibilmente arriva più vicino a spiegare ogni cosa ― non include proprio questa fondamentalissima caratteristica distintiva del fatto che io sono io e tu, lettore, sei tu. In effetti, la nostra attuale “teoria del tutto” implica che noi non esistiamo, se non come collezioni di atomi.
Cos’è che manca, dunque? Per dirlo con un po’ di ironia, e in stile enigmatico, manca qualcosa che manca.
Consideriamo i seguenti fatti familiari. Il significato di una frase non è il gruppo di scarabocchi che rappresentano le lettere su un pezzo di carta o su uno schermo. Non sta nei suoni che questi scarabocchi possono farci emettere. Non è neppure il ronzio dei neuroni nel cervello di chi legge. Ciò che significa una frase, e ciò cui essa si riferisce, manca proprio delle proprietà che le cose devono tipicamente avere per fare una differenza nel mondo. L’informazione trasmessa da questa frase non ha massa, né quantità di moto, né carica elettrica, né solidità, e neppure una chiara estensione nello spazio, dentro di noi o intorno a noi, o da qualsiasi altra parte. Più sconcertante ancora, le frasi che state leggendo in questo momento potrebbero essere insensate, e in tal caso non ci sarebbe nulla, nel mondo, cui potrebbero corrispondere. Ma persino questa proprietà di pretendere di avere un significato farà una differenza concreta nel mondo se influenzerà, in un modo o nell’altro, il pensiero o l’azione di una persona.
Ovviamente, malgrado questo qualcosa di non presente che caratterizza il contenuto dei miei pensieri e il senso di queste parole, le ho scritte per i significati che ― forse ― potrebbero trasmettere. Ed è presumibile che questo sia il motivo per cui tu, lettore, stai focalizzando il tuo sguardo su di esse, e che potrebbe spingerti a fare un certo sforzo mentale per trovarci un senso. In altre parole, il contenuto di questa, o di ogni altra frase ― qualcosa che non è una cosa ― ha conseguenze fisiche. Ma come fa?
Il significato non è la sola cosa che presenti un problema di questo tipo. Parecchie altre relazioni del nostro quotidiano condividono questo aspetto problematico. La funzione di una pala non è la pala né il buco nel terreno, ma la possibilità di fare buchi più facilmente che ci mette a disposizione. Ciò a cui si riferisce la mano che fa un gesto di saluto non è il movimento della mano, e neppure la convergenza fisica degli amici, ma l’avvio di una possibile condivisione di pensieri ed esperienze richiamate alla memoria. Lo scopo del mio scrivere questo libro non è battere sui tasti, né depositare inchiostro su pezzi di carta, e neppure produrre e far distribuire un gran numero di copie di un libro come oggetto materiale; sta nel condividere qualcosa che non è contenuto in nessuno di questi processi e oggetti della realtà fisica: idee. E, bizzarramente, è proprio perché queste idee mancano di simili attributi fisici che possono essere condivise con decine di migliaia di lettori senza mai esaurirsi. Cosa ancora più enigmatica, accertare il valore di questa impresa è quasi impossibile da ricollegare a qualche specifica conseguenza fisica. È qualcosa di quasi interamente virtuale: forse nulla più che rendere certe idee più facili da concepire o, se i miei sospetti dovessero risultare corretti, accrescere la nostra sensazione di avere un posto nell’universo.
Ogni fenomeno di questo genere ― funzioni, riferimenti, propositi, valori ― è in qual-che modo incompleto. C’è qualcosa che non è lì. Senza questo “qualcosa” che manca non sarebbero che puri e semplici eventi od oggetti fisici, destituiti di questi altrimenti curiosi attributi. Nostalgia, desiderio, passione, appetito, lutto, perdita, aspirazione ― son tutti basati su un’analoga intrinseca incompletezza, un “essere privi” che di essi è parte integrante.
Nel riflettere su questo curioso stato delle cose, mi colpisce il fatto che non c’è una specifica parola che sembri riferirsi a questo elusivo carattere delle cose di questo tipo. Quindi, a rischio di iniziare questa discussione con un goffo neologismo, mi riferirò a questo carattere chiamandolo assenziale, per denotare i fenomeni la cui esistenza è determinata in riferimento a un’essenziale assenza. Assenza che può essere di uno stato di cose ancora non realizzatosi, dello specifico e separato oggetto di una rappresentazione, di un tipo di proprietà generale che potrebbe esistere o no, una qualità astratta, un’esperienza e così via; ma non ciò che effettivamente è presente. Questa paradossale qualità intrinseca di esistere in rapporto a qualcosa di mancante, separato e che può anche non esistere è irrilevante quando si tratta di cose inanimate, ma è una delle proprietà che definiscono la vita e la mente. Una teoria completa del mondo che includa noi stessi e la nostra esperienza del mondo deve trovare un senso al modo in cui siamo formati da questo specifico tipo di assenze e in cui da esse emergiamo. Ciò che è assente conta, eppure la nostra attuale comprensione dell’universo fisico suggerisce che non dovrebbe avere alcuna importanza. Dalle scienze naturali sembra essere assente ogni ruolo causale per l’assenza.
(...)
Finché continueremo a non essere in grado di spiegare in che modo queste curiose relazioni tra qualcosa che non c’è e ciò che è presente possano fare una differenza nel mondo, resteremo ciechi alle possibilità di un nuovo vasto reame del sapere. Prevedo un tempo, nel prossimo futuro, in cui questi paraocchi finalmente cadranno, e si aprirà una porta che mette in comunicazione queste due culture attualmente incompatibili del sapere, quella fisica da una parte e quella del significato dall’altra; e questa casa divisa si ritroverà unita.
In questo libro propongo un modesto passo iniziale verso l’obiettivo di unificare queste due maniere di concettualizzare il mondo e il posto che occupiamo in esso, che per tanto tempo sono rimaste isolate e apparentemente incompatibili. Sono consapevole che nel-l’articolare questi pensieri corro il rischio di incorrere in una sorta di eresia scientifica. Quasi certamente, molte reazioni iniziali saranno sprezzanti: “Ma questo genere di idee non era stato relegato da un bel pezzo nella pattumiera della storia?” “Influenza causale dell’assenza? Poesia, non scienza”. “Scemenze mistiche”.
(...)
L’attuale esclusione di queste relazioni da ogni legittimo ruolo nelle nostre teorie sul funzionamento del mondo ha implicitamente negato la nostra stessa esistenza.

yucaTa(o)n

Nel corso degli anni, come accade con molti personaggi celebri misteriosi o scomparsi, innumerevoli persone hanno sostenuto di aver incontrato Carlos Castaneda, se non il suo maestro Don Juan, o di essersi direttamente spacciate per lui.
Andrea De Carlo e Federico Fellini sembra siano state tra le rare persone che autenticamente lo hanno conosciuto, come narrato dal primo in questo tra i suoi primi lavori.
Dall'introduzione:
Alla fine del novembre 1984 ero a Milano, nella soffitta di una casa del centro dove un tempo avevano alloggiato i servitori di qualche buona famiglia. Mi ricordo la traspirazione costante attraverso l' intonaco del tetto, il freddo umido dalla parete nord. Mia figlia era nata da poche settimane, la nostra comunicazione era apprensiva e diffidente, fatta di strilli acuti, gesti cauti; non avevamo ancora nessun linguaggio comune. Il mio terzo romanzo stava per uscire, aspettavo di vedere che reazioni avrebbe avuto. L'unica cosa rasserenante che facevo era andare ogni giorno in una palestra vicino a casa, e restarci piu' che potevo. La citta' fuori mi assediava, grigia e implacabile; non capivo perche' ci ero tornato, come un prigioniero che torna a consegnarsi proprio quando e' quasi riuscito a scappare. Avevo passato anni sospeso verso altri possibili luoghi e modi, mi sembrava di essere inchiodato a terra per la prima volta nella mia vita, serrato dai dati di fatto, senza vie di scampo. Poi una sera mi ha telefonato Federico Fellini. L'avevo conosciuto qualche anno prima per caso a un premio letterario, e in breve eravamo diventati molto amici, malgrado le nostre eta' lontane. Avevo lavorato a un suo film, l'avevo seguito attraverso l'Europa e per Roma lungo i percorsi strani delle sue curiosita' e frequentazioni. Non era un rapporto maestro discepolo, o regista assistente; il nostro interesse reciproco era possibile anche per la mia autonomia ostinata e distratta di chi ha un altro mondo e un altro lavoro a disposizione. Il cinema mi incuriosiva e mi annoiava quasi in misura uguale: la macchina surriscaldata, faticosa, lenta, frenetica, insistente, cinica, finta ingenua; e i modi complicati per metterla in moto e alimentarla lungo il percorso. C'ero stato dentro per un po', e alla fine mi aveva fatto lo stesso effetto di Roma, mi aveva messo voglia di scapparmene via, tornare a scrivere romanzi. Con Fellini ci sentivamo ancora, molto piu' di rado di un tempo, con una traccia di incertezza dovuta alla distanza. Dopo la piu' assidua delle frequentazioni, gli infiniti racconti e i pranzi e le cene e gli incontri di persone e i viaggi in macchina, ognuno dei due si era ritratto nella sua vita, benche' non del tutto. Tendevamo ancora le antenne, ogni tanto; la curiosita' non era svanita. Per questo una sera di novembre dell'84 Fellini mi ha telefonato, mentre io ero in uno stato di vera mancanza di speranze, e nella sua voce flautata mi ha chiesto se avevo voglia di scrivere insieme a lui un film basato sui libri di Carlos Castaneda. Mi ha raccontato che inseguiva l' idea da anni, ma solo da pochi giorni era riuscito ad arrivarci vicino. Mi ha raccontato che una notte era con una sua amica in macchina sul grande raccordo anulare di Roma, e si erano messi a litigare. La lite era degenerata, finche' la sua amica aveva fermato e gli aveva urlato di scendere, era ripartita a tutta velocita'. Fellini era rimasto a piedi sul bordo della strada, scosso dalle onde d' aria e dal rumore delle macchine e dei camion in corsa nel buio, senza sapere cosa fare. Poi d'improvviso dei fari lo avevano abbagliato, una grande limousine nera gli si era fermata di fianco, un finestrino si era abbassato. Una ragazza molto pallida si era affacciata, gli aveva chiesto "Lei e' il signor Fellini?" Fellini aveva detto di si'; la ragazza gli aveva fatto cenno di salire. Dentro, seduto sul sedile di dietro, c'era Carlos Castaneda. "So che mi sta cercando da tempo", aveva detto. Non era una storia molto credibile, ma d' altra parte quasi tutti i racconti di Fellini avevano questo spirito nonrealistico, da sogni simbolici o allegorici; credo che nemmeno lui si aspettasse di vederseli accettati in senso letterale. Quello che contava era il fondo della faccenda: si era messo in contatto con Carlos Castaneda, avremmo potuto incontrarlo a Los Angeles e da li' andare con lui in Messico, a visitare i luoghi delle sue storie. Gli ho detto subito che ci stavo, senza pensarci neanche. Ero in un momento in cui avrei accettato qualunque invito a partire, credo: sarei andato a fare il mercenario, se me l'avessero proposto; a fare il missionario. Aspettavo solo un' occasione per scappare via dai problemi della mia vita, pensare ad altro, sparire. Ho preparato la valigia subito, in vista di un altro clima; due giorni dopo ero a Roma. Poi sull' aereo che ci portava a Los Angeles io e Fellini ci guardavamo con una strana miscela di divertimento, diffidenza, aspettative, dubbi. Fellini si era portato dietro tutti i libri di Castaneda in una borsa, insieme al lungo saggio di un giornalista che pretendeva di smascherarlo come impostore. I libri di Castaneda non ero mai riuscito a leggerli fino in fondo, anche se ci avevo provato diverse volte. Forse mi aveva infastidito la cultura esotista e oscura di cui erano impregnati, o il mito generazionale che gli si era creato intorno; oppure era solo colpa della mia attenzione fluttuante. In ogni caso anche sull'aereo per Los Angeles li ho sfogliati senza metodo, senza riuscire a concentrarmi abbastanza. Fellini da parte sua era apprensivo almeno quanto eccitato. Non viaggiava spesso, ne' volentieri, benche' ricevesse ogni giorno inviti da tutte le parti del mondo. Una volta a Fiumicino aveva indicato un fossato d'acqua tra il ciglio di una strada secondaria e un campo di grano verde, mi aveva detto "In fondo c'e' bisogno di andare in Cina, per vedere la Cina?" A volte questo atteggiamento mi affascinava, a volte mi irritava. Ma era fatto cosi', e la sua fantasia lavorava meglio in condizioni controllate; per questo aveva bisogno di ricostruire il mare e il cielo nei teatri di posa di Cinecitta', invece di filmarli dal vero. Era anche stanco dei film che faceva, e della fatica che gli costava metterli in piedi. Era alla ricerca di una storia che lo portasse fuori dal vecchio circo barocco in cui si sentiva rinchiuso. Gli aspetti esoterici e allucinatori di Castaneda lo attraevano e lo preoccupavano, alimentavano la sua curiosita'. A un certo punto mentre volavamo sopra l'oceano mi ha detto "Chissa' che funghi allucinogeni ci fara' mangiare? Chissa' che razza di rituali dovremo fare?" Paura e desiderio di vere sorprese gli brillavano negli occhi. Era uno che credeva alle storie che raccontava, prima ancora di raccontarle; era uno che creava le condizioni perche' qualcosa succedesse e poi se ne faceva trascinare, come se non tutto dipendesse da lui. A volte diceva "Io non cerco, trovo"; e non era neanche una frase inventata da lui, ma era vera. Questo libro e' la storia di quello che e' successo, ricostruita piu' fedelmente che potevo, il che non e' molto. La principale non fedelta', la piu' grave, e' stata sostituire a Fellini e a me due personaggi inventati, e molto diversi da noi. Insieme ai protagonisti veri, anche una parte delle possibili spiegazioni della storia sono quasi scomparse, scivolate sotto la superficie del racconto. Credo che un lettore molto attento o percettivo sia ancora in grado di scovarle, ma ci vuole una certa fatica. D' altra parte questo e' pur sempre un romanzo, con le sue richieste di invenzione, la sua natura ibrida di realta' e fantasia. E gia' cosi', Yucatan e' diventato una specie di fossato tra chi ne ha vissuto la storia vera. Forse il tono incurante che ho prestato a Dave e alla sua voce narrante e' un modo di esorcizzare le paure e le incertezze in cui ci eravamo imbattuti durante il viaggio. Forse invece la mia vera paura era quella di scrivere senza resistenze, scendere al fondo caldo e palpitante di questo lavoro come ho cercato di fare piu' tardi. Questo e' il mio libro meno capito, di tutti quelli che ho scritto. Anche i miei lettori piu' fedeli e partecipi finiscono spesso per confessarmi che dopo averlo letto gli e' rimasto un senso di perplessita'. Mi dicono che non sono riusciti a decifrare il significato di fondo, leggere i simboli sparsi, sciogliere la catena degli avvenimenti. Il fatto e' che la loro perplessita' riflette come in uno specchio la mia: c'e' lo stesso senso di non spiegato, non chiarito fino in fondo. Questa e' la storia di due persone molto diverse abituate a costruire storie, che per una volta nella loro vita si ritrovano dentro una storia scritta da altri. Neanch'io sono riuscito a decifrare tutti i segni lungo il percorso, e in un certo senso non ho neanche voluto provarci. Mi sono limitato a ricostruire gli avvenimenti fino nei loro dettagli, come uno potrebbe riprodurre con cura minuziosa un geroglifico che non e' in grado di leggere, per un possibile uso futuro. E' una storia significante e insignificante, semplice e difficile da capire, come lo sono le storie quasi del tutto vere.