mercoledì 9 gennaio 2013

yucaTa(o)n

Nel corso degli anni, come accade con molti personaggi celebri misteriosi o scomparsi, innumerevoli persone hanno sostenuto di aver incontrato Carlos Castaneda, se non il suo maestro Don Juan, o di essersi direttamente spacciate per lui.
Andrea De Carlo e Federico Fellini sembra siano state tra le rare persone che autenticamente lo hanno conosciuto, come narrato dal primo in questo tra i suoi primi lavori.
Dall'introduzione:
Alla fine del novembre 1984 ero a Milano, nella soffitta di una casa del centro dove un tempo avevano alloggiato i servitori di qualche buona famiglia. Mi ricordo la traspirazione costante attraverso l' intonaco del tetto, il freddo umido dalla parete nord. Mia figlia era nata da poche settimane, la nostra comunicazione era apprensiva e diffidente, fatta di strilli acuti, gesti cauti; non avevamo ancora nessun linguaggio comune. Il mio terzo romanzo stava per uscire, aspettavo di vedere che reazioni avrebbe avuto. L'unica cosa rasserenante che facevo era andare ogni giorno in una palestra vicino a casa, e restarci piu' che potevo. La citta' fuori mi assediava, grigia e implacabile; non capivo perche' ci ero tornato, come un prigioniero che torna a consegnarsi proprio quando e' quasi riuscito a scappare. Avevo passato anni sospeso verso altri possibili luoghi e modi, mi sembrava di essere inchiodato a terra per la prima volta nella mia vita, serrato dai dati di fatto, senza vie di scampo. Poi una sera mi ha telefonato Federico Fellini. L'avevo conosciuto qualche anno prima per caso a un premio letterario, e in breve eravamo diventati molto amici, malgrado le nostre eta' lontane. Avevo lavorato a un suo film, l'avevo seguito attraverso l'Europa e per Roma lungo i percorsi strani delle sue curiosita' e frequentazioni. Non era un rapporto maestro discepolo, o regista assistente; il nostro interesse reciproco era possibile anche per la mia autonomia ostinata e distratta di chi ha un altro mondo e un altro lavoro a disposizione. Il cinema mi incuriosiva e mi annoiava quasi in misura uguale: la macchina surriscaldata, faticosa, lenta, frenetica, insistente, cinica, finta ingenua; e i modi complicati per metterla in moto e alimentarla lungo il percorso. C'ero stato dentro per un po', e alla fine mi aveva fatto lo stesso effetto di Roma, mi aveva messo voglia di scapparmene via, tornare a scrivere romanzi. Con Fellini ci sentivamo ancora, molto piu' di rado di un tempo, con una traccia di incertezza dovuta alla distanza. Dopo la piu' assidua delle frequentazioni, gli infiniti racconti e i pranzi e le cene e gli incontri di persone e i viaggi in macchina, ognuno dei due si era ritratto nella sua vita, benche' non del tutto. Tendevamo ancora le antenne, ogni tanto; la curiosita' non era svanita. Per questo una sera di novembre dell'84 Fellini mi ha telefonato, mentre io ero in uno stato di vera mancanza di speranze, e nella sua voce flautata mi ha chiesto se avevo voglia di scrivere insieme a lui un film basato sui libri di Carlos Castaneda. Mi ha raccontato che inseguiva l' idea da anni, ma solo da pochi giorni era riuscito ad arrivarci vicino. Mi ha raccontato che una notte era con una sua amica in macchina sul grande raccordo anulare di Roma, e si erano messi a litigare. La lite era degenerata, finche' la sua amica aveva fermato e gli aveva urlato di scendere, era ripartita a tutta velocita'. Fellini era rimasto a piedi sul bordo della strada, scosso dalle onde d' aria e dal rumore delle macchine e dei camion in corsa nel buio, senza sapere cosa fare. Poi d'improvviso dei fari lo avevano abbagliato, una grande limousine nera gli si era fermata di fianco, un finestrino si era abbassato. Una ragazza molto pallida si era affacciata, gli aveva chiesto "Lei e' il signor Fellini?" Fellini aveva detto di si'; la ragazza gli aveva fatto cenno di salire. Dentro, seduto sul sedile di dietro, c'era Carlos Castaneda. "So che mi sta cercando da tempo", aveva detto. Non era una storia molto credibile, ma d' altra parte quasi tutti i racconti di Fellini avevano questo spirito nonrealistico, da sogni simbolici o allegorici; credo che nemmeno lui si aspettasse di vederseli accettati in senso letterale. Quello che contava era il fondo della faccenda: si era messo in contatto con Carlos Castaneda, avremmo potuto incontrarlo a Los Angeles e da li' andare con lui in Messico, a visitare i luoghi delle sue storie. Gli ho detto subito che ci stavo, senza pensarci neanche. Ero in un momento in cui avrei accettato qualunque invito a partire, credo: sarei andato a fare il mercenario, se me l'avessero proposto; a fare il missionario. Aspettavo solo un' occasione per scappare via dai problemi della mia vita, pensare ad altro, sparire. Ho preparato la valigia subito, in vista di un altro clima; due giorni dopo ero a Roma. Poi sull' aereo che ci portava a Los Angeles io e Fellini ci guardavamo con una strana miscela di divertimento, diffidenza, aspettative, dubbi. Fellini si era portato dietro tutti i libri di Castaneda in una borsa, insieme al lungo saggio di un giornalista che pretendeva di smascherarlo come impostore. I libri di Castaneda non ero mai riuscito a leggerli fino in fondo, anche se ci avevo provato diverse volte. Forse mi aveva infastidito la cultura esotista e oscura di cui erano impregnati, o il mito generazionale che gli si era creato intorno; oppure era solo colpa della mia attenzione fluttuante. In ogni caso anche sull'aereo per Los Angeles li ho sfogliati senza metodo, senza riuscire a concentrarmi abbastanza. Fellini da parte sua era apprensivo almeno quanto eccitato. Non viaggiava spesso, ne' volentieri, benche' ricevesse ogni giorno inviti da tutte le parti del mondo. Una volta a Fiumicino aveva indicato un fossato d'acqua tra il ciglio di una strada secondaria e un campo di grano verde, mi aveva detto "In fondo c'e' bisogno di andare in Cina, per vedere la Cina?" A volte questo atteggiamento mi affascinava, a volte mi irritava. Ma era fatto cosi', e la sua fantasia lavorava meglio in condizioni controllate; per questo aveva bisogno di ricostruire il mare e il cielo nei teatri di posa di Cinecitta', invece di filmarli dal vero. Era anche stanco dei film che faceva, e della fatica che gli costava metterli in piedi. Era alla ricerca di una storia che lo portasse fuori dal vecchio circo barocco in cui si sentiva rinchiuso. Gli aspetti esoterici e allucinatori di Castaneda lo attraevano e lo preoccupavano, alimentavano la sua curiosita'. A un certo punto mentre volavamo sopra l'oceano mi ha detto "Chissa' che funghi allucinogeni ci fara' mangiare? Chissa' che razza di rituali dovremo fare?" Paura e desiderio di vere sorprese gli brillavano negli occhi. Era uno che credeva alle storie che raccontava, prima ancora di raccontarle; era uno che creava le condizioni perche' qualcosa succedesse e poi se ne faceva trascinare, come se non tutto dipendesse da lui. A volte diceva "Io non cerco, trovo"; e non era neanche una frase inventata da lui, ma era vera. Questo libro e' la storia di quello che e' successo, ricostruita piu' fedelmente che potevo, il che non e' molto. La principale non fedelta', la piu' grave, e' stata sostituire a Fellini e a me due personaggi inventati, e molto diversi da noi. Insieme ai protagonisti veri, anche una parte delle possibili spiegazioni della storia sono quasi scomparse, scivolate sotto la superficie del racconto. Credo che un lettore molto attento o percettivo sia ancora in grado di scovarle, ma ci vuole una certa fatica. D' altra parte questo e' pur sempre un romanzo, con le sue richieste di invenzione, la sua natura ibrida di realta' e fantasia. E gia' cosi', Yucatan e' diventato una specie di fossato tra chi ne ha vissuto la storia vera. Forse il tono incurante che ho prestato a Dave e alla sua voce narrante e' un modo di esorcizzare le paure e le incertezze in cui ci eravamo imbattuti durante il viaggio. Forse invece la mia vera paura era quella di scrivere senza resistenze, scendere al fondo caldo e palpitante di questo lavoro come ho cercato di fare piu' tardi. Questo e' il mio libro meno capito, di tutti quelli che ho scritto. Anche i miei lettori piu' fedeli e partecipi finiscono spesso per confessarmi che dopo averlo letto gli e' rimasto un senso di perplessita'. Mi dicono che non sono riusciti a decifrare il significato di fondo, leggere i simboli sparsi, sciogliere la catena degli avvenimenti. Il fatto e' che la loro perplessita' riflette come in uno specchio la mia: c'e' lo stesso senso di non spiegato, non chiarito fino in fondo. Questa e' la storia di due persone molto diverse abituate a costruire storie, che per una volta nella loro vita si ritrovano dentro una storia scritta da altri. Neanch'io sono riuscito a decifrare tutti i segni lungo il percorso, e in un certo senso non ho neanche voluto provarci. Mi sono limitato a ricostruire gli avvenimenti fino nei loro dettagli, come uno potrebbe riprodurre con cura minuziosa un geroglifico che non e' in grado di leggere, per un possibile uso futuro. E' una storia significante e insignificante, semplice e difficile da capire, come lo sono le storie quasi del tutto vere.

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