giovedì 3 gennaio 2013

Tao e Qualità


È ora di riprendere il Chautauqua e di parlare della seconda ondata di cristallizzazione di Fedro, quella metafisica.
Quest'ondata fu una conseguenza delle sue divagazioni a briglia sciolta sulla Qualità. Si scatenò quando gli insegnanti del Dipartimento di Inglese, informati della loro squareness, posero a Fedro una domanda ragionevole: «Questa tua indefinita "Qualità " esiste nelle cose che osserviamo?» gli chiesero. «O è soggettiva e esiste soltanto nell'osservatore?». Era una domanda semplice, abbastanza normale, e non c'era di che affannarsi.
Ah! Non c'era di che affannarsi! Era il colpo di grazia, la domanda decisiva, di quelle che ti mettono al tappeto. Infatti, se la Qualità esiste nell'oggetto, allora bisogna spiegare perché gli strumenti scientifici sono incapaci di individuarla, e, a questo punto, o sei in grado di proporre degli strumenti che permettano di individuarla, o ti devi accontentare della spiegazione seguente: gli strumenti esistenti non la individuano perché tutto il tuo bel concetto di Qualità è un'enorme sciocchezza.
D'altra parte, se la Qualità è soggettiva, ed esiste solo nell'osservatore, vuoi dire che essa non è nient'altro che il nome che dai a quello che piace a te.
In sostanza, il Dipartimento di Inglese del Montana State College aveva messo Fedro davanti a quell'antica figura logica nota come dilemma. Il dilemma, che in greco significa «due premesse» , è stato paragonato alle corna di un toro.
Se Fedro accettava la premessa secondo cui la Qualità sarebbe oggettiva, egli veniva trafitto da uno dei due corni. Se accettava l'altra premessa, secondo cui essa sarebbe soggettiva, veniva trafitto dall'altro. Dato che la Qualità o è oggettiva o è soggettiva, Fedro sarebbe stato incornato comunque.
Comunque, grazie ai suoi studi di logica, egli era consapevole che ogni dilemma si presta non a due, ma a tre confutazioni classiche, e ne conosceva anche alcune di riserva che non erano così classiche. Poteva optare per il corno sinistro e confutare l'idea che l'oggettività implicasse l'osservabilità scientifica. Oppure poteva prendere il corno destro, e confutare l'idea che la soggettività facesse della Qualità solo una questione di gusti. Oppure poteva afferrare il toro per entrambe le corna e negare che la Qualità potesse essere solo oggettiva o soggettiva. Potete star certi che considerò attentamente tutte queste possibilità.
Oltre a queste confutazioni logiche classiche ce ne sono alcune illogiche, «retoriche». E Fedro, che era un retore, poteva disporre anche di queste.
Si può gettar sabbia negli occhi del toro. E Fedro l'aveva già fatto affermando che chi ignora la natura della Qualità da prova di incompetenza. Ora, è una vecchia regola logica che la competenza di chi parla non ha nulla a che vedere con la verità delle sue parole, per cui parlare di incompetenza era appunto gettar sabbia negli occhi. Il più grande imbecille del mondo può dire che il sole brilla e non per questo il sole si oscurerà. Socrate, quell'antico nemico della retorica, avrebbe annientato l'argomentazione di Fedro dicendogli: «Bene, accetto la tua premessa: io sono incompetente in materia di Qualità. E adesso, per piacere, spiega a un vecchio incompetente cos'è la Qualità. Altrimenti, come faccio a migliorare?».
Si può tentare di addormentare il toro con una ninna nanna. Fedro avrebbe potuto dire ai suoi interlocutori che la soluzione di questo dilemma era al di là delle sue umili capacità, ma che la sua incapacità di trovare una risposta non costituiva logicamente una prova che la soluzione non esistesse affatto. Perché non lo aiutavano loro a trovare la risposta, visto che erano tanto più esperti di lui? Ma ormai era troppo tardi. Rischiava solo di sentirsi rispondere: «No, siamo troppo square. Però tu, finché non avrai trovato una risposta, attieniti ai programmi dei corsi in modo che non ci tocchi bocciare i tuoi confusissimi studenti quando passeranno a noi il prossimo trimestre».
La terza alternativa retorica al dilemma, a mio avviso la migliore, era quella di rifiutarsi di scendere nell'arena. Fedro avrebbe potuto dire semplicemente: «Il tentativo di classificare la Qualità come soggettiva o oggettiva è un tentativo di definirla. E io ho già detto che è indefinibile» , e chiudere lì la questione.
Perché Fedro abbia disatteso questo consiglio decidendo di rispondere al dilemma in modo logico e dialettico invece che infilare la facile uscita del misticismo, non lo so proprio. Però posso immaginarmelo. Penso che prima di tutto egli abbia intuito che tutta la Chiesa della Ragione era irreversibilmente dentro all'arena della logica, e che rifiutando di usare le armi della logica si esclude la possibilità di essere presi in considerazione nel mondo accademico. Il misticismo filosofico, l'idea che la verità sia indefinibile e possa essere appresa soltanto con strumenti non razionali, ci ha accompagnato fin dall'inizio della storia. È alla base della pratica Zen. Ma non è un tema accademico. L'accademia, la Chiesa della Ragione, si occupa esclusivamente delle cose che possono essere definite, e se uno vuole fare il mistico, il suo posto è in un monastero, non in un'Università. Credo inoltre che, nella sua decisione di scendere in campo, abbia giocato anche un pizzico di narcisismo. Fedro era consapevole delle sue capacità logiche e dialettiche, anzi, ne andava orgoglioso, e il dilemma che gli veniva posto rappresentava una sfida alla sua abilità. Ora sono convinto che quel filo di narcisismo sia stato all'origine di tutti i suoi mali.

Il primo corno del dilemma di Fedro era il seguente: se la Qualità esiste nell'oggetto, come mai gli strumenti scientifici non riescono ad osservarla?
Questo era il corno più acuto. Le difficoltà che presentava erano mortali fin dall'inizio. Se Fedro avesse preteso di essere una specie di super-scienziato in grado di vedere negli oggetti quella Qualità che nessuno scienziato riusciva a individuare, avrebbe fatto la figura del pazzo o dell'imbecille. Al giorno d'oggi, le idee incompatibili con la conoscenza scientifica non hanno una vita facile.
Gli venne in mente l'affermazione di Locke secondo la quale nessun oggetto, scientifico o no, è conoscibile se non in base alle sue qualità. Questa verità irrefutabile sembrava suggerire che gli scienziati non riescono a individuare la Qualità negli oggetti perché la Qualità è l'unica cosa che riescono a individuare. L'«oggetto» è un costrutto intellettuale dedotto dalle qualità. Se questa risposta si dimostrava valida, spezzava di sicuro il primo corno del dilemma, e per un po' Fedro ne fu entusiasta.
Ma alla fine la risposta si rivelò falsa. La Qualità che Fedro e i suoi studenti avevano esaminato in classe era completamente diversa dalle qualità fisiche di colore, calore o durezza che si possono osservare in laboratorio. Quelle proprietà fisiche erano tutte misurabili con degli strumenti. La Qualità, così come la intendeva Fedro, in termini di «eccellenza» , «valore» , «bontà» , non era una proprietà fisica e non era misurabile. Si era lasciato ingannare da un'ambiguità del termine 'Qualità'. Fedro si chiese come mai esistesse quell'ambiguità, si propose di fare delle ricerche sull'etimologia del termine, e accantonò momentaneamente il problema.
Rivolse allora la sua attenzione all'altro corno del dilemma, che sembrava più facile da confutare. Ma come? La Qualità non è nient'altro che «quel che piace»? Trovava quest'idea esasperante. I grandi artisti della storia — Raffaello, Beethoven, Michelangelo — si erano quindi limitati a produrre opere che rispondessero ai gusti del tempo, senza altro scopo che quello di titillare i sensi in grande stile?
Fedro studiò la proposizione con estrema attenzione, con tutta la concentrazione che usava ogni volta che partiva all'attacco. E finalmente capì. Estrasse il coltello ed estirpò la locuzione che conferiva alla frase quel che di esasperante. Era «nient'altro che». Perché mai la Qualità dovrebbe essere nient'altro che quel che piace e perché «quel che piace» dovrebbe essere «nient'altro che» ? Era un termine puramente peggiorativo il cui contributo logico alla frase era nullo. Ora, con la sua eliminazione, la frase diventava: «La Qualità è quel che piace» , e il suo significato cambiava totalmente: diventava un'innocua banalità.
Fedro si chiese allora perché quella frase lo avesse esasperato. Gli era parsa così naturale. Come mai ci aveva messo tanto a capire che in realtà il suo significato era: «quello che piace non ha valore, o comunque non ha nessuna importanza». Cosa c'era dietro a questa gretta premessa? Sembrava la quintessenza di quella squareness che Fedro stava combattendo. I bambini venivano educati a non fare soltanto «quello che piaceva a loro», ma... ma cosa?... Ma certo! Quello che piaceva agli altri. E chi erano, gli altri? Genitori, insegnanti, direttori, poliziotti, giudici, ufficiali, re, dittatori. Cosi diventi uno schiavo molto più obbediente — un buono schiavo.
Ma supponiamo che tu non faccia altro che quello che piace a te. Significa forse che andrai a bucarti, a rapinare una banca o a stuprare vecchie signore? Bella idea davvero di quello che può piacere alla gente. Non si tiene conto che la gente potrebbe anche non rapinare le banche perché ne ha preso in considerazione le conseguenze. Le banche esistono innanzitutto perché «non sono altro che quel che piace alla gente» e, precisamente, delle fonti di credito. Fedro incominciò allora a domandarsi come mai questa condanna di «quel che piace» potesse sembrare tanto naturale. Ma ben presto si rese conto che quando la gente diceva: «Non fare soltanto quello che ti piace» non voleva dire: «Obbedisci all'autorità» e basta. Voleva dire anche qualcos'altro, qualcosa che rientrava nella concezione generale della scienza classica secondo la quale «quello che piace» è di scarsa importanza perché non è fatto che di emozioni irrazionali, del tutto personali. Fedro studiò a lungo quest'argomentazione, e la spezzò in due parti che definì materialismo scientifico e formalismo classico. Disse che queste due parti sono spesso associate nella Stessa persona ma che sul piano logico sono distinte.
Il materialismo scientifico, più comune tra i seguaci profani della scienza che tra gli scienziati veri e propri, sostiene che ciò che è composto di materia o di energia ed è misurabile con degli strumenti scientifici è reale, mentre tutto il resto è irreale, o quanto meno di scarsa importanza. «Quello che piace» non è misurabile, e pertanto non è reale. «Quello che piace» può essere indifferentemente un fatto o un'allucinazione. L'obiettivo fondamentale del metodo scientifico è quello di operare distinzioni valide tra il vero e il falso in natura, eliminare gli elementi soggettivi, irreali, e immaginari dell'attività umana in modo da ottenere un quadro oggettivo, vero, della realtà. Fedro, dicendo che la Qualità era soggettiva, per questo tipo di materialisti non faceva che affermare che la Qualità è immaginaria e che pertanto, in qualsiasi studio serio della realtà, essa può essere trascurata.
Dall'altra parte c'è il formalismo classico, che si picca d'affermare che quanto non viene compreso intellettualmente non viene compreso affatto, e in questo caso la Qualità diventa di scarsa importanza perché rappresenta una comprensione emotiva scissa dagli elementi intellettuali della ragione.
Di queste due fonti principali della locuzione «nient'altro che» , Fedro intuì che la prima era di gran lunga la più facile da demolire. Sapeva trattarsi di una concezione scientifica ingenua, e la attaccò per prima, valendosi della reductio ad absurdum. Questa forma di confutazione si basa sul fatto che se le conclusioni logiche che derivano da un insieme di premesse sono assurde, ne segue logicamente che almeno una delle premesse è assurda. Esaminiamo dunque, egli disse, che cosa segue da questa premessa: «qualsiasi cosa che non sia composta di massa-energia è irreale o di scarsa importanza».
Fedro usò come punto di partenza il numero zero. Lo zero, originariamente un numero indù, fu introdotto in occidente dagli arabi durante il Medio Evo, ed era sconosciuto agli antichi greci e ai romani. Come mai? si chiese Fedro. La natura aveva dunque nascosto lo zero con tanta abilità? Eppure si direbbe che lo zero sia proprio lì sotto il nostro naso. Fedro dimostrò che cercare di derivare lo zero da qualsiasi forma di massa-energia era assurdo, e poi fece la seguente domanda retorica: «Dobbiamo dunque concludere che lo zero non ha valore scientifico?». In questo caso i calcolatori, che funzionano esclusivamente in termini di uno e di zero, dovrebbero essere limitati solo agli uno? Era palesemente assurdo. … Se la soggettività viene eliminata come cosa di scarsa importanza, egli disse, allora con essa dev'essere eliminato tutto il corpo della scienza.
Comunque, questa confutazione del materialismo scientifico aveva lo svantaggio di situare Fedro nel campo dell'idealismo filosofico — Berkeley, Hume, Kant, Fichte, Schelling, Hegel, Bradley, Bosanquet —; buona compagnia, tutti logici fino all'ultima virgola, ma talmente difficili da difendere nel linguaggio del «senso comune» da rappresentare più un fardello che non un aiuto per la sua difesa della Qualità. L'affermazione che il mondo era tutto mente poteva anche essere una posizione sana da un punto di vista logico, ma certamente non lo era da un punto di vista retorico. Era troppo noiosa e difficile per degli studenti del primo anno. Troppo “azzardata”.
A questo punto, il corno soggettivo del dilemma gli parve altrettanto scialbo di quanto non fosse quello oggettivo, e un esame delle argomentazioni molto consistenti del formalismo classico non fece che peggiorare la situazione. Da esse si deduceva che non bisogna reagire ai propri impulsi emotivi ed immediati senza prendere in considerazione l'insieme del contesto razionale.
Ai bambini, per esempio, si dice: «non spendete tutti i soldi in gomma da masticare [impulso emotivo immediato], perché poi vi capiterà di volerli spendere per qualcos'altro [ottica più vasta]». Agli adulti si dice: «Questa cartiera può ben puzzare orribilmente anche con i migliori controlli [emozioni immediate], ma, se non ci fosse, tutta l'economia della città crollerebbe [ottica più vasta]». Se torniamo alla nostra vecchia dicotomia, questo si traduce in: «Non basate le vostre decisioni sul fascino superficiale e romantico, senza prendere in considerazione la forma classica soggiacente». E su questo Fedro era abbastanza d'accordo.
Quello che i formalisti classici intendevano dire con l'obiezione: «La Qualità non è nient'altro che quel che piace» era che questa «Qualità» soggettiva e indefinita che Fedro stava insegnando non era altro che fascino superficiale e romantico. Gli indici di popolarità stabiliti in classe potevano determinare se un componimento aveva un fascino immediato, d'accordo, ma si trattava di Qualità? La Qualità era dunque qualcosa che salta subito all'occhio, o non poteva essere qualcosa di più sottile, qualcosa di percepibile solo dopo un lungo periodo di studio?
Più Fedro esaminava quest'argomentazione più la trovava minacciosa per la sua tesi, perché essa pareva rispondere a una domanda che in classe gli era stata posta spesso: «Se tutti sanno cos'è la Qualità, come mai se ne discute tanto?».
Lui rispondeva in modo assai cavilloso che, benché la Qualità pura fosse la stessa per tutti, gli oggetti ai quali essa era inerente variavano a seconda degli individui. Fintanto che Fedro non definiva la Qualità non c'era modo di controbattere quest'affermazione, ma egli sapeva, come del resto lo sapevano gli studenti, che essa puzzava di imbroglio. Non rispondeva veramente alla domanda.
Adesso c'era un'altra spiegazione possibile: la gente non concordava sulla nozione di Qualità perché alcuni si basavano unicamente sulle loro emozioni immediate, mentre altri usavano la totalità della loro conoscenza. Fedro sapeva che questa seconda spiegazione sarebbe stata accolta all'unanimità dai professori di inglese perché rafforzava la loro autorità.
Ma era una spiegazione disastrosa. Invece di una Qualità unica e uniforme adesso pareva ce ne fossero due: una romantica, tutta sensazione, propria degli studenti; e una classica, risultato di una visione d'insieme, propria degli insegnanti. Una hip e una square. Quindi squareness non era l'assenza di Qualità; era la Qualità classica. Hipness non era semplicemente la presenza della Qualità; era la qualità romantica.
La piega che stavano prendendo le cose non gli piaceva. Il termine che doveva unificare la visione classica e quella romantica si era a sua volta spaccato in due e non poteva più unificare niente. Era finito dentro a un tritacarne analitico. Il coltello della soggettività-e-oggettività aveva tagliato la Qualità in due distruggendone il valore operativo. Se Fedro voleva salvarla, non poteva permettere al coltello di colpirla.
In realtà, la Qualità a cui si riferiva Fedro non era né la Qualità classica né la Qualità romantica, ma qualcosa che andava al di là sia dell'una che dell'altra. E per Dio, non era neanche soggettiva o oggettiva, trascendeva anche queste due categorie. In realtà, sottoporre la Qualità a questa dicotomia tra soggettività e oggettività, tra mente e materia non era giusto; il rapporto mente-materia ha costituito un impiccio intellettuale per secoli, e adesso lo stavano applicando alla Qualità per renderla inoperante. Come poteva Fedro dire se la Qualità era mente o materia quando non c'era alcuna chiarezza logica sulla natura di queste due entità?
Così Fedro respinse il corno sinistro. La Qualità non è oggettiva, disse. Non risiede nel mondo materiale.
E respinse anche il corno destro. La Qualità non è soggettiva, disse. Non risiede solo nella mente.
E per concludere, Fedro, seguendo una via che, per quanto ne sapeva, non era mai stata imboccata nella storia del pensiero occidentale, si gettò tra le corna del dilemma soggettività-oggettività e affermò che la Qualità non è né parte della mente, né parte della materia. È una terza entità, indipendente dalle altre due.
Lungo i corridoi e su e giù per le scale del College lo si sentiva cantare dolcemente tra sé e sé, quasi in un sussurro: «Santa, santa, santa... benedetta Trinità».

Il mondo, secondo Fedro, era dunque composto di tre elementi: mente, materia, e Qualità. Sulle prime, il fatto di non aver stabilito tra questi elementi alcun rapporto non lo turbò affatto. Se il rapporto tra mente e materia era oggetto di discussione da secoli e il problema non era ancora stato risolto, perché doveva essere proprio lui a dire, nel giro di poche settimane, qualcosa di conclusivo sulla Qualità? Sapeva benissimo che prima o poi la trinità metafisica di soggetto, oggetto e Qualità avrebbe dovuto essere interrelata, ma non aveva nessuna fretta. Era una tale soddisfazione essere riuscito a superare il pericolo di quelle corna, che Fedro si rilassò e se la godette il più a lungo possibile.
Alla fine, comunque, esaminò il problema più da vicino. Benché non ci sia alcuna obiezione logica all'ipotesi di una trinità metafisica, una realtà a tre teste, trinità del genere non sono né comuni né popolari. Il metafisico normalmente cerca o un principio monistico, come Dio, che spieghi la natura del mondo quale manifestazione di una singola entità, o un principio dualistico, come quello di mente-materia, o si affida al pluralismo, che considera la realtà come la manifestazione di un numero imprecisato di principi. Ma tre è un numero scomodo. Vien subito da chiedersi: «Perché tre principi, e in che rapporto sono tra loro?». Domanda che cominciò a incuriosire anche Fedro, non appena ebbe recuperato le forze.
Egli notò che, benché normalmente la Qualità sia associata agli oggetti, talvolta le sensazioni di Qualità si verificano senza la loro presenza. Questo, sulle prime, lo aveva indotto a pensare che forse la Qualità era soggettiva, ma d'altra parte il piacere soggettivo non era quello che lui intendeva per Qualità. La Qualità fa diminuire la soggettività. La Qualità fa uscire da se stessi, rende consapevoli del mondo circostante. La Qualità è l'opposto della soggettività.
Alla fine Fedro si rese conto che la Qualità non poteva essere collegata singolarmente né al soggetto né all'oggetto: la si riscontrava solo nel loro rapporto reciproco. La Qualità è il punto in cui soggetto e oggetto s'incontrano.
Fuochino.
La Qualità non è una cosa. È un evento.
Fuochetto.
È l'evento che vede il soggetto prendere coscienza dell'oggetto.
E dato che senza oggetto non ci può essere soggetto — sono gli oggetti che creano nel soggetto la coscienza di sé — la Qualità è l'evento che rende possibile la coscienza sia dell'uno che degli altri.
Fuoco!
Questo vuoi dire che la Qualità non è solo conseguenza di una collisione tra soggetto e oggetto. L'esistenza stessa di soggetto e oggetto è dedotta dall'evento Qualità. L'evento Qualità è causa del soggetto e dell'oggetto, erroneamente considerati causa della Qualità! E adesso finalmente aveva preso quel dannato dilemma per la gola.
«Il sole della Qualità» scrisse «non gira intorno ai soggetti e agli oggetti della nostra esistenza. Non si limita a illuminarli passivamente. Non è loro subordinato in nessun modo. È lui che li ha creati. Ed è a lui che essi sono subordinati!».
E nel momento in cui lo scrisse, seppe di aver raggiunto una sorta di culmine intellettuale al quale aspirava inconsciamente da molto, molto tempo.

mercoledì 2 gennaio 2013

il Coraggio (la Forza) - VIII Major


La carta mostra un piccolo fiore selvatico che ha incontrato sulla sua strada verso la luce del giorno rocce e pietre. Circondato da un'aura di luce vivida e dorata, il fiore manifesta la maestà del proprio flebile sé. Privo di vergogna, assomiglia al sole più luminoso. Quando ci troviamo di fronte a una situazione estremamente difficile, abbiamo una scelta: possiamo provare risentimento, e cercare di trovare qualcuno o qualcosa da biasimare, scaricando così la difficoltà, oppure possiamo fronteggiare la sfida e crescere. Questo fiore ci mostra la via, in quanto la sua passione per la vita lo conduce fuori dall'oscurità, nella luce. Non ha senso lottare contro le sfide della vita, oppure cercare di evitarle o di negarle. Esistono, e se il seme deve diventare il fiore, dobbiamo passarci attraverso. Sii coraggioso in modo da crescere e diventare il fiore che sei destinato a essere.

Il seme non può sapere cosa accadrà - il seme non ha mai conosciuto il fiore. E il seme non può neppure credere di avere la potenzialità di diventare un fiore meraviglioso. Il viaggio è lungo, ed è sempre più sicuro non affrontarlo mai, poiché il sentiero è sconosciuto e nulla è garantito. Nulla può essere garantito. I rischi lungo il cammino sono infiniti, i trabocchetti in cui cadere moltissimi e il seme è al sicuro, nascosto all'interno del suo duro involucro. Eppure il seme compie degli sforzi, fa tentativi; lascia cadere il rigido guscio che rappresenta la sua sicurezza, inizia a muoversi. E subito inizia la lotta: la battaglia col terreno, con le pietre e le rocce. Il seme era duro; il germoglio sarà estremamente fragile e i pericoli saranno immensi. Per il seme non c'era pericolo, avrebbe potuto sopravvivere millenni, mentre per il germoglio i pericoli sono infiniti. Eppure si lancia verso l'ignoto, verso il sole, la fonte di luce, senza sapere dove andare, senza sapere il perché. Pesante è la croce da portare, però il seme ha un sogno, e va avanti. Il sentiero dell'uomo è simile: è arduo e richiede molto coraggio.

Tao salad surgery






Keith Emerson, Gregg Lake and Carl Palmer at Giger's Studio in Zurich, 1973
Foto: Bruno Torricelli
Lancing and Sompting Cemetery, Lancing, Adur District, West Sussex, England


lunedì 17 dicembre 2012

Coscienza del Tao

© Igor Morski
L'ultimo dei cinque aggregati descritti nella tradizione Abhidhamma - il quale contiene tutti i precedenti - è la Coscienza (vijnana), discussa in dettaglio:

Consciousnesses
Consciousness is the last of the aggregates, and it contains all of the others. (Indeed, each of the aggregates contains those that precede it in the list.) It is the mental experience that goes with the other four aggregates; technically it is the experience that comes from the contact of each sense organ with its object (together with the feeling, impulse, and habit that is aroused). Consciousness, as a technical term vijnana, always refers to the dualistic sense of experience in which there is an experiencer, an object experienced, and a relation (or relations) binding them together.
Let us tum for a moment to the systematic description of consciousness made by one of the Abhidharma schools.

Categories of Experiential Events Used in Mindfulness/Awareness

The Five Aggregates (skandhas)
1. Forms (rupa)
2. Feelings/sensations (vedana)
3. Perceptions (discernments)/impulses (samjna)
4. Dispositional formations (samskara)
5. Consciousnesses (vijnana)

The Twelve-fold Cycle of Dependent Origination (pratityasamutpada)

1. Ignorance (avidya)
2. Dispositional formations (the fourth aggregate)
3. Consciousness (the fifth aggregate)
4. The Psychophysical Complex (nama-rupa)
5. The Six Senses (sad-ayatana)
6. Contact (sparsa)
7. Feeling (the second aggregate)
8. Craving (trsna)
9. Grasping (upadana)
10. BeComing (bhava)
11. Birth (jati)
12. Decay and death (jara-marana)

The Processes of Mind (citta/caitta)

A. Consciousness (the fifth aggregate)

1. Visual consciousness
2. Auditory consciousness
3. Olfactory consciousness
4. Gustatory consciousness
5. Tactile consciousness
6. Mental consciousness

B. Mental factors (the fourth aggregate, here treated as including the second and third aggregates)

Five Ever-present Mental Factors:
1. Contact (the sixth motif in situational patterning)
2. Feeling (the second aggregate)
3. Perception/Discernment (the third aggregate)
4. Intention (cetana)
5. Attention (manas)

Five Object-ascertaining Factors:
1. Interest (chandra)
2. Intensified interest (adhimoksa)
3. Inspection/mindfulness (smrti)
4. Intense concentration (samadhi)
5. Insight/discrimative wisdom (prajna)

Eleven Positive Mental Factors:
1. Confidence-trust (sraddha)
2. Self-respect (hri)
3. Consideration for others (apatrapya)
4. Nonattachment (alobha)
5. Nonhatred (advesa)
6. Nondeludedness (amoha)
7. Diligence (virya)
8. Alertness (prasrabdhi)
9. Concern (apramadtl)
10. Equanimity (apeksa)
11. Nonviolence (ahimsa)

Six Basic Unwholesome Emotions
1. Attachment (raga)
2. Anger (pratigha)
3. Arrogance (mana)
4. Ignorance (the first motif of situational patterning)
5. Indecision (vicikitsa)
6. Opinionatedness (drsti)

Twenty Derivative Unwholesome Factors
1. Indignation (krodha)
2. Resentment (upanaha)
3. Slyness concealment (mraksa)
4. Spite (pradasa)
5. Jealousy (irsya)
6. Avarice (matsarya)
7. Deceit (maya)
8. Dishonesty (sathya)
9. Mental inflation (mada)
10. Malice (vihimsa)
11. Shamelessness (ahri)
12. Inconsideration for others (anapatrapya)
13. Gloominess/dullness (styana)
14. Restlessness (auddhatya)
15. Lack of trust (asraddhya)
16. Laziness (kausidya)
17. Unconcern (pramada)
18. Forgetfulness (musitasmritita)
19. Inattentiveness (viksepa)
20. Nondiscernment (asampraja)

Four Variable or Indeterminate Factors
1. Drowsiness (middha)
2. Worry (kaukrtya)
3. Reflection (vitarka)
4. Investigation/analysis (vicara)

















The mental factors are the relations that bind the consciousness to its object, and at each moment a consciousness is dependent on its momentary mental factors (like the hand and its fingers). Note that the second, third, and fourth aggregates are included here as mental factors. Five of the mental factors are omnipresent; that is, in every moment of consciousness the mind is bound to its object by all five of these factors. There are contact between the mind and its object; a specific feeling tone of pleasantness, unpleasantness, or neutrality; a discernment of the object; an intention toward the object; and attention to the object. The rest of the factors, including all the dispositions that make up the fourth aggregate, are not always present. Some of these factors can be present together in a given moment (such as confidence and diligence), others are mutually exclusive (such as alertness and drowsiness). The combination of mental factors that are present make up the character-the color and taste-of a particular moment of consciousness.
Is this Abhidharma analysis of consciousness a system of intentionality along Husserlian lines? There are similarities in that there is no consciousness without an object of consciousness and a relation. (Mind [seems] in the Tibetan tradition is often defined as "that which projects itself to other.") But there are differences. Neither the objects of consciousness nor the mental factors are representations. Most important, consciousness (vijnana) is only one mode of knowing; prajna does not know by means of a subject/object relationship. We might call the simple experiential/psychological observation that conscious experience takes a subject/object form protointentionality. Husserl's theory is based not only on protointentionality but also on Brentano's notion of intentionality as subsequently elaborated by Husserl into a full-fledged representational theory.
The temporal relationship between a consciousness and its object was the subject of great dispute among the Abhidharma schools: some held that the occurrence of the object and of mind was simultaneous; others, that the object occurred first, followed in the succeeding moment by the mind (first a sight, then the seeing consciousness).
A third claim was that mind and object were simultaneous for sight, sound, smell, taste, and touch but that the thinking consciousness took as its object the preceding moment of thought. This dispute became integral to philosophical debates about what things actually existed. There were also disputes about which factors to include and how they were to be characterized.
Despite the atmosphere of debate that surrounded some issues, there was unanimous agreement on the more experientially direct claim that each of the senses (eye, ear, nose, tongue, body, and mind) had a different consciousness - that is, at each moment of experience there was a different experiencer as well as a different object of experience. And of course there was agreement that no actual self was to be found in consciousness, either in the experiencer, the object of experience, or the mental factors binding them together.
In our habitual and unreflective state, of course, we impute continuity of consciousness to all our experience-so much so that consciousness always occurs in a "realm," an apparently cohering total environment with its own complete logic (of aggression, poverty, etc. ). But this apparent totality and continuity of consciousness masks the discontinuity of momentary consciousnesses related to one another by cause and effect. A traditional metaphor for this illusory continuity is the lighting of one candle with a second candle, a third candle from that one, and so on-the flame is passed from one candle to the next without any material basis being passed on. Taking this sequence as a real continuity, however, we cling tenaciously to this consciousness and are terrorized by the possibility of its termination in death. Yet when mindfulness/awareness reveals the disunity of this experience-a sight, a sound, a thought, another thought, and so on-it becomes obvious that consciousness as such cannot be taken as that self we so treasure and for which we are now searching.
We seem unable to find a self anywhere in each aggregate when we take them one by one. Perhaps, then, all the aggregates combine in some way to form. the self. Is the self the same as the totality of the aggregates? This idea would be quite attractive if only we knew how to make it work. Each aggregate taken singly is transitory and impermanent; how, then, are we to combine them into something lasting and coherent? Perhaps the self is an emergent property of the aggregates? In fact, many people when pressed to define the self (perhaps in a psychology class) will use the concept of an emergent as a solution. Indeed, given the contemporary scientific interest in the emergent and self-organizing properties of certain complex aggregates, this idea is even plausible. At this point, however, the idea is of no help. Such a self-organizing or synergistic mechanism is not evident in experience. More important, it is not the abstract idea of an emergent self that we cling to so fiercely as our ego; we cling to a "real" ego-self.
When we recognize that no such real self is given to us in our experience, we may swing to the opposite extreme, which is to say that the self must be radically different from the aggregates. In the Western tradition, this move is best exemplified in the Cartesian and Kantian claim that the observed regularity or pattern of experience requires that there be an agent or mover behind the pattern. For Descartes, this mover was the res cogitans, the thinking substance.
Kant was more subtle and precise. In his Critique of Pure Reason, he wrote, "Consciousness of self according to the determinations of our state in inner perception is merely empirical, and always changing. No fixed and abiding self can present itself in this flux of inner appearances. . . . [Thus] there must be a condition which precedes all experience, and which makes experience itself possible .... This pure original unchangeable consciousness I shall name transcendental apperception." Apperception basically means awareness, especially awareness of the process of cognition. Kant saw quite clearly that there was nothing given in this experience of awareness that corresponded to the self, and so he argued that there must be a consciousness that is transcendental, that precedes all experience and makes that experience possible. Kant also thought that this transcendental awareness is responsible for our sense of unity and identity through time, thus his full term for the transcendental ground of the everyday self was "the transcendental unity of apperception."
Kant's analysis is brilliant, but it only heightens the predicament. We are told that there really is a self, but we can never know it. Furthermore, this self hardly answers to our emotional convictions: it is not me or my self; it is just the idea of a self in general, of some impersonal agent or mover behind experience. It is pure, original, and unchangeable; I am impure and transitory. How could such a radically different self have any relation with my experience? How could it be the condition or ground of all of my experiences and yet remain untouched by those experiences? If there truly is such a self, it can be relevant to experience only by partaking of the world's fabric of dependency, but to do so would obviously violate its pristine, absolute condition.
We may present the difference between the Kantian and the mindfulness/ awareness views of self in the form of a diagram

In both the Kantian and the mind fulness/awareness traditions, there is, as we have seen, a recognition of the absence of a substantial self in the momentariness of experience (figure 4.1). The Kantian move avoids confronting the puzzle of our tendency to believe in a self in the face of this momentariness by positing a pure, original , and unchangeable consciousness as a ground - the transcendental ego (figure 4.2). In the mind fullness/awareness tradition , the attitude is to hold the puzzle of this momentariness vividly in mind by considering that the grasping toward a self could occur within any given moment of experience (figure 4.3).
At this point the reader will probably become rather irritated and say, "Fine, the self isn't really a lasting and coherent thing; it is just the continuity of the stream of experience. It is a process and not a thing. What's the big deal?" But remember, we have been looking for a self that answers to our emotional/reactional convictions. At this immediate experiential level, we do not feel as if the self is merely the stream of experience. Indeed, even to call it a stream reveals our grasping after some sense of solidity, for this metaphor implies that experience flows continuously. But when we subject this continuity to analysis, we seem able to find only discontinuous moments of feeling, perception, motivation, and awareness. We could, of course, redefine the self in all sorts of ways to get around these problems, perhaps even by following contemporary analytic philosophers who use quite sophisticated logical techniques, such as possible world semantics, but none of these new accounts would in any way explain our basic reactional behavior and everyday tendencies.
The point is not whether we can redefine the self in some way that makes us comfortable or intellectually satisfied, nor is it to determine whether there really is an absolute self that is nonetheless inaccessible to us. The point is rather to develop mindfulness of and insight into our situation as we experience it here and now. As Tsultrim Gyamtso remarks, "Buddhism is not telling anyone that he should believe that he has a self or that he does not have a self. It is saying that when one looks at the way one suffers and the way one thinks and responds emotionally to life, it is as if one believed there were a self that was lasting, single and independent and yet on closer analysis no such self can be found. In other words, the aggregates (skandhas) are empty of a self."

mercoledì 12 dicembre 2012

omaggio al Tao: Pandit Ravi Shankar


SHANKAR FAMILY STATEMENT
It is with heavy hearts we write to inform you that Pandit Ravi Shankar, husband, father, and musical soul, passed away today, December 11th, 2012.
As you all know, his health has been fragile for the past several years and on Thursday he underwent a surgery that could have potentially given him a new lease of life. Unfortunately, despite the best efforts of the surgeons and doctors taking care of him, his body was not able to withstand the strain of the surgery. We were at his side when he passed away.
We know that you all feel our loss with us, and we thank you for all of your prayers and good wishes through this difficult time. Although it is a time for sorrow and sadness, it is also a time for all of us to give thanks and to be grateful that we were able to have him as a part of our lives. His spirit and his legacy will live on forever in our hearts and in his music.

- Sukanya & Anoushka Shankar

http://www.ravishankar.org/

il Tao della programmazione: Libro 2 - Gli Antichi Maestri

Geoffrey James, 1987
Libro 2 - Gli Antichi Maestri

Così parlò il maestro programmatore:

"Dopo tre giorni senza programmare, la vita diventa priva di significato."

2.1

Gli antichi programmatori erano misteriosi e profondi. Non possiamo sondare i loro pensieri, così tutto quello che possiamo fare è descrivere il loro aspetto.

Attenti, come una volpe che attraversa un corso d'acqua. All'erta, come un generale nel campo di battaglia.

Gentili, come un'albergatrice che saluta i suoi ospiti. Semplici, come blocchi di legno non lavorato. Opachi, come pozze nere in caverne buie.

Chi può rivelare i segreti del loro cuore e della loro mente?

La risposta esiste solo nel Tao.

2.2

Il Grande Maestro Turing una volta sognò di essere una macchina. Quando si svegliò esclamò:

"Non so se sono Turing che sogna di essere una macchina, o una macchina che sogna di essere Turing!"

2.3

Un programmatore di una grossa ditta di software andò a una conferenza e poi tornò per fare rapporto al suo manager, dicendo: "Che razza di programmatori lavorano per le altre ditte? Si comportavano male e non erano interessati al loro aspetto. Avevano i capelli lunghi e non curati e indossavano abiti vecchi e stropicciati. Hanno rovinato la sala degli ospiti, e facevano rumori maleducati durante la mia presentazione."

Il manager disse: "Non avrei mai dovuto mandarti alla conferenza. Quei programmatori vivono oltre il mondo fisico. Considerano la vita assurda, una coincidenza accidentale. Vanno e vengono senza conoscere limitazioni. Senza preoccupazioni, vivono solo per i loro programmi. Perchè dovrebbero preoccuparsi delle convenzioni sociali?"

"Sono vivi all'interno del Tao."

2.4

Un novizio chiese al Maestro: "Qui c'è un programmatore che non organizza, documenta nè testa i suoi programmi. Eppure tutti quelli che lo conoscono lo considerano uno dei migliori programmatori del mondo. Perchè?"

Il Maestro rispose: "Quel programmatore padroneggia il Tao. E' andato oltre la necessità di organizzazione; non si arrabbia quando il sistema va in crash, ma accetta l'universo senza preoccupazione. E' andato oltre la necessità di documentazione; non si preoccupa più se qualcun altro vede il suo codice. E' andato oltre la necessità di testare i suoi programmi; ognuno di essi è perfetto in sè stesso, sereno ed elegante, il loro scopo è palese. E' veramente penetrato nel mistero del Tao."

Il Tao della Programmazione: Libro 1

il Tao che non si può beffare - III

Francois Xavier Fabre, Oedipus and the Sphinx, c. 1806-08, Dahesh Museum of Art, NYX
II Contradictory and Conflicting Themes
Another mental characteristic of larger systems can be exemplified from themes of Greek drama. In that complex corpus of shared ideas, there existed side by side with the Oresteia a second cross-generational sequence of myths bound together by the concept of anangke and starting from a specific act. Cadmus incurred the wrath of Ares by killing a sacred serpent, and this set the stage for repeated episodes of trouble in the royal house of Thebes. Eventually, the oracle at Delphi predicted that Laius, king of Thebes, would have a son who would kill him and marry his own mother, Jocasta, the wife of Laius.
Laius the tried to thwart the oracle and thus, in spite of himself, precisely brought on himself the working out of the tragic necessity. First he refused sexual contact with Jocasta to avoid the begetting of the son who would kill him. But she made him drunk and the child was begotten. When the baby was born, Laius commanded that he be bound and abandoned on the mountainside. But again Laius‘ plan failed. The baby was found by a shepherd and adopted by Polybus, king of Corinth. The boy was named Oedipus, or Swollen Footed, because the baby‘s feet were swollen from being tied together when he was exposed on the mountain.
As Oedipus grew up, he was taunted by the other boys, who said he did not resemble his father He therefore went to Delphi for an explanation and was condemned by the oracle as the boy fated to kill his father and marry his mother. Oedipus, not knowing that he was an adopted child and believing that Polybus was his true father, then fled. He would not return to Corinth lest he should kill.
Fleeing thus, he met with an unknown man in a chariot who rudely refused him right of way. He killed that unknown man, who was in fact Laius, his true father. Proceeding on his way, he encountered a Sphinx outside Thebes and answered her riddle: “What is it that walks first on four legs, then on two, and finally on three?” The Sphinx then destroyed herself, and Oedipus found himself suddenly a hero who had conferred a great benefit upon the city of Thebes. He became king of that city by marrying Jocasta. By her he had four children. Finally, plague struck the city and the oracle attributed the cause of the plague to one man‘s horrible action. Oedipus insisted on investigating this matter, although the blind sage Tiresias had advised him to let sleeping dogs lie. The truth was finally exposed. Oedipus, the king of Thebes, was himself the man who had killed his father and married his mother. Jocasta then hanged herself in horror and Oedipus blinded himself with a pin from her scarf.
Oedipus was exiled from Thebes and wandered the world, accompanied by his daughter Antigone. Finally, old and blind, he arrived at Colonos, outside Athens. There he mysteriously vanished in the groves sacred to the Furies, presumably accepted by them into their afterlife.
It is immediately interesting to note a formal contrast between this tale and the Orestes sequence, for Oedipus went spontaneously to the grove of the Furies, whereas Orestes was chased by them. This contrast is explained in the finale of Aeschylus‘ Orestes trilogy, where Athena lays down the law that Athens is a patriarchal society in which wives are not fully kin to their offspring, who remain in the gens, or clan, of the father. The mother is a “stranger” and matricide is therefore no crime. (After all, Athena never had a mother; she sprang fully armed from the head of her father, Zeus.) The Furies, on the other hand, matriarchal goddesses, will forgive Oedipus, the boy who kills his father and has four children by his mother, but will not pardon Orestes the matricide.
In fact, the culture of classical Athens carried two utterly contrasting mythological sequences, The Oedipus sequence, which is the nightmare of crime against the father, and the Orestes nightmare of crime against the mother.
I personally am dissatisfied with Athena‘s explanation, in which she dismisses the Furies as a bunch of old hags, obsolete survivors of a more primitive matriarchy. As an anthropologist, I do not believe that there ever existed any society that was one hundred percent matriarchal not any that was one hundred percent patriarchal. In many societies, kinship is asymmetrical, so that a different kind of relationship is developed on each side of the genealogy. The child has different obligations and privileges vis-à-vis his maternal uncles from those implicit in his relationship with paternal uncles. But always there are benefits and duties on both sides. The whole play, Aeschylus‘ Eumenides, is very strange, and also is the Oedipus at Colonos of Sophocles. I can only read the Eumenides as either extremely jingoistic Athenian patriotism, or, more probably, a caricature of that patriotism. The Colonos, on the other hand, is surely a very serious piece, no less patriotic than the Eumenides, since it, too, deals with the ancient history of the city of Athens. Strangely, the members of the audience are expected to understand the old, blind Oedipus is now a sacred figure and there is almost a war brewing between Oedipus‘ descendants in Thebes and Theseus, the founder of the new city of Athens. Both parties want Oedipus to die on their national territory and to become somehow a guardian spirit for that land.
My suspicion – and it is to illustrate this that I have introduced the tales – is that each myth owes something to the other, and they are a balancing pair that is a product jointly of a culture divided in its emphasis on matriarchy or patriarchy. I would ask whether this double expression of the conflicting views is not somehow typical of the divided larger mind.
The syncretic dualism of Christian mythology provides a similar but more astonishing example. Jehovah is clearly a transcendent god of Babylonian times whose location is on top of an artificial mountain, or ziggurat. Jesus, in clear contrast, is a deity whose location is in the human breast. He is an incarnate deity, like Pharoah and like every ancient Egyptian who was addressed in mortuary ceremonies as Osiris.
It is not that one or the other of these double phrasings is right, or that it is wrong to have such double myths. What seems to be true is that it is characteristic of large cultural systems that they carry such double myths and opinions, not only with no serious trouble, but perhaps even reflecting in the latent contradictions some fundamental characteristic of the larger mentality.
In this connection, Greek mythology is especially interesting because its stories did not draw the line between the more secular and human gestalten and the larger themes of fate and destiny the same way as these lines are drawn among us today. The Greek classification was different from ours. Greek gods are like humans, they are puppets of fate just like people, and the interaction between the forces of what seems a larger mind and mere gods and humans is continually being pointed out by the chorus. They see that the gods and heroes and themselves are alike puppets of fate. The gods and heroes in themselves are as secular as our superman, whom indeed they somewhat resemble.
In mythology and especially drama, the eerie and the mysterious – the truly religious overtones – are contained in such abstractions as anangke or nemesis. We are told rather unconvincingly that Nemesis is a goddess and that the gods will punish the arrogance of power which is called hubris. But in truth these are the names of themes or principles, which give an underlying religious flavour to life an drama; the gods are at most the outward, though not visible, symbols of these more mysterious principles. A similar state of affairs exists in Balinese religion, where, however, the gods are almost totally drained of all personal characteristics. They (except for Rangda, the Witch, and Barong, or dragon) have only names, directions, colors, calendric days, and so on. In dealing with each of them it is the appropriate etiquette that is important.