mercoledì 16 ottobre 2013

Tao beyond passion




I often watched you the way you whore yourself/You're so beautiful/You flirt, tease, enviously I wish you'd flirt with me.

Perhaps I'm enticed by what you are/I imagined us jumpin' the broom, foolish I know/'Cause that's not the life you live.

You live alone in a crowded bed never remembering faces

Conversations just a body for the lonely

Spend one night with me satisfy me for free and I'll love you endlessly

I overheard you say you'd give them what they wanted

So give me what I want

Tell me I'm the only one

I want to marry you

Tell me I'm the only one

In a harlot's dress you wear the smile of a child with the faith of

Mary Magdalene

Yet you wash the feet of unworthy men

Come and I'll set you free into an endless valley of fruits both sweet and sour

And whatever displeases your palate my kisses will wash away

Stay. If you must dance, dance for me

Blessed are the pure at heart for they shall see god so close your eyes and dream

For the world will blind you and I'll judge not so that I may not be judged

Please give me what I want

Tell me I'm the only one

I want to marry you

Tell me I'm the only one

martedì 15 ottobre 2013

Tao dal profondo


Il settimo libro di Carlos Castaneda, del 1984, riprende e approfondisce una serie di punti dei libri precedenti, in particolare la storia della tradizione a cui i maestri di Castaneda si rifanno, quella degli "antichi Toltechi", e un modello della percezione umana descritta come un uovo luminoso che i veggenti possono percepire e manipolare per entrare in stati di coscienza sempre più alieni da questo mondo.
American Museum of Natural History collection
I NUOVI VEGGENTI

Avevo trascorso la notte nella città di Oaxaca, nel Messico meridionale, diretto ai monti di Ixtlan in cerca di don Juan. Uscendo dalla città con la macchina, alle prime ore del mattino, ebbi la bella idea di passare dalla piazza principale e lì lo trovai, seduto sulla sua panchina preferita come se stesse aspettando che io passassi.
Fermai la macchina e mi unii a lui. Mi disse che si trovava in città per affari, che era alloggiato in una pensione del luogo e che sperava potessi fermarmi con lui poiché doveva restare in città per altri due giorni. Per un po' parlammo delle mie attività e dei problemi del mondo accademico.
Come suo solito, all'improvviso mi diede una manata sulla spalla, quando meno me lo aspettavo, e il colpo mi fece entrare in uno stato di consapevolezza intensa.
Restammo seduti a lungo in silenzio. Io aspettavo con ansia che cominciasse a parlare e tuttavia, quando lo fece, mi prese alla sprovvista.
"Molto prima che gli spagnoli giungessero in Messico" disse "c'erano degli straordinari veggenti toltechi, uomini capaci di azioni incredibili. Erano l'ultimo anello di una catena di conoscenza lunga mille anni.
"Questi veggenti toltechi erano uomini straordinari; sciamani potenti, cupi e ossessionati, che sceveravano misteri e conoscevano segreti arcani che utilizzavano per influenzare o soggiogare chi cadeva in mano loro. Sapevano come immobilizzare l'attenzione delle proprie vittime e fissarla a proprio piacimento.
Finì di parlare e mi guardò. Capii che si aspettava che gli facessi una domanda, ma non sapevo che cosa domandare.
"Devo sottolineare un fatto importante," prosegui "il fatto che quegli sciamani sapessero come immobilizzare l'attenzione delle proprie vittime. Tu non vi hai dato importanza quando io l'ho menzionato, sei rimasto indifferente. Non c'è da meravigliarsi. Una delle cose più difficili da ammettere è che la consapevolezza possa essere manipolata."
Mi sentii confuso. Sapevo che mi stava guidando verso qualcosa. Provavo un'apprensione familiare, lo stesso sentimento che mi assaliva ogni qualvolta don Juan cominciava un nuovo ciclo di lezioni.
Gli dissi come mi sentivo. Accennò un vago sorriso. Di solito, quando sorrideva, emanava felicità; stavolta era decisamente preoccupato. Per un attimo sembrò incerto se continuare a parlare o no. Di nuovo mi guardò con attenzione, facendo scorrere lo sguardo, con estrema lentezza, su tutto il corpo. Apparentemente soddisfatto, assentì col capo e disse che ero pronto a intraprendere la tappa finale; l'apprendistato che tutti i guerrieri devono superare per comprendere la via della conoscenza.
"Parleremo della consapevolezza" continuò "I veggenti toltechi, infatti, furono i supremi maestri dell'arte della percezione. Quando dico che sapevano come immobilizzare l'attenzione delle proprie vittime, voglio dire che la loro conoscenza e le loro pratiche segrete li mettevano in grado di infrangere il mistero della percezione. Molte loro pratiche sono giunte fino ai giorni nostri, fortunatamente in forma modificata. Dico fortunatamente perché quelle attività, come avrò occasione di spiegarti, non portarono gli antichi veggenti toltechi alla libertà ma alla rovina."
"Lei conosce quelle pratiche?" chiesi.
"Ma certamente" replicò. "Non v'è modo, per noi, di ignorare quelle tecniche, ma ciò non vuol dire che noi le usiamo. Noi abbiamo altre idee. Apparteniamo a un nuovo ciclo."
"Ma lei non si considera uno stregone, vero, don Juan?" gli chiesi.
*No" disse. "Io sono un guerriero che vede. A dir la verità, tutti noi siamo i nuovi veggenti. Gli antichi veggenti erano stregoni."
"Per l'uomo comune" proseguì "la stregoneria è un fattore negativo e tuttavia affascinante. Ecco perché, nel tuo stato di consapevolezza normale, ti ho sempre indotto a ritenerci stregoni. E' saggio farlo. Serve ad attirare l'interesse. Ma, per noi, essere stregoni sarebbe come entrare in un vicolo cieco."
Avrei voluto sapere cosa volesse dire con quelle parole, ma lui si rifiutò di parlare su quell'argomento. Disse che sarebbe tornato su quel tema con spiegazioni a mano a mano che sarebbe avanzato nell'analisi della percezione.
Gli chiesi dell'origine della conoscenza dei toltechi.
"I toltechi fecero il primo passo sulla via della conoscenza ingerendo piante di potere" rispose. "Le mangiarono spinti dalla curiosità o dalla fame o per sbaglio. Una volta che le piante ebbero prodotto il loro effetto, fu solo questione di tempo prima che alcuni di loro cominciassero ad analizzare le propriee sperienze. Secondo me, i primi che percorsero la via del sapere furono molto intrepidi ma anche molto sventati."
"Queste sono tutte congetture da parte sua, don Juan?"
"No, non sono affatto mie congetture. Sono veggente, e quando mi concentro su quell'epoca so tutto ciò che accadde." "Lei può vedere i particolari delle cose del passato?" chiesi.
"Vedere è una sensazione particolare del sapere," rispose sapere qualcosa senza il minimo dubbio. In questo caso so quel che fecero quegli uomini non solo per la mia veggenza ma perché siamo tanto strettamente legati." Don Juan allora mi spiegò che il suo uso del termine "tolteco" non corrispondeva al mio. Per me significava una cultura, l'impero tolteco. Per lui, il lemma voleva dire "uomodi conoscenza". Disse che nell'epoca a cui si riferiva, secoli forse anche millenni prima della conquista spagnola, tutti quegli uomini di conoscenza vivevano all'interno di una vasta area geografica, a nord e a sud della valle del Messico, e si dedicavano a specifiche occupazioni: curare, fare incantesimi, raccontar storie, danzare, formulare oracoli, preparare cibi e bevande. Tali occupazioni favorivano una conoscenza particolare, una conoscenza che li differenziava dagli uomini comuni. D'altro canto, questi toltechi erano persone che si inserivano nella struttura della vita quotidiana proprio come nella nostra epoca fanno i medici, gli artisti, gli insegnanti, i sacerdoti e i commercianti. Esercitavano le loro professioni sotto il rigoroso controllo di confraternite organizzate e giunsero a essere cosi saggi e influenti da dominare quasi certamente anche le zone limitrofe. Don Juan disse che,dopo aver usato per secoli le piante di potere, alcuni di questi uomini appresero finalmente a vedere. I più intraprendenti cominciarono allora a insegnare a vedere. E questo fu l'inizio della loro perdizione. Con il passar del tempo aumentò il numero dei veggenti e l'ossessione di vedere giunse a tal punto d'intensità che essi smisero di essere uomini di conoscenza. Divennero esperti in veggenza e nell'esercitare controllo sui mondi strani di cui erano testimoni, ma tutto inutilmente. Vedere aveva sminuito il loro potere, forzandoli nell'ossessione per quel che vedevano. "Tuttavia ci furono veggenti che sfuggirono a quel destino,"prosegui don Juan" grandi uomini che, nonostante vedessero, non smisero mai di essere uomini di conoscenza. Sono convinto che, sotto la loro direzione, le popolazioni di intere città penetrarono nei mondi che vedevano; e non tornarono mai più."
"Però i veggenti che potevano solo vedere furono un disastro e quando la loro terra fu invasa dai conquistatori si trovarono privi di difesa proprio come tutti gli altri. "Questi conquistatori" continuò "si impadronirono del mondo tolteco, si impossessarono di tutto, ma non impararono mai a vedere."
"Perché crede che non abbiano mai imparato a vedere?" domandai.
"Perché copiarono i metodi dei veggenti toltechi senza avere quella conoscenza interiore che vi si accompagnava. Ancora oggi c'è in tutto il Messico una quantità di stregoni, discendenti dei conquistatori, che continuano a imitare i toltechi ma senza sapere quel che fanno o quel che dicono, perché non sono veggenti."
"Chi furono questi conquistatori, donJuan?"
"Altri indios" disse. "Quando giunsero gli spagnoli, gli antichi veggenti erano spariti da secoli. Quelli che gli spagnoli incontrarono appartenevano a una nuova stirpe di veggenti che cominciavano ad assicurarsi una loro posizione del nuovo ciclo."
"Che cos'è una nuova stirpe di veggenti?".
"Dopo la distruzione del mondo dei primi toltechi, i veggenti sopravvissuti andarono in reclusione iniziando un'attenta analisi dei propri metodi. Per prima cosa stabilirono che l'agguato, il sogno e l'intento erano i procedimenti chiave e quindi interruppero l'uso delle piante di potere; forse questo ci dà una certa idea di quale effetto ebbero realmente su di loro le piante di potere."
"Il nuovo ciclo stava appena cominciando a consolidarsi quando i conquistatori spagnoli distrussero tutti. Per fortuna i nuovi veggenti erano perfettamente preparati a far fronte al pericolo. Erano già esperti praticanti dell'arte dell'agguato"
Don Juan disse che i secoli successivi al soggiogamento fornirono ai nuovi veggenti le circostanze ideali per perfezionare le proprie abilità. Per strano che possa sembrare, fu proprio l'estremo rigore e la coercizione di questo periodo a dar loro l'impulso per affinare i loro nuovi principi. E poiché non divulgavano mai le loro attività, rimasero liberi di esplorare e tracciare il corso delle proprie azioni.
"C'erano molti veggenti durante la Conquista?"chiesi.
"All'inizio ce ne erano molti. Nell'epoca coloniale solo un numero esiguo. Il resto era stato sterminato."
"Qual é la situazione ai giorni nostri?"
"Ce n'è qualcuno. Come comprenderai, sono sparsi qua e là"

"Lei,don Juan, li conosce?"
"Una domanda cosi facile è la più difficile a cui rispondere" replicò. "Ce ne sono alcuni che noi conosciamo molto bene. Però non sono esattamente come noi perché si sono concentrati su altri aspetti specifici della conoscenza, come danzare, curare, fare incantesimi, parlare, invece di quel che raccomandano i nuovi veggenti: l'agguato, il sogno, l'intento. Quelli che sono esattamente come noi non attraverseranno la nostra strada. Decisero così i veggenti vissuti durante la colonizzazione spagnola per evitare di essere sterminati dai conquistatori. Ognuno di quei veggenti diede inizio a una stirpe. Non tutti ebbero discendenti, di modo che ne restano molto pochi."
"Lei non ne conosce qualcuno che sia esattamente come noi?"
"Qualcuno" rispose laconicamente.
Gli chiesi allora di darmi tutte le informazioni possibili poiché l'argomento per me rivestiva un interesse esistenziale; era di cruciale importanza conoscere nomi e indirizzi per convalidare e corroborare quanto mi andava dicendo.
Don Juan non sembrava propenso ad accontentarmi.
"I nuovi veggenti superarono tutte quelle prove" disse "La metà, corroborando ci rimise la pelle. Tanto che ora son passeri solitari. Lasciamola così. Tutto quello di cui possiamo parlare è la nostra schiatta. Sull'argomento, tu e io possiamo dire quanto vogliamo.
Mi spiegò che tutte le stirpi di veggenti furono iniziate nel medesimo modo e momento. Verso la fine del sedicesimo secolo ogni nagual si isolò deliberatamente con il proprio seguito di veggenti, in modo da non avere alcun aperto contatto con altri veggenti. La conseguenza di questa drastica segregazione fu la formazione di stirpi individuali. La nostra consisteva di quattordici nagual e centoventisei veggenti, disse. Alcuni di questi nagual avevano un seguito di sette veggenti, altri di undici e altri perfino di quindici.
Mi disse che il suo maestro o - come lo chiamava lui - il suo benefattore, era il nagual Juliàn, e prima di Juliàn era stato il nagual Elias. Gli chiesi se sapesse i nomi di tutti i quattordici nagual. Me li nominò ed enumerò perché sapessi chi erano. Disse anche di aver conosciuto personalmente i quindici veggenti che costituivano il gruppo del suo benefattore; disse inoltre di aver conosciuto il maestro del suo benefattore, il nagual Elias, e gli undici veggenti del suo gruppo.
Don Juan mi assicurò che la nostra stirpe era abbastanza eccezionale, poiché aveva subito un drastico cambiamento nel 1723. Un'influenza esterna ci aveva colpito, alterando in modo inesorabile il corso della nostra vita. Al momento egli non desiderava parlare dell'evento in sé, però disse che, a partire da quell'istante, la nostra stirpe aveva segnato un nuovo inizio e che egli considerava gli otto nagual che avevano governato da allora in po intrinsecamente differenti dai sei che li avevano preceduti.

mercoledì 9 ottobre 2013

Tao boson award

François Englert (left) and Peter Higgs at CERN on 4 July 2012, on the occasion of the announcement of the discovery of a Higgs boson by the ATLAS and CMS experiments (Image: Maximilien Brice/CERN)
CERN congratulates François Englert and Peter W. Higgs on the award of the Nobel prize in physics “for the theoretical discovery of a mechanism that contributes to our understanding of the origin of mass of subatomic particles, and which recently was confirmed through the discovery of the predicted fundamental particle, by the ATLAS and CMS experiments at CERN’s Large Hadron Collider.” The announcement by the ATLAS and CMS experiments took place on 4 July last year.
“I’m thrilled that this year’s Nobel prize has gone to particle physics,” says CERN Director-General Rolf Heuer. “The discovery of the Higgs boson at CERN last year, which validates the Brout-Englert-Higgs mechanism, marks the culmination of decades of intellectual effort by many people around the world.”
Members of the ATLAS and CMS collaborations react with jubilation at CERN as the announcement is made (Image: Maximilien Brice/CERN)
The Brout-Englert-Higgs (BEH) mechanism was first proposed in 1964 in two papers published independently, the first by Belgian physicists Robert Brout and François Englert, and the second by British physicist Peter Higgs. It explains how the force responsible for beta decay is much weaker than electromagnetism, but is better known as the mechanism that endows fundamental particles with mass. A third paper, published by Americans Gerald Guralnik and Carl Hagen with their British colleague Tom Kibble further contributed to the development of the new idea, which now forms an essential part of the Standard Model of particle physics. As was pointed out by Higgs, a key prediction of the idea is the existence of a massive boson of a new type, which was discovered by the ATLAS and CMS experiments at CERN in 2012.
The Standard Model describes the fundamental particles from which we, and all the visible matter in the universe, are made, along with the interactions that govern their behaviour. It is a remarkably successful theory that has been thoroughly tested by experiment over many years. Until last year, the BEH mechanism was the last remaining piece of the model to be experimentally verified. Now that it has been found, experiments at CERN are eagerly looking for physics beyond the Standard Model.
The Higgs particle was discovered by the ATLAS and CMS collaborations, each of which involves over 3000 people from all around the world. They have constructed sophisticated instruments – particle detectors – to study proton collisions at CERN’s Large Hadron Collider (LHC), itself a highly complex instrument involving many people and institutes in its construction.

i grandi processi del Tao - V

Albrecht Dürer, Face transformations,1528.
I GRANDI PROCESSI STOCASTICI.

6. L'OMOLOGIA.

A questo punto voglio lasciare i problemi della genetica individuale, del cambiamento somatico e dell'apprendimento e i percorsi immediati dell'evoluzione, per considerare i risultati dell'evoluzione su scala più ampia. La mia domanda ora è: che cosa possiamo dedurre dal più ampio quadro della filogenesi circa i processi sottostanti?
L'anatomia comparata ha una lunga storia. Per almeno sessant'anni, dalla pubblicazione dell'"Origine delle specie" fino agli Anni Venti, essa si concentrò sulle correlazioni, escludendo il processo. Il fatto che si potessero costruire alberi filogenetici era considerato una prova a sostegno della teoria di Darwin. La documentazione fossile era inevitabilmente molto incompleta e, in assenza di tali prove dirette di discendenza, gli anatomisti cercavano con avidità insaziabile esempi di quella classe di somiglianze chiamata "omologia". L'omologia 'dimostrava' le correlazioni e le correlazioni erano l'evoluzione.
Naturalmente le somiglianze formali tra le cose viventi erano state notate almeno fin da quando si era sviluppato il linguaggio, che classificava la mia 'mano' con la vostra 'mano', e la mia 'testa' con la 'testa' di un pesce. Ma solo assai più tardi ci si rese conto che era necessario dare una spiegazione di queste somiglianze formali. Ancor oggi, i più non trovano nulla di sorprendente nella somiglianza tra le due mani, non ci vedono alcun problema. Essi non sentono o non vedono alcun bisogno di una teoria dell'evoluzione. Per i più riflessivi tra gli antichi, e anche per gli uomini del Rinascimento, la somiglianza formale tra le creature illustrava il collegamento con la Grande Catena dell'Essere, e queste connessioni erano legami logici, non genealogici.
Comunque sia, il brusco passaggio logico dalla somiglianza formale alla correlazione nascondeva tutta una serie di ipotesi troppo affrettate. Ammettiamo pure la somiglianza formale in migliaia di casi (uomo e cavallo, aragosta e granchio), e accettiamo l'assunto che in questi casi le somiglianze formali non sono una semplice prova ma, tali e quali, "il risultato di" una relazione evolutiva. Possiamo allora passare a domandarci se la natura delle somiglianze riscontrate in questi casi getti luce sul processo evolutivo.
Domandiamo: che cosa ci dicono le omologie circa il "processo" dell'evoluzione? Quando confrontiamo la nostra descrizione dell'aragosta con quella del granchio, troviamo che alcune componenti sono uguali in entrambe le descrizioni e altre invece differiscono. Pertanto il nostro primo passo consisterà sicuramente in una distinzione tra specie diverse di cambiamento. Alcuni cambiamenti verranno riconosciuti come più probabili e facili; altri saranno più difficili e perciò più improbabili. In un mondo siffatto le variabili che variano più lentamente rimangono indietro e potrebbero diventare il nucleo di quelle omologie su cui sarebbe possibile basare le più ampie ipotesi della tassonomia.
Ma questa prima classificazione dei cambiamenti in "rapidi" e "lenti" richiederà a sua volta una spiegazione. Che cosa possiamo aggiungere alla nostra descrizione del processo evolutivo che ci permetta, forse, di prevedere quali saranno di fatto le variabili più lente, che così diventeranno la base dell'omologia?
Per quanto ne so, l'unico abbozzo di una classificazione siffatta è implicito nella teoria della cosiddetta ricapitolazione.
Il germe della teoria della ricapitolazione fu offerto per la prima volta nel 1828 da uno dei primi embriologi, il tedesco Karl Ernst von Baer, che parlò di “legge degli stadi corrispondenti”. Egli dimostrò questa legge ricorrendo al confronto di embrioni di vertebrati non catalogati:
“Non sono affatto in grado di dire a quale classe essi appartengano. Potrebbero essere lucertole o uccellini o mammiferi giovanissimi, tanto completa è la somiglianza, in questi animali, del modo in cui si formano la testa e il tronco. Le estremità sono ancora assenti, ma anche se esistessero, nel primo stadio di sviluppo non ci insegnerebbero nulla, poichè‚ nascono tutte dalla stessa forma fondamentale”.
In seguito, il concetto di “stadi corrispondenti” di von Baer fu ampliato da Ernst Haeckel, contemporaneo di Darwin, che ne ricavò la teoria della ricapitolazione e la tanto discussa asserzione che “l'ontogenesi ripete la filogenesi”. Da allora ne sono state proposte formulazioni molto diverse. La più prudente è forse l'asserzione che le larve e gli embrioni di una data specie di solito assomigliano alle "larve" di una specie affine più di quanto gli adulti dell'una specie non assomiglino agli adulti dell'altra. Ma perfino questa formulazione così prudente è guastata da vistose eccezioni.
Tuttavia, nonostante le eccezioni, sono incline a ritenere che l'asserzione generale di von Baer fornisca un indizio importante per determinare il processo evolutivo. Giusta o sbagliata, la sua asserzione solleva importanti interrogativi sulla sopravvivenza non degli organismi bensì dei tratti caratteristici: esiste un massimo comun denominatore fra quelle variabili che diventano stabili e che perciò sono state usate dagli zoologi nella ricerca dell'omologia? La legge degli stadi corrispondenti ha un vantaggio sulle formulazioni successive in quanto il suo autore non si preoccupava di stabilire alberi filogenetici, e perfino la breve citazione riportata sopra contiene spunti particolari che sfuggirebbero a un detective filogenetico. E' possibile che le variabili dell'embrione siano più durevoli di quelle dell'adulto?
Von Baer si occupa dei vertebrati superiori: lucertole, uccelli e mammiferi, creature il cui embrione è protetto dentro un guscio d'uovo pieno di nutrimento o dentro un utero. Con le larve degli insetti, per esempio, la dimostrazione di von Baer semplicemente non funzionerebbe. A qualsiasi entomologo, basterebbe un'occhiata a una serie di larve di coleottero prive di indicazioni, per saper dire subito a quale famiglia appartiene ciascuna. La diversità tra le larve è appariscente quanto la diversità tra gli adulti.
La legge degli stadi corrispondenti vale, apparentemente, non solo per gli embrioni interi di vertebrati, ma anche per gli arti successivi nei primissimi stadi del loro sviluppo. La cosiddetta omologia seriale ha in comune con l'omologia filogenetica il fatto generale che, nel complesso, "le somiglianze precedono le differenze". La chela di un'aragosta adulta differisce notevolmente dalle appendici deambulatorie degli altri quattro segmenti del torace, ma nei primi stadi tutte le appendici toraciche avevano lo stesso aspetto.
Forse dovremmo spingere l'asserzione generale di von Baer fin qui e non oltre, e affermare che, in genere, la somiglianza è "più antica" (sia nella filogenesi sia nell'ontogenesi) della differenza. Per alcuni biologi questa suonerà come una verità lapalissiana, come se si dicesse che, in qualunque sistema ramificato, due punti prossimi al punto di diramazione sono più simili tra loro che non due punti da esso lontani. Ma questa verità apparentemente lapalissiana non sarebbe valida per gli elementi del sistema periodico e non sarebbe necessariamente valida in un mondo biologico prodotto dalla creazione speciale. La nostra verità lapalissiana è in effetti una prova a sostegno dell'ipotesi che gli organismi devono veramente essere messi in relazione tra loro come punti o posizioni su un albero ramificato.
L'asserzione generale che la somiglianza è più antica della differenza è peraltro una spiegazione assai incompleta della presenza dell'omologia in migliaia di casi in tutto il mondo biologico. Quando si dice che le somiglianze sono più antiche delle differenze, non si fa che riproporre la domanda: “perchè‚ certe caratteristiche diventano la base dell'omologia?”, cambiandone la formulazione in: “perchè‚ certe caratteristiche diventano più vecchie, sopravvivendo più a lungo, e diventano così la base dell'omologia?”.
Siamo davanti a un problema di "sopravvivenza", non la sopravvivenza di specie o di varietà che lottano in un mondo ostile di altri organismi, ma una più sottile sopravvivenza di "tratti" (elementi di descrizione) che devono sopravvivere tanto in un ambiente esterno quanto in un mondo interno di altri tratti, nell'ambito generale della riproduzione, dell'embriologia e dell'anatomia dell'organismo. Nella complessa trama della descrizione che lo scienziato dà di tutto l'organismo, perchè‚ certe parti di questa descrizione rimangono vere più a lungo (per più generazioni) di altre parti? E vi è coincidenza, sovrapposizione o sinonimia tra le parti della descrizione e le parti dell'aggregato delle direttive che determinano l'ontogenesi?
Se un elefante avesse la dentatura e le altre caratteristiche formali dei membri della famiglia dei Muridi, sarebbe un topo, nonostante la sua mole. E in realtà l'irace, che è grosso come un gatto, è assai vicino all'ippopotamo, e il leone è assai vicino a un micio. La grandezza in sé sembra avere pochissima importanza: ciò che conta è la forma. Ma che cosa si intenda esattamente in questo contesto per 'forma' o 'struttura' non è facile da definire.
Siamo alla ricerca di criteri mediante i quali riconoscere i tratti che sono a buon diritto candidati a una verità che perdura nel tumulto del processo evolutivo. Due caratteristiche di questi tratti fanno spicco - due maniere tradizionali di suddividere il vasto campo delle 'differenze': la dicotomia tra struttura e quantità e la dicotomia tra continuità e discontinuità. Organismi molto differenti sono collegati tra loro da una serie continua di passaggi, oppure dall'uno all'altro vi è una brusca transizione? Immaginare una transizione graduale fra strutture è arduo (ma non impossibile) e perciò queste due dicotomie probabilmente si sovrappongono. Ci si può, quanto meno, aspettare che i teorici che preferiscono ricorrere alla struttura preferiscano anche teorie che facciano ricorso alla discontinuità. (Ma naturalmente queste preferenze, che dipendono solo dalle propensioni mentali del singolo scienziato o che seguono la moda corrente, sono da biasimare).
A mio giudizio, le scoperte più chiare a questo proposito sono le eleganti dimostrazioni compiute dallo zoologo D'Arcy Wentworth Thompson all'inizio di questo secolo. Egli dimostrò che in molti casi, forse in tutti i casi da lui esaminati, due forme animali contrastanti ma correlate hanno in comune questo: che se una delle forme è disegnata (per esempio nelle sue linee di contorno) su un comune sistema di coordinate cartesiane ortogonali (per esempio su carta quadrettata), le stesse coordinate, previa un'opportuna incurvatura o distorsione, potranno accogliere l'altra forma. Tutti i punti del contorno della seconda forma cadranno sui punti delle coordinate incurvate aventi lo stesso nome.
Illustration from page 1062, volume II, chapter XVII, of On Growth and Form by D'arcy Wentworth Thompson. Cambridge University Press
Ciò che è importante nelle scoperte di D'Arcy Thompson è che in ogni caso la distorsione è sorprendentemente semplice e persiste identica in tutta la raffigurazione dell'animale. L'incurvatura delle coordinate è tale da poter essere descritta con una semplice trasformazione matematica.
Questa semplicità e questa persistenza devono sicuramente significare che le "differenze" tra i fenotipi rivelate dal metodo di D'Arcy Thompson vengono rappresentate da un numero limitato di differenze del genotipo (cioè da un numero limitato di geni).
Inoltre, la persistenza della stessa distorsione in tutto il corpo dell'animale farebbe pensare che i geni in questione siano pleiotropici (cioè influenzino molte parti del fenotipo, forse "tutte", in modi che, in questo senso particolare, risultano armoniosi in tutto il corpo).
Spingersi oltre nell'interpretazione di queste scoperte non è così semplice, e lo stesso D'Arcy Thompson non ci è di molto aiuto. Egli è felicissimo che la matematica si dimostri capace di descrivere certe specie di cambiamento.
A questo proposito è interessante notare l'attuale controversia tra i sostenitori della teoria 'sintetica' dell'evoluzione (l'attuale darwinismo ortodosso) e i loro avversari, i 'tipologi'. Ernst Mayr, per esempio, dichiara schernendo la cecità dei tipologi: “La storia dimostra che il tipologo non ha e non può avere alcuna comprensione della selezione naturale”. Purtroppo egli non cita le fonti da cui ricava la sua identificazione del tipo logico dei suoi colleghi. E' troppo modesto per vantarne la paternità? O non sarà forse che, in questo caso, simile riconosce simile?
Sotto sotto, non siamo tutti tipologisti?
Non v'è dubbio, comunque, che vi sono molti modi di considerare le forme animali. E poichè‚ ci siamo imbarcati in uno studio platonico del parallelismo tra il pensiero creativo e quel vasto processo mentale chiamato "evoluzione biologica", vale la pena chiedersi in ciascun caso: "questo" modo di considerare i fenomeni ha una qualche sua rappresentazione o parallelo entro il sistema di organizzazione dei fenomeni stessi? I messaggi genetici e i segni statici che determinano il fenotipo possiedono quella sorta di sintassi (in mancanza di un termine migliore) che separerebbe il pensiero 'tipologico' da quello 'sintetico '? Tra i messaggi stessi che creano e foggiano le forme animali, possiamo riconoscerne alcuni più tipologici e altri più sintetici?

Albrecht Dürer, Face transformations,1528.
Se la domanda è posta in questa forma, sembra che Mayr sia profondamente "nel giusto" quando propone la sua tipologia. I vecchi disegni di D'Arcy Thompson appunto "separano" due generi di comunicazione all'interno dell'organismo stesso. Essi mostrano che gli animali possiedono due generi di caratteristiche: hanno (a) strutture quasi topologiche relativamente stabili, che hanno comprensibilmente portato gli scienziati a postulare una forte discontinuità nel processo evolutivo. Queste caratteristiche rimangono costanti sotto l'intervento delle (b) caratteristiche quantitative relativamente instabili che si rivelano variabili da una rappresentazione all'altra.
Se tracciamo le coordinate in modo da accomodarvi le caratteristiche quasi topologiche, troviamo che i cambiamenti delle caratteristiche meno stabili devono essere rappresentati come distorsioni delle coordinate.
Nei termini del nostro problema riguardante l'omologia, esistono proprio, a quanto pare, diversi generi di caratteristiche, e l'omologia filogenetica dipenderà sicuramente dalle strutture più stabili e quasi topologiche.












lunedì 7 ottobre 2013

miracoli del Tao


Un miracolo comune:
l'accadere di molti miracoli comuni.

Un miracolo normale:
l'abbaiare di cani invisibili
nel silenzio della notte.

Un miracolo fra tanti:
una piccola nuvola svolazzante,
che riesce a nascondere una grande pesante luna.

Più miracoli in uno:
un ontano riflesso sull'acqua
e che sia girato da destra a sinistra,
e che cresca con la chioma in giù,
e non raggiunga affatto il fondo
benché l'acqua sia poco profonda.

Un miracolo all'ordine del giorno:
venti abbastanza deboli e moderati,
impetuosi durante le tempeste.

Un miracolo alla buona:
le mucche sono mucche.

Un altro non peggiore:
proprio questo frutteto
proprio da questo nocciolo.

Un miracolo senza frac nero e cilindro:
bianchi colombi che si alzano in volo.

Un miracolo – e come chiamarlo altrimenti:
oggi il sole è sorto alle 3,14
e tramonterà alle 20.01

Un miracolo che non stupisce quanto dovrebbe:
la mano ha in verità meno di sei dita,
però più di quattro.

Un miracolo, basta guardarsi intorno:
il mondo onnipresente.

Un miracolo supplementare, come ogni cosa:
l'inimmaginabile
è immaginabile.

(Traduzione di Pietro Marchesani)
Rakowicki Cemetery, Krakow, Malopolskie, Poland

giovedì 3 ottobre 2013

Tao senza fondamenti

Alternative Worlds, OctopusMeatball
La ricerca del Sé e della Coscienza nella prospettiva enazionista porta a considerare "mondi" di coscienza ed esperienza senza fondamento:

WORLDS WITHOUT GROUND

The Middle Way

Evocations of Groundlessness


Our journey has now brought us to the point where we can appreciate that what we took to be solid ground is really more like shifting sand beneath our feet. We began with our common sense as cognitive scientists and found that our cognition emerges from the background of a world that extends beyond us but that cannot be found apart from our embodiment. When we shifted our attention away from this fundamental circularity to follow the movement of cognition alone, we found that we could discern no subjective ground, no permanent and abiding ego-self. When we tried to find the objective ground that we thought must still be present, we found a world enacted by our history of structural coupling. Finally, we saw that these various forms of groundlessness are really one: organism and environment enfold into each other and unfold from one another in the fundamental circularity that is life itself.
Our discussion of enactive cognition points directly toward the heart of our concerns in this chapter and the next. The worlds enacted by various histories of structural coupling are amenable to detailed scientific investigation, yet have no fixed, permanent substrate or foundation and so are ultimately groundless. We must now tum to face directly this groundlessness of which we have had multiple evocations. If our world is groundless, how are we to understand our day-to-day experience within it? Our experience feels given, unshakable, and unchangeable. How could we not experience the world as independent and well grounded? What else could experience of the world mean?
Western science and philosophy have brought us to the point where we are faced with, in the words of the philosopher Hilary Putnam, lithe impossibility of imagining what credible 'foundations' might look like," but they have not provided any way for us to develop direct and personal insight into the groundlessness of our own experience. Philosophers may think that this task is unnecessary, but this is largely because Western philosophy has been more concerned with the rational understanding of life and mind than with the relevance of a pragmatic method for transforming human experience.
Indeed, it is largely a given in contemporary philosophical debate that whether the world is mind-dependent or mind-independent makes little difference, if any, to our everyday experience. To think otherwise would be to deny not only "metaphysical realism" but empirical, everyday commonsense realism, which is absurd. But this current philosophical assumption confuses two very different senses that the term empirical realism can have. On the one hand, it might mean that our world will continue to be the familiar one of objects and events with various qualities, even if we discover that this world is not pregiven and well grounded. On the other hand, it might mean that we will always experience this familiar world as if it were ultimately grounded, that we are "condemned" to experience the world as if it had a ground, even though we know philosophically and scientifically that it does not. This latter supposition is not innocent, for it imposes an a priori limitation on the possibilities for human development and transformation. It is important to see that we can contest this supposition without calling into question the first sense in which things can be said to be real and independent.
The reason this point is important is that our historical situation requires not only that we give up philosophical foundationalism but that we learn to live in a world without foundations. Science alone, that is, science without any bridge to everyday human experience, is incapable of this task. As Hilary Putnam incisively remarks in a recent work, "Science is wonderful at destroying metaphysical answers, but incapable of providing substitute ones. Science takes away foundations without providing a replacement. Whether we want to be there or not, science has put us in the position of having to live without foundations. It was shocking when Nietzsche said this, but today it is commonplace; our historical position - and no end to it is in sight - is that of having to philosophize without 'foundations'."
Although it is true that our historical situation is unique, we should not draw the conclusion that we stand alone in the attempt to learn to live without foundations. To interpret our situation in this way would immediately prevent us from recognizing that other traditions have, in their own ways, addressed this very issue of the lack of foundations. In fact, the problematic of groundlessness is the focal point of the Madhyamika tradition. With one or two exceptions, Western philosophers have yet to draw on the resources of this tradition. Indeed, one often gets the impression that Western philosophers are not simply unfamiliar with Madhyamika but that they suppose a priori that our situation is so unique that no other philosophical tradition could be relevant. Richard Rorty, for example, after thoroughly criticizing the project of foundationalism in his Philosophy and the Mirror of Nature, offers in its place a conception of "edifying philosophy" whose guiding ideal is "continuing the conversation of the West." Rorty does not even pause to consider the possibility of there being other traditions of philosophical reflection that might have addressed his very concerns. In fact, it is one such important tradition, the Madhyamika, which has served as the basis for our thought in this book.

mercoledì 2 ottobre 2013