mercoledì 13 febbraio 2013

il Tao arriva dal buio


Arrivano dal buio

Michele è sveglio fin dalle cinque del mattino. Del resto alle sei cominciano a fare chiasso e movimento. Chissà perché negli ospedali, dove si presume ci sia gente che ha bisogno di riposare e starsene un po’ tranquilla, devono pulire le stanze all’alba, servire la colazione quando ancora è troppo presto per avere lo stomaco in funzione, fare iniezioni in ore che si dovrebbero dedicare alla fase Rem del sonno.
È sveglio e agitato perché fra poco lo dimetteranno. Lascerà quella cameretta che non è certo a cinque stelle, ma nella quale si è sentito protetto per più di tre settimane.
Ventidue giorni, per l’esattezza. Ventidue giorni in cui ha potuto respingere, rimandare, oscurare ogni pensiero sul “dopo”.
Dopo quell’incidente in macchina, un’uscita di strada a cento all’ora con la mente impastata dall’alcol. Dopo la guarigione, o meglio dopo la degenza, perché di guarigione vera, purtroppo, non si potrà parlare: la gamba destra era massacrata, con le ossa che parevano passate in un tritatutto e il ginocchio a pezzi. Forse zoppicherà per tutta la vita, gli hanno detto, e addirittura dovrà aiutarsi col bastone per camminare e provare meno dolore. Quel dolore che gli è stato compagno crudele sempre, dopo l’incidente, di giorno e di notte, smorzato solo dai farmaci. Anche quelli, probabilmente, dovranno accompagnarlo a lungo.
Chiude gli occhi, sospira. Vorrebbe ancora tempo, ancora qualche giorno, anzi qualche settimana in cui rimanere lì, in una specie di limbo ovattato. Perché fuori di lì non c’è niente di buono che lo aspetti.
Il dottor Savelli entra con una cartella clinica in mano, lo saluta con un cenno della testa e legge qualcuno di quei fogli. Con lui c’è una donna di mezza età.
Chissà chi è, non l’ha mai vista. Michele la fissa per qualche secondo, poi chiude gli occhi di nuovo. Forse è dell’assicurazione, o magari della polizia. Nell’incidente non ha coinvolto nessuno, ma gli hanno ritirato la patente per guida in stato di ebbrezza e gli hanno detto che finirà sotto processo. Facciano pure: per quel che gli importa, ormai.
«Come si sente, Contini?» gli chiede il medico.
Lui si stringe nelle spalle, riapre gli occhi e guarda verso la finestra.
«Ha avuto dolore, stanotte?»
«Mi fa sempre un po’ male, ormai ci sono abituato.»
«E il morale come va?»
«Bene.»
Il dottore scambia un’occhiata con la donna, poi si rivolge di nuovo al paziente.
«Bene non direi. Lei sta camminando sull’orlo della depressione, e quella è peggio della gamba e delle costole rotte.»
Michele si stringe di nuovo nelle spalle.
Il medico chiude la cartella. «Oggi lascerà l’ospedale, per quanto mi riguarda è guarito. Le ferite sono rimarginate, le ossa saldate, la riabilitazione avviata. Però io sono solo un ortopedico. Lei di ferite e di fratture ne ha altre, che non si vedono, e bisognerà mettere a posto anche quelle, eh? Le faccio i miei auguri, di tutto cuore, e la lascio in compagnia della dottoressa Varzi: adesso le sue cure sono più importanti delle mie.»
Gli si avvicina, gli stringe la mano ed esce dalla stanza.
La dottoressa lo segue con lo sguardo, poi si gira verso Michele. «Come va?» gli chiede sorridendo.
«Come un minuto fa, quando me l’ha chiesto il dottor Savelli.»
La donna prende una sedia e si accomoda vicino al letto.
«Chi è lei?»
«Una psicologa dell’ospedale.»
Michele sorride storto, scuote la testa e si gira verso il muro.
«Non vuole che parliamo un po’?»
Lui sospira. «Fra un po’ tornerò a casa e mi troverò addosso tanti di quei problemi che... che nessuno mi potrà aiutare, né gli psicologi, né i santi del paradiso. Tutto qui. Non ci sono pillole o sedute che mi guariranno da quella roba.»
«Pillole e sedute potrebbero aiutarla, però. E i problemi che adesso le sembrano tanto grossi, forse così grossi non sono.»
«Che ne sa, lei? Non li conosce.»
«Non li conosco, in effetti. Le va di raccontarmeli?»
«Raccontarglieli? Ci vorrebbe tutto il giorno.»
«Io di fretta non ne ho.»
«Neanch’io, però non ne ho voglia.»
«Me li accenni, almeno: male non le farà.»
L’uomo sospira. «D’accordo, le faccio un riassunto.» Alza le mani e comincia con l’indice della destra a contare toccandosi le dita della sinistra: «Uno: mia moglie sei mesi fa mi ha lasciato. Due: sono un giornalista, e da quella separazione non sono più riuscito a scrivere una riga decente. Tre: mia moglie era tutta la mia famiglia: non ho figli, né fratelli o sorelle, i miei genitori sono morti in un incidente quando ero piccolo, sono cresciuto con una zia, la sorella di mio padre, che è morta da anni pure lei, e di amici veri non credo di averne. Insomma, a cinquant’anni, quando dovrei contare su una bella famiglia, sono solo come un cane. Quattro: ho cercato aiuto nel bere e mi sono ritrovato mezzo ubriaco tutti i giorni, dalla mattina alla sera. Cinque: mi sono schiantato con la macchina contro un albero e non camminerò mai più come prima. Ho finito le dita della mano, ma avrei altre cosette da elencare. Ce l’ha una cura che mi guarisca da tutto questo? Se ce l’ha, l’ascolto, altrimenti per favore mi lasci perdere, che non sono in vena.»
«La cura può esserci, ma è lunga e richiede tutto il suo impegno. Le va che ci vediamo un paio di volte la settimana?»
«No.»
«Se non collabora, io non potrò aiutarla.»
«Non ho chiesto aiuto. Comunque, grazie dell’interessamento.»
«Ne è certo?»
«Certissimo.»
La donna si alza dalla sedia, tira un sospiro profondo. «Non posso costringerla. Cerchi di aiutarsi da sé, almeno; magari si prenda un lungo periodo di riposo, se ne vada in un bel posto lontano da tutto, rifletta. Io, se vorrà, sarò qui.»
«Grazie ancora. Me la caverò.»
Michele chiude gli occhi. La dottoressa resta ancora un minuto, in silenzio, poi se ne va.

La grande sala della redazione, dove le scrivanie sono stipate e vicine come ombrelloni a Rimini, e quel brusio, quella cacofonia ininterrotta di voci rivolte a cornette di telefono, e le decine di schermi di computer accesi, e il viavai di gente che sposta fogli da una postazione all’altra lo sommergono con un impatto che gli dà la nausea. Non entrava lì da un mese, e adesso che ci si ritrova bastano dieci minuti per snervarlo, per provocargli un senso di ripulsa.
Un mese appena, e non certo di vacanza, ma è servito ad allontanarlo, a erigere un muro fra sé e la sua vita di prima, che ogni giorno si ripresentava uguale, con la levataccia del mattino, le code in macchina su strade infestate di gente frettolosa e arrabbiata, l’ingresso in quello stanzone gremito che ricorda un allevamento di polli, l’arrabattarsi a distillare righe su argomenti ripetitivi e di solito poco gratificanti.
No, pensa, non sono pronto. Non ce la faccio. Non ce la posso fare. Non è vero che tornare al lavoro mi aiuterebbe, come dice qualcuno: aggiungerebbe peso allo stress della mia mente, fatica al mio fisico provato. Non mi guarirebbe, mi ammazzerebbe e basta.
Decide così, su due piedi, per un impulso improvviso e invincibile. Quando il direttore lo chiama e lo fa accomodare davanti alla sua scrivania sommersa di carte, sa già cosa fare, cosa dire, e sa che farà e dirà quello che si sente, a costo di perdere il posto.
Così rimane spiazzato quando è proprio il capo ad anticiparlo, ad assecondare i suoi desideri prima ancora che lui li esprima.
«Prenditi un po’ di tempo, Michele» gli dice. «Non serve a nessuno che tu torni adesso, quando ancora ti zoppicano le gambe e la testa. Non li ho contati i giorni di ferie arretrati che hai, sai come vanno queste cose, qui non ci si ferma mai... però di sicuro hai diritto a una bella pausa, e se fossi in te me la godrei.»
Lui annuisce. Si era preparato a combattere e non ce n’è bisogno. Rimane quasi deluso. Forse non è un buon segno, questa generosità del capo. Forse vuole dire che non ha sentito per niente la mancanza del suo lavoro. Ma chi se ne frega. Neppure lui l’ha sentita.
«Hai ragione» risponde. «Ho da smaltire un po’ di problemi, da tirare il fiato.»
«Bravo. Facciamo un mese, che ne dici?»
«Un mese, sì. Mi farà bene.»
È solo quando esce in strada e respira l’odore di macchine, d’asfalto e di città, che  arriva quel pensiero: un mese per fare che? Un mese in casa da solo a guardare la tivù e a piangersi addosso? Un mese da trascorrere in pigiama o in mutande, con la barba lunga, peregrinando da una stanza all’altra? Per ricominciare ad annegare nella birra, magari?
Lo prende alla gola qualcosa che stringe come un cappio.
«Se ne vada in un bel posto lontano da tutto» gli ha detto la psicologa. Forse ha  ragione: via, via. Dai suoi problemi non può scappare, ma dalla routine sì. E dalla città, da quella città che mai gli è parsa così brutta e ostile.
Ma via dove?
Vedremo, si dice, qualcosa mi verrà in mente. Posso andare dove voglio, non ne devo rispondere a nessuno: essere soli dà almeno questo vantaggio. Adesso vado a casa, mi butto sul letto a occhi chiusi e ci penso, come facevo da bambino, quando con la fantasia visitavo tutti i posti del mondo.
Tutti i posti del mondo, tutti i continenti, tutte le latitudini. Là dove è già stato o dove non è stato mai.
Ci pensa, una volta che è coricato al buio, ci pensa. Ma è solo quando sta per cadere nel dormiveglia che gli si presenta un’immagine lontana: una casa di pietra col tetto di arenaria che luccica al sole, uno smisurato prato verde che finisce dove comincia la massa scura dei boschi, panni stesi ad asciugare che ballano nel vento, un cielo blu che di così blu se ne vedono di rado, e voci di bambini che corrono ubriachi di quel vento, di quel prato, di quel cielo, di quello spazio enorme.
Uno di quei bambini è lui. Papà e mamma sono ancora vivi, lei stende i panni, li prepara alla danza nel vento e nel sole, e sorride. I nonni armeggiano con grandi fasci di rami secchi e approntano un falò per la sera, quando le faville saliranno a sbuffi a rigare la notte nera e silenziosa dei monti.
Da quanto tempo non vede quella casa, quel posto? Molti anni, anzi decenni.
Chissà se esiste ancora. I nonni materni, che abitavano là, saranno morti da chissà quanto: dopo che è rimasto orfano, solo una volta l’hanno portato lassù, dove loro ancora vivevano insieme a uno stuolo di figli e nipoti. Dopo, basta. La zia e lui si trasferirono a Milano, e quel luogo sbiadì piano piano nella memoria. Non si ricorda nemmeno più come si chiamavano, i bambini con cui giocava, le zie che gli preparavano le focacce.
Ci sono pezzi del nostro mondo, della nostra anima che a un certo punto, semplicemente, spariscono, vengono rimossi, come se non fossero esistiti mai, e al massimo lasciano nei pensieri una nostalgia remota e incredula. Non si sa perché succeda, ma succede che si perdano persino pezzi della propria famiglia. Pezzi di sé.
Chissà come ci ha pensato, ai nonni e alla loro grande casa sui monti, come gli sono tornati in mente, dopo tanto tempo.
Chiude gli occhi di nuovo nel buio della stanza. Sì, se c’è un posto in cui vuole andare, è quello. Lontano da tutto, e vicino a quel bambino che è stato, una volta, molto felice.

Il vecchio Giuseppe si fa schermo con la mano e guarda in alto. Non c’è una nuvola; il giorno è nato limpido e così rimarrà. Sente gli altri darsi la voce, sente il trattore che a tratti romba e tira, salendo l’erta. Portano nel prato grande i rami che serviranno per i fuochi.
Mancano solo due notti, poi ci sarà il novilunio; il primo novilunio d’estate.
Lui di estati ne ha viste tante, ormai, passate tutte lassù, tranne quando andò in guerra. Un’assenza di tre anni, tre feste della luna perse. Ricorda ancora quanto gli mancò, in quelle occasioni, l’essere là con gli altri ad aspettare il momento più straordinario dell’anno, quello per cui la famiglia si riuniva a Ca’ Rampina.
Tornavano tutti per l’evento, anche chi aveva scelto di andarsene lontano. E ancora tornano.
Si avvia verso la casa e guarda l’altra costruzione, quella che adesso serve solo da rimessa per i trattori, le falciatrici, per tutte le nuove macchine che negli anni sono arrivate ad alleviare la fatica di coltivare campi dalle pendenze ostili. Una volta la famiglia era così grande che tutte e due le case erano piene di gente, di donne, di bambini. Quando le macchine non c’erano, servivano tante braccia, mangiavano tante bocche, e non si può dire che ci fosse abbondanza; ma si tirava avanti.
Non può certo biasimare chi se n’è andato, chi ha scelto lavori meno faticosi, luoghi meno isolati, vite diverse. Lui però la sua vita non l’ha mai cambiata, ed è contento così. È felice di essere nato lassù e di esserci restato sempre. Ed è felice soprattutto quando tutti tornano, quando la famiglia, per qualche giorno, si riscopre grande.
Dalla porta di casa esce sua moglie Lina, che si asciuga la fronte e si ravvia i capelli con la mano. Lui la guarda e le chiede: «Finito?».
«Finito? Figurati. Dobbiamo preparare cibo per un esercito, non si finisce mai. Ma è un lavoro che non mi pesa, lo sai bene.»
Giuseppe annuisce.
Torneranno, stanno per tornare. Fra un po’ si sentiranno le automobili salire verso Ca’ Rampina, si apriranno le finestre di stanze vuote nel resto dell’anno. Fra un po’ tutto sarà vivo e animato com’era un tempo.
E quando tutti saranno lì, la sera si accenderanno i fuochi per chiamarli. Per chiamare chi ogni anno arriva all’annunciarsi dell’estate, venendo da chissà dove. Dal buio, pensa lui. Arrivano dal buio, quando la luna dorme dall’altra parte del cielo. Arrivano silenziosi e puntuali, misteriosi e attesi.
Il primo novilunio d’estate è così, è sempre stato così, ed è bellissimo.

Michele conosce la strada solo fino a un certo punto, là dove la statale si stringe attraversando l’abitato di San Savino Monte, un paese che pare essere tutto addossato a quella striscia d’asfalto, come se fosse nato e cresciuto solo per definirne i bordi.
Dopo, ricorda, ci sono boschi, tornanti, saliscendi, e a un certo punto deve esserci una viuzza sterrata che si inoltra nel nulla.
A San Savino si ferma, parcheggia in una piazzola che fiancheggia un bar, spegne il motore e sospira. Gli fa male la gamba.
Il viaggio fin lì è stato migliore del previsto, quasi piacevole, con la radio sintonizzata su una stazione che diffondeva poche parole e tanta musica. Il cielo estivo, nelle prime ore del mattino, è stato terso anche in pianura; e qui, a quasi mille metri d’altezza, subito dopo il passo di Crocealta, è blu e spazzato da un vento leggero che fa muovere le cime dei faggi e degli abeti. Sarebbe tutto perfetto, se i muscoli non sembrassero presi in una morsa e il ginocchio non si fosse irrigidito,quasi bloccato.
Spegne la radio, scende gemendo, entra nel bar e chiede un caffè. Lo assapora e se lo fa durare. Poi, al ragazzo che glielo ha servito, chiede indicazioni per raggiungere Ca’ Rampina.
Il giovane mette nell’acquaio la tazza e il cucchiaino, fa una smorfia con le sopracciglia aggrottate e risponde: «Ma cos’è, un paese? Io non l’ho mai sentito nominare».
«Non è un centro abitato, è solo una località, un paio di fattorie. Non dovrebbe essere lontano da qui.»
«Io in questo bar ci lavoro da poco, abito giù a Sargano. Se vuole, chiedo al capo.»
Michele annuisce, zoppica verso un tavolino, si siede. Di colpo si sente addosso tutta la stanchezza del viaggio, e una nuvola grigia sembra oscurargli l’umore.
Adesso, pensa, verrà il proprietario e mi dirà: “Ca’ Rampina? Non la conosco”. E si renderà conto che se l’è solo sognato, quel posto, che quel bambino felice non c’è stato mai, e che un luogo dove andare non c’è, non c’è più.
Dietro il bancone compare un uomo dai capelli radi e rossicci, che si pulisce le mani in un grembiule e lo guarda. «Ca’ Rampina?» dice.
Michele, come se lo stessero interrogando su una cosa importante, si alza in piedi e mormora: «Sì».
«Vada avanti ancora un paio di chilometri; dopo avere attraversato un vecchio viadotto che passa sopra un vallone stretto, vedrà una stradina sulla sinistra. Non ci sono indicazioni ma non può sbagliare: di strade a sinistra c’è solo quella. La infila, e procede per... boh, direi altri due o tre chilometri, tutti nel bosco. Finito il bosco, ci sono i pascoli e le case che cerca lei.»
«Grazie. Grazie mille.»
Avrebbe voglia di un campari, di un martini, di un po’ d’alcol insomma, ma non beve da diverse settimane e resiste, scaccia quel desiderio. Paga il caffè, esce dal bar, e prima di rimettersi in macchina respira a pieni polmoni.
L’aria ha davvero un altro sapore, lassù.

Dietro la casa, dove il passaggio quotidiano delle mucche che vanno ai pascoli ha cancellato l’erba in una traccia antica e bruna, ci sono già, l’una di fianco all’altra, sei o sette automobili che brillano nel sole. Voci di bambini che si aggirano eccitati tra stalle e pollai, curiosi di vedere gli animali, riempiono di suoni il silenzio del monte.
Lina ha accompagnato tutti alle proprie camere, ha aiutato a riporre borse e vestiti, ha abbracciato figli, nipoti e pronipoti, senza smettere mai di dare la voce a chi, in cucina, continua a preparare sfoglia e sughi, pane e arrosti. Poi esce dalla casa e si siede finalmente su una panca di legno addossata al muro.
Giuseppe la raggiunge, si siede a sua volta. «Ecco» dice.
Lei sorride. «Sì, eccoli qua, tutti. Non vedevo l’ora.»
Il vecchio guarda lontano, verso la strada sterrata che si infila nel bosco. «Tutti no. Ne manca uno.»
«Lo so, credi che me ne sia scordata? E non verrà, purtroppo, non viene da tanto tempo. La vita è fatta così, non ci dà mai una gioia completa.»
«Verrà, invece. Quest’anno verrà.»
La donna si gira di scatto a guardarlo. «Ma che dici?»
«Ho fatto dei sogni, nelle notti scorse.»
«Non m’avevi detto niente!»
«I sogni sono solo sogni, che cosa ti dovevo dire? Magari mi sbaglio.»
Lina sorride con gli occhi. «No, tu non sbagli, in queste cose...»
«Chi lo sa.»
«Sarei la donna più felice del mondo, se arrivasse davvero. Ma... lui non sa, non sa nulla. Non può ricordare, manca da troppo tempo, ce l’hanno portato via che era così piccolo! Cosa gli diremmo?»
L’uomo scuote la testa. «Non lo so. Forse niente. Che c’è da dire, in fondo? Vedrà quello che vedremo noi, e sarà lui a chiedere.»
«Non è così semplice, Giuseppe. Gli altri sanno come comportarsi, sanno cosa dire e cosa tacere, ma lui...»
«Lui fa parte della famiglia, e se verrà, sarà un novilunio d’estate ancora più speciale. Dopo, vedremo.»
Lina annuisce, guarda anche lei verso la strada. «Sì, vedremo» dice.
E proprio in quel momento si sente un’automobile che arriva.

Michele è ancora frastornato. Sente allo stesso tempo un senso di straniamento e di appartenenza, di familiarità, di déjà vu.
Quando è arrivato e ha parcheggiato dietro la grande casa di pietra, stupendosi di vedere molte altre automobili, si è trovato nel giro di un minuto circondato da abbracci, parole, persone, facce. Facce che non conosceva e che però gli ricordavano qualcosa, nomi che gli rimbalzavano alle orecchie suonando nel contempo sconosciuti e remotamente noti.
Adesso, finiti i saluti, le presentazioni, allontanati gli sguardi curiosi e affettuosi, strette le mani che gli venivano tese, si è seduto fuori, su un ceppo di legno fresco di taglio. Guarda verso i monti che, oltre il verde chiaro dei prati, si innalzano torreggianti e massicci, scuri di alberi fitti. Ricorda il profilo di quelle cime, o almeno gli sembra di ricordarlo, ma ciò che vede gli appare anche nuovo. Ha pensato tanto a quei luoghi, nelle settimane e nei giorni scorsi, che trovarseli davanti, essere lì, fa un effetto a cui non era preparato.
Una donna lo raggiunge e si siede accanto a lui. «Michele» dice solo.
Lui sorride. La donna gli deve aver detto il proprio nome, prima, ma lui ne ha ascoltati tanti che già non se lo ricorda, già non sa più chi è, quella anziana signora dagli occhi chiari e penetranti. «Zia?» chiede incerto.
«Sono Lina.»
«Zia Lina.» Strappa un filo d’erba, se lo attorciglia a un dito. «Sai, il tuo viso non mi è nuovo, è come se un ricordo si facesse strada nei miei pensieri, ma se ti avessi incontrata per caso non ti avrei mai riconosciuta. Mi dispiace...»
Lei accarezza una spalla. «È normale, sono passati più di quarant’anni.» Poi sospira: «Quarantanni! Santo cielo! Ci sei mancato, piccolo mio».
Michele non può non sorridere. «Piccolo... sono ormai vecchio, altro che!»
«Ma figurati!»
«Mi sento vecchio dentro. La mia vita, come vi raccontavo prima, non è che stia andando per il verso giusto.»
«A tutto c’è rimedio.»
L’uomo fa un cenno d’assenso e cambia discorso. «Zia Anna mi ha cresciuto e le sarò grato per sempre, ma non capisco perché non mi abbia mai portato qua da voi, se non forse una volta. Mi ha allontanato da una parte della mia famiglia. Perché?»
«Non le piacevamo, credo. Lei era nata e cresciuta in città, era istruita, dovevamo sembrarle una tribù di pastori... E poi, forse, non avendo mai avuto figli suoi, ti ha voluto tenere tutto per sé. Comunque ti ha amato, e questo è ciò che conta. Quel che è stato è stato. L’importante è che adesso tu sia qui con noi. Una famiglia ce l’hai, l’hai sempre avuta e ora l’hai ritrovata.»
«Ne ho bisogno.»
«E chi non ne ha bisogno?»
Michele si aiuta con una mano a distendere la gamba.
«Ti fa male?» gli chiede la donna.
«Un po’.»
«Ti passerà, vedrai. Presto non avrai nemmeno più bisogno di pillole.»
«Vorrei poterti credere.»
Lei sorride guardando il sole che tramonta. «Oh, puoi credermi. Davvero.»

Dopo una cena abbondante e gustosa e le chiacchiere con i parenti, è andato all’aperto a godersi l’aria che da tiepida diveniva frizzante. Il cielo pareva di carta, come quello che da piccolo appendeva sopra il presepe: un blu scuro che si trasformava in nero e si accendeva di milioni di stelle. Non aveva mai visto uno spettacolo simile, o almeno non se lo ricordava: la traccia enorme della Via Lattea, le innumerevoli costellazioni. Sdraiato sull’erba è stato a lungo a guardare in alto, perdendosi in una vertigine smisurata e densa. La luna, quasi appoggiata sulla cresta del monte, era solo una riga curva e sottilissima, uno spiraglio, una fessura di luce.
Poi è arrivato il vecchio Giuseppe, hanno fumato un sigaro. Tra l’erba si udivano i grilli e dal fitto del bosco arrivavano mille piccoli rumori.
Si è sentito finalmente, per la prima volta da molto tempo, in pace con se stesso e col mondo. Mi fa davvero bene essere qui, ha pensato.
È andato a dormire presto. Non c’era un televisore nella casa, e poi era stanco.
L’ha svegliato il suono di voci fuori, allora è sceso a fare colazione. Dopo, nonostante i problemi alla gamba, ha provato a camminare nel bosco, inoltrandosi in un sentiero che, quasi in piano, arriva fino a una radura in mezzo alla quale troneggia, imperscrutabile monarca di pietra, un grande masso rotolato lì forse da migliaia di anni.
Si è seduto, si è tolto le scarpe, ha pensato alla sua famiglia ritrovata. Lo zio Giuseppe e la zia Lina vivono nella casa che è stata dei nonni con due figli, quattro nipoti e alcuni pronipoti; poi ci sono gli altri venuti in visita: zie, zii e tanti cugini con relativa prole. Quanti sono? Una trentina, pensa. Prima o poi imparerà a conoscerli, riuscirà a ricordarsi i loro nomi. Per fortuna la casa è grande, e stringendosi un po’ tutti hanno avuto un letto, uno spazio, usando anche un sottotetto dalle vecchie travi di legno a vista.
Pare che ogni anno si ritrovino all’inizio dell’estate, una tradizione del clan, un appuntamento che li richiama in un luogo capace di unirli ancor più dei vincoli di sangue.
Ha appoggiato la schiena al masso e si è appisolato, cullato dal ronzio ipnotico degli insetti. Quando è tornato alla casa, già si sentivano, dentro, le donne che apparecchiavano la tavola per il pranzo.
Nel pomeriggio è cominciato un fermento, un’animazione, che ha coinvolto tutti, bambini e adulti. Per ore hanno lavorato a smontare due cataste di legna e ramaglie dividendole in una ventina di ammassi più piccoli, disposti a cerchio nel prato davanti alla casa.
«Che state facendo?» ha chiesto Michele a Giuseppe.
«Prepariamo per i falò. Li accenderemo stasera. Te li ricordi, i falò?»
Se li ricorda, sì. Anzi, proprio quella è una delle immagini della sua infanzia che meglio sono sopravvissute nella memoria: le fiamme alte nella notte, le faville che salgono tra il fumo, gli schiocchi e gli sbuffi dei legni, le braci che sembrano occhi accesi nel buio.
«I fuochi...» dice. «Sì, li ho ancora in mente.»
«Li hai visti ogni anno, nella notte del primo novilunio d’estate. Quando eri piccolo e i tuoi genitori erano ancora vivi, intendo.»
«Sì, li ho visti, e credo che mi piacessero molto.»
Il vecchio annuisce, sorride, poi va ad aiutare gli altri.

Cenano presto, parlando poco, come se tutti avessero fretta di qualcosa, come se un’attesa spasmodica sovrastasse l’appetito. Quando esce dalla casa, Michele si accorge che qualcuno ha già acceso i fuochi.
Tutti vanno a sedersi nel prato. Le fiamme giocano con colori baluginanti e ombre sulle facce, sui corpi, aria calda e fumo arrivano ad accarezzare la pelle. I bambini corrono intorno a lungo, poi vengono invitati a calmarsi, a sedersi accanto ai grandi.
Qualcuno dalla casa ha portato bottiglie di vino. Parlano, ridono, bevono, guardano in alto il cielo senza luna e pieno di stelle, faville tra le faville. I cani trotterellano intorno, annusano qua e là, ogni tanto scompaiono nel buio e poi ricompaiono.
Michele si concede un bicchiere, si sdraia sull’erba, fissa incantato i bagliori che riverberano. Sente, e non sa perché, che la notte sta per portare qualcosa, qualcosa che nei suoi ricordi si è perso ma che ora sta per tornare.
Quando le fiamme hanno esaurito il loro vigore crepitante e le braci dei falò disegnano un enorme cerchio rosseggiante nel prato, il cielo oltre il monte si accende in un baleno improvviso.
Si fa subito silenzio. La vecchia Lina si alza, si spolvera la gonna e dice: «In casa, adesso. È ora».
«Arrivano» mormora un bambino a un altro. «Fra un po’ vengono.»
Michele vorrebbe chiedergli chi o cosa stanno aspettando, vorrebbe dire che si sta così bene fuori, perché rientrare tanto presto? Non pioverà, non c’è una nuvola da giorni, quel baleno è frutto solo del caldo che si annuncia, che problema c’è? Ma tutti obbediscono al comando della donna e si dirigono verso l’abitazione.

Si alza con un sospiro, li segue.
In casa, tutti si siedono intorno al tavolo, le donne portano dolci e altre bottiglie, ma nessuno li tocca. Il senso di attesa si fa ancora più forte; molti sguardi vanno alle finestre, anche se hanno le imposte chiuse. Sulle facce dei più piccoli si legge qualcosa che sta fra l’eccitazione e il turbamento, come quando ascoltano, divertiti e spaventati, vecchie fiabe di magia e di paura. Se qualcuno di loro diventa troppo irrequieto o parla a voce troppo alta, viene subito invitato a starsene buono e zitto.
Passano i minuti, nessuno si muove, si sono spenti anche gli ultimi sussurri. Poi il silenzio greve che sta impregnando la casa viene rotto all’improvviso: dalla stalla si alzano muggiti nervosi, e fuori i cani iniziano ad abbaiare furiosamente.
Pare di sentire i cavi elettrici sfrigolare, ronzare, la luce comincia a vacillare, si spegne e si riaccende, e infine muore del tutto. Nel buio pesto della stanza gremita non c’è più una voce, non c’è più un movimento.
Poi tutto tace anche fuori, gli animali si zittiscono. E dalle fessure tra le imposte arriva un pulsare prima bluastro, poi giallo e bianco, come se strani lampi accendessero la notte di un temporale silenzioso e inspiegabile.
«Ma che succede?» domanda Michele sottovoce a una cugina che gli siede accanto.
Lei per tutta risposta gli stringe un braccio, come a chiedergli di tacere.
C’è una vibrazione nell’aria; non è un vero suono, è solo una pressione che freme ai timpani, alle tempie. Poi anche quella sensazione scompare, le lampadine si riaccendono ticchettando.
È come se si sciogliesse un incantesimo, se una malia arcana e paralizzante venisse vinta, esorcizzata. Tutti si muovono, ricominciano a chiacchierare, prima mormorando, poi parlando più forte. I bambini lasciano le sedie, qualcuno si versa un bicchiere di vino.
Lina si alza, va verso la porta. «Andiamo, adesso» dice. Apre l’uscio, si affaccia: nel chiarore delle stelle e degli ultimi riverberi delle braci, è tutto tranquillo, come se nulla fosse successo.
La vecchia esce, gli altri la seguono. Michele si accoda, e quando è all’aperto, guarda nella direzione in cui vanno gli occhi di tutti.
Nel prato, all’interno di quello tracciato dai fuochi ormai spenti, c’è un altro grande cerchio, disegnato alla perfezione nell’erba e ben visibile in una luminescenza lattiginosa, la stessa delle stelle.

Hanno ravvivato i falò portando ramaglie sulle braci. Adesso il cerchio dove l’erba è appiattita è del colore delle fiamme. E nel rosseggiare si muovono ombre e figure, come in una danza tribale e antica, come in un rito arcaico e selvaggio: tutti si rotolano in terra, dentro quella circonferenza.
La vecchia Lina arriva accanto a Michele e gli dice: «Dai, fallo anche tu».
Lui la guarda e apre le braccia sbalordito. «Zia, ma da quando accade questa cosa?»
«Da sempre, credo. O almeno da quando ricordo io, e da quando ricordavano i nostri vecchi. Loro dicevano che era il ballo tondo delle fate, nel primo novilunio d’estate.»
«Un cerchio nel grano... Se non l’avessi visto, non ci avrei creduto.»
«Non è grano» dice Lina sorridendo.
Michele scuote la testa. «Non importa. Succede da tante altre parti, lo sai? Anche se non in questo modo, perché nessuno sa prima dove e quando...»
«Sì, i miei figli me l’hanno detto. Parlano di dischi volanti, di strane cose.»
«Perché, a te non pare una cosa strana?»
«No, a me no. L’ho vista ogni anno per tutta la vita. E da piccolo l’hai vista anche tu.»
«Non me lo ricordavo.»
«Lo so. Ma adesso sei qui, approfittane.»
«In che senso?»
«Fa’ come gli altri. Sdraiati e rotolati nel cerchio, ti farà bene.»
«Perché?» chiede Michele, rendendosi conto che è una domanda inutile e stupida.
Lei si stringe nelle spalle e se ne va.
Vuole assecondarla. E poi, con una consapevolezza che viene da chissà dove, sa che va fatto. Michele entra nel cerchio, si sdraia. L’erba e la terra sono calde, e trasmettono una sensazione di incredibile forza e beneficio.

Michele fa colazione in silenzio, poi sale nella propria stanza. La valigia è sul letto, finisce di riempirla con le poche cose che ha sparso in giro. Va alla finestra. La mattina è velata, qualche nuvola è giunta da ovest a rendere il cielo striato e opaco.
Il cerchio nel prato è ancora lì, ben visibile, grande ed enigmatico.
Non sa che dire. Non si è mai occupato di cose simili, non fanno parte dei suoi interessi. Al giornale ha sempre scritto solo di politica e di pubblica amministrazione.
Forse, pensa, qualcuno della grande famiglia è uscito al buio, mentre Lina aveva riunito tutti in casa, e ha creato il disegno sull’erba aiutandosi con qualche attrezzo.
L’ha visto fare una volta in tivù. Ma perché? Solo per un gioco che accomuna il parentado? Che senso avrebbe? E poi i lampi, i rumori, gli animali che urlavano inquieti. Un temporale elettrico? Una coincidenza?
Come quella che l’ha condotto a Ca’ Rampina dopo quarant’anni proprio nel momento in cui erano arrivati tutti gli altri e stava per accadere quella cosa?
Scuote la testa. Potrebbe estrarre dalla valigia la macchina fotografica, fare qualche scatto e scrivere un articolo; ma sa che non lo farà, non lo può fare. La sera prima, mentre stava per andare a letto, Giuseppe l’ha preso da parte e gli ha chiesto di tacere, di mantenere quello che per la famiglia sembra essere un antico e geloso segreto. Ma non è solo per questo, che rispetterà il silenzio: è soprattutto per ciò che nella notte è successo alla sua gamba.
Tira un sospiro profondo, finisce di sistemare le proprie cose.
Lina e Giuseppe sono fuori a salutare i parenti che, macchina dopo macchina, se ne vanno.
Michele li raggiunge con la valigia in mano.
«Potevo aiutarti a portarla giù» dice il vecchio.
«Non ce n’era bisogno. Non ho più male. Stanotte ho dormito come un sasso, anche se avevo la testa piena di pensieri, di emozioni, di domande, e quando mi sono svegliato la gamba non mi doleva più, e il ginocchio si piegava come se non avessi mai avuto l’incidente e le operazioni.»
Il vecchio annuisce, per niente meravigliato.
Lina chiede: «Perché te ne vai già? Avevi detto che saresti rimasto due o tre settimane».
Michele scuote la testa. «Non lo so, zia. Sento che devo andare a casa, ho voglia di rimettermi a lavorare, o forse voglio ricominciare da subito a riordinare la mia vita. E ho tante cose a cui pensare da solo.»
«Non scriverai sul giornale di quello che hai visto, vero? Rovineresti tutto.»
«No, ve l’ho detto, non scriverò e non ne parlerò con nessuno.»
«Giuralo.»
«Ve lo giuro.»
«E giura che tornerai.»
«Certo che tornerò. Tornerò prestissimo, magari uno dei prossimi fine settimana, e non vi perderò più. »
Abbraccia i due vecchi, raggiunge l’automobile senza zoppicare e se ne va.
Lina e Giuseppe guardano la macchina che scompare nel bosco, poi si incamminano verso casa.
«Dici che manterrà la promessa?» chiede lui.
«Sì, la manterrà. È uno di noi.»
L’uomo sospira. «Adesso ha visto, adesso sa tutto. Quasi tutto.»
«Quello che non sa, lo conoscerà la prossima volta. E poi in fondo è solo un dettaglio.»
«Un dettaglio? Crede che siamo uno zio e una zia. Non si ricordava.»
«Non me la sono sentita di dirglielo. Di confidargli che siamo i suoi nonni, che abbiamo duecentodieci anni in due, che il cerchio del novilunio è ancora più potente di quanto ha visto, di quanto crede.»
«Glielo diremo la prossima volta. E forse non si sorprenderà più di tanto.»
«Già» dice lei.
Si è alzato un po’ di vento, e i fili di fumo che si sollevano dai fuochi non ancora del tutto spenti si scompigliano e si dissolvono come nebbia al mattino.


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