Tre tipi di paradosso
La prima classe riguarda le antinomie, che secondo W. Quine “producono un’autocontraddizione, in base alle regole accettate dal ragionamento” . W. Stegmüller è più specifico e definisce un’antinomia come un’asserzione che è sia contraddittoria che dimostrabile.
C’è poi una seconda classe di paradossi che differiscono dalle antinomie soltanto in un unico aspetto importante: non si presentano nei sistemi logici e matematici ma derivano piuttosto da certe incoerenze nascoste nella struttura di livello del pensiero e del linguaggio. Ci si riferisce a questo secondo gruppo come alle antinomie semantiche o definizioni paradossali.
Infine, c’è un terzo gruppo di paradossi che si presentano nelle interazioni e determinano il comportamento. Definiremo questo gruppo paradossi pragmatici che si possono dividere in ingiunzioni paradossali e predizioni paradossali.
Ecco i tre tipi di paradossi:
1. Antinomie: paradossi logico-matematici;
2. Antinomie semantiche: definizioni paradossali;
3. Paradossi pragmatici: ingiunzioni paradossali e predizioni paradossali.
Il primo tipo corrisponde alla sintassi logica, il secondo alla semantica e il terzo alla pragmatica.
Paradossi logico-matematici
Il più famoso paradosso di questo gruppo è sulla “classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse”. Una classe è la totalità di tutti gli oggetti che hanno una certa proprietà. Quindi, ad esempio, la classe dei gatti contiene tutti i gatti, passati, presenti e futuri. Avendo stabilito questa classe, tutti gli altri oggetti che restano nell’universo si possono considerare la classe dei non-gatti, perché tutti questi oggetti hanno in comune una proprietà ben definita: essi non sono gatti. Ora ogni asserzione che implichi che un oggetto appartiene ad entrambe queste classi sarebbe una semplice contraddizione, perché nulla può essere nello stesso tempo gatto e non-gatto. Ma non è accaduto niente di straordinario: che ci sia questa contraddizione dimostra semplicemente che è stata violata una legge fondamentale della logica e che la logica stessa non ne soffre.
Lasciamo stare gatti e non-gatti individuali e salendo ad un livello logico più elevato, cerchiamo di capire che cosa sono le classi. E’ evidente che esse possono essere o non essere membri di se stesse. La classe di tutti i concetti, per esempio, è ovviamente essa stessa un concetto, mentre la nostra classe di gatti non è essa stessa un gatto. Dunque, a questo secondo livello, l’universo è ancora diviso in due classi, quelle che sono membri di se stesse e quelle che non lo sono. Inoltre, ogni asserzione che implichi che una di queste classi è e non è membro di se stessa equivarrebbe ad una semplice contraddizione da mettere da parte senza pensarci ulteriormente.
Chiamiamo M le classi che sono membri di se stesse e N le classi che non sono membri di se stesse. Non dimentichiamo che la divisione dell’universo in classi che contengono se stesse (self-membership) e in classi che non contengono se stesse (non self-membership) è esaustiva; non ci possono essere, per definizione, eccezioni di sorta. Quindi se la classe N è membro di se stessa, non è un membro di se stessa, perché N è la classe delle classi che non sono membri di se stesse. D’altra parte, se N non è membro di se stessa, allora soddisfa la condizione di contenere se stessa: è un membro di se stessa proprio perché non è membro di se stessa, perché il non-contenere se stessa è la distinzione essenziale di tutte le classi che compongono N. Questa non è una semplice contraddizione, ma una vera antinomia, perché il risultato paradossale si basa su una rigorosa deduzione logica e non sulla violazione delle leggi della logica.
In realtà si tratta di una fallacia. B. Russell l’ha resa evidente con la sua teoria dei tipi logici. Per dirla assai in breve, questa teoria postula il principio fondamentale che “qualunque cosa comprenda tutti gli elementi di una collezione non deve essere un termine della collezione” . Dunque, dire che la classe di tutti i concetti è essa stessa un concetto non è falso, ma privo di significato.
Definizioni paradossali
Non sono identici il “concetto” ad un livello più basso (membro) e il “concetto” al livello più elevato immediatamente successivo (classe). Eppure si usa lo stesso nome, “concetto”, sia per membro che per classe e in tal modo l’identità linguistica crea un equivoco. Per evitare questa insidia, si debbono usare indicatori di tipo logico –indici nei sistemi formalizzati, virgolette o corsivi negli altri casi- dovunque esista la possibilità di una confusione dei livelli.
Forse la più famosa delle antinomie semantiche è quella dell’uomo che dice di se stesso: “Io sto mentendo”. Se seguiamo questa asserzione fino alla conclusione logica, troviamo che è vera soltanto se non è vera. In questo caso, non si può più usare la teoria dei tipi logici per eliminare l’antinomia, perché le parole o le combinazioni di parole non hanno una gerarchia di tipo logico.
Ogni linguaggio ha, come dice L. Wittgenstein, “una struttura della quale nulla può dirsi in quel linguaggio, ma che vi può essere un altro linguaggio che tratti della struttura del primo linguaggio e possegga a sua volta una nuova struttura, e che una tale gerarchia di linguaggi può non avere alcun limite” . E’ un’idea che è stata sviluppata, soprattutto da R. Carnap e da A. Tarski, in una teoria che ora è nota come la teoria dei livelli di linguaggio. Per analogia con la teoria dei tipi logici, questa teoria salvaguarda della confusione dei livelli. Postula che al livello più basso del linguaggio le asserzioni vengono fatte sugli oggetti. Questo è il regno del linguaggio oggetto. Ma nel momento in cui vogliamo dire qualcosa su questo linguaggio, dobbiamo usare un metalinguaggio, e un metametalinguaggio se vogliamo parlare su questo metalinguaggio, e così via in una catena regredente teoricamente infinita.
Applicando questo concetto dei livelli di linguaggio all’antinomia semantica del mentitore, ci si rende conto che la sua asserzione, sebbene sia costituita soltanto di tre parole, contiene due asserzioni, una al livello-oggetto, l’altra al metalivello e dice qualcosa su quella al livello-oggetto, cioè che non è vera. Al tempo stesso, quasi con un gioco di prestigio, si indica che questa asserzione nel metalinguaggio è essa stessa una delle asserzioni su cui s’è fatta la meta-asserzione, che è essa stessa un’asserzione nel linguaggio oggetto. Nella teoria dei livelli di linguaggio questo genere di riflessività delle asserzioni che implicano la propria verità o falsità sono l’equivalente del concetto di self-membership di una classe nella teoria dei tipi logici; entrambe sono asserzioni prive di significato.
Paradossi pragmatici
Ingiunzioni paradossali
H. Reichenbach tratta il paradosso del barbiere. Questo è un soldato a cui viene ordinato dal capitano di radere tutti i soldati della compagnia che non si radono da soli, ma nessun altro. Naturalmente, H. Reichenbach giunge alla sola conclusione logica che “non esiste un barbiere simile a quello della compagnia, nel senso che abbiamo precisato” .
Gli elementi essenziali di questo caso sono i seguenti:
una forte relazione complementare (ufficiale e subordinato);
entro lo schema di questa relazione, viene data un’ingiunzione che deve essere obbedita ma deve essere disobbedita per essere obbedita (l’ordine definisce il soldato come uno che si rade da solo se e soltanto se egli non rade se stesso, e viceversa);
la persona che in questa relazione è nella posizione one-down non è in grado di uscir fuori e quindi di dissolvere il paradosso commentandolo, cioè metacomunicando su di esso (sarebbe un atteggiamento di “insubordinazione”).
Una persona presa in una simile situazione è in una posizione insostenibile. Quindi, mentre da un punto di vista puramente logico un barbiere del genere non esiste e l’ordine del capitano è privo di significato, nella vita reale la situazione appare assai diversa.
Esempi di paradossi pragmatici
ESEMPIO 1
Scrivere “Chicago è una città popolosa”, sintatticamente e semanticamente è corretto. Ma è sbagliato scrivere “Chicago è trisillaba”, perché in tal caso si devono usare le virgolette: ““Chicago” è trisillaba”. La differenza tra questi due usi della parola sta nel fatto che nella prima asserzione la parola si riferisce ad un oggetto, mentre nel secondo la stessa parola si riferisce ad un nome (che è una parola) e quindi a se stessa. La prima asserzione è nel linguaggio oggetto, la seconda nel metalinguaggio.
Proviamo ora ad immaginare una possibilità singolare, ovvero che qualcuno consideri le due asserzioni su Chicago in una sola, (“Chigago è una città popolosa ed è trisillaba”) e la detti alla sua segretaria minacciandola di licenziarla se non può o non vuole scriverla correttamente. Non c’è alcun dubbio che comunicazioni di questo tipo creino una situazione insostenibile. Poiché il messaggio è paradossale, ogni reazione ad esso all’interno dello schema stabilito dal messaggio deve essere ugualmente paradossale. Fino a quando la segretaria rimane entro lo schema stabilito dal suo principale, ha soltanto due alternative: cercare di accondiscendere e naturalmente fallire (incompetenza), o rifiutarsi di scrivere (insubordinazione). Occorre far notare che delle due accuse che ne derivano la prima in qualche modo equivale a quella di debolezza mentale e la seconda a quella di cattiva volontà. Che sono accuse non troppo lontane da quelle classiche di follia e di cattiveria. Ci sono due ragioni possibili per un comportamento simile: o il principale cerca un pretesto per licenziare la segretaria oppure non è sano di mente.
Si ha una situazione completamente diversa se la segretaria non rimane entro lo schema stabilito dall’ingiunzione, ma lo commenta; in altre parole, se non reagisce al contenuto della direttiva del principale ma comunica sulla comunicazione di lui. In tal modo esce fuori dal contesto creato dal principale e non resta presa nel dilemma. La segretaria dovrebbe esporre i motivi che rendono insostenibile la situazione e che effetto ha su di lei una situazione simile; comunque, non sarebbe certo un’impresa da poco. Un’altra ragione per cui la metacomunicazione non è una soluzione semplice è che il principale, usando la sua autorità, può rifiutarsi di accettare la comunicazione della segretaria al metalivello ed etichettarla come una prova ulteriore della sua incompetenza e insolenza.
ESEMPIO 2
Le definizioni di sé paradossali del tipo di quella del mentitore non soltanto trasmettono un contenuto privo di significato da un punto di vista logico, ma definiscono la relazione del sé con l’altro. Perciò, quando si prestano all’interazione umana, non conta tanto che l’aspetto di contenuto (“notizia”) sia privo di significato quanto che l’aspetto di relazione (“comando”) non si possa né eludere né capire chiaramente. Il mentitore salta dentro e fuori lo schema stabilito, infatti, l’uso del termine da parte del “malato” esclude la condizione che il termine denota.
ESEMPIO 3
Esistono ingiunzioni che richiedono un comportamento specifico, che proprio per sua natura non può essere che spontaneo. Il prototipo di questo messaggio è quindi: “Sii spontaneo!”. chiunque riceva questa ingiunzione si trova in una situazione insostenibile, perché per accondiscendervi dovrebbe essere spontaneo entro uno schema di condiscendenza e non spontaneità. Analogamente, questo è anche il problema dell’omosessuale che brama un rapporto intenso con un “vero” maschio, per scoprire poi alla fine che quest’ultimo è sempre, deve essere sempre, un altro omosessuale. In termini di simmetria e di complementarità, queste ingiunzioni sono paradossali perché richiedono la simmetria nello schema di una relazione stabilita come complementare. La spontaneità prospera nella libertà e svanisce sotto il vincolo.
ESEMPIO 4
Le ideologie in particolare tendono a restare impigliate nei dilemmi del paradosso, soprattutto se la loro metafisica è l’antimetafisica. I pensieri di Rubashov, il protagonista di “Darkness at Noon” di A. Koestler, sono paradigmatici a questo proposito: “Il Partito negava la libera volontà dell’individuo, e nello stesso tempo ne esigeva il volontario olocausto. Gli negava la capacità di scegliere tra due alternative, e nello stesso tempo chiedeva che scegliesse sempre quella giusta. Gli negava il potere di distinguere il bene dal male, e nello stesso tempo parlava pateticamente di colpevolezza e di tradimento” .
ESEMPIO 5
Se confrontiamo il brano sopra citato con il racconto autobiografico di uno schizofrenico, risulta evidente che il suo dilemma è lo stesso di Rubashov. Il paziente viene messo dalle sue “voci” in una situazione insostenibile e viene poi accusato di mistificazione e di riluttanza quando si trova a non poter accondiscendere alle loro ingiunzioni paradossali. Quello che rende il racconto così straordinario è che sia stato scritto quasi 130 anni fa, molto prima che si cominciasse ad elaborare una moderna teoria psichiatrica (“Quando confessai dentro di me che non sapevo cosa dovessi fare, mi hanno accusato di falsità e di mistificazione” ).
ESEMPIO 6
Quando intorno al 1616 le autorità giapponesi cominciarono una persecuzione sistematica dei convertiti al cristianesimo, diedero alle loro vittime la possibilità di scegliere tra una sentenza di morte e un’abiura che era tanto complessa quanto paradossale. Questa abiura aveva la forma di un giuramento. “Ogni apostata doveva ripetere le ragioni per cui rinnegava il Cristianesimo, pronunciando una formula prestabilita [...] Venivano fatti giurare, per una logica assai curiosa, chiamando a testimoni proprio le potenze che avevano appena rinnegato: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, Santa Maria e tutti gli angeli” .
Di fronte al problema di operare “veramente” un cambiamento nella mente di qualcuno, i giapponesi ricorsero all’espediente del giuramento. Ma capirono con chiarezza che un giuramento simile li avrebbe legati soltanto se lo avessero prestato al Dio cristiano oltre che alle divinità buddiste e scintoiste. Ma era una “soluzione” che li metteva subito alle prese con l’indecidibilità delle asserzioni riflessive. Veniva fatta un’asserzione entro uno schema di riferimento chiaramente stabilito (la fede cristiana) che asseriva qualcosa su questo schema e quindi su se stessa, vale a dire negava lo schema di riferimento, e negando lo schema negava il giuramento stesso. Se consideriamo C come la classe di tutte le asserzioni entro la struttura del cristianesimo, il giuramento è sia un membro di C, poiché invoca la Trinità, sia al tempo stesso una meta-asserzione che nega C –quindi su C-. E’ un’impasse logica che ormai conosciamo bene. Nessuna asserzione fatta entro un dato schema di riferimento può nello stesso tempo uscir fuori dallo schema, per così dire, e negare se stessa. E’ il dilemma di chi è preso da un incubo mentre sogna; non servirà a niente tutto quello che cerca di fare nel sogno. Può sfuggire all’incubo soltanto se si sveglia, il che significa uscir fuori dal sogno. Ma il risveglio non fa parte del sogno, è uno schema completamente diverso; è un non-sogno, per così dire. In teoria, l’incubo potrebbe continuare per sempre, come accade per certi incubi di schizofrenici, perché nulla entro lo schema ha il potere di negare lo schema. Ma questo è proprio l’obiettivo che i giapponesi intendevano raggiungere col giuramento. I convertiti, abiurando, restavano entro lo schema di una formula paradossale e in tal modo venivano presi nel paradosso.
Un giuramento lega di per sé non solo chi lo presta ma anche il dio in nome del quale viene prestato.
Ma il paradosso deve anche aver influenzato gli stessi persecutori. E’ impossibile che non siano stati consapevoli di aver posto con la loro formula il dio cristiano al di sopra delle proprie divinità. Per cui alla fine devono essersi trovati inviluppati dalla loro stessa mistificazione, che negava ciò che asseriva e asseriva ciò che negava.
In linea di massima si può dire che la storia del genere umano mostra che ci sono due tipi di persone che vogliono sottomettere la mente degli altri: coloro che ritengono una situazione accettabile la distruzione fisica dei loro oppositori senza preoccuparsi affatto di quello che pensano “veramente” le loro vittime, e coloro che per un interesse escatologico degno di miglior causa se ne preoccupano moltissimo. Al secondo gruppo interessa anzitutto cambiare la mente dell’uomo, la sua eliminazione fisica è soltanto un aspetto secondario. O’ Brien, il torturatore che G. Orwell presenta in “1984”, è un’autorità esperta sull’argomento. Si tratta del paradosso “sii spontaneo!” nella formula più nuda.
ESEMPIO 7
Una situazione sostanzialmente simile a quella dei convertiti giapponesi e dei loro persecutori è quella che venne a crearsi nel 1938 tra S. Freud e le autorità naziste. I nazisti avevano promesso a S. Freud un visto d’uscita dall’Austria a condizione che sottoscrivesse una dichiarazione da cui risultasse che era stato “trattato dalle autorità tedesche e in particolare dalla Gestapo con tutto il rispetto e la considerazione dovuti alla mia fama di scienziato” . Anche se nel caso personale di S. Freud la dichiarazione rispondeva a verità, nel contesto più vasto della spaventosa persecuzione degli ebrei viennesi, il documento veniva ad avallare una vergognosa pretesa di equità da parte delle autorità, con lo scopo evidente di usare la fama internazionale di S. Freud per la propaganda nazista. S. Freud deve essersi trovato di fronte al dilemma di sottoscriverlo o rifiutarsi. In termini di psicologia sperimentale, doveva affrontare un conflitto di evitamento-evitamento. Egli riuscì a rovesciare le posizioni intrappolando i nazisti nella loro stessa mistificazione. Quando l’ufficiale della Gestapo gli portò i documenti per la firma,S. Freud chiese se gli era permesso aggiungere un’altra frase. L’ufficiale acconsentì, sicuro com’era della sua posizione one-up, e S. Freud scrisse di suo pugno: “Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia” . Ora la situazione era capovolta. La Gestapo, che in un primo momento aveva costretto S. Freud a lodarla, non poteva certo fare obiezione per aver ricevuto una lode supplementare. Ma per chiunque sapesse sia pure confusamente cosa stava accadendo a Vienna in quei giorni il sarcasmo di quella “lode” era così devastante da rendere il documento privo di ogni valore ai fini della propaganda. In breve, S. Freud aveva invalidato il documento con una asserzione che aderiva al contenuto della dichiarazione ma nello stesso tempo lo negava con il sarcasmo.
ESEMPIO 8
In “Les Plaisirs et les Jours”, M. Proust ci dà un esempio stupendo del paradosso pragmatico che si ha quando c’è contraddizione, come spesso accade, tra un comportamento socialmente approvato e l’emozione individuale. Alexis è un tredicenne che va a trovare lo zio che sta morendo per una malattia incurabile. Il suo precettore gli dice di non parlare allo zio della morte e di non piangere. Alexis pensa però che se nascondo la sua ansia allo zio può sembrare che non lo sia e che quindi non gli voglia bene.
ESEMPIO 9
Un giovanotto ebbe il sentore che i suoi genitori non approvavano che filasse con una certa ragazza che aveva intenzione di sposare. Il padre del ragazzo era un bell’uomo, dinamico e ricco, che dominava completamente la moglie e i tre figli. La madre era una donna silenziosa e chiusa in se stessa che in diverse occasioni era andata in clinica “per riposare” (posizione completamente one-down). Un giorno il padre invitò il figlio nel suo studio –una procedura riservata soltanto alle dichiarazioni molto solenni- e gli disse: “Louis, c’è una cosa che dovresti sapere. Noi Alvarados sposiamo sempre donne migliori di noi”.
L’asserzione del padre si presta alle seguenti interpretazioni. Noi Alvarados siamo gente superiore; tra l’altro, la posizione sociale delle donne che sposiamo è altolocata. Ma la prova ultima di tale superiorità e non solo nettamente in contrasto con i fatti che il giovanotto può osservare, ma implica anche che gli uomini Alvarados sono inferiori alle proprie mogli. E questa implicazione nega quanto l’asserzione voleva sostenere.
ESEMPIO 10
Lo psichiatra chiese a un giovanotto che aveva in cura di invitare i genitori a partecipare ad almeno ad una seduta di terapia congiunta. Durante la seduta fu chiaro che i genitori erano d’accordo tra loro soltanto quando si coalizzavano contro il figlio, mentre in molti argomenti importanti non erano affatto d’accordo. La madre, dopo aver giudicato provocatorio un consiglio del terapeuta, disse: “L’unica cosa che vogliamo dalla vita è che il matrimonio di nostro figlio sia felice come il nostro”. Se la questione si pone in questi termini, la sola conclusione è che il matrimonio è felice quando non lo è, ed infelice quando è felice.
ESEMPIO 11
Una madre stava parlando al telefono con lo psichiatra della figlia schizofrenica e si lamentava delle ricadute della ragazza. Ma di solito quando diceva che la figlia era ricaduta voleva dire che la ragazza si era mostrata più indipendente e che aveva battibeccato con lei. Da qualche giorno, per esempio, la figlia era andata a stare per conto suo in un appartamento, una decisione che aveva abbastanza infastidito la madre. Il terapeuta le chiese di fare un esempio di quello che lei definiva comportamento disturbato, e la donna rispose che la figlia aveva rifiutato un suo invito a cena, ma alla fine era riuscita a convincerla. L’opinione della madre è che quando la ragazza dice “no” significa che vuol venire, perché lei sa meglio della figlia quello che passa nella sua mente confusa; e quando la ragazza dice “sì” vuol dire soltanto che la figlia non ha mai la forza di dire “no”. Sia la madre che la figlia sono dunque legate da questo modo paradossale di etichettare i messaggi.
ESEMPIO 12
D. Greenburg ha pubblicato recentemente una raccolta incantevole di comunicazioni paradossali di madri. Ecco una perla: “Regala a tuo figlio Marvin due camicie sportive. La prima volta che ne metta una, guardalo con tristezza e digli col tuo Solito Tono di Voce: “Quell’altra non ti piace?”.
Teoria del doppio legame
G. Bateson, D. D. Jackson, J. Haley e J. H. Weakland hanno descritto per primi gli effetti del paradosso nell’interazione umana, in un saggio intitolato “Toward a Theory of Schizophrenia” pubblicato nel 1956. Essi si chiedono quali sequenze di esperienza interpersonale provocherebbero il comportamento (piuttosto che essere causate da esso) che giustificherebbe la diagnosi di schizofrenia. Lo schizofrenico, ipotizzano, “deve vivere in un universo in cui le esperienze di eventi sono tali che le sue abitudini di comunicazione non convenzionali in qualche modo saranno appropriate” . E’ un’ipotesi che li ha portati a postulare e a identificare certe caratteristiche essenziali di tale interazione, per cui hanno coniato il termine “doppio legame”.
E’ possibile descrivere gli elementi di un doppio legame come segue:
due o più persone sono coinvolte in una relazione intensa che ha un alto valore di sopravvivenza fisica e/o psicologica per una di esse, per alcune, o per tutte. Le situazioni in cui si hanno tipicamente queste relazioni intense includono la vita familiare, l’invalidità, la dipendenza materiale, la prigionia, l’amicizia, l’amore, la fedeltà...;
in un simile contesto viene dato un messaggio che è strutturato in modo tale che
a.) asserisce qualcosa,
b.) asserisce qualcosa sulla propria asserzione e
c.) queste due asserzioni si escludono a vicenda.
Quindi, se il messaggio è un’ingiunzione, l’ingiunzione deve essere disobbedita per essere obbedita; se è una definizione del sé o dell’altro, la persona di cui si è data la definizione è quel tipo di persona soltanto se non lo è, e non lo è se lo è; infine, si impedisce al ricettore del messaggio di uscir fuori dallo schema stabilito da questo messaggio, o metacomunicando su esso (commentandolo) o chiudendosi in se stesso. Egli non può non reagire ad esso, ma non può neppure reagire ad esso in modo adeguato (non paradossale), perché il messaggio stesso è paradossale. Questa situazione spesso si ha quando viene proibito in modo più o meno evidente di mostrare una qualsiasi consapevolezza della contraddizione o del vero problema in questione. Una persona in una situazione di doppio legame è quindi probabile che si trovi punita (o almeno che le si faccia provare un senso di colpa) per aver avuto percezioni corrette, e che venga definita “cattiva” o “folle” per aver magari insinuato che esiste una discrepanza tra ciò che vede e ciò che “dovrebbe” vedere.
Il problema della patogenesi del doppio legame divenne subito l’aspetto più discusso e frainteso della teoria.
Non c’è alcun dubbio che il mondo in cui viviamo è ben lontano dall’essere un mondo logico e non c’è dubbio che tutti siamo esposti a doppi legami, eppure la maggior parte di noi riesce a conservare la propria salute mentale. Ma molte di queste esperienze sono isolate e spurie, anche se quando accadono possono essere traumatiche. Una situazione molto diversa si presenta invece quando si è esposti al doppio legame per lungo tempo e poco a poco ci si abitua a tale situazione e la si aspetta. Questo, naturalmente, vale soprattutto per l’infanzia, quando tutti i bambini hanno la tendenza a concludere che quello che accade a loro, accade in tutto il mondo. Il doppio legame non può essere un fenomeno unidirezionale. Se esso produce un comportamento paradossale, allora sarà proprio questo comportamento a “legare doppio” il “doppio legatore”.
Dove il doppio legame è diventato il modello predominante della comunicazione, e dove l’attenzione diagnostica viene limitata all’individuo più manifestamente disturbato, si scoprirà che il comportamento di questo individuo soddisfa i criteri diagnostici della schizofrenia. Soltanto in questo senso un doppio legame si può considerare “causativo” e quindi patogeno.
Si possono aggiungere altri criteri per definire la connessione esistente tra il doppio legame e la schizofrenia. Essi sono:
quando si ha un doppio legame di lunga durata, forse cronico, esso si trasformerà in qualcosa che ci si aspetta, qualcosa di autonomo e abituale, che riguarda la natura delle relazioni umane e del mondo in genere, un’attesa che non ha bisogno di essere ulteriormente rafforzata;
il comportamento paradossale imposto dal doppio legame a sua volta ha natura di doppio legame, e questo porta ad un modello di comunicazione autoperpetuantesi. Il comportamento del comunicante più manifestamente disturbato, se lo si esamina isolatamente, soddisfa i criteri clinici della schizofrenia.
Negli esperimenti classici in cui si pone un organismo in una situazione di conflitto (approccio-evitamento, approccio-approccio, evitamento-evitamento) la radice del conflitto è sempre rintracciabile in quegli elementi che equivalgono a una contraddizione tra le alternative, che sono state offerte o imposte. Questi esperimenti producono effetti comportamentali che vanno dall’indecisione alla scelta sbagliata, ma tali comportamenti non presentano mai la patologia peculiare che si osserva quando il dilemma è veramente paradossale.
Invece la presenza di tale patologia è evidente nei famosi esperimenti di I. Pavlov in cui in un primo tempo si addestra un cane a differenziare tra un cerchio e una ellisse e in un secondo tempo lo si rende incapace di tale differenziazione quando l’ellisse viene a mano a mano allargata in modo da sembrare sempre più simile a un cerchio. I. Pavlov ha coniato il termine “nevrosi sperimentale” per definire questi effetti comportamentali. Il nodo del problema sta nel fatto che in questo tipo di esperimenti lo sperimentatore prima impone all’animale la necessità vitale di una differenziazione corretta e poi rende impossibile la differenziazione entro tale schema. Il cane viene così gettato in un mondo in cui la sua sopravvivenza dipende dall’osservanza di una legge che viola se stessa: il paradosso alza la sua testa di Gorgone. A questo punto l’animale comincia ed esibire tipici disordini del comportamento.
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Visual Paradox – Dylan Leeds, University of Oregon, 2009. |
La distinzione più importante tra ingiunzioni contradditorie e paradossali è la seguente. Di fronte ad un’ingiunzione contraddittoria si sceglie un’alternativa e si perde – o si patisce - l’altra alternativa. Non è che il risultato sia quello più soddisfacente: abbiamo già accennato che non si può salvare capra e cavoli, e il male minore resta pur sempre un male. Ma l’ingiunzione contraddittoria offre almeno la possibilità di compiere una scelta logica. L’ingiunzione paradossale, invece, fa fallire la scelta stessa, nulla è possibile, e viene messa in moto una serie oscillante e autoperpetuantesi.
Nel caso di doppi legami, la complessità del modello è particolarmente vincolante e le reazioni pragmatiche possibili sono molto poche.
Di fronte all’assurdità insostenibile della sua situazione, è probabile che un individuo concluda che deve essersi lasciato sfuggire qualche elemento d’importanza vitale che era inerente alla situazione o che le persone che contano in quel contesto gli avevano offerto. In entrambi i casi sarà ossessionato dal bisogno di scoprire tali elementi, di dare un significato a ciò che continua ad accadere in lui e attorno a lui, e alla fine sarà costretto ad estendere la sua ricerca ai fenomeni più improbabili e senza alcuna attinenza col significato e gli elementi che cerca di rintracciare. Questa deviazione dai problemi reali diventa ancora più plausibile se si ricorda che un elemento essenziale di una situazione di doppio legame è la proibizione di essere consapevoli della contraddizione che la situazione comporta.
D’altro canto può scegliere la reazione che le reclute scoprono molto presto e che è la migliore possibile alla logica ottundente (o alla mancanza di logica) della vita militare: prestare osservanza a tutte le ingiunzioni prendendole alla lettera, guardandosi bene dal mostrare di avere idee personali.
La terza reazione possibile potrebbe essere quella di ritrarsi dalle complicazioni della vita. Per mettere in atto una simile “soluzione” occorre isolarsi fisicamente quanto più possibile e inoltre bloccare l’ingresso dei canali di comunicazione perché la comunicazione non consente di isolarsi come si desidera. E’ lecito supporre che praticamente si possa ottenere lo stesso risultato –fuga dai viluppi del doppio legame- con un comportamento iperattivo che sia così intenso e prolungato da sommergere la maggior parte dei messaggi che entrano.
Queste tre forma di comportamento di fronte all’indecidibilità di doppi legami reali o che ci si è abituati ad aspettarsi richiamano alla mente i quadri clinici della schizofrenia, cioè rispettivamente i sottogruppi della schizofrenia paranoide, della ebefrenia e della catatonia (stuporosa e agitata).
Predizioni paradossali
Nei primi mesi del 1940 fece la sua comparsa un paradosso nuovo e particolarmente affascinante.
Il direttore di una scuola annuncia agli allievi che ci sarà un esame inatteso durante la prossima settimana, cioè in un giorno qualsiasi tra lunedì e venerdì. Gli studenti gli fanno notare che, a meno che non violi i termini del proprio annuncio e non intenda dare un esame inatteso in un certo momento della settimana seguente, non potrà esserci un esame simile. Perché se non si è tenuto nessun esame entro giovedì sera, allora no si può tenerlo inaspettatamente venerdì, perché venerdì sarebbe l’unico giorno possibile che è rimasto. Ma se per questa ragione si esclude venerdì, come possibile giorno d’esame, per la stessa ragione si può escludere anche giovedì. E’ chiaro che mercoledì sera ci sarebbero rimasti soltanto due giorni: giovedì e venerdì. Abbiamo dimostrato che venerdì si può escludere. Resta soltanto giovedì, ma un esame tenuto di giovedì non sarebbe più inatteso. Naturalmente, per la stessa ragione si possono escludere mercoledì, martedì e infine anche lunedì: non ci può essere un esame inatteso. Si può supporre che il direttore ascolti la loro “dimostrazione” in silenzio e poi tenga l’esame giovedì mattina. Dal momento del suo annuncio egli aveva programmato di tenere l’esame quel giovedì mattina. Essi, d’altro canto, sono ora di fronte a un esame completamente inatteso – inatteso proprio perché hanno convinto se stessi che l’esame non poteva essere inatteso- .
L’aspetto più sorprendente del paradosso è questo: se lo si esamina più da vicino ci si rende conto che l’esame poteva tenersi anche il venerdì ed essere ugualmente inatteso. In realtà, ciò che conta è la situazione esistente il giovedì sera (il resto è superfluo). Da giovedì sera resta solo venerdì come giorno possibile, ma questa constatazione rende del tutto prevedibile un esame di venerdì. E’ proprio questo processo deduttivo secondo cui l’esame è atteso e quindi impossibile che rende possibile al direttore di tenere un esame inatteso di venerdì o anche in qualsiasi altro giorno della settimana, rispettando rigorosamente i termini del suo annuncio.
Ecco, dunque, ancora un vero paradosso:
- l’annuncio contiene un predizione nel linguaggio oggetto (“ci sarà un esame”);
- contiene una predizione nel metalinguaggio che nega la predicibilità dell’esame;
- le due predizioni si escludono a vicenda;
- il direttore può impedire agli studenti di uscire fuori dalla situazione creata dal suo annuncio e di ricevere informazione supplementare che potrebbe metterli in grado di scoprire la data dell’esame.
Quando si considerano le conseguenze pragmatiche, si possono trarre due conclusioni assai sorprendenti:
- per realizzare la predizione contenuta nel suo annuncio, il direttore ha bisogno che gli studenti giungano alla conclusione opposta (cioè, che un esame così come è stato annunciato è logicamente impossibile), perché soltanto allora si sarà creata la situazione in cui può diventare operante la predizione di un esame inatteso. Le predizioni paradossali presentano affinità col comportamento che richiama l’abulia e l’inerzia tipiche della schizofrenia semplice;
- il dilemma sarebbe ugualmente impossibile se gli studenti implicitamente non si fidassero del direttore. Tutta la loro deduzione s’impernia sull’ipotesi che ci possa e ci si debba fidare del direttore. Un dubbio sulla sua lealtà non dissolverebbe il paradosso dal punto di vista della logica, ma certamente lo dissolverebbe dal punto di vista della pragmatica. Non soltanto la logicità di pensiero, ma anche la fiducia, dunque, ci rendono vulnerabili a questo genere di paradosso.
Una persona che rechi l’etichetta diagnostica di “schizofrenico” può assumere sia la parte degli studenti che quella del direttore. Come gli studenti è preso nel dilemma di logica e fiducia. Ma viene anche a trovarsi in una posizione assai simile a quella del direttore perché s’impegna come lui in messaggi di comunicazione che sono indecidibili. G. C. Nerlich ha espresso questo stato di cose: “Un modo per non dire niente è contraddirsi. E se uno riesce a contraddirsi dicendo che non sta dicendo niente, allora alla fine non si contraddice affatto. Può salvare capra e cavoli” .
La “soluzione” del suo dilemma è l’uso di messaggi indecidibili che dicono di se stessi che non stanno dicendo niente.
Ma anche in settori diversi da quello delle comunicazioni puramente schizofreniche si può constatare che le predizioni paradossali turbano i rapporti umani. Si presentano, per esempio, ogni volta che una persona P, godendo implicitamente della fiducia dell’altro, O, minaccia di fare qualcosa ad O, che renderebbe P indegno di fiducia.
Un esempio pratico è quello di una coppia in cui il marito, una persona orgogliosa del fatto in vita sua non ha mai dato motivo a nessuno di dubitare della sua parola, risponde al vizio della propria moglie di bere un bicchiere di vino prima di pranzo dicendole che se non la smetteva avrebbe trovato anche lui un vizio, riferendosi ad altre donne.
La struttura della minaccia del marito è identica alla struttura dell’annuncio del direttore. Secondo la moglie lui sta dicendo:
- sono del tutto degno di fiducia (trustworthy);
- ora ti punirò con l’essere indegno di fiducia (infedele, traditore);
- perciò, resterò degno di fiducia con l’essere indegno di fiducia, perché se adesso non distruggessi la tua fiducia nella mia fedeltà (trustworthiness) coniugale, non sarei più degno di fiducia.
Da un punto di vista semantico il paradosso sorge sui due diversi significati di “degno di fiducia”. Al primo punto il termine è usato nel metalinguaggio per denotare la proprietà comune di tutte le sue (del marito) azioni, promesse e attitudini. Al secondo punto è usato nel linguaggio oggetto e si riferisce alla fedeltà coniugale.
La fiducia. Il dilemma dei prigionieri
Nei rapporti umani, ogni predizione è in qualche modo collegata col fenomeno della fiducia. Nella comunicazione umana non c’è alcun modo di far partecipare l’altro all’informazione o alle percezioni di cui uno dispone esclusivamente per sé. Nella migliore delle ipotesi l’altro può avere fiducia o diffidenza, ma non può mai sapere. D’altra parte, l’attività umana sarebbe praticamente paralizzata se la gente agisse soltanto in base all’informazione di prima mano o alle percezioni.
Il direttore sa che darà l’esame giovedì mattina; il marito sa che non intende tradire la moglie. In ogni interazione del tipo “dilemma dei prigionieri”, nessuno dei due ha qualche informazione di prima mano. Entrambi devono fare assegnamento sulla fiducia che hanno nell’altro. Tali predizioni diventano invariabilmente paradossali.
Il “dilemma dei prigionieri” si può rappresentare mediante una matrice come la seguente:
b1 b2
a1 5,5 -5, 8
a2 8, -5 -3, -3
in cui due giocatori, A e B hanno ciascuno due mosse alternative (A = a1, a2, B = b1, b2). Entrambi sono pienamente consapevoli dei guadagni e delle perdite stabiliti dalla matrice. Il loro dilemma è costituito dal fatto che ciascuno non sa che alternativa sceglierà l’altro. Di solito si presume che, indipendentemente dal fatto che il gioco venga giocato una sola volta o cento volte di seguito, la decisione a2, b2 è quella più sicura. Naturalmente una soluzione più ragionevole sarebbe a1, b1 perché assicura ad entrambi i giocatori un guadagno. Ma si può fare questa scelta soltanto a condizione che ci sia una fiducia reciproca.
Questo è il punto dove quasi tutte le coppie (o anche quasi tutte le nazioni) si fermano a valutare e definire la loro relazione.
Riassumendo, un paradosso è una contraddizione logica che deriva dalle deduzioni coerenti di premesse corrette. I paradossi pragmatici si distinguono dalla semplice contraddizione soprattutto per questo motivo: mentre nel caso di una contraddizione la scelta è una soluzione, nei paradossi la scelta non è neanche possibile.