giovedì 1 dicembre 2011

Me-Ti: il Tao delle svolte


















Delle svolte

Bertolt Brecht

Il Me-ti - Libro delle svolte è stato composto da Bertolt Brecht prevalentemente tra il 1934 e il 1937 (con qualche correzione successiva), in stile “cinese”, come “libretto di regole di comportamento”. Esso è stato pubblicato per la prima volta da Suhrkamp, a Francoforte nel 1965, ed è stato tradotto in italiano da Cesare Cases per Einaudi, Torino 1979. Il volume è ancora incluso nel catalogo italiano di Einaudi, anche se non di immediato reperimento.

Il Libro delle svolte è stato tradotto in tedesco utilizzando la traduzione dal cinese in inglese di Charles Stephen. Esso non rientra nei libri classici dell’antichità cinese, anche se il suo nucleo essenziale risale a Mo Di. La dottrina di Mo Di, dopo essere stata quasi completamente messa in ombra dai confuciani, è riemersa in primo piano nel secolo scorso, poiché alcuni suoi elementi ricordavano certe correnti filosofiche occidentali e sembrano quasi moderni. I capitoli Della musica e Del comportamento sono scritti autentici di Mo Di. Altri capitoli non sono di Mo Di, ma sono anch’essi antichi. Altri ancora sono di data più recente, tuttavia anche nella redazione originale sono scritti nello stile degli antichi. Da un punto di vista rigorosamente scientifico opere come il Libro delle svolte sono piuttosto sospette. Ma il lettore che si attenga più al contenuto che al suggello dell’autenticità leggerà il libro con profitto ad onta dei suoi aspetti eclettici. Proprio l’inserimento di ragionamenti moderni e la scelta, in parte davvero divertente, di confronti tratti dalla storia moderna per esemplificare le idee fondamentali di un antico filosofo cinese, rallegrerà più di un lettore.

Elenco dei nomi più importanti
[L’elenco compilato da Brecht è stato integrato dai curatori tedeschi]

Engels: il Maestro Eh-fu, Fu-en, En-fu.
Lenin: Mi-en-leh.
Marx: Ka-meh.
Hegel: il Maestro Hu-jeh, He-leh.
Rosa Luxemburg: Sa.
Stalin: Ni-en.
Korsch: Ko, Ka-osh.
Trotzki: To-tsi.
Brecht: Kin, Kin-jeh, Ken-jeh, Kien-leh.
Russia: Tsen.
Unione Sovietica: Su.
Germania: Ga, Ge-el, Ger.
Hitler: Hi-jeh, Hu-ih, Hui-jeh, Ti-hi.
Plechanov: Le-peh.
Anatole France: Fan-tse.
Feuchtwanger: Fe-hu-wang.
Emil Ludwig: Lu.


Delle svolte

Mi-en-leh insegnava: L’instaurazione della democrazia può condurre all’instaurazione della dittatura. L’instaurazione della dittatura può condurre alla democrazia.

Del principio di Ka-meh sulla dipendenza della coscienza

Me-ti insegnava: Il maestro Ka-meh dice che la coscienza dipende dal modo in cui gli uomini producono ciò che è necessario alla vita. Egli contesta che gli uomini possa­no emanciparsi dal punto di vista economico nelle loro teste più che nell’economia stessa. Questo in un primo tempo sembra deprimente. Ma la semplice considerazione che in questo rapporto di dipendenza furono purtuttavia create tutte le grandi opere, e che queste non diverrebbero più piccole ammettendo tale dipendenza, rimette tutto a posto. Del resto questo principio è destinato a perdere un giorno non già la sua fama, ma la sua importanza. Esso fu formulato affinché contro le idee dominanti del tempo si ricordasse che erano le idee dei dominanti. E questo limitava il loro valore. Quando non ci saranno più dominanti e quindi la dipendenza dall’economia non sarà più sentita come tanto opprimente dalla maggior parte degli uomini su questa terra, allora anche il principio di Ka-meh non deprimerà più nessuno.

Del fiume delle cose

Ed io vidi che nulla era del tutto morto, nemmeno ciò che è estinto. Le mute pietre respirano. Si trasformano e provocano trasfor­mazioni. Perfino la luna, che si dice morta, si muove. Getta luce, sia pure non sua, sulla terra, determina la traiettoria dei corpi che cadono e cagiona il flusso e il riflusso dell’acqua marina. E se spaventasse un solo uomo che la guardi, anzi se un solo uomo la guardas­se, già non sarebbe morta, ma vivrebbe. Eppure io vidi che in certo modo essa è morta; infatti, una volta messo insieme tutto ciò per cui vive, questo è troppo poco o non c’entra, quindi in complesso è da chiamarsi morta. Poiché se non facessimo così, se non la chiamassimo morta, noi perderemmo un termine, per l’appunto la parola morto, e la possibilità di denominare qualcosa che pur vediamo. Dato che però, come abbiamo parimenti visto, essa non è nemmeno morta, noi dobbiamo pensare di essa ambe le cose e trattarla come alcunché di morto non-morto, ma più morto che non-morto, come alcunché di estinto per qualche rispetto, e per questo rispetto irrevocabilmente estinto, ma non per ogni rispetto.

L’indagine dei limiti della conoscenza

Me-ti si espresse contro una troppo zelante indagine dei limiti della conoscenza. Egli disse: E molto utile constatare i limiti della conoscenza nei vari campi, limiti che si sentono come un impaccio, onde allargarli. E bene sapere fino a che limite di grandezza e di piccolezza si può vedere con l’occhio e inventare strumenti che migliorino la visione. Ma i filosofi, quando parlano della conoscenza, vanno insieme più lontano e meno lontano. Essi non si interessano del più o del meno, ma del tutto o del nulla. Il maestro Eh-fu ha detto che si può tranquillamente parlare di una conoscenza possibile quando si possono maneggiare le cose. Se si può piantar frumento e predire eclissi, allora è anche lecito parlare della possibilità che la natura sia conoscibile. Coloro che vogliono saperne di più vogliono in fondo saperne di meno, perché non vogliono sapere quanto si è appena detto. Essi vogliono con le sole parole, senza l’ausilio di esperimenti, provocare una decisione che ha delle conseguenze per il comportamento pratico. In sostanza essi tentano soltanto di allineare una serie di parole in modo che con una specie di necessità logica, cioè in modo tale che le parole adoperate non cambino il loro senso e si continuino ad applicare certe regole di successione, si possa affermare che tutto è conoscibile o che nulla è conoscibile. Per lo più essi mostrano un evidente interesse a che la risposta sia nulla (nel qual caso, del resto, anche tutta questa operazione non significherebbe nulla), e quando hanno ordinato le parole in modo che restino cose non conoscibili, non è che allora neghino a queste ogni ulteriore interesse per gli uomini, ma anzi riconoscono loro un particolare influsso sull’agire degli uomini. In tutto ciò essi assumono un’aria estremamente scettica, di gente che non si lascia imbrogliare e non si fa illusioni, ma solo col risultato che per loro c’è poi un dio o uno spirito in cui si può credere ciecamente. Con tutti i loro dubbi e la loro scientificità essi confutano, imperlandosi di sudore, l’obiezione dei veri scettici che non c’è un influsso divino proveniente dall’esterno, poiché non è conoscibile. Essi dicono: se l’uomo non può conoscere, come si può pretendere dagli dèi che siano conoscibili? Essi affermano di non voler paralizzare con queste riflessioni l’agire degli uomi­ni; pretendono che gli uomini agiscano anche se non possono veramente conoscere e ricordano sprezzantemente che essi di fatto agiscono continuamente. Per questo agire, dunque per ogni agire umano, la conoscenza - essi dicono arricciando il naso -, questa conoscenza orba e inadeguata è pienamente sufficiente. Per che cosa poi non sia sufficiente, questo naturalmente non ce lo dicono.

[Definizione del pensiero]

Me-ti diceva: Il pensiero è qualcosa che viene dopo delle difficoltà e precede l’azione.

Il Grande Metodo

Il detto del maestro Hu-jeh che uno non è uguale a uno, non soltanto uguale a uno, non sempre uguale a uno, è un punto di partenza del Grande Metodo. Vuol dire che accade di usare troppo a lungo questa formula, o una costruita in modo analogo, cioè si può aver ragione di usarla in un tempo e in una situazione determinata, ma dopo qualche tempo, in una situazione cambiata, si può aver torto. Se si analizza questa affermazione bisogna rassegnarsi ad affrontare ragionamenti molto complicati, senza però mai dimenticare che in fondo quel che vuol dire è molto semplice. Il pensiero ha difficoltà per esempio a fissare il concetto di bocciolo, perché la cosa così designata è in preda a un impetuoso sviluppo, e mostra, scappando sotto al pensiero, un grande impulso a non essere un bocciolo, bensì un fiore. Così, per chi pensa, il concetto di bocciolo è già il concetto di qualcosa che aspira a non essere quel che è. Eppure si tratta di cose semplici e non ci sono difficoltà in questa designazione e nel modo di applicarla. Molti all’inizio non capiscono il Grande Metodo perché dei due termini, osservatore e cosa osservata, ne prendono sul serio soltanto uno, cioè la cosa osservata, e attribuiscono al nostro pensiero una imprecisione e un’inconsistenza che mancano alla cosa pensata. Ma questa imprecisione e inconsistenza non mancano alla cosa pensata, e così il nostro pensiero non è manchevole, quando è inconsistente e impreciso, bensì esatto, in quanto ha speranza di comandare alla natura solo obbedendole. Se diciamo “La scienza è la scienza” questa formula è valida, a quanto sembra, perché la stessa parola è usata due volte. Ma la stessa parola designa cose diverse, e non solo in tempi diversi. Nella nostra epoca i fisici contestano che gli storici abbiano una scienza, solo i loro metodi sembrano loro scientifici, e il maestro Eh-fu diede loro ragione, e purtuttavia contestò la scientificità dei fisici, perché questi capivano troppo poco della nuova scienza storica. Molto facilmente e con grande vantaggio ci si può rappresentare la scienza come lo sforzo di scoprire e provare la mancanza di scientificità di asserzioni e di metodi scientifici. La grande rivoluzione nel Su mostrò i vantaggi che può arrecare il ripetere troppo a lungo formule come “il contadino è il contadino”. Mi-en-leh scoprì che nel Su come dappertutto il fenomeno “il contadino” si presentava in forme così differenti da comportarsi di fronte a certi fatti in modo del tutto opposto. Egli stabilì che quella differenza, che implicava il differente comportamento, era una differenza di proprietà, e da ciò trasse enormi vantaggi per la grande rivoluzione. Ma questo lo poté fare solo perché contemporaneamente osservò che, ad onta della differenza da lui riscontrata, c’era anche, primariamente, un comportamento identico in tutti i contadini: contrariamente agli operai, che volevano abolire la proprietà individuale, i contadini volevano conservarla. Anzi i contadini poveri volevano introdurla per la prima volta. Qui dunque, ed entro questi limiti, era valida la formula “il contadino è il contadino”. Era valida, e doveva essere posta alla base dell’azione nello stesso torno di tempo in cui il contrasto tra i contadini era tanto grande che gli uni non potevano restare più contadini se lo diventavano gli altri. Per parecchio tempo gli operai sotto la guida di Mi-en-leh e di Nien lottarono affinché la formula “il contadino è il contadino” si affermasse come valida, trasformando i contadini ricchi e i contadini poveri in contadini con proprietà uguali. E poi si formò in seno alla stessa Lega degli operai, sempre nel giro della stessa generazione, un’opposizione che in base alla formula “il contadino è il contadino” predisse (o constatò) contese tra operai e contadini che potevano terminare solo con la vittoria o dei contadini o degli operai, e chiese che gli operai prendessero delle misure in vista di queste contese. La Lega si trovò in difficoltà per tali dispute, ma a quel tempo la formula “il contadino è il contadino” ricominciò a mostrare la propria labilità, perché i contadini si trasformarono in operai; sicché la formula “il contadino è l’operaio” serviva meglio in molti casi. L’opposizione restò indietro ai tempi e fu sconfitta. Ma coloro che in questo nuovo operaio, che era sorto in seguito all’eliminazione della proprietà terriera individuale, non sapevano più riconoscere l’elemento contadinesco, e consideravano quindi del tutto superata la formula “il contadino è il contadino”, fecero grandi errori. Così quella formula continuava ad avere, in forma cambiata, la sua validità.

[Idee pericolose]

 
Quando il filosofo cinese Me-ti tornò da un’udienza concessagli da un altissimo funzionario, riferì ai suoi scolari che l’alto personaggio aveva parlato con lui soprattutto delle cosiddette idee pericolose. Quel signore, riferì Me-ti, si è espresso in modo impreciso, anche se molto energicamente, ma non sarei sorpreso se considerasse pericolose idee del genere di “Chi lavora deve mangiare”, oppure “Se si vuole costruire un ponte, ci vogliono pontieri”, oppure “La pioggia cade dall’alto in basso”. Credetemi, ho avuto l’impressione che deve essere molto pericoloso trovarsi nella pelle di quel signore.

Vivere secondo il Grande Metodo

 
Me-ti diceva: È utile non soltanto pensare mediante il Grande Metodo ma anche vivere mediante il Grande Metodo. Non essere d’accordo con se stessi, mettersi in crisi, cambiare i piccoli mutamenti in grandi mutamenti, tutto ciò non lo si può soltanto osservare, ma anche fare. Si può vivere con più o meno mediazioni, in contesti più o meno ricchi. Si può ottenere o cercare di ottenere un durevole cambiamento della propria coscienza cambiando il proprio essere sociale. Si può aiutare a rendere le istituzioni statali contraddittorie e suscettibili di evolversi.

Vivere e morire

 
Ni-en diceva: Sempre nella vita c’è qualcosa che è in procinto di perire. Ciò che perisce non vuole però semplicemente morire, ma lotta per la propria sopravvivenza, difende la sua causa persa. Nella vita nasce altresì sempre qualche cosa di nuovo. Ma ciò che si desta alla vita non viene semplicemente al mondo: ferisce e grida e afferma il proprio diritto di vivere.

Dovete costruire la vostra vita

Non dovete costruire soltanto città, macchine e ponti, ma anche la vostra vita, disse Me-ti. Le città sono sorte disordinatamente, una casa si affiancava all’altra, una strada sboccava nell’altra, ma poi ci furono presto gli urbanisti. Certo ci sono anche città orrende, costruite secondo piani che erano appunto orrendi. (Se delle città costruite secondo piani sono orrende, non lo sono perché son costruite secondo piani, ma perché sono costruite secondo piani orrendi).

È più facile dire il credibile che il vero


Spesso si tenta di far credere ciò che non si può dimostrare. Ci si appella allora al proprio amore per la verità. Purtroppo non sempre il vero è il verisimile. Spesso ci vuole l’aiuto di qualche piccola bugia perché il vero diventi anche verisimile. Così si comincia a mentire nel momento in cui si può riscuotere fiducia solo appellandosi a una veridicità a tutta prova. Me-ti diceva: E più cauto da parte mia far sì che il mio amico possa credere a se stesso piuttosto che a me.

Cattive abitudini

Camminare in direzione di posti che non si possono raggiungere camminando è un’abitudine che bisogna perdere. Parlare di faccende che non si possono decidere parlando è un’abitudine che bisogna perdere. Pensare intorno a problemi che non si possono risolvere pensando è un’abitudine che bisogna perdere, diceva Me-ti.

Dorotheenstädtischer Friedhof, Berlin
estratti da:

mercoledì 30 novembre 2011

il Te del Tao: XXX - LIMITARE LE OPERAZIONI MILITARI


XXX - LIMITARE LE OPERAZIONI MILITARI

Quei che col Tao assiste il sovrano
non fa violenza al mondo con le armi,
nelle sue imprese preferisce controbattere.
Là dove stanziano le milizie
nascono sterpi e rovi,
al seguito dei grandi eserciti
vengono certo annate di miseria.
Chi ben li adopra
soccorre e basta,
non osa con essi acquistar potenza.
Soccorre e non si esalta,
soccorre e non si gloria,
soccorre e non s'insuperbisce,
soccorre quando non può farne a meno,
soccorre ma non fa violenza.
Quel che s'invigorisce allor decade:
vuol dire che non è conforme al Tao.
Ciò che non è conforme al Tao presto finisce.


M.C. Escher, Sphere Spirals, Woodcut printed from four blocks, 1958

49 Tao


















In un altro paese

In autunno c'era ancora la guerra, ma noi non ci andavamo più. Faceva freddo in autunno, a Milano, e il buio calava molto presto. Allora si accendevano le luci elettriche, ed era divertente camminare per le strade guardando le vetrine.
C'era molta selvaggina appesa davanti ai negozi, e la neve spolverava la pelliccia delle volpi e il vento ne gonfiava la coda. I cervi penzolavano rigidi e vuoti e pesanti, e gli uccellini si gonfiavano al vento e il vento ne scompigliava le piume. Era un autunno freddo, il vento veniva giù dalle montagne.
Ogni pomeriggio andavamo tutti all'ospedale, e c'erano vari modi di arrivarci, nel crepuscolo, attraverso la città. Due di questi modi erano seguendo i canali, ma la strada era lunga. Sempre, però, per entrare nell'ospedale, si attraversava un ponte su un canale. Si poteva scegliere fra tre ponti. Su uno di essi una donna vendeva caldarroste. Si stava al calduccio, davanti al fuoco della sua carbonella, e dopo le castagne erano calde nella tua tasca. L'ospedale era molto vecchio e molto bello, e si entrava da un cancello, si attraversava un cortile e si usciva da un cancello dalla parte opposta. Di solito c'erano dei funerali che partivano dal cortile. Oltre il vecchio ospedale c'erano i nuovi padiglioni in muratura, e là c'incontravamo ogni pomeriggio, eravamo tutti molto gentili e molto interessati a quello che affliggeva tizio o caio, e stavamo seduti nelle macchine che dovevano cambiare ogni cosa, o quasi.
Il dottore si avvicinò alla macchina dove stavo seduto io e disse: - Cosa le piaceva fare di più, prima della guerra? Praticava uno sport?
Dissi: - Si, il football.
- Bene, - disse lui. - Potrà tornare a giocare a football meglio che mai.
Il mio ginocchio non si piegava e la gamba pendeva irrigidita dal ginocchio alla caviglia, senza polpaccio, e la macchina doveva piegare il ginocchio e farlo muovere come se andassi in bicicletta. Ancora non si piegava, però, e quando veniva il momento di piegarlo, era la macchina, invece, a incepparsi. Il dottore disse: - Tutto questo passerà. Lei è un giovanotto fortunato. Tornerà a giocare a football come un campione.
Nella macchina vicina c'era un maggiore che aveva una mano piccola come quella di un bambino. Mi strizzò l'occhio quando il dottore gli visitò la mano, che era tra due cinghie di cuoio che saltavano su e giù e facevano muovere le dita irrigidite, e disse: - E giocherò anch'io a football, capitano medico? - Era stato un grandissimo schermitore, e prima della guerra il più grande schermitore italiano.
Il dottore andò nel suo ufficio, in una stanza in fondo alla sala, e ci portò una fotografia che mostrava una mano che, prima della cura, era piccola quasi come quella del maggiore, e che dopo era un po' più grande. Il maggiore tenne la fotografia con la mano buona e la studiò molto attentamente. - Una ferita? - chiese.
- Un infortunio sul lavoro, - disse il dottore.
- Molto interessante, molto interessante, - disse il maggiore, e la restituì al dottore.
- Ha fiducia?
- No, - disse il maggiore.
C'erano tre ragazzi che venivano ogni giorno e avevano circa la mia età. Erano di Milano, tutt'e tre, e uno doveva fare l'avvocato, uno il pittore, e uno avrebbe voluto fare la carriera militare, e quando avevamo finito con le macchine a volte tornavamo insieme al Caffè Cova, che era vicino alla Scala. Poiché eravamo in quattro, prendevamo la via più breve attraverso il quartiere comunista perché eravamo in quattro. La gente ci odiava perché eravamo ufficiali, e da un'osteria, mentre passavamo, qualcuno gridava: - Abbasso gli ufficiali! - Un altro ragazzo che qualche volta veniva con noi, portando così a cinque il numero dei componenti la comitiva, aveva sulla faccia un fazzoletto di seta nera perché allora era senza naso e dovevano rifargli il viso. Era andato al fronte direttamente dall'accademia militare e lo avevano ferito meno di un'ora dopo il suo arrivo in prima linea. Gli ricostruirono la faccia, ma lui veniva da un'antichissima famiglia e così non riuscivano mai a fargli il naso giusto. Poi andò in Sudamerica a lavorare in una banca. Ma quello di cui racconto accadde tanto tempo fa, e allora non sapevamo, nessuno di noi lo sapeva, come sarebbero andate, dopo, le cose. Allora sapevamo soltanto che c'era ancora la guerra, ma che noi non ci saremmo più andati.
Avevamo tutti le stesse medaglie, tranne il ragazzo con la benda di seta nera sul viso, lui non era stato al fronte abbastanza tempo per guadagnarsi una medaglia. Il ragazzo alto dalla faccia pallidissima che doveva fare l'avvocato era stato tenente degli arditi e aveva tre medaglie del tipo di cui noi ne avevamo una sola. Per molto tempo era vissuto fianco a fianco alla morte e aveva un'aria piuttosto distaccata. Avevamo tutti un'aria piuttosto distaccata, e non c'era nulla che ci unisse tranne il fatto che ogni pomeriggio c'incontravamo all'ospedale. Anche se, mentre andavamo al Cova attraverso la parte meno raccomandabile della città, camminando nel buio, con luci e canti che uscivano dalle osterie, e dovendo certe volte imboccare una strada dove gli uomini e le donne si affollavano sul marciapiede, cosa che ci costringeva a urtarli per passare, ci sentivamo uniti dal fatto che era successo qualcosa che loro, le persone che ci avevano in uggia, non potevano capire.
Quanto a noi, capivamo bene il Cova, che era comodo e caldo e non troppo vivamente illuminato, e rumoroso e pieno di fumo a certe ore, e c'erano sempre ragazze ai tavoli e giornali illustrati su una rastrelliera appesa al muro. Le ragazze del Cova erano molto patriottiche, e io scoprii che in Italia le persone più patriottiche erano le ragazze dei caffè, e credo che lo siano ancora.
All'inizio i ragazzi furono assai gentili, s'interessarono alle mie medaglie e mi chiesero cos'avevo fatto per guadagnarmele. Mostrai loro i documenti, che erano scritti in uno stile bellissimo e pieno di fratellanza e abnegazione, ma che in realtà dicevano, tolti tutti i fronzoli, che mi avevano assegnato le medaglie perché ero americano. Dopodiché il loro atteggiamento verso di me cambia un tantino, anche se, di fronte agli estranei, ero sempre un amico. Ero un amico, ma non più veramente uno di loro, quand'ebbero letto le citazioni, perché per loro era stato diverso, per guadagnarsi le medaglie, avevano fatto cose ben diverse. Io ero stato ferito, questo è vero; ma tutti sapevamo che essere feriti, dopo tutto, dipendeva solo dal caso. Non mi vergognai mai dei nastrini, però, e qualche volta, dopo l'ora del cocktail, immaginavo di aver fatto, per guadagnarmi le medaglie, tutte le cose che avevano fatto loro; ma la sera, tornando a casa per le strade vuote col vento freddo e tutti i negozi chiusi, cercando di tenermi vicino ai lampioni, sapevo che quelle cose non le avrei fatte mai, e avevo una gran paura di morire, e spesso stavo a letto, di notte, tutto solo, chiedendomi come mi sarei comportato quando fossi tornato al fronte.
I tre con le medaglie erano come falchi cacciatori; e io non ero un falco, anche se un falco potevo sembrare a coloro che non avevano mai cacciato; loro, i tre, la sapevano più lunga, e per questo le nostre vie si separarono. Ma rimasi buon amico del ragazzo che era stato ferito il suo primo giorno al fronte, perché ora non avrebbe mai saputo come si sarebbe comportato; così neanche lui poteva essere accettato, e mi piaceva perché pensavo che forse neanche lui sarebbe diventato un vero falco.
II maggiore, che era stato un grande schermitore, non credeva nel coraggio, e quando stavamo seduti nelle macchine passava molto tempo a correggermi gli errori di grammatica. Mi aveva fatto i complimenti per come parlavo l'italiano, e insieme conversavamo con molta disinvoltura. Un giorno avevo detto che l'italiano mi sembrava così facile che non riuscivo a provare un particolare interesse per questa lingua: tutto era così semplice da dire... - Ah, si, - disse il maggiore. - Perché, allora, non comincia a studiare la grammatica? - Cominciammo dunque a studiare la grammatica, e subito l'italiano diventò così difficile che non ebbi più il coraggio di rivolgergli la parola finché non ebbi la grammatica sulla punta delle dita.
Il maggiore veniva all'ospedale con molta regolarità. Penso che non avesse saltato un giorno, anche se sono certo che non credeva nelle macchine. Ci fu un periodo in cui nessuno dei due credeva nelle macchine, e un giorno il maggiore disse che erano tutte sciocchezze. Allora le macchine erano nuove ed eravamo noi che dovevamo provarle. Era un'idea idiota, disse lui, una teoria come un'altra. Io non avevo imparato la grammatica, e lui disse che ero uno stupido, una persona impossibile, e che mi dovevo vergognare, e che lui era stato uno sciocco a disturbarsi per me. Era un uomo piccino, sedeva impettito sulla seggiola con la destra ficcata nella macchina e guardava il muro, diritto davanti a sé, mentre le cinghie andavano rumorosamente su e giù facendogli muovere le dita.
- Che farà quando la guerra finirà, se finirà? - mi chiese. - Attento alla grammatica!
Andrò negli Stati Uniti.
E’ sposato ?
- No, ma spero di sposarmi.
- Tanto peggio per lei, - disse. Pareva arrabbiatissimo. - Un uomo non deve sposarsi.
- Perché, signor maggiore ?
- Non mi chiami « signor maggiore».
- Perché un uomo non deve sposarsi?
- Non può sposarsi. Non può sposarsi, - disse rabbiosamente. - Se non vuol perdere tutto, non dovrebbe mettersi nella condizione di perderlo. Non dovrebbe mettersi nella condizione di perdere. Dovrebbe trovare delle cose che non si possono perdere.
Parlava rabbiosamente e con grande asprezza, e parlando teneva lo sguardo fisso davanti a sé.
- Ma perché dovrebbe necessariamente perderlo?
- Lo perderà, - disse il maggiore. Stava guardando il muro. Poi abbassò gli occhi alla macchina e strappò via la manina dalle cinghie e se la batté con forza sulla coscia.
- Lo perderà, - disse, quasi urlando. - Non discuta con me! - Poi chiamò l'assistente che badava alle macchine. - Venga a spegnere quest'ordigno maledetto.
Tornò nell'altra stanza per la cura con la luce e il massaggio. Poi lo sentii chiedere al dottore se poteva usare il suo telefono e chiuse la porta. Quando rientrò nella stanza, io ero seduto in un'altra macchina. Lui indossava la mantella e aveva il berretto in testa, venne dritto verso la mia macchina e mi mise una mano sulla spalla.
- Sono veramente desolato, - disse, e con la mano buona mi diede un colpetto sulla spalla. - Non volevo essere scortese. Mia moglie è appena morta. Deve perdonarmi.
- Oh... - dissi, sentendomi male per lui. - Mi dispiace tanto.
Rimase là mordendosi il labbro inferiore. - E’ molto difficile, - disse. - Non riesco a rassegnarmi.
Il suo sguardo mi attraversava e si perdeva alle mie spalle fuori dalla finestra. Poi il maggiore si mise a piangere. - Sono assolutamente incapace di rassegnarmi, - disse con voce strozzata, e poi, piangendo, a testa alta, con lo sguardo vuoto, con un'andatura rigida e marziale, con le guance rigate di lacrime e mordendosi le labbra, passò davanti alle macchine e uscì dalla porta.
Il dottore mi disse che la moglie del maggiore, che era giovanissima e che lui aveva sposato soltanto dopo essere stato esentato dal servizio per invalidità, era morta di polmonite. Si era ammalata solo qualche giorno prima. Nessuno si aspettava che morisse. Il maggiore non venne all'ospedale per tre giorni. Poi arrivò alla solita ora, portava una benda nera sulla manica dell'uniforme. Quando tornò, appese al muro c'erano delle grandi. fotografie in cornice di lesioni di ogni genere, prima e dopo la cura con le macchine. Davanti alla macchina usata dal maggiore c'erano tre fotografie di mani come la sua che erano completamente guarite. Non so dove il dottore fosse andato a pescarle. Da quello che avevo sempre sentito dire, noi eravamo i primi a usare quelle macchine. Le fotografie non contarono granché per il maggiore, che ora si limitava a guardar fuori dalla finestra.
Ketchum Cemetery, Ketchum, Blaine County, Idaho, USA
http://www.hemingwaysociety.org/

gioco e fantasia del Tao - 2


(2) Se si riflette sull'evoluzione della comunicazione, è evidente che una fase molto importante in questa evoluzione viene raggiunta quando l'organismo cessa a poco a poco di rispondere 'automaticamente' ai segni dello stato di umore dell'altro, e diviene capace di riconoscere che il segno è un segnale, di riconoscere, cioè, che i segnali dell'altro individuo, e anche i suoi, sono soltanto segnali, che possono essere creduti, non creduti, contraffatti, negati, amplificati, corretti,e così via.
È chiaro che questa consapevolezza che i segnali sono segnali non è affatto completa, neppure tra gli uomini. Troppo spesso noi tutti reagiamo in modo automatico ai titoli dei giornali, come se questi stimoli fossero indicazioni oggettive dirette di eventi del nostro ambiente, piuttosto che segnali elaborati e trasmessi da creature le cui motivazioni sono altrettanto complesse delle nostre. Un mammifero non umano è automaticamente eccitato dalI'odore sessuale di un altro; e giustamente, poiché la secrezione di quel segno è un 'involontario' segno di umore, cioè un evento, percettibile  all'esterno, che è parte del processo fisiologico che abbiamo chiamato umore. Tra gli uomini la situazione è, di regola, più complicata: i deodoranti mascherano i segni olfattivi involontari e, per sostituire questi ultimi, l'industria dei cosmetici fornisce all'individuo profumi che non sono segni involontari, ma volontari e riconoscibili come tali. Più di un uomo ha perso la testa per un alito di profumo, e, se si deve prestar fede alla pubblicità, sembra che questi segnali volontariamente portati abbiano talvolta un effetto automatico e  di autosuggestione anche sul loro portatore volontario.
Comunque sia, questa breve digressione servirà a illustrare una fase dell'evoluzione: il dramma che esplode quando gli organismi, mangiato il frutto dell' Albero della Conoscenza, scoprono che i loro segnali sono segnali. Non solo può aver luogo a questo punto l'invenzione tipicamente umana del linguaggio, ma si possono avere le complessità dell'empatia, dell'identificazione, della proiezione, e così via; e da ciò nasce anche la possibilità di comunicare ai molteplici livelli di astrazione sopra menzionati.

(A Theory of Play and Fantasy, 1954) - 1

martedì 29 novembre 2011

sulla realtà del Tao quantico


A quantum wave function was originally conceived by Schröedinger as a tangible, physical wave. This viewpoint was quickly threatened both by Born relating the wave function to probabilities, and by the realisation that quantum states could not always be assigned separately to individual systems. Nevertheless most physicists and chemists concerned with pragmatic applications successfully treat the quantum state as a real object encoding all properties of microscopic systems. However, many ... have suggested that the quantum state should properly be viewed as something less than real. For example:

... I incline to the opinion that the wave function does not (completely) describe what is real, but only a (to us) empirically accessible maximal knowledge regarding that which really exists [...] This is what I mean when I advance the view that quantum mechanics gives an incomplete description of the real state of a airs. 

The motivation for physicists to take an interest in this question was eloquently stated by Jaynes:

But our present QM formalism is not purely epistemological; it is a peculiar mixture describing in part realities of Nature, in part incomplete human information about Nature - all scrambled up by Heisenberg and Bohr into an omelette that nobody has seen how to unscramble. Yet we think that the unscrambling is a prerequisite for any further advance in basic physical theory. For, if we cannot separate the subjective and objective aspects of the formalism, we cannot know what we are talking about; it is just that simple.












Some physicists hold that quantum systems do not have physical properties, or that the existence of quantum systems at all is a convenient fiction. In this case, the state vector is a mere calculational device, used to make predictions of the probabilities for macroscopic events. This work, however, proceeds on the assumption that quantum systems - like atoms and photons - exist, and have at least some physical properties. We assume very little about these properties, for example we do not assume that systems have a de nite position or momentum. The statistical view of the quantum state is that it merely encodes an experimenter's information about the properties of a system. We will describe a particular measurement and show that the quantum predictions for this measurement are incompatible with this view.

Maturità (9 di Denari)


Quando il frutto è maturo, cade da solo dall'albero. Il momento prima era appeso a un ramo tramite un filo molto sottile, il picciolo, ricolmo di succo; l'attimo dopo cade - non perché sia stato costretto, né perché abbia fatto uno sforzo per saltare, ma perché l'albero ha riconosciuto il suo essere maturo e lo ha lasciato andare. Quando questa carta compare in una lettura, è un segno che sei pronto a condividere le tue ricchezze interiori, il tuo "nettare". Tutto ciò che devi fare è rilassarti là dove sei, e permettere che accada. Questa condivisione di te stesso, quest'espressione della tua creatività, può giungere in molti modi - nel lavoro, nelle relazioni, nelle esperienze della vita di tutti i giorni. Non è richiesta alcuna preparazione speciale, né uno sforzo da parte tua. È semplicemente il momento giusto!

Solo se la tua meditazione ti ha condotto a una luce che risplende ogni notte, solo allora anche la morte per te non sarà tale, bensì una soglia verso il divino. Con la luce nel cuore, la morte stessa si trasforma in una soglia, ed entri nello spirito universale; ti unisci all'oceano. E se non giungi a conoscere quest'esperienza oceanica, hai vissuto invano. Il tempo è sempre 'adesso', e il frutto è sempre maturo. Devi solo farti coraggio ed entrare nella tua foresta interiore. Il frutto è sempre maturo e il tempo è sempre quello giusto. Non esiste una cosa definibile "il momento sbagliato"!

TA(O)rkus