giovedì 1 dicembre 2011

Me-Ti: il Tao delle svolte


















Delle svolte

Bertolt Brecht

Il Me-ti - Libro delle svolte è stato composto da Bertolt Brecht prevalentemente tra il 1934 e il 1937 (con qualche correzione successiva), in stile “cinese”, come “libretto di regole di comportamento”. Esso è stato pubblicato per la prima volta da Suhrkamp, a Francoforte nel 1965, ed è stato tradotto in italiano da Cesare Cases per Einaudi, Torino 1979. Il volume è ancora incluso nel catalogo italiano di Einaudi, anche se non di immediato reperimento.

Il Libro delle svolte è stato tradotto in tedesco utilizzando la traduzione dal cinese in inglese di Charles Stephen. Esso non rientra nei libri classici dell’antichità cinese, anche se il suo nucleo essenziale risale a Mo Di. La dottrina di Mo Di, dopo essere stata quasi completamente messa in ombra dai confuciani, è riemersa in primo piano nel secolo scorso, poiché alcuni suoi elementi ricordavano certe correnti filosofiche occidentali e sembrano quasi moderni. I capitoli Della musica e Del comportamento sono scritti autentici di Mo Di. Altri capitoli non sono di Mo Di, ma sono anch’essi antichi. Altri ancora sono di data più recente, tuttavia anche nella redazione originale sono scritti nello stile degli antichi. Da un punto di vista rigorosamente scientifico opere come il Libro delle svolte sono piuttosto sospette. Ma il lettore che si attenga più al contenuto che al suggello dell’autenticità leggerà il libro con profitto ad onta dei suoi aspetti eclettici. Proprio l’inserimento di ragionamenti moderni e la scelta, in parte davvero divertente, di confronti tratti dalla storia moderna per esemplificare le idee fondamentali di un antico filosofo cinese, rallegrerà più di un lettore.

Elenco dei nomi più importanti
[L’elenco compilato da Brecht è stato integrato dai curatori tedeschi]

Engels: il Maestro Eh-fu, Fu-en, En-fu.
Lenin: Mi-en-leh.
Marx: Ka-meh.
Hegel: il Maestro Hu-jeh, He-leh.
Rosa Luxemburg: Sa.
Stalin: Ni-en.
Korsch: Ko, Ka-osh.
Trotzki: To-tsi.
Brecht: Kin, Kin-jeh, Ken-jeh, Kien-leh.
Russia: Tsen.
Unione Sovietica: Su.
Germania: Ga, Ge-el, Ger.
Hitler: Hi-jeh, Hu-ih, Hui-jeh, Ti-hi.
Plechanov: Le-peh.
Anatole France: Fan-tse.
Feuchtwanger: Fe-hu-wang.
Emil Ludwig: Lu.


Delle svolte

Mi-en-leh insegnava: L’instaurazione della democrazia può condurre all’instaurazione della dittatura. L’instaurazione della dittatura può condurre alla democrazia.

Del principio di Ka-meh sulla dipendenza della coscienza

Me-ti insegnava: Il maestro Ka-meh dice che la coscienza dipende dal modo in cui gli uomini producono ciò che è necessario alla vita. Egli contesta che gli uomini possa­no emanciparsi dal punto di vista economico nelle loro teste più che nell’economia stessa. Questo in un primo tempo sembra deprimente. Ma la semplice considerazione che in questo rapporto di dipendenza furono purtuttavia create tutte le grandi opere, e che queste non diverrebbero più piccole ammettendo tale dipendenza, rimette tutto a posto. Del resto questo principio è destinato a perdere un giorno non già la sua fama, ma la sua importanza. Esso fu formulato affinché contro le idee dominanti del tempo si ricordasse che erano le idee dei dominanti. E questo limitava il loro valore. Quando non ci saranno più dominanti e quindi la dipendenza dall’economia non sarà più sentita come tanto opprimente dalla maggior parte degli uomini su questa terra, allora anche il principio di Ka-meh non deprimerà più nessuno.

Del fiume delle cose

Ed io vidi che nulla era del tutto morto, nemmeno ciò che è estinto. Le mute pietre respirano. Si trasformano e provocano trasfor­mazioni. Perfino la luna, che si dice morta, si muove. Getta luce, sia pure non sua, sulla terra, determina la traiettoria dei corpi che cadono e cagiona il flusso e il riflusso dell’acqua marina. E se spaventasse un solo uomo che la guardi, anzi se un solo uomo la guardas­se, già non sarebbe morta, ma vivrebbe. Eppure io vidi che in certo modo essa è morta; infatti, una volta messo insieme tutto ciò per cui vive, questo è troppo poco o non c’entra, quindi in complesso è da chiamarsi morta. Poiché se non facessimo così, se non la chiamassimo morta, noi perderemmo un termine, per l’appunto la parola morto, e la possibilità di denominare qualcosa che pur vediamo. Dato che però, come abbiamo parimenti visto, essa non è nemmeno morta, noi dobbiamo pensare di essa ambe le cose e trattarla come alcunché di morto non-morto, ma più morto che non-morto, come alcunché di estinto per qualche rispetto, e per questo rispetto irrevocabilmente estinto, ma non per ogni rispetto.

L’indagine dei limiti della conoscenza

Me-ti si espresse contro una troppo zelante indagine dei limiti della conoscenza. Egli disse: E molto utile constatare i limiti della conoscenza nei vari campi, limiti che si sentono come un impaccio, onde allargarli. E bene sapere fino a che limite di grandezza e di piccolezza si può vedere con l’occhio e inventare strumenti che migliorino la visione. Ma i filosofi, quando parlano della conoscenza, vanno insieme più lontano e meno lontano. Essi non si interessano del più o del meno, ma del tutto o del nulla. Il maestro Eh-fu ha detto che si può tranquillamente parlare di una conoscenza possibile quando si possono maneggiare le cose. Se si può piantar frumento e predire eclissi, allora è anche lecito parlare della possibilità che la natura sia conoscibile. Coloro che vogliono saperne di più vogliono in fondo saperne di meno, perché non vogliono sapere quanto si è appena detto. Essi vogliono con le sole parole, senza l’ausilio di esperimenti, provocare una decisione che ha delle conseguenze per il comportamento pratico. In sostanza essi tentano soltanto di allineare una serie di parole in modo che con una specie di necessità logica, cioè in modo tale che le parole adoperate non cambino il loro senso e si continuino ad applicare certe regole di successione, si possa affermare che tutto è conoscibile o che nulla è conoscibile. Per lo più essi mostrano un evidente interesse a che la risposta sia nulla (nel qual caso, del resto, anche tutta questa operazione non significherebbe nulla), e quando hanno ordinato le parole in modo che restino cose non conoscibili, non è che allora neghino a queste ogni ulteriore interesse per gli uomini, ma anzi riconoscono loro un particolare influsso sull’agire degli uomini. In tutto ciò essi assumono un’aria estremamente scettica, di gente che non si lascia imbrogliare e non si fa illusioni, ma solo col risultato che per loro c’è poi un dio o uno spirito in cui si può credere ciecamente. Con tutti i loro dubbi e la loro scientificità essi confutano, imperlandosi di sudore, l’obiezione dei veri scettici che non c’è un influsso divino proveniente dall’esterno, poiché non è conoscibile. Essi dicono: se l’uomo non può conoscere, come si può pretendere dagli dèi che siano conoscibili? Essi affermano di non voler paralizzare con queste riflessioni l’agire degli uomi­ni; pretendono che gli uomini agiscano anche se non possono veramente conoscere e ricordano sprezzantemente che essi di fatto agiscono continuamente. Per questo agire, dunque per ogni agire umano, la conoscenza - essi dicono arricciando il naso -, questa conoscenza orba e inadeguata è pienamente sufficiente. Per che cosa poi non sia sufficiente, questo naturalmente non ce lo dicono.

[Definizione del pensiero]

Me-ti diceva: Il pensiero è qualcosa che viene dopo delle difficoltà e precede l’azione.

Il Grande Metodo

Il detto del maestro Hu-jeh che uno non è uguale a uno, non soltanto uguale a uno, non sempre uguale a uno, è un punto di partenza del Grande Metodo. Vuol dire che accade di usare troppo a lungo questa formula, o una costruita in modo analogo, cioè si può aver ragione di usarla in un tempo e in una situazione determinata, ma dopo qualche tempo, in una situazione cambiata, si può aver torto. Se si analizza questa affermazione bisogna rassegnarsi ad affrontare ragionamenti molto complicati, senza però mai dimenticare che in fondo quel che vuol dire è molto semplice. Il pensiero ha difficoltà per esempio a fissare il concetto di bocciolo, perché la cosa così designata è in preda a un impetuoso sviluppo, e mostra, scappando sotto al pensiero, un grande impulso a non essere un bocciolo, bensì un fiore. Così, per chi pensa, il concetto di bocciolo è già il concetto di qualcosa che aspira a non essere quel che è. Eppure si tratta di cose semplici e non ci sono difficoltà in questa designazione e nel modo di applicarla. Molti all’inizio non capiscono il Grande Metodo perché dei due termini, osservatore e cosa osservata, ne prendono sul serio soltanto uno, cioè la cosa osservata, e attribuiscono al nostro pensiero una imprecisione e un’inconsistenza che mancano alla cosa pensata. Ma questa imprecisione e inconsistenza non mancano alla cosa pensata, e così il nostro pensiero non è manchevole, quando è inconsistente e impreciso, bensì esatto, in quanto ha speranza di comandare alla natura solo obbedendole. Se diciamo “La scienza è la scienza” questa formula è valida, a quanto sembra, perché la stessa parola è usata due volte. Ma la stessa parola designa cose diverse, e non solo in tempi diversi. Nella nostra epoca i fisici contestano che gli storici abbiano una scienza, solo i loro metodi sembrano loro scientifici, e il maestro Eh-fu diede loro ragione, e purtuttavia contestò la scientificità dei fisici, perché questi capivano troppo poco della nuova scienza storica. Molto facilmente e con grande vantaggio ci si può rappresentare la scienza come lo sforzo di scoprire e provare la mancanza di scientificità di asserzioni e di metodi scientifici. La grande rivoluzione nel Su mostrò i vantaggi che può arrecare il ripetere troppo a lungo formule come “il contadino è il contadino”. Mi-en-leh scoprì che nel Su come dappertutto il fenomeno “il contadino” si presentava in forme così differenti da comportarsi di fronte a certi fatti in modo del tutto opposto. Egli stabilì che quella differenza, che implicava il differente comportamento, era una differenza di proprietà, e da ciò trasse enormi vantaggi per la grande rivoluzione. Ma questo lo poté fare solo perché contemporaneamente osservò che, ad onta della differenza da lui riscontrata, c’era anche, primariamente, un comportamento identico in tutti i contadini: contrariamente agli operai, che volevano abolire la proprietà individuale, i contadini volevano conservarla. Anzi i contadini poveri volevano introdurla per la prima volta. Qui dunque, ed entro questi limiti, era valida la formula “il contadino è il contadino”. Era valida, e doveva essere posta alla base dell’azione nello stesso torno di tempo in cui il contrasto tra i contadini era tanto grande che gli uni non potevano restare più contadini se lo diventavano gli altri. Per parecchio tempo gli operai sotto la guida di Mi-en-leh e di Nien lottarono affinché la formula “il contadino è il contadino” si affermasse come valida, trasformando i contadini ricchi e i contadini poveri in contadini con proprietà uguali. E poi si formò in seno alla stessa Lega degli operai, sempre nel giro della stessa generazione, un’opposizione che in base alla formula “il contadino è il contadino” predisse (o constatò) contese tra operai e contadini che potevano terminare solo con la vittoria o dei contadini o degli operai, e chiese che gli operai prendessero delle misure in vista di queste contese. La Lega si trovò in difficoltà per tali dispute, ma a quel tempo la formula “il contadino è il contadino” ricominciò a mostrare la propria labilità, perché i contadini si trasformarono in operai; sicché la formula “il contadino è l’operaio” serviva meglio in molti casi. L’opposizione restò indietro ai tempi e fu sconfitta. Ma coloro che in questo nuovo operaio, che era sorto in seguito all’eliminazione della proprietà terriera individuale, non sapevano più riconoscere l’elemento contadinesco, e consideravano quindi del tutto superata la formula “il contadino è il contadino”, fecero grandi errori. Così quella formula continuava ad avere, in forma cambiata, la sua validità.

[Idee pericolose]

 
Quando il filosofo cinese Me-ti tornò da un’udienza concessagli da un altissimo funzionario, riferì ai suoi scolari che l’alto personaggio aveva parlato con lui soprattutto delle cosiddette idee pericolose. Quel signore, riferì Me-ti, si è espresso in modo impreciso, anche se molto energicamente, ma non sarei sorpreso se considerasse pericolose idee del genere di “Chi lavora deve mangiare”, oppure “Se si vuole costruire un ponte, ci vogliono pontieri”, oppure “La pioggia cade dall’alto in basso”. Credetemi, ho avuto l’impressione che deve essere molto pericoloso trovarsi nella pelle di quel signore.

Vivere secondo il Grande Metodo

 
Me-ti diceva: È utile non soltanto pensare mediante il Grande Metodo ma anche vivere mediante il Grande Metodo. Non essere d’accordo con se stessi, mettersi in crisi, cambiare i piccoli mutamenti in grandi mutamenti, tutto ciò non lo si può soltanto osservare, ma anche fare. Si può vivere con più o meno mediazioni, in contesti più o meno ricchi. Si può ottenere o cercare di ottenere un durevole cambiamento della propria coscienza cambiando il proprio essere sociale. Si può aiutare a rendere le istituzioni statali contraddittorie e suscettibili di evolversi.

Vivere e morire

 
Ni-en diceva: Sempre nella vita c’è qualcosa che è in procinto di perire. Ciò che perisce non vuole però semplicemente morire, ma lotta per la propria sopravvivenza, difende la sua causa persa. Nella vita nasce altresì sempre qualche cosa di nuovo. Ma ciò che si desta alla vita non viene semplicemente al mondo: ferisce e grida e afferma il proprio diritto di vivere.

Dovete costruire la vostra vita

Non dovete costruire soltanto città, macchine e ponti, ma anche la vostra vita, disse Me-ti. Le città sono sorte disordinatamente, una casa si affiancava all’altra, una strada sboccava nell’altra, ma poi ci furono presto gli urbanisti. Certo ci sono anche città orrende, costruite secondo piani che erano appunto orrendi. (Se delle città costruite secondo piani sono orrende, non lo sono perché son costruite secondo piani, ma perché sono costruite secondo piani orrendi).

È più facile dire il credibile che il vero


Spesso si tenta di far credere ciò che non si può dimostrare. Ci si appella allora al proprio amore per la verità. Purtroppo non sempre il vero è il verisimile. Spesso ci vuole l’aiuto di qualche piccola bugia perché il vero diventi anche verisimile. Così si comincia a mentire nel momento in cui si può riscuotere fiducia solo appellandosi a una veridicità a tutta prova. Me-ti diceva: E più cauto da parte mia far sì che il mio amico possa credere a se stesso piuttosto che a me.

Cattive abitudini

Camminare in direzione di posti che non si possono raggiungere camminando è un’abitudine che bisogna perdere. Parlare di faccende che non si possono decidere parlando è un’abitudine che bisogna perdere. Pensare intorno a problemi che non si possono risolvere pensando è un’abitudine che bisogna perdere, diceva Me-ti.

Dorotheenstädtischer Friedhof, Berlin
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