martedì 8 gennaio 2013

viaggio al Tao


La parte finale del terzo libro di Castaneda del 1972 esprime forse nel modo metaforico più completo cosa significa vivere e viaggiare nei mondi non-ordinari della stregoneria:
"Ora che Genaro ha quasi fatto l'uovo forse ti racconterà del suo primo incontro con l'alleato", insisté don Juan.
«Forse», rispose don Genaro senza interesse.
Lo supplicai di raccontare.
Don Genaro si alzò in piedi, si stirò le braccia e la schiena e le sue ossa scricchiolarono. Poi si rimise a sedere.
"Ero giovane quando ho affrontato per la prima volta il mio alleato", disse alla fine. "Ricordo che era presto nel pomeriggio. Ero nei campi dall'alba e stavo tornando a casa. A un tratto l'alleato uscì da dietro un cespuglio e mi sbarrò la strada, mi era stato ad aspettare e mi invitava a lottare con lui. Mi preparai a voltargli le spalle per andarmene, ma mi venne in mente che ero abbastanza forte per affrontarlo, però avevo paura; un brivido mi corse per la spina dorsale e il collo mi diventò rigido come un pezzo di legno. A proposito, questo è sempre il segno che sei pronto, voglio dire, quando ti si indurisce il collo ".
Si sbottonò la camicia e mi mostrò la schiena. Irrigidì i muscoli del collo, del dorso e delle braccia. Notai la sua superba muscolatura. Era come se il ricordo dell'incontro avesse risvegliato tutti i muscoli del suo torso.
«In una simile situazione», continuò, «devi sempre chiudere la bocca».
Si volse a don Juan e disse: «Non è così? ».
«Sì», rispose calmo don Juan. "La scossa dello scontro con l'alleato è così forte che ci si potrebbe staccare la lingua con un morso o farsi saltare i denti. Il corpo deve essere diritto e ben saldo e i piedi devono afferrare il terreno”..
Don Genaro si alzò in piedi e mi mostrò la posizione giusta: il corpo leggermente flesso alle ginocchia e le mani penzoloni ai fianchi con le dita appena ripiegate. Sembrava rilassato e tuttavia ben saldo sul terreno. Rimase in quella posizione per un istante, e quando pensai che stesse per mettersi a sedere guizzò improvvisamente in avanti con un salto stupendo, come se avesse avuto delle molle attaccate ai talloni. Il suo movimento fu così improvviso che ricaddi sulla schiena, ma mentre cadevo ebbi la chiara impressione che don Genaro avesse afferrato un uomo, o qualcosa con la forma di un uomo.
Mi ritirai su a sedere. Don Genaro conservava ancora una tremenda tensione in tutto il corpo, poi rilassò bruscamente i muscoli e si rimise seduto al suo posto.
«Carlos ha appena visto il tuo alleato, proprio ora», osservò don Juan in tono indifferente, «ma è ancora debole ed è caduto».
«Davvero?», mi chiese don Genaro con aria ingenua dilatando le narici.
Don Juan lo assicurò che l'avevo visto.
Don Genaro balzò ancora in avanti con una tale forza che io caddi sul fianco. Aveva eseguito il suo salto così rapidamente che non riuscivo davvero a capire come avesse fatto a balzare in piedi a quel modo da seduto per proiettarsi in avanti.
Scoppiarono tutti e due a ridere rumorosamente e quindi don Genaro cambiò la sua risata in un ululato indistinguibile da quello di un coyote.
"Non pensare che per affrontare il tuo alleato dovrai balzare bene come Genaro", mi disse don Juan in tono di avvertimento. «Genaro salta così bene perché ha il suo alleato che lo aiuta. Tutto quello che devi fare è restare ben saldo sul terreno per sostenere l'urto. Devi stare in piedi proprio nella posizione in cui era Genaro prima di saltare, poi devi balzare in avanti e afferrare l’alleato».
«Prima deve baciare il suo medaglione», interloquì don Genaro.
Don Juan, con finta severità, disse che non avevo medaglioni.
"E i suoi taccuini?", insisté don Genaro. «Deve fare qualcosa dei suoi taccuini; li deve posare da qualche parte prima di saltare, altrimenti potrebbe usarli per picchiare l’alleato".
“Accidenti!", esclamò don Juan in tono di sorpresa apparentemente genuino. «Non ci avevo mai pensato. Scommetto che sarebbe la prima volta che un alleato è buttato a terra con un taccuino».
Quando le risate di. don Juan e l'ululato da coyote di don Genaro si placarono eravamo tutti di ottimo umore.
«Che è successo quando avete afferrato il vostro alleato, don Genaro? », chiesi.
«È stata una scossa molto forte», disse don Genaro dopo un momento di esitazione. Sembrava che avesse esitato per dare ordine ai suoi pensieri.
«Non avevo mai immaginato che sarebbe stata una cosa simile», proseguì. « È stato qualcosa, qualcosa, qualcosa... che non riesco a dire. Dopo che l'ho afferrato abbiamo incominciato a girare. L'alleato mi ha fatto roteare, ma io non l'ho lasciato andare. Abbiamo girato per l'aria con una tale velocità e forza che non riuscivo più a vedere niente, tutto era offuscato. Abbiamo continuato a girare ancora, ancora, ancora. A un tratto ho sentito che ero di nuovo coi piedi per terra. Mi sono guardato: l'alleato non mi aveva ucciso, ero tutto di un pezzo, ero me stesso! Allora ho saputo che ero riuscito, finalmente avevo un alleato. Mi sono messo a saltare per la felicità. Che sensazione! Che sensazione era quella!
"Poi ho guardato in giro per sapere dove ero. I dintorni mi erano sconosciuti. Pensai che l'alleato mi avesse trasportato per aria e lasciato cadere molto lontano da dove avevamo incominciato a girare. Mi orientai, pensai che la mia casa dovesse essere a est, perciò mi avviai in quella direzione. Era ancora presto, l'incontro con l'alleato non era stato troppo lungo. Quasi subito trovai un sentiero e vidi un gruppo di uomini e donne venire verso di me. Erano indiani, pensai che fossero indiani mazatec. Mi circondarono e mi chiesero dove andavo. “Torno a casa a Ixtlan”, risposi. “Ti sei perduto?”, chiese uno. “Sì”, risposi, “perché?”. “Perché Ixtlan non è da quella parte, è nella direzione opposta. Ci andiamo anche noi”, disse un altro. “Vieni con noi”, dissero tutti. “Abbiamo del cibo!”
Don Genaro si interruppe e mi guardò come se aspettasse una mia domanda.
«E allora, che è successo?», chiesi. "Siete andato con loro?».
«No, non ci sono andato», rispose. "Perché non erano reali. L'ho saputo nell'istante in cui mi sono venuti incontro. Nella loro voce, nel loro atteggiamento amichevole, c'era qualcosa che li tradiva, specialmente quando mi hanno offerto di andare con loro. Perciò sono fuggito. Mi hanno chiamato e supplicato di tornare. Le loro invocazioni diventavano ossessionanti, ma continuai a fuggire».
"Chi erano?", chiesi.
«Gente", rispose seccamente don Genaro. «Tranne che non erano reali ".
"Erano come apparizioni", spiegò don Juan, "come fantasmi".
«Dopo aver camminato per un pò", riprese don Genaro, «acquistai più fiducia. Sapevo che Ixtlan era nella mia direzione. E quindi vidi due uomini venire verso di me per il sentiero, anche loro sembravano indiani mazatec. Avevano un asino carico di legna da ardere. Mentre mi passarono accanto borbottarono “Buon pomeriggio”.
“Buon pomeriggio”, risposi continuando a camminare. Non mi fecero caso e se ne andarono per la loro strada. Rallentai il passo e mi girai casualmente a guardarli. Si allontanavano senza curarsi di me, sembravano reali. Li rincorsi urlando: 'Aspettate! Aspettate!'.
«Trattennero l'asino e si fermarono ai due lati dell'animale, come per proteggere il carico.
"Mi sono perduto in queste montagne”, dissi loro. “Da che parte è lxtlan”?. Indicarono nella loro direzione. “Sei molto distante”, disse uno di loro. “ È dall'altra parte di queste montagne. Ti ci vorranno quattro o cinque giorni per arrivarci”. Poi si voltarono e ripresero a camminare. Sentii che erano indiani veri e li pregai di lasciarmi andare con loro.
«Camminammo insieme per un po' e quindi uno di loro prese il fagotto del cibo e me ne offrì. Rimasi impietrito. Nel modo in cui mi avevano offerto il cibo c'era qualcosa di terribilmente strano. Il mio corpo si era spaventato, perciò balzai indietro e incominciai a fuggire. I due mi dissero che se non andavo con loro sarei morto sulle montagne e cercarono di esortarmi a seguirli. Anche le loro suppliche erano molto assillanti, ma fuggii con tutte le mie forze.
«Continuai a camminare. Sapevo di essere nella direzione giusta per Ixtlan e che quei fantasmi cercavano di attirarmi fuori della mia strada.
«Ne incontrai otto; dovevano aver saputo che la mia determinazione era incrollabile. Restavano sul fianco della strada e mi guardavano con occhi imploranti. Molti di loro non dicevano una parola; le loro donne, invece, erano più audaci e mi supplicavano. Alcuni mostrarono anche del cibo e altre mercanzie che presumibilmente avrebbero dovuto vendere, come innocui mercanti sul margine della strada. Non mi fermai e non li guardai.
"Nel tardo pomeriggio arrivai a una valle che mi sembrò di riconoscere, aveva qualcosa di familiare. Pensai di esserci già stato, ma se era così ero davvero a sud di Ixtlan. Incominciai a cercare dei segni per orientarmi e correggere la mia direzione quando vidi un ragazzetto indiano che pascolava le capre. Aveva forse sette anni ed era vestito come me alla sua età, anzi mi ricordava me stesso quando pascolavo le due capre di mio padre."
"Lo osservai per un po'; il ragazzetto parlava da solo, proprio come facevo io, poi parlò alle capre. Da quel che sapevo sulle capre capivo che era veramente bravo: era preciso e attento, non viziava le sue capre ma non era nemmeno crudele."
"Decisi di chiamarlo. Quando gli parlai a voce alta balzò in piedi, scappò su un ciglione e mi guardò da dietro alle rocce. Sembrava pronto a fuggire disperatamente. Mi piacque, sembrava spaventato e tuttavia trovava ancora il tempo di radunare le sue capre lontano dalla mia vista."
"Gli parlai a lungo; dissi che mi ero perduto e non sapevo la strada per Ixtlan. Gli chiesi il nome di quella località e rispose che era quella che pensavo. Questo mi fece molto felice, capii che non ero più perduto e meditai sulla forza che aveva dovuto avere il mio alleato per trasportare tutto il mio corpo così lontano in meno di un batter d'occhio.
"
«Ringraziai il ragazzetto e incominciai ad allontanarmi. Il ragazzo uscì dal suo nascondiglio e radunò le capre in un sentiero quasi invisibile. Il sentiero sembrava condurre giù nella valle. Chiamai il ragazzo che non fuggì. Mi avviai verso di lui ma quando gli arrivai molto vicino saltò nei cespugli. Lo elogiai per la sua cautela e incominciai a interrogarlo.
"Dove porta questo sentiero?”, chiesi. “Giù”, rispose. “Dove vivi?”. “Laggiù”.”Ci sono molte case laggiù”?. “No, solo una”. “Dove sono le altre case?”. Il ragazzo indicò l'altro lato della valle con indifferenza, come fanno i ragazzi della sua età. Poi si incamminò giù per il sentiero con le sue capre.
"Aspetta”, gli dissi. “Sono molto stanco e ho fame, portami dai tuoi”.
"Non ho nessuno”, rispose, e le sue, parole mi fecero sobbalzare. Non so perché, ma la sua voce mi fece esitare. Il ragazzetto, notando la mia esitazione, si fermò e mi parlò. 'In casa mia non c'è nessuno”, disse. “Mio zio è andato via e sua moglie è nei campi. C'è molto cibo, moltissimo. Vieni con me”.
"Mi sentii quasi triste, anche il ragazzetto era un fantasma. Il tono della voce e la sua premura l'avevano tradito. I fantasmi erano là intorno per prendermi ma io non, avevo paura. Ero ancora intorpidito dall'incontro con l'alleato. Volevo arrabbiarmi con l'alleato o coi fantasmi, ma non so come non mi riusciva di andare in collera come al solito, perciò rinunciai. Allora volli sentirmi triste, perché il ragazzetto mi era piaciuto, ma non ci riuscii, perciò rinunciai anche a quello.
«Improvvisamente mi resi conto che avevo un alleato e i fantasmi non potevano farmi nulla. Seguii il ragazzetto giù per il sentiero. Altri fantasmi stavano in agguato e cercarono di farmi cadere nei precipizi, ma la mia volontà era più forte di loro. Dovevano averlo sentito, perché smisero di molestarmi. Dopo un po' si limitarono a piazzarsi sul mio sentiero; di quando in quando qualcuno di loro balzava verso di me, ma lo fermavo con la mia volontà. E allora smisero completamente di infastidirmi».
Don Genaro rimase a lungo in silenzio.
Don Juan mi guardò.
"Che è successo poi, don Genaro?», chiesi.
«Ho continuato a camminare", dichiarò.
Sembrava che avesse terminato la sua storia, che non ci fosse più nulla da aggiungere.
Gli chiesi perché il fatto che gli offrissero cibo gli aveva fatto capire che si trattava di fantasmi.
Non rispose. Lo interrogai ulteriormente chiedendo se era costume degli indiani mazatec negare di avere cibo, o interessarsi pesantemente di questioni di cibo.
Disse che l'aveva capito dal tono delle voci, dalla loro premura nell'attirarlo e dal modo in cui i fantasmi parlavano del cibo; e che lo sapeva perché il suo alleato lo aiutava. Affermò che da solo non avrebbe mai notato quella particolarità.

«Quei fantasmi erano alleati, don Genaro?», chiesi.
«No. Erano gente».
«Gente? Ma se avete detto che erano fantasmi".
"Ho detto che non erano più reali. Dopo il mio incontro con l'alleato nulla era più reale».
Rimanemmo a lungo in silenzio.
"Qual è stato il risultato finale di quell'esperienza, don Genaro?", domandai alla fine.
"Risultato finale?»
«Voglio dire, come e quando siete finalmente arrivato a Ixtlan?».
Scoppiarono tutti e due a ridere contemporaneamente.
«Così per te quello sarebbe il risultato finale», osservò don Juan. "Allora diciamo così: nel viaggio di Genaro non c'era nessun risultato finale, non ci sarà mai nessun risultato finale, Genaro è ancora in viaggio per Ixtlan!».
Don Genaro mi lanciò uno sguardo penetrante e girò il capo per guardare in lontananza, verso sud.
«Non arriverò mai a lxtlan», disse.
La sua voce era ferma ma lieve, quasi un mormorio.
"Eppure nei miei pensieri... nei miei pensieri qualche volta sento che mi manca solo un passo per arrivarci. Ma non ci arriverò mai. Nel mio viaggio non trovo nemmeno i segni familiari che sono abituato a riconoscere. Nulla è più lo stesso».
Don Juan e don Genaro si guardarono, nei loro occhi c'era qualcosa di triste.
"Nel mio viaggio a Ixtlan incontro solo fantasmi viaggiatori", disse don Genaro sottovoce.
Guardai don Juan, non avevo capito quello che aveva voluto dire don Genaro.
"Tutti coloro che Genaro incontra nel suo viaggio verso Ixtlan sono soltanto esseri effimeri», spiegò don Juan. «Tu, per esempio, tu sei un fantasma. I tuoi sentimenti e la tua premura sono quelli della gente. Per questo Genaro dice che nel suo viaggio verso Ixtlan incontra solo fantasmi viaggiatori».
Improvvisamente capii che il viaggio di don Genaro era una metafora.
«Allora il vostro viaggio a Ixtlan non è reale», dissi.
«È reale!», interloquì don Genaro.
«I viaggiatori non sono reali»
Indicò don Juan con un cenno del capo e disse enfaticamente: «Lui è il solo che è reale. Il mondo è reale solo quando sono con lui».
Don Juan sorrise.
«Genaro ha raccontato la sua storia a te», disse, "perché ieri tu hai fermato il mondo, e perché pensa anche che hai visto, ma sei un tale sciocco che non lo sai nemmeno tu. Continuo a dirgli che sei strano e che presto o tardi vedrai. In ogni caso, nel tuo prossimo incontro, se per te ci sarà una seconda volta, dovrai lottare con l'alleato e domarlo. Se sopravvivi alla scossa, e ne sono sicuro perché sei forte e vivi come un guerriero, ti ritroverai vivo in un paese sconosciuto. Allora, come è naturale per tutti noi, la prima cosa che vorrai fare sarà prendere la via del ritorno a Los Angeles, ma non c'è via di ritorno a Los Angeles. Quello che hai lasciato là è perduto per sempre. Allora, naturalmente, sarai uno stregone, ma non avrà importanza; in un momento come quello l'importante per tutti noi è il fatto che tutto ciò che amiamo, odiamo o desideriamo è rimasto alle nostre spalle. Tuttavia i sentimenti di un uomo non muoiono né cambiano, e lo stregone prende la via del ritorno sapendo che non arriverà mai, sapendo che nessun potere sulla terra, nemmeno la sua morte, lo porterà al posto, alle cose, alle persone che amava. Questo ti ha detto Genaro».
La spiegazione di don Juan fu come un catalizzatore; l'intero peso della storia di don Genaro mi colpì all'improvviso quando incominciai a collegare la sua storia alla mia vita.
"E le persone che amo?», chiesi a don Juan. "Che accadrebbe di loro? ».
«Saranno tutte lasciate alle tue spalle», rispose.
«Ma non c'è un modo per ritrovarle? Potrei recuperarle e portarle con me?".
«No. Il tuo alleato girerà con te, con te soltanto, in mondi sconosciuti".
"Ma potrei tornare a Los Angeles, non è vero? Potrei prender l'autobus o l'aeroplano e andarci. Los Angeles sarebbe ancora lì, non è vero? ».
«Sicuro», rispose don Juan ridendo. «E anche Manteca e Temecula e Tucson ».
«E Tecate», aggiunse don Genaro con grande serietà.
"E Piedras Negras e Tranquitas», disse don Juan sorridendo.
Don Genaro aggiunse altri nomi e così fece don Juan, e tutti e due si misero a enumerare una serie di nomi di città e cittadine tra i più ridicoli e incredibili.
«Quando girerai con l'alleato cambierai la tua idea del mondo", disse don Juan. «Quell'idea è tutto, e quando cambia, il mondo stesso cambia».
Mi ricordò che una volta gli avevo letto una poesia e volle che gliela recitassi. Me ne accennò qualche parola e subito ricordai di avergli letto alcune poesie di Juan Ramon Jimenez. Quella che intendeva in particolare don Juan si intitolava El Viaie Definitivo (Il viaggio definitivo). La recitai.


... e me ne andrò. Ma gli uccelli rimarranno, cantando:
e il mio giardino rimarrà, col suo albero verde,
col suo pozzo d'acqua.

Molti pomeriggi i cieli saranno azzurri e placidi,
e le campane sul campanile rintoccheranno
come rintoccano questo pomeriggio.

Le persone che mi hanno amato moriranno,
e ogni anno la città si rinnoverà.

Ma il mio spirito vagherà sempre nostalgico
nello stesso recondito angolo del mio giardino fiorito.


«È questo il sentimento di cui parla Genaro», disse don Juan. «Per diventare uno stregone un uomo deve essere appassionato. Un uomo appassionato ha sulla terra cose che gli appartengono e cose che gli sono care, se non altro il sentiero che percorre».
«Nella sua storia Genaro ti ha detto precisamente questo. Genaro ha lasciato la sua passione a Ixtlan: la sua casa, la sua gente, tutte le cose a cui teneva. E ora vaga nei suoi sentimenti; e qualche volta, come ha detto, quasi arriva a Ixtlan. Tutti noi l'abbiamo in comune: per Genaro è Ixtlan, per te sarà Los Angeles, per me ...».
Non volevo che don Juan mi dicesse di se stesso e lui si interruppe come se mi avesse letto nel pensiero.
Don Genaro singhiozzò e parafrasò i primi versi della poesia.
«Sono andato via. E gli uccelli sono rimasti, cantando».
Per un istante sentii un'indescrivibile ondata di agonia e solitudine avvolgerci tutti e tre. Guardai don Genaro e seppi che, essendo un uomo appassionato, doveva aver avuto nel suo cuore tanti legami, tante cose a cui teneva e che aveva abbandonato. Ebbi la chiara sensazione che in quel momento la forza della sua rievocazione stesse per franare e don Genaro fosse lì lì per scoppiare in lacrime.
Distolsi gli occhi in fretta. La passione di don Genaro, la sua suprema solitudine, mi facevano piangere.
Guardai don Juan, mi fissava.
«Si può sopravvivere sul sentiero della conoscenza solo vivendo come un guerriero», disse. «Perché l'arte del guerriero consiste nell'equilibrare il terrore dell'esser uomo con la meraviglia dell'esser uomo»
Li guardai fisso tutti e due, uno alla volta. I loro occhi erano limpidi e calmi. Avevano evocato una marea di nostalgia opprimente, e quando sembrava che fossero sul punto di scoppiare in lacrime appassionate ne avevano trattenuto l'ondata. Per un istante pensai di vedere. Vidi la solitudine dell'uomo come un'onda gigantesca pietrificata di fronte a me, trattenuta dal muro irresistibile di una metafora.
La mia tristezza era così prepotente che mi sentii euforico, li abbracciai.
Don Genaro sorrise e si alzò in piedi. Anche don Juan si alzò e mi posò delicatamente la mano sulla spalla.
«Ti lasciamo qui», disse. «Fai quello che pensi sia giusto. L'alleato ti aspetterà al limite di quella pianura».
Indicò una buia valle in lontananza.

"Ma se non senti che è la tua ora, non andare all'appuntamento», continuò. 
«Non si guadagna nulla forzando le cose. Se vuoi sopravvivere devi essere limpido come il cristallo e mortalmente sicuro di te».
Don Juan si allontanò senza guardarmi, ma don Genaro si voltò un paio di volte e ammiccando e muovendo il capo mi incitò ad andare avanti. Li guardai finché scomparvero in lontananza, poi mi avviai verso la macchina, misi in moto e me ne andai. Sapevo che non era ancora la mia ora.

lunedì 7 gennaio 2013

Tao cosciente complesso

The complexity of perception.
The Complexity of Consciousness

Figure shows the complex view of perception (and, to some extent, of the consciousness behind it). In the center of the drawing are depicted various stimuli from others and from the physical world impinging on the individual. These stimuli produce effects that can be classified as mental, emotional, and bodily. The innermost reaction circle represents clearly conscious experiences. At this moment, as I write, I hear a pneumatic drill being used to break up the pavement outside my window. I mentally speculate about the air pressure used to operate such an interesting tool but note that it is distracting me; I emotionally dislike the disturbance of my writing; the muscles of my face and ears tighten a little, as if that will reduce the impact of the noxious sound on me. While the three-part classification of effects provides a simplification, in reality the mental, emotional, and bodily responses to stimuli interact at both conscious and less than conscious levels. My mind notices the tension around my ear and interprets that as something wrong, which, as a minor emotional threat, aggravates the noxiousness of the sound, etc. Immediately behind fully conscious experiences are easily experienceable phenomena, represented by the second circle. The mental effect of these phenomena relates to the individual's explicit belief system: I believe that noise is undesirable, but I am fascinated by the workings of machines. Their emotional effect relates to the things he readily knows he likes or dislikes: loud noises generally bother me and make me feel intruded upon. Their bodily effect relates to consciously usable skills and movements: I can relax my facial muscles. These phenomena affect the individual at a level that is not in the focus of consciousness, but that can be easily made conscious by paying attention. These two levels are themselves affected and determined by a more implicit level of functioning, implicit in that the individual cannot identify its content simply by wanting to and paying attention. Where did I get the idea that noise is an intrusion? Why am I fascinated by the workings of machines? I do not know. I might be able to find out by prolonged psychological exploration, but the information is not easily available, even though these things affect me. Why do I have an immediate emotional dislike of noise? Is there some unconscious reaction behind it? How have I come to maintain certain muscle sets in my face that are affected by stress in certain ways? The outer circle in Figure represents basic learnings, conditionings, motor patterns, instincts, reflexes, language categories, and the like, which are so implicit the individual can hardly/ recognize their existence. This is the level of the hardware, the biological givens, and the basic enculturation processes. The distance of these things from consciousness makes it extremely difficult for him to discover and compensate for their controlling influences: they are, in many ways, the basis of himself. If the stimulus in the middle of Figure is a cat, this whole complex machine functions, a machine designed by our culture. We don't "just" see the cat! Our ordinary state of consciousness is a very complex construction indeed, yet Figure hardly goes into details at all. So much for the naturalness of our ordinary state of consciousness.

Tao Mirabilis

Il Manoscritto Voynich è un volume scritto ed illustrato a mano, di piccole dimensioni (16x22 cm), che consta di 102 fogli, per un totale di 204 pagine, legati in pergamena, ed è sicuramente uno dei libri più affascinanti e misteriosi mai esistiti.
Il libro è privo di titolo, non se ne conosce l’autore né l’epoca di origine, ed è scritto probabilmente in una lingua sconosciuta, ovvero in un codice crittografico, che peraltro ad oggi nessuno è riuscito a decifrare. Nelle sue inquietanti illustrazioni acquerellate sono rappresentati curiosi simboli, animali e piante (sconosciute ma plausibili alla luce delle attuali conoscenze biologiche), sfere celesti e donne nude, talora impegnate in attività del tutto incomprensibili.
Il Manoscritto compare per la prima volta nelle cronache a Praga, nel ‘600, dove l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, ben noto alchimista, lo acquista ad un prezzo elevatissimo da John Dee, mago ed esoterista inglese. Questi lo aveva ricevuto dalla famiglia del duca di Northumberland, che se ne era impadronito in un monastero inglese, tra i tanti da lui rapinati durante il regno di Enrico VIII.
Oggi esso è conosciuto come “Manoscritto Voynich” dal nome dell’antiquario russo Wilfred Voynich, che lo ritrovò tre secoli dopo, nel 1912, nella biblioteca dei Gesuiti di Villa Mondragone a Frascati, quando lo si riteneva ormai perduto per sempre. Il Voynich lo vendette successivamente al libraio americano Hans P. Kraus, che tentò invano di venderlo ad alto prezzo, e lo donò poi alla Beinecke Rare Book and Manuscript Library dell'Università di Yale, negli Stati Uniti, cui attualmente appartiene; questa Istituzione ha di recente provveduto ad effettuarne le riproduzioni fotografiche, alcune delle quali sono qui riportate.
Le illustrazioni acquerellate sono state in genere scelte dagli studiosi come punto di riferimento per una suddivisione del Manoscritto in diverse sezioni:

• Sezione I (fogli 1-66): chiamata botanica, contiene 113 disegni di piante sconosciute.


• Sezione II (fogli 67-73): chiamata astronomica o astrologica, presenta 25 diagrammi che sembrano richiamare delle stelle. Vi si riconoscono anche alcuni segni zodiacali, e forse alcune costellazioni. Anche in questo caso risulta alquanto arduo stabilire di cosa effettivamente tratti questa sezione.


• Sezione III (fogli 75-86): chiamata biologica, a causa della presenza di numerose figure femminili nude, sovente immerse fino al ginocchio in strane vasche intercomunicanti contenenti un liquido scuro, o impegnate in attività del tutto incomprensibili.


• Subito dopo questa sezione vi è un foglio ripiegato sei volte, raffigurante nove medaglioni con immagini di stelle o figure vagamente simili a cellule, raggiere di petali e fasci di tubi.


• Sezione IV (fogli 87-102): detta farmacologica, per via delle immagini di ampolle e fiale dalla forma analoga a quella dei contenitori presenti nelle antiche farmacie; la sezione contiene anche numerosi disegni di piccole piante e radici, presumibilmente erbe medicinali.


• L'ultima sezione del Manoscritto Voynich comincia dal foglio 103 e prosegue sino alla fine. Non vi figura alcuna immagine, eccettuate piccole stelle a sinistra delle righe, che potrebbero indurre a credere possa trattarsi di una sorta di indice.


Il Manoscritto fu inzialmente studiato per lungo tempo dal famoso scienziato gesuita Athanasius Kircher, tra l’altro noto come specialista di crittografia e geroglifica egizia, cui era stato sottoposto dal Rettore dell’Università di Praga Johannes Marcu Marci, e successivamente, sempre nel ‘600, dallo scienziato ceco Johannes di Tepenecz; nessuno dei due studiosi riuscì peraltro a decifrarlo.
A questi primi tentativi di decifrazione seguì una lunga pausa negli studi sul Manoscritto, dovuta al fatto che esso era ormai entrato in possesso di una biblioteca dei Gesuiti, e diventato quindi di fatto inaccessibile.
Le numerose e contrastanti ipotesi fin qui avanzate sull’epoca cui il Manoscritto risale vanno dal ‘300 (alcuni lo ritengono opera del celebre scienziato ed alchimista inglese Roger Bacon, altri un falso medievale), alla fine del ‘400, ai primi del ‘600 (falso dell’epoca di Rodolfo II). Una datazione con il radiocarbonio del 2011 da parte dell'Università dell'Arizona lo colloca in un periodo tra il 1404 e il 1438.
Esempio di scrittura del Manoscritto
Per quanto attiene al suo contenuto, la cui comprensione appare ancora molto lontana, gli studi linguistici sul testo, che tengono conto delle ormai ben note ed universali frequenze di ripetizione di lettere e parole, unitamente alla dimostrata plausibilità biologica delle piante rappresentate nella “Sezione botanica” (peraltro inesistenti e per quanto si sa mai esistite sulla Terra), sembrerebbero escludere l’ipotesi che si tratti di un falso privo di significato, di epoca medievale ovvero dei primi del ‘600, come sostenuto da alcuni. Può quindi al momento ritenersi forse più probabile l’ipotesi che il codice sia scritto in una lingua sconosciuta, che usa un alfabeto del pari ignoto, di difficilissima interpretazione perché non riconducibile ad alcun ceppo linguistico esistente e mancante di riferimenti comparativi del tipo della Stele di Rosetta.
da: "Il Manoscritto Voynich" di Sergio della Valle

VOYNICH MANUSCRIPT

venerdì 4 gennaio 2013

il Tao che non si può beffare - IV


At the beginning ... I said that the focus would be upon validating the existence of very large systems. This goal may now be made more specific by asking what features of human religions, ancient and modern, become intelligible in the light of cybernetic theory and similar advances in epistemology. It is time to reverse the trend which since Copernicus has been in the direction of debunking mythology, to begin to pick up the many epistemological components of religion that have been brushed aside. In doing so, we may come upon important notions partly displaced by trash (particularly the kind of trash produced by religious people pretending to scientific authority, which is not their business) or partly lost by the failure to understand what religion was about, that has characterized most of the scientific debunking. The battle over the Book of Genesis is a piece of history of which neither the evolutionists nor the fundamentalists should be proud. But I have discussed that matter elsewhere and intend here to pick up what can be picked up after the battles are over – would that they were!
Religion does not consist in recognizing little bits of miracles (miracula, “little marvels”), such as every religious leader tries to avoid providing but which his followers will always insist upon, but vast aggregates of organization having immanent mental characteristics. I suggest that the Greeks were close to religion in concepts such as anangke, nemesis, hubris, and diverged from religion when their oracles claimed supernatural authority, or when their mythologists embroidered the tales of the various gods in the pantheon.
Can we on our part recognize among the scientific findings enough of the basic principles of traditional religion to give a base for some rapprochement? In the thinking that has led to my present position, I‘ve used a combination of approaches – logical, epistemological, and traditional – going from one to another as the circumstances of my life provided the opportunity and as the form of the argument suggested. I am trying to investigate the communicational regularities in the biosphere, assuming that in doing so, I shall also be investigating interwoven regularities in a system so pervasive and determinant that we may even apply the word “god” to it. The regularities we discover – including regularities and necessities of communication and logic – for a unity in which we make our home. They might be seen as the peculiarities of the god whom we might call Eco.
There is a parable which says that when the ecological god looks down and sees the human species sinning against its ecology – by greed or by taking shortcuts or taking steps in the wrong order – he sighs and involuntarily sends the pollution and the radioactive fallout. It is of no avail to tell him that the offense was only a small one, that you are sorry and that you will not do it again. It is no use to make sacrifices and offer bribes. The ecological God is incorruptible and therefore is not mocked.
If we look among the necessities of communication and logic to find what might appropriately be recognized as sacred, we must note that these matters have been investigated long and ponderously by a very great many people, most of whom do not alt all think of themselves as students of natural history. One class of those people call themselves logicians. They do not draw distinctions between the phenomena of communication and those of physics and chemistry; they do not assert, as I do, that different rules of logic apply in the explanation of living, recursive systems. But they have laid down a large number of rules about what steps shall be acceptable in joining together the propositions to make the theorems of tautology. Furthermore, the have classified the various kinds of steps and kinds of sequences of steps an have given names to the different species of sequences, such as the different types of syllogism discussed... [Their taxonomies are not unlike the taxonomies constructed of insect or butterfly species, and indeed these different species of syllogism live in different niches and have different needs for their survival.] We might well adopt this classification as a first step towards a natural history of the world of communication. The steps that the logicians have identified would then be candidates for the role of examples in our search for eternal verities that characterize that world, more abstract than the propositions of Augustine.
But, alas, logic is blemished, particularly when it attempts to deal with circular causal systems, in which the analogs of logical relations are causal sequences that proceed in a circle, like the paradox of Epimenides the Cretan, who declared, “All Cretans are liars.” This paradox the logician dismisses as trivial, but the observer of “things” – even things that can hardly claim to be alive – knows that Epimenides argument is a paradigm for the relations in any self-correcting circuit, such as that of the simple buzzer or house doorbell.
I have taken the presence of such circuits to be one of the criteria by which I define a mind, along with coding, hierarchical organization, and collateral energy supply. Such circuits can be found in many mechanical and electrical forms, such as the house thermostat … or the device that controls the water level in the tank of a toilet, but more significantly they arise in the physiology of organisms that must correct for variations in temperature, blood sugar, etc., and in ecosystems where different populations (say snowshoe rabbits and lynxes) vary in interconnected ways keeping the whole in balance. Logic tends to be lineal, moving from A to B or from a premise to a conclusion; logic frowns on arguments that move in circles. [Similarly, formal logic rejects as invalid the metaphorical connections that are so pervasive in the natural world.]
I am therefore unwilling in the description of life to trust to logic or logicians as a source of verities. It is, however, interesting to consider the properties of the self-corrective circuit itself as an example of profound abstract verity, and this is the subject matter of cybernetics and the first step in using cybernetics in moving towards new ways of thinking about nature. Perhaps we may be driven later to some still more profound and abstract set of descriptions of relations – but the relations of circuits will do for a starter, always remembering the verity that there are inevitable limitations on any act of description, which we have yet to spell out in detail.


il Cammino del Tao


Il Dhammapada - tradizionalmente "i versi della dottrina" ma letteralmente "il cammino della verità" o, più accuratamente, "le orme della verità" - (pāli, in sanscrito Dharmapada o anche Udānavarga), a volte tradotto come Cammino del Dharma, è un testo del Canone buddhista conservato sia nel Canone pali (nel Khuddaka Nikāya del Sutta Piṭaka), sia nel Canone cinese (dove prende il nome di Fǎjùjīng, 法句經, e si trova nella sezione del Běnyuánbù), sia nel Canone tibetano (dove prende il nome di Ched-du brjod-pa'i choms e si trova sia nel Kanjur che nel Tanjiur). Il testo si fa risalire al V secolo a.C., in epoca quasi immediatamente successiva alla comparsa del Buddha storico, ed è composto da 423 versetti raccolti in 26 categorie. Secondo la tradizione sono parole realmente pronunciate da Siddhārtha Gautama detto "il Buddha" (colui che si è risvegliato) in diverse occasioni e rappresenta uno dei testi centrali dell'interpretazione buddhista, e - in generale - orientale, al Sé, alla Mente e alla Coscienza.

  • Versi gemelli

1.      Siamo ciò che pensiamo.
Tutto ciò che siamo
è prodotto dalla nostra mente.
Ogni parola o azione
che nasce da un pensiero torbido
è seguita dalla sofferenza,
come la ruota del carro
segue lo zoccolo del bue.
2.      Siamo ciò che pensiamo.
Tutto ciò che siamo
è prodotto dalla nostra mente.
Ogni parola o azione
che nasce da un pensiero limpido
è seguita dalla gioia,
come la tua ombra ti segue,
inseparabile.
3.      «Mi ha insultato, mi ha aggredito,
mi ha ingannato, mi ha derubato.»
Se coltivi questi pensieri
vivi immerso nell'odio.
4.      «Mi ha insultato, mi ha aggredito,
mi ha ingannato, mi ha derubato.»
Abbandonando questi pensieri
ti liberi dell'odio.
5.      In questo mondo l'odio
non può porre fine all'odio.
Solo l'amore è capace
di estinguere l'odio.
Questa è la legge eterna.
6.      In questo mondo tutti
siamo destinati a morire.
Ricordandotene,
come puoi serbare rancore?
7.      Con la stessa facilità con cui il vento
sradica un fragile albero
le tentazioni trascinano
chi è alla ricerca del piacere,
chi è avido, pigro e debole.
8.      Ma, come il vento
non riesce ad abbattere una montagna,
nessuna tentazione scuote
chi è desto, energico,
fiducioso e vive semplicemente.
9.      Se la tua mente non è limpida,
se sei insincero e incapace di controllarti,
invano indossi l'abito giallo.
10.  Se la tua mente è limpida,
se sei sincero e padrone di te,
ben ti si addice l'abito giallo.
11.  Confondendo l'essenziale e l'inessenziale
perdi di vista la tua vera natura
e coltivi vani desideri.
12.  Riconoscendo l'essenziale come tale
e l'inessenziale come tale
ritrovi la tua vera natura
e arrivi all'essenza.
13.  Come la pioggia penetra in una capanna
il cui tetto non è ben impagliato,
così le passioni si insinuano
in una mente inconsapevole.
14.  Ma una mente consapevole
è come una capanna
dal tetto ben impagliato.
15.  Chi fa del male
soffre in questo mondo e nell'altro.
16.  Chi fa del bene
gioisce in questo mondo e nell'altro.
17.  Chi fa del male
soffre in questo mondo e nell'altro.
Soffre contemplando il male che ha fatto
e ancora di più soffre
scendendo nell'oscurità.
18.  Chi fa del bene
gioisce in questo mondo e nell'altro.
Gioisce contemplando il bene che ha fatto
e ancora di più gioisce
innalzandosi nella luce.
19.  Chi recita a memoria le scritture,
ma non le mette in pratica,
è come un mandriano
che conta le vacche altrui.
Costui non è partecipe
della vita dello spirito.
20.  Ma se, pur conoscendo solo
una piccola parte delle scritture,
pratichi il dharma,
abbandoni le passioni, l'odio e le illusioni,
coltivi la saggezza e la serenità,
non hai desideri
né in questo mondo né nell'altro,
allora veramente sei partecipe
della vita dello spirito.

giovedì 3 gennaio 2013

il Te del Tao: XLVIII - OBLIARE LA SAPIENZA


XLVIII - OBLIARE LA SAPIENZA

Chi si dedica allo studio ogni dì aggiunge,
chi pratica il Tao ogni dì toglie,
toglie ed ancor toglie
fino ad arrivare al non agire:
quando non agisce nulla v'è che non sia fatto.
Quei che regge il mondo
sempre lo faccia senza imprendere,
se poi imprende
non è atto a reggere il mondo.

Tao e Qualità


È ora di riprendere il Chautauqua e di parlare della seconda ondata di cristallizzazione di Fedro, quella metafisica.
Quest'ondata fu una conseguenza delle sue divagazioni a briglia sciolta sulla Qualità. Si scatenò quando gli insegnanti del Dipartimento di Inglese, informati della loro squareness, posero a Fedro una domanda ragionevole: «Questa tua indefinita "Qualità " esiste nelle cose che osserviamo?» gli chiesero. «O è soggettiva e esiste soltanto nell'osservatore?». Era una domanda semplice, abbastanza normale, e non c'era di che affannarsi.
Ah! Non c'era di che affannarsi! Era il colpo di grazia, la domanda decisiva, di quelle che ti mettono al tappeto. Infatti, se la Qualità esiste nell'oggetto, allora bisogna spiegare perché gli strumenti scientifici sono incapaci di individuarla, e, a questo punto, o sei in grado di proporre degli strumenti che permettano di individuarla, o ti devi accontentare della spiegazione seguente: gli strumenti esistenti non la individuano perché tutto il tuo bel concetto di Qualità è un'enorme sciocchezza.
D'altra parte, se la Qualità è soggettiva, ed esiste solo nell'osservatore, vuoi dire che essa non è nient'altro che il nome che dai a quello che piace a te.
In sostanza, il Dipartimento di Inglese del Montana State College aveva messo Fedro davanti a quell'antica figura logica nota come dilemma. Il dilemma, che in greco significa «due premesse» , è stato paragonato alle corna di un toro.
Se Fedro accettava la premessa secondo cui la Qualità sarebbe oggettiva, egli veniva trafitto da uno dei due corni. Se accettava l'altra premessa, secondo cui essa sarebbe soggettiva, veniva trafitto dall'altro. Dato che la Qualità o è oggettiva o è soggettiva, Fedro sarebbe stato incornato comunque.
Comunque, grazie ai suoi studi di logica, egli era consapevole che ogni dilemma si presta non a due, ma a tre confutazioni classiche, e ne conosceva anche alcune di riserva che non erano così classiche. Poteva optare per il corno sinistro e confutare l'idea che l'oggettività implicasse l'osservabilità scientifica. Oppure poteva prendere il corno destro, e confutare l'idea che la soggettività facesse della Qualità solo una questione di gusti. Oppure poteva afferrare il toro per entrambe le corna e negare che la Qualità potesse essere solo oggettiva o soggettiva. Potete star certi che considerò attentamente tutte queste possibilità.
Oltre a queste confutazioni logiche classiche ce ne sono alcune illogiche, «retoriche». E Fedro, che era un retore, poteva disporre anche di queste.
Si può gettar sabbia negli occhi del toro. E Fedro l'aveva già fatto affermando che chi ignora la natura della Qualità da prova di incompetenza. Ora, è una vecchia regola logica che la competenza di chi parla non ha nulla a che vedere con la verità delle sue parole, per cui parlare di incompetenza era appunto gettar sabbia negli occhi. Il più grande imbecille del mondo può dire che il sole brilla e non per questo il sole si oscurerà. Socrate, quell'antico nemico della retorica, avrebbe annientato l'argomentazione di Fedro dicendogli: «Bene, accetto la tua premessa: io sono incompetente in materia di Qualità. E adesso, per piacere, spiega a un vecchio incompetente cos'è la Qualità. Altrimenti, come faccio a migliorare?».
Si può tentare di addormentare il toro con una ninna nanna. Fedro avrebbe potuto dire ai suoi interlocutori che la soluzione di questo dilemma era al di là delle sue umili capacità, ma che la sua incapacità di trovare una risposta non costituiva logicamente una prova che la soluzione non esistesse affatto. Perché non lo aiutavano loro a trovare la risposta, visto che erano tanto più esperti di lui? Ma ormai era troppo tardi. Rischiava solo di sentirsi rispondere: «No, siamo troppo square. Però tu, finché non avrai trovato una risposta, attieniti ai programmi dei corsi in modo che non ci tocchi bocciare i tuoi confusissimi studenti quando passeranno a noi il prossimo trimestre».
La terza alternativa retorica al dilemma, a mio avviso la migliore, era quella di rifiutarsi di scendere nell'arena. Fedro avrebbe potuto dire semplicemente: «Il tentativo di classificare la Qualità come soggettiva o oggettiva è un tentativo di definirla. E io ho già detto che è indefinibile» , e chiudere lì la questione.
Perché Fedro abbia disatteso questo consiglio decidendo di rispondere al dilemma in modo logico e dialettico invece che infilare la facile uscita del misticismo, non lo so proprio. Però posso immaginarmelo. Penso che prima di tutto egli abbia intuito che tutta la Chiesa della Ragione era irreversibilmente dentro all'arena della logica, e che rifiutando di usare le armi della logica si esclude la possibilità di essere presi in considerazione nel mondo accademico. Il misticismo filosofico, l'idea che la verità sia indefinibile e possa essere appresa soltanto con strumenti non razionali, ci ha accompagnato fin dall'inizio della storia. È alla base della pratica Zen. Ma non è un tema accademico. L'accademia, la Chiesa della Ragione, si occupa esclusivamente delle cose che possono essere definite, e se uno vuole fare il mistico, il suo posto è in un monastero, non in un'Università. Credo inoltre che, nella sua decisione di scendere in campo, abbia giocato anche un pizzico di narcisismo. Fedro era consapevole delle sue capacità logiche e dialettiche, anzi, ne andava orgoglioso, e il dilemma che gli veniva posto rappresentava una sfida alla sua abilità. Ora sono convinto che quel filo di narcisismo sia stato all'origine di tutti i suoi mali.

Il primo corno del dilemma di Fedro era il seguente: se la Qualità esiste nell'oggetto, come mai gli strumenti scientifici non riescono ad osservarla?
Questo era il corno più acuto. Le difficoltà che presentava erano mortali fin dall'inizio. Se Fedro avesse preteso di essere una specie di super-scienziato in grado di vedere negli oggetti quella Qualità che nessuno scienziato riusciva a individuare, avrebbe fatto la figura del pazzo o dell'imbecille. Al giorno d'oggi, le idee incompatibili con la conoscenza scientifica non hanno una vita facile.
Gli venne in mente l'affermazione di Locke secondo la quale nessun oggetto, scientifico o no, è conoscibile se non in base alle sue qualità. Questa verità irrefutabile sembrava suggerire che gli scienziati non riescono a individuare la Qualità negli oggetti perché la Qualità è l'unica cosa che riescono a individuare. L'«oggetto» è un costrutto intellettuale dedotto dalle qualità. Se questa risposta si dimostrava valida, spezzava di sicuro il primo corno del dilemma, e per un po' Fedro ne fu entusiasta.
Ma alla fine la risposta si rivelò falsa. La Qualità che Fedro e i suoi studenti avevano esaminato in classe era completamente diversa dalle qualità fisiche di colore, calore o durezza che si possono osservare in laboratorio. Quelle proprietà fisiche erano tutte misurabili con degli strumenti. La Qualità, così come la intendeva Fedro, in termini di «eccellenza» , «valore» , «bontà» , non era una proprietà fisica e non era misurabile. Si era lasciato ingannare da un'ambiguità del termine 'Qualità'. Fedro si chiese come mai esistesse quell'ambiguità, si propose di fare delle ricerche sull'etimologia del termine, e accantonò momentaneamente il problema.
Rivolse allora la sua attenzione all'altro corno del dilemma, che sembrava più facile da confutare. Ma come? La Qualità non è nient'altro che «quel che piace»? Trovava quest'idea esasperante. I grandi artisti della storia — Raffaello, Beethoven, Michelangelo — si erano quindi limitati a produrre opere che rispondessero ai gusti del tempo, senza altro scopo che quello di titillare i sensi in grande stile?
Fedro studiò la proposizione con estrema attenzione, con tutta la concentrazione che usava ogni volta che partiva all'attacco. E finalmente capì. Estrasse il coltello ed estirpò la locuzione che conferiva alla frase quel che di esasperante. Era «nient'altro che». Perché mai la Qualità dovrebbe essere nient'altro che quel che piace e perché «quel che piace» dovrebbe essere «nient'altro che» ? Era un termine puramente peggiorativo il cui contributo logico alla frase era nullo. Ora, con la sua eliminazione, la frase diventava: «La Qualità è quel che piace» , e il suo significato cambiava totalmente: diventava un'innocua banalità.
Fedro si chiese allora perché quella frase lo avesse esasperato. Gli era parsa così naturale. Come mai ci aveva messo tanto a capire che in realtà il suo significato era: «quello che piace non ha valore, o comunque non ha nessuna importanza». Cosa c'era dietro a questa gretta premessa? Sembrava la quintessenza di quella squareness che Fedro stava combattendo. I bambini venivano educati a non fare soltanto «quello che piaceva a loro», ma... ma cosa?... Ma certo! Quello che piaceva agli altri. E chi erano, gli altri? Genitori, insegnanti, direttori, poliziotti, giudici, ufficiali, re, dittatori. Cosi diventi uno schiavo molto più obbediente — un buono schiavo.
Ma supponiamo che tu non faccia altro che quello che piace a te. Significa forse che andrai a bucarti, a rapinare una banca o a stuprare vecchie signore? Bella idea davvero di quello che può piacere alla gente. Non si tiene conto che la gente potrebbe anche non rapinare le banche perché ne ha preso in considerazione le conseguenze. Le banche esistono innanzitutto perché «non sono altro che quel che piace alla gente» e, precisamente, delle fonti di credito. Fedro incominciò allora a domandarsi come mai questa condanna di «quel che piace» potesse sembrare tanto naturale. Ma ben presto si rese conto che quando la gente diceva: «Non fare soltanto quello che ti piace» non voleva dire: «Obbedisci all'autorità» e basta. Voleva dire anche qualcos'altro, qualcosa che rientrava nella concezione generale della scienza classica secondo la quale «quello che piace» è di scarsa importanza perché non è fatto che di emozioni irrazionali, del tutto personali. Fedro studiò a lungo quest'argomentazione, e la spezzò in due parti che definì materialismo scientifico e formalismo classico. Disse che queste due parti sono spesso associate nella Stessa persona ma che sul piano logico sono distinte.
Il materialismo scientifico, più comune tra i seguaci profani della scienza che tra gli scienziati veri e propri, sostiene che ciò che è composto di materia o di energia ed è misurabile con degli strumenti scientifici è reale, mentre tutto il resto è irreale, o quanto meno di scarsa importanza. «Quello che piace» non è misurabile, e pertanto non è reale. «Quello che piace» può essere indifferentemente un fatto o un'allucinazione. L'obiettivo fondamentale del metodo scientifico è quello di operare distinzioni valide tra il vero e il falso in natura, eliminare gli elementi soggettivi, irreali, e immaginari dell'attività umana in modo da ottenere un quadro oggettivo, vero, della realtà. Fedro, dicendo che la Qualità era soggettiva, per questo tipo di materialisti non faceva che affermare che la Qualità è immaginaria e che pertanto, in qualsiasi studio serio della realtà, essa può essere trascurata.
Dall'altra parte c'è il formalismo classico, che si picca d'affermare che quanto non viene compreso intellettualmente non viene compreso affatto, e in questo caso la Qualità diventa di scarsa importanza perché rappresenta una comprensione emotiva scissa dagli elementi intellettuali della ragione.
Di queste due fonti principali della locuzione «nient'altro che» , Fedro intuì che la prima era di gran lunga la più facile da demolire. Sapeva trattarsi di una concezione scientifica ingenua, e la attaccò per prima, valendosi della reductio ad absurdum. Questa forma di confutazione si basa sul fatto che se le conclusioni logiche che derivano da un insieme di premesse sono assurde, ne segue logicamente che almeno una delle premesse è assurda. Esaminiamo dunque, egli disse, che cosa segue da questa premessa: «qualsiasi cosa che non sia composta di massa-energia è irreale o di scarsa importanza».
Fedro usò come punto di partenza il numero zero. Lo zero, originariamente un numero indù, fu introdotto in occidente dagli arabi durante il Medio Evo, ed era sconosciuto agli antichi greci e ai romani. Come mai? si chiese Fedro. La natura aveva dunque nascosto lo zero con tanta abilità? Eppure si direbbe che lo zero sia proprio lì sotto il nostro naso. Fedro dimostrò che cercare di derivare lo zero da qualsiasi forma di massa-energia era assurdo, e poi fece la seguente domanda retorica: «Dobbiamo dunque concludere che lo zero non ha valore scientifico?». In questo caso i calcolatori, che funzionano esclusivamente in termini di uno e di zero, dovrebbero essere limitati solo agli uno? Era palesemente assurdo. … Se la soggettività viene eliminata come cosa di scarsa importanza, egli disse, allora con essa dev'essere eliminato tutto il corpo della scienza.
Comunque, questa confutazione del materialismo scientifico aveva lo svantaggio di situare Fedro nel campo dell'idealismo filosofico — Berkeley, Hume, Kant, Fichte, Schelling, Hegel, Bradley, Bosanquet —; buona compagnia, tutti logici fino all'ultima virgola, ma talmente difficili da difendere nel linguaggio del «senso comune» da rappresentare più un fardello che non un aiuto per la sua difesa della Qualità. L'affermazione che il mondo era tutto mente poteva anche essere una posizione sana da un punto di vista logico, ma certamente non lo era da un punto di vista retorico. Era troppo noiosa e difficile per degli studenti del primo anno. Troppo “azzardata”.
A questo punto, il corno soggettivo del dilemma gli parve altrettanto scialbo di quanto non fosse quello oggettivo, e un esame delle argomentazioni molto consistenti del formalismo classico non fece che peggiorare la situazione. Da esse si deduceva che non bisogna reagire ai propri impulsi emotivi ed immediati senza prendere in considerazione l'insieme del contesto razionale.
Ai bambini, per esempio, si dice: «non spendete tutti i soldi in gomma da masticare [impulso emotivo immediato], perché poi vi capiterà di volerli spendere per qualcos'altro [ottica più vasta]». Agli adulti si dice: «Questa cartiera può ben puzzare orribilmente anche con i migliori controlli [emozioni immediate], ma, se non ci fosse, tutta l'economia della città crollerebbe [ottica più vasta]». Se torniamo alla nostra vecchia dicotomia, questo si traduce in: «Non basate le vostre decisioni sul fascino superficiale e romantico, senza prendere in considerazione la forma classica soggiacente». E su questo Fedro era abbastanza d'accordo.
Quello che i formalisti classici intendevano dire con l'obiezione: «La Qualità non è nient'altro che quel che piace» era che questa «Qualità» soggettiva e indefinita che Fedro stava insegnando non era altro che fascino superficiale e romantico. Gli indici di popolarità stabiliti in classe potevano determinare se un componimento aveva un fascino immediato, d'accordo, ma si trattava di Qualità? La Qualità era dunque qualcosa che salta subito all'occhio, o non poteva essere qualcosa di più sottile, qualcosa di percepibile solo dopo un lungo periodo di studio?
Più Fedro esaminava quest'argomentazione più la trovava minacciosa per la sua tesi, perché essa pareva rispondere a una domanda che in classe gli era stata posta spesso: «Se tutti sanno cos'è la Qualità, come mai se ne discute tanto?».
Lui rispondeva in modo assai cavilloso che, benché la Qualità pura fosse la stessa per tutti, gli oggetti ai quali essa era inerente variavano a seconda degli individui. Fintanto che Fedro non definiva la Qualità non c'era modo di controbattere quest'affermazione, ma egli sapeva, come del resto lo sapevano gli studenti, che essa puzzava di imbroglio. Non rispondeva veramente alla domanda.
Adesso c'era un'altra spiegazione possibile: la gente non concordava sulla nozione di Qualità perché alcuni si basavano unicamente sulle loro emozioni immediate, mentre altri usavano la totalità della loro conoscenza. Fedro sapeva che questa seconda spiegazione sarebbe stata accolta all'unanimità dai professori di inglese perché rafforzava la loro autorità.
Ma era una spiegazione disastrosa. Invece di una Qualità unica e uniforme adesso pareva ce ne fossero due: una romantica, tutta sensazione, propria degli studenti; e una classica, risultato di una visione d'insieme, propria degli insegnanti. Una hip e una square. Quindi squareness non era l'assenza di Qualità; era la Qualità classica. Hipness non era semplicemente la presenza della Qualità; era la qualità romantica.
La piega che stavano prendendo le cose non gli piaceva. Il termine che doveva unificare la visione classica e quella romantica si era a sua volta spaccato in due e non poteva più unificare niente. Era finito dentro a un tritacarne analitico. Il coltello della soggettività-e-oggettività aveva tagliato la Qualità in due distruggendone il valore operativo. Se Fedro voleva salvarla, non poteva permettere al coltello di colpirla.
In realtà, la Qualità a cui si riferiva Fedro non era né la Qualità classica né la Qualità romantica, ma qualcosa che andava al di là sia dell'una che dell'altra. E per Dio, non era neanche soggettiva o oggettiva, trascendeva anche queste due categorie. In realtà, sottoporre la Qualità a questa dicotomia tra soggettività e oggettività, tra mente e materia non era giusto; il rapporto mente-materia ha costituito un impiccio intellettuale per secoli, e adesso lo stavano applicando alla Qualità per renderla inoperante. Come poteva Fedro dire se la Qualità era mente o materia quando non c'era alcuna chiarezza logica sulla natura di queste due entità?
Così Fedro respinse il corno sinistro. La Qualità non è oggettiva, disse. Non risiede nel mondo materiale.
E respinse anche il corno destro. La Qualità non è soggettiva, disse. Non risiede solo nella mente.
E per concludere, Fedro, seguendo una via che, per quanto ne sapeva, non era mai stata imboccata nella storia del pensiero occidentale, si gettò tra le corna del dilemma soggettività-oggettività e affermò che la Qualità non è né parte della mente, né parte della materia. È una terza entità, indipendente dalle altre due.
Lungo i corridoi e su e giù per le scale del College lo si sentiva cantare dolcemente tra sé e sé, quasi in un sussurro: «Santa, santa, santa... benedetta Trinità».

Il mondo, secondo Fedro, era dunque composto di tre elementi: mente, materia, e Qualità. Sulle prime, il fatto di non aver stabilito tra questi elementi alcun rapporto non lo turbò affatto. Se il rapporto tra mente e materia era oggetto di discussione da secoli e il problema non era ancora stato risolto, perché doveva essere proprio lui a dire, nel giro di poche settimane, qualcosa di conclusivo sulla Qualità? Sapeva benissimo che prima o poi la trinità metafisica di soggetto, oggetto e Qualità avrebbe dovuto essere interrelata, ma non aveva nessuna fretta. Era una tale soddisfazione essere riuscito a superare il pericolo di quelle corna, che Fedro si rilassò e se la godette il più a lungo possibile.
Alla fine, comunque, esaminò il problema più da vicino. Benché non ci sia alcuna obiezione logica all'ipotesi di una trinità metafisica, una realtà a tre teste, trinità del genere non sono né comuni né popolari. Il metafisico normalmente cerca o un principio monistico, come Dio, che spieghi la natura del mondo quale manifestazione di una singola entità, o un principio dualistico, come quello di mente-materia, o si affida al pluralismo, che considera la realtà come la manifestazione di un numero imprecisato di principi. Ma tre è un numero scomodo. Vien subito da chiedersi: «Perché tre principi, e in che rapporto sono tra loro?». Domanda che cominciò a incuriosire anche Fedro, non appena ebbe recuperato le forze.
Egli notò che, benché normalmente la Qualità sia associata agli oggetti, talvolta le sensazioni di Qualità si verificano senza la loro presenza. Questo, sulle prime, lo aveva indotto a pensare che forse la Qualità era soggettiva, ma d'altra parte il piacere soggettivo non era quello che lui intendeva per Qualità. La Qualità fa diminuire la soggettività. La Qualità fa uscire da se stessi, rende consapevoli del mondo circostante. La Qualità è l'opposto della soggettività.
Alla fine Fedro si rese conto che la Qualità non poteva essere collegata singolarmente né al soggetto né all'oggetto: la si riscontrava solo nel loro rapporto reciproco. La Qualità è il punto in cui soggetto e oggetto s'incontrano.
Fuochino.
La Qualità non è una cosa. È un evento.
Fuochetto.
È l'evento che vede il soggetto prendere coscienza dell'oggetto.
E dato che senza oggetto non ci può essere soggetto — sono gli oggetti che creano nel soggetto la coscienza di sé — la Qualità è l'evento che rende possibile la coscienza sia dell'uno che degli altri.
Fuoco!
Questo vuoi dire che la Qualità non è solo conseguenza di una collisione tra soggetto e oggetto. L'esistenza stessa di soggetto e oggetto è dedotta dall'evento Qualità. L'evento Qualità è causa del soggetto e dell'oggetto, erroneamente considerati causa della Qualità! E adesso finalmente aveva preso quel dannato dilemma per la gola.
«Il sole della Qualità» scrisse «non gira intorno ai soggetti e agli oggetti della nostra esistenza. Non si limita a illuminarli passivamente. Non è loro subordinato in nessun modo. È lui che li ha creati. Ed è a lui che essi sono subordinati!».
E nel momento in cui lo scrisse, seppe di aver raggiunto una sorta di culmine intellettuale al quale aspirava inconsciamente da molto, molto tempo.